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I conigli dal cilindro sono una bandiera bianca

Come primo ministro, Mario Monti ha promesso riforme e ha finito per aumentare le tasse. Il suo governo ha tentato di introdurre riforme modeste ma che sono state annacquate fino a divenire macroeconomicamente insignificanti.”

Munchau, ieri, Financial Times

L’evidenza empirica – ammesso che tale metodo interessi ancora qualcuno in questo dibattito – dimostra che tagli di spesa, accompagnati da liberalizzazioni e riforme nel mercato dei beni e del lavoro comportano costi di gran lunga inferiori (in alcuni casi addirittura nessun costo) rispetto ad aumenti di imposte. Se il governo Monti avesse perseguito l’austerità in questo modo, cioè tagliando la spesa, la recessione sarebbe stata molto meno grave… Mario Monti – lo ripetiamo da oltre un anno – avrebbe dovuto correggere i conti pubblici in modo diverso, tagliando la spesa anziché limitarsi ad aumentare le tasse.

Alesina e Giavazzi oggi sul Corriere (a pagina 18 sul link)

Quello che questo governo ha fatto per abbassare i prezzi e creare più lavoro nel settore dei servizi è senza precedenti in un periodo di tempo così breve di tempo e data la mancanza di una vera e propria maggioranza. … Con i conti pubblici ora più sani e tra i più sostenibili al mondo, così come notato dal Fondo Monetario Internazionale, l’Italia si può ora permettere un po’ di spazio per sostenere l’attività economica e l’occupazione ed essere più equa”.

Mario Monti in risposta a Munchau, sul Financial Times di oggi

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Degli economisti conosco abbastanza i trucchi del mestiere. Specie dei più bravi. E dunque quando leggo frasi incredibili non mi metto a ridere, né mi scandalizzo. Ma cerco di capire qual è il trucco che rende la finzione simile alla realtà.Come direbbe Sciascia, verosimile, anche se non vera.

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Avrei una cinquantina di frasi che smentiscono Alesina e Gavazzi, di autorevoli economisti ed istituzioni che con la forza dell’evidenza empirica dimostrano che tagliare la spesa, specie in una recessione, è una pura follia, ancora più folle di aumentare le tasse in recessione. Ma sono stanco, ed i lettori del blog annoiati dall’ovvio.

E poi non è quello che A&G dicono, notate bene. Loro dicono “accompagnati da liberalizzazioni e riforme nel mercato dei beni”. Geniale. Cioè non parlano se meno spesa pubblica è recessiva o meno, sostengono piuttosto di avere evidenza che meno spesa pubblica non è recessiva quando accompagnata da riforme.

Sarà vero o non sarà vero? Verosimile, ma non vero.

E’ verosimile che quando un Paese fa le riforme giuste ed il PIL si espande ridurre la spesa fa poco male anzi può fare bene: il Paese è a capacità produttiva e gode di meno tasse e meno inflazione quando si abbassa la spesa. Come negarlo?

Ma, ed ecco il trucco del coniglio dal cappello dei nostri eroi, dove sono le riforme del Governo Monti? A & G non fiatano su questo perché sanno che le riforme del governo Monti, come dice Munchau sul Financial Times nel pezzo che ha scatenato i nostri amici, sono state riforme modeste. Ed è interessante capire perché lo sono state: perché, e lo sa anche un bambino, come lo sa il Fondo Monetario Internazionale che si è arreso di fronte all’evidenza greca, quando un Paese soffre ed è in recessione, le riforme non si fanno. Perché le riforme implicano redistribuzione e compensi per i perdenti, e chi ha soldi per compensare i perdenti in recessione? Nessuno. Così in Grecia, come in Italia, durante questa orribile recessione non si sono fatte riforme, ovviamente.

Quindi ecco che A & G non hanno uno straccio di evidenza empirica a loro favore per l’attuale caso italiano o greco. Mai riforme in recessione.

In realtà,  pare non sia vero. Che una osservazione, nella storia del mondo, ci sia.

Se ricordo bene ce la raccontò a Tor Vergata Michele Boldrin, che tentava di convincere la platea di studenti che riforme durante le  recessioni si possono fare. E diede questo esempio: la Spagna degli anni 50. Ora io non so cosa successe nella Spagna degli anni 50 con le riforme, ma so cosa successe nella Spagna in quegli anni: un piccolo dettaglio, non c’era democrazia. Ed allora fatemi ridire meglio il mio “teorema” verosimile e vero: in una democrazia, durante una recessione, le riforme non si fanno perché non si riescono a fare.

E se allora non si fanno le riforme … A & G con la loro evidenza emprica non ci raccontano nulla di rilevante sull’Italia. Forse ci raccontano qualcosa su loro stessi e la loro speranza che la realtà si adatti ai modelli. Ma dovrebbe, sempre, esser il contrario.

E allora siamo tornati da dove eravamo partiti. Vista l’assenza di quelle riforme che Monti ovviamente non è riuscito a fare, perché c’era la recessione, siamo in un mondo dove A&G rifiutano di avventurarsi, quello della realtà, dove i trucchi del mago non valgono più: quello dove la spesa pubblica ed i suoi tagli distruggono l’economia e aumentano la disoccupazione ancora di più dell’aumento di imposte.

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Certo poi c’è l’incredibile risposta di Monti a Munchau.

Quello che questo governo ha fatto per abbassare i prezzi e creare più lavoro nel settore dei servizi è senza precedenti in un periodo di tempo così breve di tempo e data la mancanza di una vera e propria maggioranza. … Con i conti pubblici ora più sani e tra i più sostenibili al mondo, così come notato dal Fondo Monetario Internazionale, l’Italia si può ora permettere un po’ di spazio per sostenere l’attività economica e l’occupazione ed essere più equa”.

Abbassare i prezzi? Creare più lavoro? Stiamo scherzando? Come può un primo ministro dire queste cose? Anche qui, il diavolo è nei dettagli, in quell’incomprensibile e misterioso riferimento non all’economia italiana ma al “settore dei servizi”. Ohibò. Forse ha dei dati che a noi comuni mortali sfuggono sul “settore dei servizi”? Comunque sia il coniglio dal cappello è piccolo piccolo, sembra piuttosto una bandiera bianca.

E che sia una bandiera bianca lo dimostrano altre affermazioni che sfidano l’incredibile ma che un Primo Ministro dovrebbe trovare modo di ammantare sotto migliori (sempre false ma pur comprensibili) verosimiglianze per poter essere pronunciate:

a)      Conti pubblici tra i più sostenibili al mondo? Vuol dire il debito pubblico su PIL più alto da quasi 100 anni?

b)      E cosa intende il premier quando dice che ci possiamo “permettere un po’ di spazio per sostenere l’attività economica”, quando il DEF da lui firmato e portato a Bruxelles ha promesso di portare il rapporto tra entrate e PIL dal 48,9% del 2012 al 49,6% del 2013?

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No, preferisco leggere Mario Baldassarri sul Corriere e parlarvene domani. Lì la sfida è intellettualmente più stimolante e le regole del gioco più corrette.

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I giovani? Investiamo soldi veri

Uscito oggi, a pagina 28 del Corriere della Sera.

Caro Direttore,

come segnala Beppe Severgnini, i giovani sono fuori, nella sostanza, da qualsiasi programma elettorale dei partiti. Come le giovani imprese, aggiungo.

Eppure proprio su di loro, sulla loro “protezione” dagli interessi costituiti e sull’espansione delle loro opportunità passa il rilancio del Paese.

