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Il Cattivo Governo della finanza, da Siena a New York

Dal banchiere Gerontius riceviamo e volentieri pubblichiamo.

Alexandria, Santorini e Nota Italia sono i nomi delle transazioni oggetto dello scandalo che ha portato il Monte dei Paschi al centro del dibattito politico in questi giorni.

Nel 2005 Dresner Bank presenta al MPS un titolo denominato Alexandria che appare subito un buon investimento. Ha il massimo del rating, tripla A. E’ un CDO sintetico. Un titolo emesso da un veicolo che al suo interno ha titoli di elevato standing e contratti di tipo assicurativo che, a fronte di un premio, assicurano il rischio di default di altre obbligazioni emesse da società industriali o da altri veicoli di cartolarizzazioni. Strumenti complessi ma che in quel momento andavano di moda e venivano acquistati in modo massiccio dalle banche di tutto il mondo. E’ il business di quegli anni. Le blasonate banche d’investimento che strutturano queste operazioni fanno soldi a palate. Il Monte dei Paschi decide di investire in Alexandria per 400 milioni sottoscrivendo l’intera emissione.

Nel 2009, dopo il crack di Lehman, Alexandria come molti altri titoli di questa specie perde più di metà del proprio valore. Le stesse banche d’investimento che negli anni precedenti avevano venduto questi prodotti, adesso si presentano con un nuovo cappello, quello di “ristrutturatori.” Questa volta si fa avanti Nomura. La proposta che fa è molto allettante. Nomura acquista ad un prezzo fuori mercato i titoli Alexandria facendo così evitare al MPS di registrare una perdita di circa 220 milioni. Ma Nomura non è un benefattore. Chiede al MPS di entrare in un “asset swap” che ha come sottostante un portafoglio di BTP trentennali per un importo di circa 3 miliardi. Anche lo swap attaccato all’operazione non girerà esattamente ai valori di mercato per permettere a Nomura di recuperare la perdita e assicurasi un guadagno e al MPS di spalmare in 30 esercizi la perdita.

Quando Sadeq Sayeed, noto banchiere di Nomura, chiede a Mussari, nella famosa telefonata registrata, se è consapevole delle potenziali difficoltà contabili nel registrare un’operazione del genere, il Presidente del MPS gli risponderà che sono stati informati sia l’audit interno che il revisore i quali gli hanno assicurato che tutto avverrà nel rispetto delle regole. E c’è da credergli perché nell’ambito delle cosiddette “politiche di bilancio” non è impossibile far girare operazioni non propriamente a mercato.

Santorini, l’altra operazione oggetto dello scandalo, è nelle finalità identica a quella chiusa con Nomura: cercare di nascondere perdite finanziarie imbastendo altre operazioni finanziarie. In questo caso l’operazione originaria sulla quale si doveva registrare la perdita era stata effettuata nel 2002. Si trattava di un “equity swap” che aveva come sottostante una partecipazione del MPS in Intesa. L’operazione finalizzata con Deutsche Bank permetteva al MPS di finanziarsi a condizioni favorevoli mantenendo l’esposizione al rischio dei movimenti di prezzo dell’azione Intesa. A fine 2008 l’azione perde circa il 50% del proprio valore. Invece di registrare la perdita che ammontava a circa 367 milioni di euro il MPS decide di ristrutturare l’operazione con il supporto di Deutsche Bank. I dettagli di questa operazione non sono stati resi noti.

Sappiamo che una parte di questa ristrutturazione comportava di entrare in una scommessa sull’andamento dei tassi di interesse a breve sull’euro ed un’altra parte nel vendere protezione a Deutsche Bank su un portafoglio di 1.5 miliardi di titoli di Stato Italiani lasciando così esposto il MPS al rischio di rialzo del famigerato spread.
La terza operazione che è entrata nelle cronache di questi giorni è conosciuta come Nota Italia. Un’operazione realizzata nel 2006 da MPS con JP Morgan. La finalità era vendere protezione sul rischio Repubblica di Italia alla banca americana . Poiché il MPS non aveva lo standing per chiudere l’operazione direttamente con un semplice contratto di Credit Default Swap viene messo in piedi un veicolo che emette titoli che vengono acquistati dal MPS. Con i proventi rivenienti da questi titoli il veicolo a sua volta acquista titoli con rating tripla A. Questi costituiranno la garanzia per i contratti di protezione del rischio Italia offerti dal veicolo. In caso di default dell’Italia il veicolo potrà liquidare i titoli ed onorare i propri impegni. Come ci si può attendere i valori dei titoli emessi dal veicolo e sottoscritti dal MPS dovranno però risentire dell’andamento del rischio Italia ma è probabile che questi non venissero correttamente valutati.

Tutte queste operazioni hanno in comune quello di essere complesse ed opache per avere maggiore discrezionalità per le loro rappresentazioni contabili al fine di congelare rischi, nascondere perdite ed evitare una corretta valutazione di mercato. Hanno in comune anche quello di modificare i profili di rischi e nel caso specifico quello di aumentare il rischio della banca senese nei confronti della Repubblica Italiana per circa 5 miliardi.

A ottobre dello scorso anno il presidente Profumo e l’AD Viola hanno deciso di aprire il vaso di Pandora per liberare la banca di tutti i mali che segretamente custodiva. Per far fronte alle perdite di queste operazioni annunciavano che la banca avrebbe chiesto al governo italiano di sottoscrivere altri 500 milioni dei “Nuovi Strumenti Finanziari” i cosiddetti “Monti bond” in aggiunta ai 3.4 miliardi già richiesti.

E’ stato scritto che il peccato originale di questi comportamenti debba essere ricercato nel rapporto “ non sano” tra il management della banca e dell’azionista fondazione che è espressione del potere locale della città di Siena. Può darsi. Ma bisogna ricordare che negli Stati Uniti dove le fondazioni bancarie non esistono e ci sono solo azionisti privati dal 2008 sono fallite ben 406 banche. Certo sono fallite in conseguenza della crisi finanziaria. Ma non tutte le banche sono fallite e quelle che lo sono avevano tutte commesso errori analoghi a quelli del MPS. Aver investito in CDO, aver fatto un uso improprio dei derivati, aver camuffato i conti grazie ad operazioni complesse ed opache.

Purtroppo a più di cinque anni dello scoppio della crisi finanziaria la riforma che avrebbe dovuto regolamentare il sistema bancario non è stata fatta né in America né in Europa. Una riforma che separi in maniera netta e decisa le banche di investimento da quelle commerciali. Una riforma che vieti a queste ultime di fare attività di finanza che non è collegata al loro core business che è quello di vendere servizi finanziari alle imprese e alle famiglie. Così facendo si eviterebbe anche che le banche di investimento continuino a offrire a queste ultime pericolosi prodotti “esotici” che nulla hanno a che con il fare banca commerciale. Ma le potenti lobby finanziarie sostenute dalle grandi banche di investimento, vedendo svanire importanti mercati per i loro prodotti, hanno impedito che questa riforma venisse fatta.

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Meglio Piazza del Campo che il Monti Bond

Stamattina ad Agorà di Rai 3 a parlare di tante cose e a riparlare di Monte dei Paschi di Siena (MPS) (vedi sotto attorno al minuto 50).

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Parlare di cosa fare per MPS parrebbe a questo punto inutile dato che tutto sembra essere già deciso: il prezzo di MPS non è zero, il che significa probabilmente che il mercato da per scontato che arrivino i Monti bond.

Eppure quei soldi, quei 3 miliardi e passa di euro, quel maggiore credito nello Stato Patrimoniale della Pubblica Amministrazione, avrebbero potuto essere usati in altro modo, con lo stesso effetto sui conti pubblici. Per esempio riducendo i debiti della P.A verso le PMI.

Cosa sarebbe stato più utile?