Le critiche di Severgnini paiono far emergere, per avere un dibattito serio la necessità di : a) spiegare come dedicargli risorse e come finanziarle, b) creare programmi “sistemici” che non siano meri “cerotti su di una frattura”, c) rendere più semplici le assunzioni, d) non tagliare la spesa pubblica dedicata ai giovani.

L’Associazione che presiedo, I Viaggiatori in Movimento, voterà oggi il suo Programma per l’Italia. All’interno di esso giovani e piccole imprese ricevono la maggiore attenzione. Perché per un programma liberale e solidale al contempo, combattere la mancanza di pari opportunità è la priorità, condizione propedeutica prima della battaglia per il merito. Come diceva il Premio Nobel Sen, senza pari opportunità il merito è un meccanismo di perpetuazione della dominanza di coloro che già hanno. E pari opportunità richiede un forte investimento pubblico per colmare gli svantaggi di partenza che in Italia abbondano, sia per i giovani che per le piccole imprese, le piante più fragili ma anche più fertili potenzialmente del nostro giardino.

Il nostro programma prevede: 1) l’aumento delle retribuzioni dei docenti scolastici dello 0,3% di PIL (5 miliardi di euro) a fronte di una riforma (che dettagliamo) che renda la scuola ancora più efficace nell’insegnamento; 2) l’aumento dello 0,3% di PIL (5 miliardi di euro) delle retribuzioni dei ricercatori universitari e degli enti di ricerca, per avviare il rientro dei cervelli sul serio, a fronte di una riforma (che dettagliamo) delle università che premi la qualità degli Atenei su ricerca e didattica; 3) una spesa dello 0,5% di PIL (8 miliardi di euro) per assistere, con le migliori case di consulenza che abbiamo, le PMI nel formarsi sulle funzioni organizzative, dove è dimostrato stentano di più nell’avvio; 4) un credito d’imposta come in Francia (ma da noi riservato solo alle PMI) per le spese in ricerca e sviluppo dello 0,3% del PIL (5 miliardi di euro); 5) 0,6% di PIL (10 miliardi di euro) riservato ad un servizio civile temporaneo e non ripetibile negli uffici pubblici (musei, patrimonio, ospedali, tribunali, università, scuole, parchi ecc.)  per giovani disoccupati ed inoccupati di 1 o 2 anni così da migliorare al contempo la qualità dell’azione pubblica, caratterizzata da una età media tra le più alte al mondo.

Un totale del 2% di PIL (più di 30 miliardi di euro) che dimostriamo nel nostro programma essere assolutamente finanziabile dal taglio vero (non casuale e non lineare, così da non essere recessivo) degli sprechi negli appalti pubblici. Gli appalti oggi occupano circa il 12% del nostro PIL e contengono sprechi di prezzi e quantità ben superiori al 20%. Anche qui indichiamo le riforme che vanno fatte (sono a portata di mano se un Governo lo volesse veramente) per consentire questo risultato.

A livello europeo, quando sarà possibile, come noi auspichiamo, procedere verso un esercito continentale o quando avremo una Tobin tax, proponiamo di dedicare le risorse così ottenute ad un conto corrente bancario con 1500 euro annuali per ogni giovane alla sua nascita da utilizzare dopo la maggiore età solo per istruzione o formazione professionale nelle imprese.

Nel mercato del lavoro, oltre a proporre massima flessibilità per i contratti a tempo determinato, per un periodo massimo di 24 mesi, con un adeguato livello retributivo, per compensare il lavoratore della flessibilità per l’impresa, proponiamo la eliminazione straordinaria dell’Irap per gli assunti a tempo indeterminato – di qualsiasi età – per un periodo di tre anni (anche questa finanziata da tagli dell’1% di PIL a parte dei sussidi alle imprese).

Non è vero che non si può. Si deve solo volere.

Gustavo Piga

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Hic Sunt Leones?

Quando avremo un Governo. Cosa dovrà fare in Europa?

Una possibilità è che non faccia niente. Perché siamo in 27 e quindi 1 governo conta poco nelle sale ovattate del Consiglio europeo dove si riuniscono i capi dei governi dell’Unione europea.

Ma non è detto che sia così. Anzi, potrebbe essere un periodo ricco di pertugi, di opportunità per avviare un cambiamento continentale a cui contribuire con coraggio.

Perché la Merkel vittoriosa sarà meno condizionata dal suo elettorato e perché partirà comunque, lo sappiamo già,  un periodo di riforme dei Trattati europei. Cosa vogliamo di più?

Invece di apparire supini, sarebbe il caso di immaginare una specifica Agenda italiana per il tavolo europeo, da difendere a Bruxelles in ogni occasione con le unghie e con i denti e su cui costruire alleanze preziose anche in vista di potenziali negoziazioni su altri temi.

Ecco dunque una bella agenda per i nostri coraggiosi leader da marzo in poi:

Riproporre la centralità del Parlamento europeo rispetto alla Commissione europea. In particolare il nostro Governo dovrebbe mostrarsi inflessibile sul richiedere che la futura Autorità bancaria sia resa molto più “responsabile” (accountable) del proprio operato di fronte al Parlamento. A cominciare con la presenza di rappresentanti del Parlamento europeo alle riunioni dell’Autorità come membri osservatori e non votanti. Similmente, ad una specifica Commissione del Parlamento dovrebbe essere attribuito il potere di accedere a tutti quegli elementi dei conti pubblici dei singoli Stati nazionali a maggiore rischio di “imbellettamento”. In particolare alle transazioni dei derivati fatte da ogni Stato che tanti disastri hanno creato e che Commissione europea e Banca centrale europea non rivelano ai cittadini.

Cambiamento del mandato di politica monetaria della BCE, con pari dignità dell’obiettivo di combattere la disoccupazione rispetto alla lotta contro l’inflazione, come negli Usa. Parimenti, il nostro Governo dovrà chiedere che il Consiglio europeo si riunisca regolarmente per potere deliberare politiche del tasso di cambio più pro-attive, come ha chiesto recentemente il governo giapponese alla sua banca centrale.

Cambiamento del Patto Fiscale per includere specificatamente una golden rule che consenta agli investimenti pubblici di un Paese in recessione di non essere conteggiati ai fini dei calcoli della posizione dell’indebitamento pubblico.

Per una cultura europea che ci avvicini a passi lenti ma sicuri ad una Unione dei popoli, si riservi 1% del PIL europeo nel bilancio UE per creare un conto corrente dedicato ai giovani, bloccato dalla nascita fino ai 14 anni. 1500 euro l’anno per ognuno dei 75 milioni di giovani. Lo sblocco del montante così accumulato nel tempo avverrà solo per utilizzare queste somme per finanziare periodi di istruzione in un Paese diverso da quello di nascita o per periodi di training e formazione in un’azienda estera. Il finanziamento potrà avvenire via Tobin Tax e, più avanti, via esercito unico europeo e risparmi annessi.

Sapranno, i nostri futuri leader, proporlo e difenderlo con coerenza? Sapranno battersi come leoni per un’Europa dei popoli, della trasparenza, della solidarietà e della crescita? Noi Viaggiatori a queste cose ci crediamo e voteremo chi porterà avanti queste idee senza paura alcuna del rumore che faranno nelle sale ovattate del Consiglio europeo. Voteremo chi saprà spalancare le porte di quel Consiglio e farvi entrare l’aria fresca dell’Europa che verrà.

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Raggiungere e proteggere

Alessia da oggi è una nuova Viaggiatrice in Movimento. Si è iscritta, mi ha mandato una mail, e lavorerà nel gruppo immigrazione e politiche sociali, tema su cui è impegnata.

Per conoscerla la chiamo via Skype e parliamo appunto del suo lavoro. Vive a Bruxelles, appena laureata, migrante che vuole tornare a lavorare presto in Italia. Partecipando anche a una nuova costruzione del nostro Paese.

Nel frattempo però è a Bruxelles. Stamattina abbiamo ascoltato tutti e due Radio 24 alle 10, il bel programma l’Altra Europa, in particolare sulla questione del voto agli studenti Erasmus. E scopro che Alessia “si è coinvolta” nella petizione al Presidente Napolitano ed al Ministro Terzi. Una petizione molto semplice:

Garantire il diritto di voto agli Studenti italiani in Erasmus e all’estero.

Punto e basta. Nessuna parola sprecata, un telegramma.

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Nel Programma dei Viaggiatori che votiamo il 21 gennaio usiamo due verbi per sintetizzare in cosa consiste la nostra proposta per l’Italia: Raggiungere e Proteggere.

“Raggiungere” lo usiamo come verbo “liberale”:cercare di costruire un sistema di rapporti, un ambiente sociale, in cui si dia quanto più possibile ad ognuno la possibilità di conseguire i propri obiettivi e non restringere questo insieme di opportunità, anzi massimizzarle. Non è il verbo “eccellere”, che ci pare meritocratico ed aristocratico. Non è infatti questione di avere la possibilità di essere i primi, di vincere, ma semplicemente di avere la possibilità, appunto, di vivere in un mondo che non ostacoli il raggiungimento dei propri sogni. Una precondizione essenziale al merito. Vogliamo che il giovane studente di Scampia abbia la possibilità di raggiungere i suoi sogni prima che i suoi incubi lo catturino per sempre e lo condannino ad una vita nell’illegalità e la criminalità. Non di eccellere.

L’Europa, che amplia la dimensione culturale ed economica delle opportunità, deve essere raggiungibile. Per esserlo, non possiamo rendere costoso sia il suo accesso, che la mobilità al suo interno.

Ora, si può dire che l’abbattimento delle frontiere dal dopoguerra ha decisamente realizzato questo sogno, che è un sogno dunque anche liberale. Il calo dei costi del trasporto ha fatto il resto.

Ma non ha fatto tutto.

Perché rimane comunque costoso viaggiare all’interno dell’Europa. Quanto costoso? In proporzione alle proprie possibilità ovviamente. 1 euro per un miliardario non è 1 euro per un milionario. E’ ben meno costoso, perché implica la rinuncia a cose di minor valore. Per chi ha un reddito annuo di 10.000 euro è possibile che quell’euro sia molto costoso. Così costoso da impedire di raggiungere un proprio obiettivo, per esempio quello di sentirsi parte di una civis, una comunità, esercitando il proprio diritto di voto.

E dunque cosa facciamo, paghiamo il viaggio aereo a tutti gli studenti Erasmus per che loro soddisfino il raggiungimento della loro felicità? La questione diverrebbe complicata, perché tassare tutti noi in Italia per pagare gli aerei degli studenti Erasmus ci sottrae felicità nella forma di sottrazione di risorse.

Ma siccome far votare tutti gli studenti all’estero è pressochè gratuito grazie a piccoli accorgimenti organizzativi e/o informatici, questo contrasto di interessi tra cittadini non esiste. Dovrebbe dunque darsi immediatamente ascolto all’appello e permettere il voto per tutti i nostri studenti all’estero.

E qui nasce il problema. Non siamo pronti, organizzativamente, a farlo. E’ probabile che per questo turno i nostri studenti non potranno votare se non tornando in Italia e sostenendo un costo relativamente alto per esercitare un diritto che dà loro soddisfazione senza pregiudicare il benessere altrui. Forse, si spera, alle Europee ce la faranno a raggiungere quanto desiderato.

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Ma quanto rileva qui è ben altro. Perché non siamo organizzati? Perché non ci abbiamo pensato a risolvere questo problema?

In parte perché il mondo sta cambiando velocemente e la “lobby” degli studenti all’estero sta crescendo così rapidamente che facciamo fatica a rispondere alle sue esigenze in tempo reale. In parte però perché non riusciamo, a livello decisionale, a capire che “1 euro non è 1 euro” e che ci sono classi di persone che nel nostro Paese non riescono a raggiungere i loro obiettivi, alla loro portata, semplicemente perché i loro interessi non sono adeguatamente rappresentati. Sono “troppo deboli” rispetto al processo decisionale che è supposto spalancargli le porte della loro felicità.

Siccome sono troppo deboli, più di qualsiasi altro hanno bisogno di “protezione”, di regole dedicate ed a loro esclusivamente mirate.

Ecco “proteggere” è l’altro verbo che sintetizza il sogno per l’Italia dei Viaggiatori, senza il quale “raggiungere” spesso diventa un verbo vuoto e retorico. Non proteggere indefinitamente, che significherebbe incancrenire e sussidiare posizioni di rendita, ma proteggere fino a quando una società ritenga ”normale” farlo, fino a quando non si sia garantito sufficiente tempo per realizzare senza ostacoli il proprio progetto di crescita individuale.

I giovani, ma anche le piccole imprese nelle prime fasi di sviluppo, cercano, con poche risorse, di raggiungere un obiettivo, che può avere ampi ritorni per la comunità. E’ un dovere di una comunità che abbia a sua volta un obiettivo di progredire e convivere pacificamente di non reprimere queste aspirazioni.

E’ dunque obbligatorio creare un contesto normativo, regolatorio, ambientale, che “protegga” i nostri deboli in nome delle pari opportunità, fino a quando queste siano evidentemente violate e fino a quando arrestare questa violazione non imponga costi sociali eccessivi alla società.

La battaglia per l’Erasmus è dunque un piccolo ma essenziale pezzo di una guerra più ampia a favore dei giovani e delle giovani imprese e contro tutti quelli che non sanno a sufficienza rappresentare le loro giuste istanze.

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L’anno che verrà

Come sarà il 2013? Intendiamo in termini di quelle variabili macroeconomiche che dovrebbero definire la qualità di azione di un Governo: crescita del PIL e andamento del rapporto debito-PIL.

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Oggi la Banca d’Italia con il suo Bollettino Economico e la sua stima di crescita del PIL 2013 del meno 1% ha contribuito a eliminare un po’ di incertezza sul, appunto, 2013, e ad affossare ancora un po’ di più, assieme all’idea che esiste qualcosa chiamato intelligente austerità in recessione, le speranze di tante imprese e famiglie che solo con un’ampia dose di ottimismo potrebbero tornare a stimolare l’economia con maggiore domanda di investimenti e consumi. Ottimismo cercasi, disperatamente. Non lo chiedete però a chi politica economica non sa fare. E sono in tanti.

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A studiarlo nei libri di storia economica, il 2013, si può imparare tanto. I primi ad avventurarsi nel terreno scivoloso delle previsioni 2013, con l’utilizzo allora di una sfera di cristallo, fu il duo Berlusconi-Tremonti.

Animati da indomito coraggio e fantastica verve, chiamati dalla kafkiana Europa a stabilire nel 2008 come sarebbe stata l’economia italiana nel 2013 (ma quanto tempo hanno sprecato i pur bravi funzionari del Tesoro per stimare questo dato allora fantascienticamente assurdo ed irrilevante?) esclamarono: crescita e stabilità! Addirittura stabilirono, allora per ora, una crescita del PIL 2013 dell’1,5% e un rapporto debito-PIL del 90% circa (per onestà, prima degli aiuti alla Grecia).