Prima ancora di rispondere alla domanda, val la pena farsene un’altra: quali alternative avevamo per risolvere l’affaire MPS oltre ai Monti Bond?

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Ed è quello a cui ho accennato nella mia riposta ad Agorà. Potevamo lasciare la patata bollente in mano al MPS ed alla città di Siena. Cosa sarebbe successo in questo caso al MPS? Cosa avrebbe voluto dire ”lasciare la patata bollente”?

Probabilmente MPS avrebbe trovato un suo compratore, perché malgrado lo scarso valore di mercato il suo posizionamento rimane attraente per molti. Un compratore estero. Oppure nazionale, per esempio nuovamente la possibilità di Banca Intesa come alcuni anni orsono.  Oppure, in assenza di compratori o rifiutandosi di venderla, la città di Siena si sarebbe riunita in Piazza del Campo per decidere cosa fare della banca: se lasciarla morire (ovviamente con piena tutela dei depositi bancari assicurati dei risparmiatori) o se immettere nuovo capitale locale per avviare un nuovo ciclo, stavolta virtuoso, di banca “glocal”.

Queste ultime soluzioni avrebbe avuto 3 vantaggi: 1) liberare liquidità preziosa per lo Stato per farne altro, 2) dare il segnale a tutti che le banche che fanno errori non verranno salvate dall’intervento di Roma e 3) sensibilizzare una volta per tutte la cittadinanza senese sul fatto che se il Monte è in un qualche modo un bene pubblico locale, questo va tutelato dalle razzie di gente poco raccomandabile, in primis grazie all’occhio vigile dei cittadini.

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Mi è sembrato crearsi un gelo bipartisan quando, discutendo la questione potenziale della “nazionalizzazione” della banca ho messo sul tavolo queste opzioni ulteriori.

L’On. Tabacci mi ha ricordato il pericolo di una nuova Lehman Brothers. Immagino si riferisse al caso in cui, assente il Monti Bond, la popolazione senese – non trovando un compratore o non volendo vendere e non volendo ricapitalizzare - avrebbe lasciato morire il Monte. Un caso abbastanza improbabile e dunque difficile da immaginare. Per di più la banca senese è sì connessa con altre banche, ma mai quanto Lehman.

Fatte dunque le dovute considerazioni, a me, sinceramente, sarebbe parso ben più saggio usare i soldi in questione per rimborsare i debiti alle PMI. E lasciare che l’affaire MPS si sbrogliasse sul mercato o a Piazza del Campo. Parlare di nazionalizzare una banca già ampiamente “comunalizzata” è una contraddizione in termini. E il non avere percorso vie alternative al Monti Bond la dice lunga sulla voglia di tutti i partiti di non mollare un osso che pare prezioso: la storia dunque è destinata a ripetersi.

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Yes we Can si traduce anche in italiano

Il Colonnello Bortoletti, riferendosi ai dirigenti della sua squadra della ASL di Salerno, che fino al giorno del suo arrivo era una istituzione pubblica disastrata, ed è stata risanata in poco più di 1 anno: “sono saliti sulla nave“. E non ne sono più scesi, fino a quando, perlomeno, è rimasto il Colonnello.

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Post dedicato a chi non crede che si possa riformare l’Amministrazione pubblica facilmente in Italia, lo squadrone degli scoraggiati, delusi, cinici, pessimisti che preferiscono dire “abbattiamo lo Stato” piuttosto che dire “rifondiamo lo Stato”. Dedicato a tutti coloro che non vogliono vedere come Thatcher e Blair hanno fatto di una delle peggiori amministrazioni pubbliche occidentali – preda della parte burocratica del sindacato, preda di baroni universitari e fannulloni – uno scintillante civil service oggi a sostegno di imprese e cittadini. A tutti quelli che credono che “yes we can” lo possano dire solo negli Stati Uniti “perché lì sono diversi”. E dedicato anche a quelli che dicono, e non sono pochi, giù le mani dagli ospedali, dai tribunali, dalle scuole, dalle università, dai musei perché … funzionano bene. Senza capire che c’è sempre meglio che si può fare e che sappiamo fare.

Ma come? Chiedetelo al Colonnello Bortoletti ed ai suoi scoraggiati dirigenti divenuti coraggiosi marinai sul veliero in tempesta. Oppure chiedetelo a chi fa ricerca sul tema del ruolo dei “capi” nelle organizzazioni.

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Ecco l’ovvio che ci raccontano studi scientifici sul funzionamento delle organizzazioni, la loro produttività ed il ruolo dei “capi”: “una azienda può essere altamente produttiva … perché ha lavoratori produttivi, perché ha una tecnologia produttiva, o perché ha capi produttivi che migliorano la produttività dei lavoratori” (tradotto liberamente dal lavoro di Lazear, Shaw, Stanton). E non è facile separare questi aspetti per misurare il valore di ognuno.

Emergono dalla ricerca di questi studiosi  3 risultati: “primo, i capi contano… Sostituire un capo che sta nel peggior 10% come qualità di capo nel campione con uno nel top 10% aumenta il prodotto della squadra di lavoro dello stesso ammontare che si avrebbe aggiungendo un lavoratore ad una squadra di 10 lavoratori… Secondopoi, l’attività del capo è tale da lasciare effetti permanenti sulle abilità dei suoi lavoratori. Terzo, una allocazione efficiente richiede di destinare i capi migliori ai migliori lavoratori, perché i migliori capi aumentano la produttività dei lavoratori di alta qualità di più di quelli bassa qualità“.

Di tutti i risultati della ricerca, il terzo è quello che mi convince di meno. Capisco l’intuizione, ma temo che gli autori sottovalutino gli effetti di lungo periodo. Perché nel dinamico fare quanto suggerito porterebbe ad una forbice che si allarga nelle competenze creando quindi un circolo vizioso delle abilità con i meno bravi che con i peggiori capi diventano sempre meno bravi rispetto ai più bravi.

Ma gli altri due risultati sono tanto ovvii quanto potenti. Indicano la strada maestra per vincere la sfida del miglioramento della nostra pubblica amministrazione. L’eccellenza nella selezione dei dirigenti, arte difficile ma essenziale. Che i francesi sanno gestire in maniera eccellente, se non fosse che, appunto, hanno creato una nuova aristocrazia, un circolo chiuso in cui è difficilissimo penetrare. Un sistema di quote nell’arruolamento della dirigenza pubblica, con un gruppo consistente scelto tra i ranghi dei migliori provenienti da selezioni durissime ed un altro gruppo, una quota, proveniente da altrettante selezioni durissime ma riservate agli strati meno abbienti della popolazione potrebbe essere la soluzione più appropriata.

Sta di fatto che il punto chiave è semplicemente uno: via i partiti dalle selezioni pubbliche, dalle Asl ai Ministeri ai Comuni, con la creazione di un sistema formativo strutturato dall’asilo all’università per migliorare ognuno dei nostri ragazzi e dare lo sbocco nel pubblico ai più bravi e più volenterosi che lo desiderano senza che si trovino barriere all’ingresso nei concorsi. Difficile?

Beh lo fanno altri paesi, lo possiamo fare anche noi.

Dipende dal capo. Sì, sì avete capito bene: dal leader che ci sceglieremo per il nostro Paese. Una sua spinta forte, una presenza costante sul tema, una retorica tutta volta a questi temi farà tutta la differenza del mondo. Sì, si può.

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La rivoluzione negli appalti è un’altra cosa

Sono stato da più parti sollecitato a smentire/chiarire il contenuto del post de Linkiesta Confindustria punta alla centralizzazione degli acquisti ma per Piga, ex  Presidente CONSIP, sarebbe un disastro.

Secondo loro avrei detto: “Speriamo che abbiano imparato dai nostri errori – si riferisce agli  anni in cui il Professor Piga è stato presidente – e che la CONSIP  centralizzi un po’ meno perché uccide le piccole imprese. La CONSIP serve  soprattutto per centralizzare i dati e fare da benckmark di riferimento ma se fa  gare grandi è un disastro per il territorio”.