Chiamati ancora ad esprimersi nel 2009 e nel 2010, avendo vissuto un po’ di più (ma capito comunque sempre poco) la tempesta perfetta che derivava dalla crisi finanziaria, non si persero di ottimismo: addirittura per il 2013 alzavano le stime di crescita al 2% mentre misteriosamente nel giro di  1 anno modificavano la stima del debito-PIL 2013 di ben …. 25 punti percentuali (!!!) dal 90% dell’anno prima al 115% circa del luglio 2009 e 2010.

Arriva il 2011 ed il  nostro duo, vedendo il 2013 più a portata di mano, abbandona il bastone del rabdomante e si avventura nel fare stime più possibili, a 2 anni. E come sempre accade, mano a mano che il tempo batte il suo inesorabile ticchettio e ci avvicina alla resa dei conti che solo i dati veri e a consuntivo rappresentano, i nostri decisori di politica economica diventano meno baldanzosi e più realistici. Dal 2% di crescita 2013 tenuto fermo per 2 anni si (ri)passa prima alla previsione di 1,5% nell’aprile del 2011 e poi allo 0,9% del 2011.

2011. E’ qui che i documenti storici mostrano le prime stime della Banca d’Italia fatte nel 2011 sul 2013: esse sono in linea con quelle governative, visto che a luglio 2011 si stima un possibile +1,3% per il 2013.

Insomma Bankitalia e Tesoro uniti ed accomunati nello sbaglio: avere sovrastimato la crescita del PIL 2013, rispetto alle stime pubblicate oggi da Via Nazionale, di solo …. 2,3% punti percentuali circa nel giro di 1 un anno e mezzo (luglio 2011-oggi). Wow. Briciole, n’est-ce pas?

Ma le cose non diventano meno assurde con l’arrivo del nuovo Governo guidato dal Prof. Monti.

Che ad Aprile 2012 stima la crescita 2013 a +0,5% (come Bankitalia che a gennaio 2012 dava  una forchetta dallo 0 allo 0,8%), mentre il rapporto debito-PIL 2013 continua la sua ormai ben nota salita verso l’alto (questa sì che è stata una salita del Prof. Monti) dal 116% al 121% previsto a settembre 2011 e ancora più su (ma la Bankitalia nell’ultimo Bollettino non ci dice di quanto, basterà il 126% di Confindustria?).

Passano pochi mesi e, attorno a luglio-settembre del 2012, Bankitalia e Monti all’unisono correggono: scusate ci siamo sbagliati. Non è più +0,5% il tasso di crescita 2013 dell’economia italiana, ma -0,2% .

Ma c’è speranza a Via Nazionale, visto che sempre a luglio 2012 affermano:

Le previsioni di crescita per quest’anno (2012) e per il prossimo (2013) sono state riviste al ribasso; le attese per la media del 2013 restano coerenti con un’uscita dalla recessione nel corso dell’anno. Secondo la recente Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza 2012 diffusa dal Governo, la dinamica del prodotto, pari a -2,4 per cento nel 2012, rimarrebbe negativa anche nel 2013 (-0,2 per cento). Le valutazioni degli analisti censiti in ottobre da Consensus Economics e le proiezioni più recenti del Fondo monetario internazionale (FMI) prefigurano un calo sostanzialmente in linea con quello previsto dal Governo per il 2012 e sono invece più sfavorevoli per il prossimo anno (-0,7 per cento). Anche tali previsioni implicano che, su base trimestrale, il PIL smetta di diminuire nel corso del 2013.

Passano ancora pochi mesi ed eccoci ai giorni nostri. Fortuna per il Prof. Monti che non è più obbligato a stimare il PIL 2013. Ma Bankitalia sì. Ed ecco il miracolo, all’incontrario, menzionato dal Bollettino: dal -0,2% di PIL 2013 passiamo al -1% di oggi. In 3 mesi!

La stima per il 2013 è stata rivista al ribasso (da -0,2 a -1,0 per cento), per effetto del peggioramento del contesto internazionale e del protrarsi della debolezza dell’attività nei mesi più recenti.”

Ma non preoccupatevi: tutto tornerà al sereno. Nel … 2014? Bravi! Come avete fatto ad indovinare?

Le nostre stime per il 2013 sono lievemente meno favorevoli di quelle dei principali previsori, con l’eccezione dell’OCSE; la ripresa prospettata per il 2014 è simile per intensità alle valutazioni della Commissione europea (0,8%) e marginalmente più forte rispetto a quelle delle altre organizzazioni (0,5% o 0,6%)”.

Ma certo.

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Ma certo che no. Perché se si usa il modello sbagliato per capire la realtà si è condannati a ripeterne gli errori di analisi. Come ben ammesso dal Fondo Monetario Internazionale.

Cerchiamo di capire cosa non va nel loro modo di capirla, l’economia secondo Via Nazionale.

Lo possiamo fare nel modo più obiettivo possibile, usando la loro stessa, onesta e sconvolgente, analisi dove si analizza l’errore di previsione tra luglio 2011 (quando la Banca d’Italia prevedeva una crescita del +1,3%) ed oggi, sulla crescita del PIL 2013 (stimata, con un secondo anno di grave recessione, al -1%).

Utile esercizio perché 2,3% di errore in 18 mesi non sono bazzecole.

Guardatela questa tabella Bankitalia dal Bollettino, spiega da dove viene l’errore di -2,3 punti percentuali nella stima.

Bankitalia ci dice: gli spread sono andati meglio del previsto, il credito un po’ peggio, ma tutto sommato le due componenti di errore previsivo si elidono.

Ma poi c’è stata l’austerità adottata dal Governo (non sappiamo quanto Bankitalia di questa austerità avesse già previsto nel luglio 2011, e quindi se trattasi di errore di valutazione d’impatto di una manovra correttamente prevista o se di semplice mancanza di previsione delle manovre che Monti avrebbe fatto a fine 2011 e nel 2012; ma poco importa qui ai nostri fini) e il PIL è sceso di … 1,1% di più di quanto previsto (“manovre di finanza pubblica”, cerchio rosso).

Cioè la metà dell’errore di 2,3% di mancata previsione di decrescita 2013 è dovuto alla stupida austerità. Mamma mia, enorme.

Spiacenti, è di più del 50%. Perché la stessa Bankitalia ci ricorda che “non è possibile escludere che una parte dell’effetto dell’incertezza possa riflettere le misure di riequilibrio di bilancio”, e che dunque altri 0,2% punti del -2,3 (cerchio azzurro, “incertezza e fiducia di famiglie e imprese”, e siamo, seguiteci, a 1,3% di 2,3%…) siano attribuibili alla stupida austerità.

Finito? Macché. Guardatevi cosa spiega il rimanente 0,9% di errore. Già, avete letto bene: “rallentamento dell’economia globale”, cerchio verde. Dunque il nostro export che è andato male a causa del rallentamento mondiale. E siccome quasi metà del nostro export va nell’area euro, chi pensate sia responsabile del fatto che il nostro export ha tirato di meno? Già! La stupida austerità, European style.

Quindi se anche solo 0,4% dei quel 0,9% di errore è attribuibile alla stupida austerità siamo arrivati a … 1,7% di 2,3%.

L’austerità, la riduzione di spesa pubblica e aumento di tassazione dell’ultimo Governo in carica, hanno generato ben 1,7% di PIL 2013 in meno. Con l’annessa maggiore disoccupazione. Chapeau. Specie se si pensa che il rapporto debito-Pil nel frattempo è salito.

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Questi sono i conti che vi raccontano banali verità. Solo questi. Ora fatevi i vostri conti e votate conti alla mano. In attesa di un futuro migliore, fatto di politiche economiche per la crescita e la stabilità, fatto di speranza, competenza, nuove generazioni con più voglia di cambiare il mondo verso il bello.

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Sanità: le differenze ci sono e si vedono

Da Patte Lourde riceviamo e volentieri pubblichiamo.

Dallo scorso ottobre  ho avuto la necessità di “frequentare” 2  grandi ospedali  e ho avuto modo di osservarli e metterli a confronto  dal punto di vista organizzativo.  Emergono alcune  differenze che  dipendono esclusivamente dal modo in cui  l’attività è organizzata. Nulla dunque a che vedere con la grande  professionalità e umanità del personale (medici, infermieri, assistenti)  che per  entrambi gli ospedali è stata elevatissima.  Le due strutture sono simili da un punto di vista di posti letto e di specializzazioni, cosa  che agevola il confronto.

La prima differenza che si nota è che in uno dei due ospedali i macchinari  lavorano h24. Il lavoro è organizzato in modo tale che gli avanzati  strumenti diagnostici a disposizione sono sempre utilizzati. La seconda importante differenza è la presenza di giovani medici che  hanno modo di apprendere da chi ha più esperienza.

La terza fondamentale differenza è rappresentata dalla presenza di  strutture di ricerca in uno dei due ospedali, che attira giovani  professionisti ed esperti da tutto il mondo. Non solo. L’ospedale è in  contatto con delle migliori strutture italiane dove gli specializzandi  vengono mandati, in funzione del campo di applicazione, a specializzarsi,  senza disperdere quel che di eccellenza c’è in Italia. E che consentono di  formare giovani professionisti all’avanguardia.

Gli ingredienti sono dunque: buona formazione, presenza di ricerca  scientifica, la fertile contaminazione reciproca tra giovani e più esperti;  l’organizzazione, insomma, fa la differenza in un Sistema sanitario  nazionale che aspetta soltanto nuove proposte per dimostrar alcuna volta la sua vitalità.

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Slegate le catene di giovani e PMI

La partecipazione alla forza lavoro delle donne in Italia è tra le più basse dei Paesi Ocse e la più bassa in Europa … Insomma, troppe donne con grandi potenzialità non le sfruttano. … Perché le donne italiane lavorano così poco fuori casa? Si dice perché non ci sono abbastanza asili nido gratuiti o sussidiati. Magari fosse così semplice! … Insomma, le ragioni della scarsa partecipazione al lavoro sono molto più profonde: hanno a che fare con la nostra cultura, che assegna alla donna il ruolo di «angelo del focolare» e all’uomo quello di produttore di reddito … il punto è che in Italia, più di ogni altro Paese europeo, il carico della famiglia è troppo sbilanciato sulla donna. Fino a quando non si aggiusta questa equazione non si fanno passi avanti. Sia chiaro: ci stiamo muovendo su un terreno minato, che sfiora il dirigismo culturale… Proposte ce ne sono. Ad esempio uno di noi … ha da tempo suggerito vari metodi per detassare il lavoro femminile e favorire la partecipazione al lavoro delle donne. Si deve anche pensare a un uso molto più flessibile del part-time per facilitare la gestione familiare, come nei Paesi nordici, dove il part-time è molto più diffuso che da noi. Attenzione però: part-time sia per uomini che per donne, appunto per riequilibrare i ruoli nella famiglia. Mario Monti nella sua Agenda ha ricordato il problema del ruolo della donna nella nostra società. Il prossimo governo dovrà partire proprio da lì.

Alesina e Giavazzi, Corriere di ieri

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Papà, queste quote rosa, non mi paiono giuste.

Mio figlio oggi.

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Nel 1960, 94 percento dei medici e degli avvocati negli Stati Uniti erano uomini, bianchi. Nel 2008 la frazione è scesa al 62%…

Considerate il mondo che fronteggiò il (mitico, NdR) giudice della Corte Suprema Sandra Day O’Connor quando si laureò in legge alla (mitica, NdR) Stanford University nel 1952. Malgrado fosse la terza della classe il solo lavoro che poté trovare subito fu quello di segreteria in uno studio legale.

Cosa fa cambiare la distribuzione dei lavori disponibili per genere o razza? Certamente il caso. Certamente gli sviluppi delle competenze necessarie per un certo lavoro (se tira il settore delle costruzioni forse gli uomini hanno più domanda di lavoro). Certamente cambiamenti di abitudini (contraccettivi e lavastoviglie hanno aumentato l’offerta di lavoro femminile).

E cambiamenti sociali che hanno divelto barriere all’ingresso? L’accesso all’università, così a lungo vietato agli afroamericani? Il movimento femminista e quello dei diritti civili che hanno preteso l’abbattimento dei tanti “soffitti di vetro (glass ceilings)” e stereotipi culturali che pervadevano la società americana all’uscita delle seconda guerra mondiale?

Certamente.

Ma quali sono stati i motivi più significativi legati al tipo di occupazione che spiegano l’incredibile incremento della produttività aggregata americana dal 1960 ad oggi? Il maggiore talento della forza occupata? Il cambiamento tecnologico che richiede uno speciale tipo di occupazione? Oppure la rimozione delle barriere all’entrata nel mercato del lavoro di una particolare tipologia di lavoratore?

Scopriamo che il cambiamento delle barriere all’occupazione che fronteggiavano afroamericani e donne spiega circa dal 15 al 20% dell’aumento del monte salari tra il 1960 ed il 2008 (linea verde di PIL è dove saremmo senza rimozione barriere”).

e che i salari reali sono aumentati, a causa delle minori barriere, del circa 40% per le donne bianche, del circa 60%  per le donne afroamericane e del 45% per gli uomini afroamericani, ma sono scesi del circa 5% per gli uomini bianchi. La riduzione delle barriere può dunque spiegare di fatto tutto l’assottigliarsi del gap salariale tra neri e donne rispetto agli uomini bianchi”.

Una buona parte dei risultati deriva dall’apertura del mercato del lavoro alle donne nei lavori a più alto contenuto intellettuale, ovvero la crescente propensità da parte delle donne a divenire avvocati, scienziati, professori, manager.

La quota di donne al lavoro negli Usa è cresciuta dal 32,9% del 1960 al  69.2% del 2008. Di questo aumento di 36.4 punti percentuali, la rimozione di barriere spiega circa il 75% dell’aumento, il rimanente 25% essendo attribuibile a cambiamenti nella tecnologia.

I nostri coraggiosi autori chiudono così il loro lavoro:

ci siamo concentrati sui guadagni derivanti dall’abbattimento delle barriere verso donne e afroamericani negli ultimi 50 anni. Ma temiamo che le barriere che confrontano i giovani che provengono da famiglie ed aree georgrafiche meno abbienti siano aumentate nelle ultime decadi. Se ciò fosse vero si spiegherebbero sia i trend negativi nella produttività aggregata che i destini degli americani con meno formazione avvenuti nelle ultime decadi”.

Già. E’ così importante quella crescita economica che dipende dallo slegare le catene dei tanti a cui si impedisce di entrare pienamente nell’economia, emergere ed esprimere il proprio unico talento. L’altro ieri erano le catene degli schiavi, ieri quelle dei giovani neri che non potevano andare all’università e delle giovani donne di talento che non potevano accedere alla stanza dei bottoni. Oggi le nuove catene negli Stati Uniti sono riservate a nuove classi di persone. Andranno abbattute. Con qualsiasi mezzo, quote rosa, gialle, blu, verdi.

Non bastano contratti part-time e tassazione: quando si tratta di barriere culturali, di discriminazioni, si è in guerra. E in guerra ci si va per proteggere i più deboli, per la loro libertà. Ci si va, come hanno fatto gli Stati Uniti con coraggio, con quote e vincoli, quelle che non piacciono a mio figlio e che A&G nemmeno menzionano.