Secondo Linkiesta la mia frase cozza contro la previsione di Confindustria che nel suo Progetto per l’Italia chiede di “estendere agli enti territoriali l’obbligo di ricorrere alle convenzioni CONSIP per tutti gli acquisti di beni e servizi, ristrutturando profondamente il funzionamento della stessa CONSIP, grazie alla progressiva digitalizzazione della PA.”

Credo che la mia frase sia stata ben riportata. Magari direi più correttamente “perché uccide le piccole imprese se centralizza troppo”. Ma confermo: centralizzare troppo (i.e. fare gare troppo grandi) uccide le piccole imprese. Il rischio esiste sempre ma, in questa recessione, la tutela delle piccole imprese è essenziale. Spero vivamente che Consip non rifaccia gare grandi, anzi so per certo che non lo farà, perché ha imparato dagli errori del passato (che si fecero, lo ripeto, sotto la mia Presidenza). E dunque spero che il piano di Confindustria non sia seguito.

In una cosa Confindustria ha ragione: Consip va valorizzata molto di più. Magari dandogli quelle risorse che il Governo Monti ha previsto di levargli. Alla faccia della retorica sulla spending review, che in realtà non si è mai fatta.

Valorizzare Consip. Per fare cosa? Per fare gare “più piccole” di quelle di allora, ma fatte così bene da diventare benchmark di riferimento per tutta Italia, senza danneggiare le piccole imprese e lasciando autonomia ad altre stazioni appaltanti più vicine al territorio di appaltare. Consip ha tutte le professionalità per farlo. Lo fa già. Il suo marketplace per acquisti sotto soglia è inoltre una splendida realtà (che nacque anch’essa nei miei anni in Consip, ma esplose come successo più tardi) invidiata all’estero.

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Ma il Progetto di Confindustria ha torto anche per quanto non dice. Ben di più va fatto per assicurare una volta per tutte una rivoluzione nel mondo degli appalti pubblici a favore del Paese e del suo sviluppo.

La rivoluzione che i Viaggiatori chiedono al nuovo Governo di avviare richiede un profondo cambiamento culturale, altro che Consip e basta.

Una lotta senza quartiere alla corruzione negli appalti. Che non spetta a Consip. Una lotta senza quartiere alle collusioni e cartelli negli appalti. Che non spetta a Consip. Uno sforzo gigantesco per formare acquirenti pubblici competenti. Che non spetta a Consip. Un investimento gigante nell’organizzare le stazioni appaltanti attorno al raggiungimento del risultato, con enormi premi ed incentivi. Politica che non spetta a Consip. Compresa la riduzione del numero di punti ordinanti, da più di 10.000 a meno di 1000. E un investimento non gigantesco ma coraggioso nella centralizzazione informatica dei dati per ogni singola gara d’appalto ed una previa autorizzazione a contrarre legata alla verifica della bontà della commessa rispetto ad altre simili. Centralizzazione dei dati che può spettare a Consip ma meglio ancora se prevista nel nuovo Ministero della Qualità della Spesa Pubblica che richiediamo noi Viaggiatori.

Tutte cose mai fatte dai precedenti Governi.

E, last but not least, qualcosa che Confindustria non sottoscriverebbe mai, l’obbligo di riservare il sotto soglia negli appalti pubblici alle PMI europee. Una norma semplice semplice da far tremare i polsi. Non in America, dove si riserva il 23% degli appalti alle PMI in nome della concorrenza (come d’altronde si fa in Cina e Brasile).

Progetti, Agende? Perché no. Ma i Programmi sono ben altra cosa, specie quando riescono a battersi per rappresentare gli interessi di quegli attori meno tutelati eppure tra i più dinamici di una collettività. Tenetelo a mente quando dopodomani leggerete il Primo Programma per l’Italia dei Viaggiatori.