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E la nostra Italia? Quali barriere, oltre a quella ovvia rivolta contro il mondo femminile di cui parlano anche A&G e mio figlio, mai abbattute hanno impedito al PIL italiano di crescere negli ultimi due decenni?

Ma è ovvio. Le barriere alle PMI che abbiamo eretto e continuiamo a mantenere con mille regolazioni inutili e con la cattura da parte di alcune grandi imprese dei nostri politici. E le barriere che una egoista classe politica vecchia oltre ogni biologica possibilità ha eretto contro i giovani, non sapendone e non volendone rappresentare gli interessi.

Nessun partito che corre in queste gara elettorale ha mai menzionato i giovani e le PMI e cosa fare di loro e che futuro liberargli. Come spesso accade, si libereranno da soli. A noi Viaggiatori spetta solo di rappresentarne la lotta di libertà come megafono democratico.

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Treni d’Italia

Stamattina andavo in treno a Milano. Non avrei mai pensato di viaggiare sullo stesso vagone con uno stimato economista che portava, nella sua valigia, degli attrezzi esattamente opposti ai miei. Insomma pare che Salvatore Rossi, vice direttore generale della Banca d’Italia, oggi a Milano abbia detto 4 cose contro quelli contro l’austerità come me:

1-    “I problemi dell’Italia prima ancora che ciclici sono strutturali, veniamo da un lungo periodo di incapacità di crescita duratura e sostenibile – ha affermato Rossi – Allora dobbiamo chiederci che Paese siamo e cosa vogliamo essere, quale economia vogliamo”.

Affermazione che ci lascia felici e perplessi al contempo. Felici perché finalmente abbiamo un esponente delle istituzioni che ci conferma che esiste qualcosa chiamato “ciclo economico” come potenziale “problema”. Alleluia. Ricorderete Grilli che scartava la congiuntura tra i problemi da affrontare nell’Agenda Monti? Bene, Rossi ci racconta invece che non si può scartare a priori. Un grande passo, dovuto certamente all’intelligenza della persona ma anche al perdurare dei problemi ciclici che Banca d’Italia non può più ignorare – come ha fatto nell’ultimo anno – senza finire per perderci la reputazione.

Perplessi però, perché come facciamo a dire che gli innegabili problemi strutturali di lungo periodo che fronteggia l’Italia siano oggi più rilevanti di quelli di breve periodo? E come poter affermare che non curare il breve periodo non abbia riflessi gravissimi sul lungo periodo?

Io penso che Rossi pensi a questa recessione come ad un albero sottoposto ad una grandinata, che distrugge qualche mela ma lascia intatto l’albero, capace di generare frutti in futuro. E non credo voglia discutere del fatto che questo uragano con tanto di  tromba d’aria sta sradicando l’albero, distruggendo per sempre qualsiasi suo potenziale di produrre mele in futuro.

Per esempio, se meramente per colpa del ciclo economico qualche giovane divenisse disoccupato e poi abbandonasse depresso la forza lavoro per sempre, non abbiamo trasformato un problema di breve in un problema di lungo periodo?

E se la costante recessione ciclica italiana, portoghese, spagnola, greca, portasse un Paese a ribellarsi ed a uscire dall’euro, non sarebbe questo un terribile effetto di lungo periodo? Impossibile? Beh a quanto pare qualcuno già ci sta pensando, in Grecia, dove crescono gli attentati contro rappresentanti del Governo: ultimo in ordine di tempo l’attacco contro la sede di Nuova Democrazia, il partito conservatore del Primo Ministro Antonis Samaras. Sconosciuti hanno sparato contro gli uffici del partito con fucili Kalashnikov. Verso il secondo piano, che ospita appunto l’ufficio di Samaras.

Quanto vogliamo ancora aspettare? Chiediamoci certamente che Paese siamo e cosa vogliamo essere, come invita Rossi a fare. E la risposta che mi do è questa: non voglio vivere in un Paese con questa mancanza di speranza di lungo periodo, mancanza che invece di far cadere poche mele dall’albero, sradica con la sua potenza tutto l’albero, uccidendolo per sempre.

2-    “Dobbiamo liberarci da falsi miti o miraggi – ha proseguito – Il più insidioso, e lo si trova in tutti gli schieramenti dello spettro politico, anche a livello internazionale, è che l’austerità uccide l’economia. Affermazioni che hanno sostenitori illustrissimi come tre premi Nobel e su cui è difficile non essere d’accordo ma che nascondono trappole logiche e storiche”. Perché questa tesi, spiega Rossi, va calata nel contesto specifico dei singoli Paesi e “in un Paese come l’Italia, che ha una storia di eccessi di spesa pubblica e di debito pubblico e deficit elevati, una manovra keynesiana ortodossa consistente finirebbe con il far venire ai nostri creditori uno spavento terrificante che sostituirebbe il rischio della convertibilità (ipotesi di uscita dall’euro, ndr) e lo spread tornerebbe a salire, finendo per annullare il beneficio di una manovra keynesiana”.

(PS tentazione di domanda: E come mai il debito pubblico su PIL è oggi, e non ieri, dopo 1 anno di austerità, ai suoi massimi storici da quasi 100 anni? Ma passiamo oltre.)

Anche qui siamo felici che finalmente si ammetta che vi siano fior fiore di studiosi che chiedono la fine della stupida austerità. Ma di nuovo, ecco apparire l’eccezionalità italica che impedisce di fare quello che si ritiene ovvio fare.

Vengo anche io? No tu no. E perché? Perché no. In realtà una risposta c’è. I mercati che assistono allo show di una Italia spendacciona che si muove da sola sullo scenario macroeconomico europeo impediscono ogni opzione di lotta da soli alla recessione. Da soli.

E perché mai l’Italia dovrebbe spendere da sola? Perché mai non dovrebbe convincere l’Europa a muoversi all’unisono, convincendo i mercati dell’intento pro-crescita di questa strategia, così da abbattere lo spread di ogni Paese, liberando ulteriori risorse per generare ulteriore stabilità?

3-    “La storia – ha spiegato il vicedirettore generale di Bankitalia – ci insegna che non si è mai verificato che un’iniezione di soldi pubblici abbia sostenuto la crescita economica durevolmente, di lungo periodo”. Serve invece, ha concluso Rossi, “che il settore privato sia capace di fare continuamente innovazione e ricerca di efficienza” mentre il compito del settore pubblico “è quello di mettere a disposizione servizi efficienti, regole che facciano lavorare bene, porre riparo al fallimento del mercato e badare alla redistribuzione del reddito secondo principi di equità”.

E come si mettono a disposizione servizi efficienti là dove non lo sono? Chiedetelo a Daniele Franco, Direttore centrale dell’Area Ricerca economica e relazioni internazionali: “Occorre inoltre tenere presente che le dotazioni di infrastrutture non costituiscono un obiettivo in sé, ma sono funzionali ad assicurare la qualità dei servizi. In alcune situazioni la peggiore qualità dei servizi può dipendere dalla carenza di  infrastrutture. In questi casi una strada da seguire potrebbe essere quella di individuare obiettivi di riduzione del divario tra le infrastrutture disponibili nelle aree in ritardo e quelle che sarebbero necessarie per assicurare una adeguata qualità dei servizi pubblici. La priorità dovrebbe essere assegnata alle infrastrutture che vengono utilizzate nella produzione di servizi essenziali. Un esempio relativo al comparto dell’istruzione può essere utile a fini illustrativi. Le dotazioni di infrastrutture scolastiche nel Mezzogiorno sono peggiori di quelle del Centro Nord. In base alle indicazioni del Ministero dell’Istruzione, ad esempio, la percentuale di “edifici precariamente adattati a uso scolastico e in stato di disagio” è significativamente superiore nelle regioni meridionali. Si potrebbe quindi individuare la spesa necessaria per un innalzamento della qualità degli edifici scolastici a standard prefissati e prevedere un programma di riallineamento da conseguire in un predeterminato numero di anni. In questa ottica la spesa in conto capitale aggiuntiva per l’istruzione sarebbe quella necessaria per colmare in un tempo prestabilito il divario – più ampio nel Mezzogiorno – rispetto agli standard prefissati.”

E con scuole migliori, crescita duratura.

4. E’ a queste scuola, a questa crescita, a cui rinunciamo quando seguiamo il ragionamento di Rossi che, facendo di tutta l’erba un fascio che mischia spese pubbliche di lungo periodo per investimenti e spese keynesiane di breve per gestire il ciclo, avverte che, fatta una volta una politica keynesiana, “nella vulgata” del nostro paese (queste spese) “rischiano di diventare di lungo periodo e strutturali” e alla fine “si finisce per pensare che per rilanciare la crescita in Italia serva un bel pacco di soldi pubblici e questa è un’affermazione insidiosa e fallace“.

Quindi avete capito bene: non facciamo spesa pubblica di breve per il ciclo perché rischia di divenire spesa permanente e questa mai aiuta la crescita. Quindi niente spesa: né di breve, né di lungo.

Ecco allora una bella riforma da mettere nell’Agenda di un prossimo governo. Insegnare alla classe politica che:

1) le politiche keynesiane per combattere la crisi si fanno, appunto, in momenti di crisi, e basta, ma si fanno. Insegnare a Pierino di non gridare al lupo quando non c’è il lupo è un’ottima idea, ma non insegnargli di gridare al lupo quando questo c’è è una beata idiozia che uccide Pierino e l’economia con tutto quanto sopra detto e che

2) gli investimenti, quelli giusti, che servono per la crescita di lungo periodo, si fanno, sempre, fossero pure mera manutenzione di uno stock di capitale che crolla a pezzi come crolla Pompei.

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Al ritorno, sul treno che in 2 ore e 55 minuti mi ha riportato a casa (ero l’unico economista) con tanto di rete internet, ho pensato che era bello. Il treno. Il mio Paese dal treno.

Manca solo una cosa. Imparare a curarlo ogni giorno, questo Paese, come se fosse la creatura più bella al mondo. Che poi la è. Spendendo per esso i nostri soldi, con coraggio, determinazione e competenza, utilizzando bene le risorse a nostra disposizione per renderlo più degno del suo passato e più pronto ad agganciare un bel futuro.

Quei soldi, ben spesi, ce li restituirà, con gli interessi.

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Il futuro? Si nutre di passato ma soprattutto di speranza

Interessantissimo ed ancora da digerire l’ultima fatica del celebre storico economico Barry Eichengreen di Berkeley – appena uscito sui Working Papers del NBER – e scritto assieme a Livia Chitu ed Arnaud Mehl.

Che questi due, meno conosciuti, siano ricercatori della BCE, la dice lunga sul fatto che a Francoforte il tema del lavoro in questione debba essere considerato rilevante.

E come non potrebbe esserlo. Leggiamo dalla sintesi:

in questo lavoro analizziamo i flussi bilaterali di investimenti finanziari grazie ai dati sul possesso di attività finanziarie estere da parte di investitori Usa. Documentiamo un “effetto della Storia” laddove l’andamento della detenzione di titoli esteri da parte di cittadini e imprese Usa nel 1943 riesce ancora a spiegare la detenzione di questi, per Paese di emissione del titolo, nel 2010: tra il 10 e 15% delle variazioni odierne tra Paesi nella detenzione da parte degli Stati Uniti di obbligazioni estere è spiegata dalla detenzione in quello stesso Paese 70 anni prima, plausibilmente riflettendo costi fissi di ingresso ed uscita dei singoli mercati e di effetti apprendimento. Addirittura per le obbligazioni in dollari emesse da Paesi non Usa, è il 30% delle detenzioni odierne ad essere spiegata da quanto ne venivano detenute alla fine del secondo conflitto mondiale sempre da cittadini ed imprese Usa.”

Insomma: cosa fa sì che oggi un mercato finanziario di un Paese sia più appetibile ai più grandi investitori mondiali (gli Usa) che un altro? Risposta: quanto hanno appreso di tale mercato i nonni degli investitori Usa di oggi, detenendone sin da allora le sue emissioni (obbligazionarie ed azionarie), in valuta estera o in dollari. Insomma di nuovo: il mercato finanziario italiano è oggi un mercato attraente per gli Usa? In gran parte, se lo è, lo è perché nel 1943 (o prima, chissà quando!) negli Usa si decise di avventurarcisi.

Qualche eccezione? Certo. Cuba, di cui il grande Impero del XX secolo fu grande creditore prima e da cui scappò a gambe levate dopo. Ma è l’eccezione che conferma la regola: ci vuole un Fidel per … s-fidelizzare una scommessa di lungo termine (investire lontano da casa) che si nutre di un costo iniziale (una tantum) per generare informazioni utili su un Paese poco noto ma anche, se questa informazione è positiva, propagandosi rapidamente e gratuitamente tra gli investitori, di ricavi che incentivano a detenere sempre di più attività finanziarie emesse in quel Paese.

Leggiamo meglio:

“…  le società finanziarie fronteggiano costi fissi quando investono nell’abilità di valutare il merito di credito di bond emessi all’estero. Fronteggiano costi di avviamento quando cercano di distribuire e pubblicizzare i titoli emessi  da paesi esteri ai risparmiatori domestici… E così la penetrazione estera da parte delle banche USA non fu uniforme: sproporzionatamente concentrata in America Latina e Europa Occidentale, lasciando ai rivali britannici il Commonwealth, assieme a Scandinavia e Europa dell’Est… E’ plausibile che la geografia degli investimenti internazionali creatasi tra le due guerre possa avere avuto una vita di lunga durata… Anche un piccolo vantaggio informativo riduce la percezione di rischio degli asset, cosa che incoraggia gli investitori a detenerne ancora di più. Ciò a sua volta induce gli investitori ad apprendere ancora di più su tali titoli, rendendoli ancora più interessanti.”

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Come ha inciso l’avvento dell’euro su tutto questo non è argomento che gli autori affrontano, forse riservandolo ad un  prossimo lavoro. L’Europa ha guadagnato come attrattività di “porto finanziario” per il viaggiatore americano dalla creazione dell’euro?

Difficile rispondere. Il folle apprezzamento dell’euro dalla sua creazione ad oggi, che tanto ha depresso il nostro export, potrebbe essere in parte figlio di un apprendimento positivo sulle caratteristiche di questo mercato o invece semplicemente figlio della politica monetaria molto più restrittiva seguita nel decennio dalla Bce rispetto alla Fed.

Ma un qualche tentativo di immaginare una risposta possiamo farlo, guardando a costi e benefici di apprendere le caratteristiche di questo nuovo, gigantesco, mercato finanziario creato non da una nuova nazione, ma da una nuova moneta.

L’euro ha certamente obbligato gli investitori Usa a nuove spese per apprendere di questo mercato, ma è quasi certo che l’enorme dimensione potenziale di questo mercato liquido non li deve avere scoraggiati dal farlo. Quanti investitori si sono precipitati in tutte le capitali europee per capire meglio cosa sarebbe stato questo euro? Migliaia, alla fine del secolo scorso.