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La semantica italiana anticorruzione aiuta la corruzione

Eccomi al bel convegno su Corruzione nella Sanità.

Prende la parola Taryn Vian, Professoressa della Boston University per la sua bella lezione di apertura sul tema.

Il coordinatore della giornata la introduce come “esperta di corruzione”. Lei sorride e elengantemente schiva il colpo e ricorda di essere piuttosto una esperta di … anticorruzione. Penso tra me e me che spesso mi accade, in queste occasioni, suscitando l’ilarità generale, di giocare su questa ambiguità semantica.

La giornata passa tranquilla e interessante. Si succedono gli interlocutori. E le parole. E la semantica.

“Mentalità diffusa di corruzione…”

“Clima di sfiducia …”

Solo il Colonnello Bortoletti, di cui vi ho già parlato in questo blog, scuote questo pessimismo, chiedendo di cessare di parlare male di noi stessi, curioso male italico osservato da tanti stranieri che hanno la fortuna di imbattersi nella nostra cultura.

E allora qualcosa scatta in me. Guardo al mio discorso, fila tutto, è perfetto e sono pronto a parlare. Eppure lo strappo. E’ buono per un’altra occasione, non ora.

Ho altro da dire oggi.

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Che sono stato chiamato qui a parlare di quali strumenti utilizzare per combattere la corruzione negli appalti della sanità. Che però questi strumenti hanno una forza che non gli è propria e che dipende dalla forza della collettività che gli sta alle spalle, a sostegno. Un’Autorità Anti Corruzione è un strumento la cui bontà dipende dalla qualità del suo Presidente che a sua volta dipende dalla forza che lo ha sospinto al vertice: in un ambiente prono alla corruzione è probabile che questa Autorità abbia un Presidente corrotto o che faccia poco contro la corruzione, mentre tanto potrà se la società ha spinto con successo per una nomina di persona forte e competente.

E che molti sono i fattori secolari che incidono sul grado di corruzione in una società, sulla sua pervasività. E che su questi oggi non mi soffermerò, se non su uno, stimolato dalla semantica dei relatori odierni che mi hanno preceduto: il ruolo della semantica, tutta italiana, sulla corruzione.

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Perché la corruzione ha questo di peculiare, che per dire la stessa cosa si possono usare semantiche diverse. E che, forse, la scelta di quale semantica utilizzare non è neutrale per un’efficace battaglia per sconfiggerla.

Insomma, se introdurre un’esperta di anticorruzione come esperta di corruzione non cambierà il mondo, il mondo potrebbe cambiare se non sappiamo approfittare di questa discrezionalità letterale che abbiamo quando parliamo di corruzione.

Qualche esempio sarà utile.

Quando interpretiamo i dati e vediamo che i reati (o le denunce) di corruzione, per esempio, crescono, come dovremmo comunicare questa notizia? La verità è che non sappiamo cosa significhi questo dato. Potrebbe essere una buona o una cattiva notizia. Una cattiva notizia perché potrebbe voler dire effettivamente che le cose stanno volgendo al peggio, con un maggiore ricorso a tangenti e condizionamenti. Ma maggiori denunce potrebbero voler dire anche che il Paese, il nostro bellissimo Paese, sta crescendo nella sua capacità di contrastare la corruzione, tollerandola di meno, sostenendo maggiormente chi denuncia, proteggendolo. E siccome non sappiamo quale delle due spiegazioni è quella vera, quale semantica adottiamo? Tiriamo una monetina?

La relatrice del Censis, nel descrivere il clima del Paese tramite un sondaggio, mostra come il sentimento chiave è quello della “rabbia”. La relatrice che segue poco dopo menziona il dato, ma parlando di “sfiducia”. No, la rabbia non è sfiducia. La rabbia ha un contenuto meno stanco, più costruttivo, della sfiducia. Ma ha detto sfiducia, chissà perché.

Nei sondaggi mostrati da un altro relatore appare come il 63% degli italiani è convinto che la corruzione possa essere sconfitta, contro il 67% dei francesi ed il 72% di chissà chi. Il dato viene commentato come una sconfitta. Mi chiedo perché. In fondo, 63% è una splendida maggioranza per vincere la battaglia. Potremmo dunque essere fieri di questo risultato. Ma no.

Pochi mesi fa ero ad un’ambasciata, ad un seminario organizzato per discutere come in Italia e nel paese di quella ambasciata si affrontavano la corruzione e la lotta agli sprechi. L’ambasciatore aveva invitato un famoso editorialista di un famoso quotidiano italiano per descrivere la situazione del nostro Paese. Slide dopo slide, esempio dopo esempio, Fiorito dopo Fiorito, enunciava ai basiti ospiti stranieri le pecche del nostro Paese, ridicolizzandolo. Guardavo attonito le slide ed i sorrisini degli ospiti stranieri, appena trattenuti e dunque gigantesche risate. Avrei strozzato il giornalista. Chissà perché. In fondo, era tutto vero. Eppure, pensavo, il fatto che tali cose erano uscite allo scoperto era un segno che il mio Paese le aveva scoperte, esumate, condannate, anche solo mediaticamente. Un vanto, forse, non una pecca. E comunque, chi può dire se vanto o pecca?

Al Ministero degli Interni non potranno fare più gare come quelle che hanno fatto sinora, grazie alla denuncia del corvo. Che dico, di quell’eroe ancora anonimo che ha rischiato la sua vita per denunciare l’indenunciabile.

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La corruzione, scusate l’anticorruzione, è tema che può essere affrontato con due semantiche opposte senza tema di smentite. Dunque quale val la pena adottare?

Una semantica positiva ha un costo, forse, quello di adagiarsi, di dirsi “va tutto bene, la corruzione non è un problema”. Ma, se ben strutturata, una semantica positiva incoraggia. Incoraggia chi è solo a sentirsi meno solo, meno anomalo. Incoraggia all’azione, perché se funziona possiamo continuare, forse funzionerà di nuovo.

Una semantica negativa è, forse, solo narcistica, un compiacimento perverso, pigro, che chiama all’inazione, al fare di tutta l’erba un fascio.

Io credo che Fiorito sia sempre esistito e sempre esisterà nel nostro Paese, ed altrove. Credo tuttavia che ci siano stati lunghi periodi della nostra storia in cui questi Fiorito siano rimasti nell’ombra, troppo potenti per essere giudicati, troppo ammirati per essere contestati, troppo temuti per essere denunciati. Non più ora.

Altri Fiorito rimangono nell’ombra, ma non questo.

Il che significa che dobbiamo essere fieri di quanto stiamo facendo e dobbiamo, sulla base di questa fierezza, concentrare tutte le nostre energie sull’esumare nuovi Fiorito. Con la incredibile forza dietro di ognuno di noi quell’incredibile 63%. Fieri e determinati, mai depressi e mai arresi, contro la corruzione.

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L’unione politica europea è fuori dalla Storia, l’unione culturale è fuori dal dibattito

“L’Europa è in punto di morte… l’Europa come idea. L’Europa come sogno e come progetto.”

“Si decompone ad Atene, una delle sue culle, nell’indifferenza e nel cinismo delle nazioni sorelle.”

“Si decompone a Roma, un’altra delle sue culle … la fonte romana inquinata dai veleni di un berlusconismo che non smette di finire”

“Si decompone per l’interminabile crisi dell’euro… Il teorema è implacabile. Senza federazione, non c’è moneta che tenga. Senza unità politica, la moneta dura qualche decennio, poi, con l’intervenire di una guerra, di una crisi, si disgrega. In altre parole, senza progresso dell’integrazione politica … senza abbandono di competenze da parte degli Stati-nazione e senza una franca sconfitta, quindi, dei sovranisti che spingono i popoli a ripiegarsi su stessi e alla disfatta, l’euro si disintegrerà come si sarebbe disintegrato il dollaro se i sudisti avessero vinto, 150 anni fa, la guerra di secessione.”