Quanto hanno appreso di questo mercato? E quanto hanno appreso di cose positive? Sono queste le due vere domande a cui dobbiamo rispondere per capire se i benefici hanno superato i costi e hanno reso il “porto” EUROpeo un porto sicuro ed attraente, al riparo dalla tempesta, per gli investitori mondiali.

Hanno certamente, gli investitori mondiali, imparato dei trucchi di bilancio dei governi europei (come quello greco) coperti dal silenzio e forse dall’assenso dei politici europei. E certo non aiuta l’imbarazzante, misterioso e poco etico rifiuto della Bce, ancora oggi, di rendere noti i dettagli delle transazioni finanziarie dei primi anni del 2000 tra Grecia e Goldman Sachs in suo possesso che hanno avviato l’incendio europeo che si è rapidamente esteso nel Continente. Sono informazioni o mancanza di informazioni che impediscono ancora oggi a molti investitori esteri di avvicinare il porto europeo, ritenendolo troppo esposto ai venti forti delle tempeste delle frodi ed inganni finanziari che mettono a repentaglio i risparmi degli individui.

Certamente hanno anche visto che il Trattato di Maastricht che fu non esiste più. Hanno visto che uno Stato che emette in valuta “euro” viene soccorso in ultima analisi dai Governi dell’area, o dalla sua banca centrale, aiutando le banche ai danni dei contribuenti e contro la promessa iniziale che mai nessuno Stato sarebbe stato aiutato in caso di default.

Ma hanno imparato che non possono nemmeno essere certi di un salvataggio chiaro e senza ambiguità: visto che parte del default greco lo hanno subito e che non vi saranno mai abbastanza risorse per salvare tutti i Paesi in crisi simultaneamente, come oggi nella tempesta perfetta.

Insomma, non hanno imparato praticamente nulla sulla cosa più importante e cioè su quali basi si regga il Patto che ogni debitore che si rispetta deve costruire con i suoi creditori nel lungo periodo per fronteggiare pragmaticamente le diverse crisi dentro le quali anche i migliori debitori finiscono sempre per inciampare.

Insomma no, cari ricercatori BCE, non illudetevi: questi 10 anni passati non hanno ancora convinto nessuno nel resto del mondo che siamo un porto sicuro dove approdare. Anzi, al contrario, la stupida austerità, lo stupido mandato solo anti inflattivo della BCE, lo stupido Fiscal Compact, lo stupido braccino dei nostri “leader”, terrorizza più che rassicura.

Ma, in ultima analisi, quello che terrorizzerà i mercati esteri sull’Europa sarà la mancanza di quella dimensione “umana” di una Unione politica che porta qualsiasi progetto nel lungo periodo a naufragare, come ha insegnato brutalmente il brutale XX° secolo.

Perché se nell’azione politica non  si mettono al centro gli uomini e le donne e le loro speranze, ma la contabilità ed il mero potere, statene certi, la crescita di opportunità e occasioni si impicciolirà sempre più, spaventando sempre più i mercati finanziari che finiranno per fare quel che fecero per Cuba: trovare lidi più sicuri, dove continuare a scommettere per la crescita.

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A Tokyo c’è un tennista che non ha paura di perdere

220% di debito su PIL. Non un gran biglietto da visita. Il Giappone.

Che si avventura nella fantascienza pura.

Tokyo, ieri sera. Sono davanti alla tv. E ascolto l’annuncio del nuovo primo ministro giapponese. Aumentare la spesa pubblica con progetti infrastrutturali. Di quanto?

Un PIL di 490000 miliardi di yen. Una manovra di 10300 miliardi di spesa pubblica in più, circa il 2% di PIL di spesa in più. Annunciata dal nuovo leader, Abe, che dichiara che il PIL aumenterà del 2% creando 600.000 posti di lavoro in più. Anche ABE ascolta dunque il Fondo Monetario Internazionale e crede che il moltiplicatore della spesa è pari ad almeno 1.

Li userà, i denari che otterrà dai mercati, per ricostruire l’area distrutta da terremoto e tsunami, migliorare la capacità anti-sismica dell’infrastruttura del Paese, rivitalizzare le regioni giapponesi, l’istruzione e la sanità.

Ad esso il Governo accompagnerà nientepopodimenoche … l’immissione di yen in cambio di bond europei emessi dallo EMS per deprezzare la propria valuta ed aiutare l’export giapponese. Lo yen si è deprezzato immediatamente con la notizia, ai livelli più bassi dal giugno 2010.

E il mercato? Come avrà reagito il mercato alla terribile notizia che il debitore pubblico più grande del mondo continua a spendere?

Bene. Il mercato vuole crescita. Quella che non si ha in Europa, dove anche l’americano Martin Feldstein, professore ad Harvard e nemico acerrimo da sempre dell’euro, si chiede perplesso come mai i Paesi euro non pensino nemmeno un poco ad organizzarsi per una battaglia volta ad analogamente cercare di deprezzare la loro valuta comune. Chissà.

Ma traduciamo l’articolo del Financial Times per quel che riguarda la reazione dei mercati finanziari, credo sia utile:

“E’ una notizia importante, in termini di ottimismo (sentiment)” afferma  Kazuhiko Ogata, capo economista al Crédit Agricole di Tokyo, “l’impatto che avrà sulla fiducia (confidence) è enorme.”

Che strano. Pensavamo che i mercati quando il debito su PIL è alto e si annuncia più spesa per investimenti entrassero in una crisi di panico. Che non sia così? ;-)

Tuttavia, Ogata ha messo in guardia : i benefici dei programmi di lavori pubblici saranno ritardati a causa degli enormi lavori di costruzione già avviati nella regione di Tohoku, e dalla mancanza di operai edili. Conseguentemente l’affermazione del Governo che il pacchetto fiscale aumenterà il PIL del 2% è dubbiosa, ha aggiunto. “Ci aspettiamo che un terzo del programma di lavori pubblici sarà attuato nel 2013, il che significa che il PIL salirà dello 0,4-0,5%, compreso l’effetto moltiplicatore”, ha detto Ogata.

Notate bene: non è che si dubita che il moltiplicatore della spesa, cioè gli effetti benefici di maggiore spesa pubblica in tempi di crisi, non esistano. E’ solo che l’economia giapponese è vicina a capacità produttiva (cosa che certamente l’Italia col suo tasso si disoccupazione non è) e quindi che la manovra auspicata dai mercati avverrà più lentamente di quanto auspicato. Auspicata, la manovra, perché genera crescita che genera risorse per ripagare il debito.

E che quindi non spaventa troppo i mercati nemmeno quando il governo vi metterà più pressione per trovare i necessari finanziamenti:

“I bond sono rimasti stabili, con il benchmark a 10 anni del governo giapponese al tasso dello 0,83%, e qualche vendita dei titoli a più lunga durata, che segnala timori di addizionali emissioni”.

Che succederà al Giappone? Crescerà veramente? Lo sapremo solo a conti fatti. Non guardando ai suoi livelli di crescita effettivi nel futuro perché questi potrebbero essere bassi (ma meno bassi di quanto sarebbero stati senza intervento statale), ma con analisi econometriche rigorose.

Potrebbe essere benissimo che questo intervento si riveli un fallimento: specie se questi soldi saranno buttati via in sprechi e corruzione e dunque non in generazione di PIL. Opzione che per ora i mercati non si sentono di sottoscrivere.

Comunque sia, questo politico, Abe, ci ha provato, rischia. Non ha avuto il braccino del tennista dei nostri terrorizzati “leader” europei.

Dormi Europa, dormi. Il mondo va avanti, anche senza di te.