Tra i firmatari dell’appello: Umberto Eco, Bernard Henri Lévy, Claudio Magris, Salman Rushdie.

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Che meravigliosa prospettiva, la cultura europea che si unisce per resuscitare il sogno europeo.

Che curioso salto logico, per degli uomini di cultura, quello di pensare che senza unità culturale possa esserci una unità politica. Che con l’indifferenza e cinismo di oggi si possa magicamente costruire, a tavolino, come in un terrorizzante esperimento sociale, l’altruismo federato.

Che errore di valutazione quello di pensare che i sovranisti spingano i popoli a ripiegarsi su se stessi e non piuttosto a orgogliosamente rivendicare un ruolo nella costruzione europea.

Che il dollaro sarebbe morto con la vittoria del Sud è non capire la radice alla base di una unione di popoli diversi. Il dollaro sarebbe rimasto ben vivo, intriso di valori confederali del Sud, scrivendo semplicemente una storia diversa, ma scrivendola.

La guerra civile americana racconta una sola cosa: la necessità del confronto, sperabilmente non estremo, tra popoli diversi è l’unico modo di procedere verso una unione politica.

Ecco perché conta dire, certo, che l’Europa si disintegrerà se si disintegra l’euro, ma conta di più spiegare perché ciò avverrebbe.

Non perché, come invece sostengono gli intellettuali firmatari dell’appello, alla disgregazione della moneta unica seguirà “regressione sociale, precarietà, esplosione della disoccupazione, miseria” (è possibile anzi che le cose migliorino a medio termine senza euro, vista la pessima politica economica che ha accompagnato sinora la moneta unica) ma perché verrà a mancare un dialogo culturale, teso ed a volte dal volto violento quanto si vuole, che genera infine comprensione e poi ancora solidarietà reciproca. E che costituisce la sola precondizione per la cessione volontaria di sovranità, a sua volta pre-condizione di una vera democrazia europea che invece imploderebbe dopo pochi anni con una unione politica imposta dall’alto.

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Il battito d’ali delle farfalle e il tornado MPS

Può il batter d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?

Edward Lorenz.

Sì.

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Nella sua lunga lista di responsabili del  tornado Monte dei Paschi (MPS), Sergio Rizzo dimentica i veri responsabili, la farfalla iniziale che ha scatenato il tutto.

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Per quel poco che son riuscito a capire (ogni volta che sento la parola derivati e governi provo una istintiva repulsione  a leggere oltre) mi pare che una delle transazioni chiave tra mercati ed MPS sia esattamente identica nella sua struttura a quella che analizzai nel mio libro del 2001 tra un governo europeo e una banca d’affari e che così tanto scandalo, per 1 giorno, causò.

Il governo in questione aveva bisogno di drogare il suo “profitti e perdite” con un entrata “fittizia” per mascherare una perdita (un deficit di bilancio). Ci riuscì grazie alla contabilizzazione di una entrata di cassa ricevuta dalla banca d’affari, legata ad un derivato strutturato ad arte, che prevedeva tuttavia nel tempo un costoso ripagamento alla controparte privata estera, a danno del contribuente. Come capite bene, in realtà questo incasso non era altro che un debito, non un ricavo: e come tale andava contabilizzato. Non lo fu. Il Governo in questione ne beneficiò. Non necessariamente i suoi azionisti, i cittadini e contribuenti.

Così, analogamente, MPS ha coperto una perdita che voleva mascherare con un prestito via derivati, che ora si trova a ripagare caro, non avendo contabilizzato il prestito nello stato patrimoniale come passività, ma nel suo profitti e perdite come un ricavo.

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Quella transazione di quel Governo europeo è stato il battito di farfalla che, 12 anni dopo la mia denuncia, sta causando  il tornado MPS di cui leggete oggi sui giornali.

Non necessariamente avrebbe dovuto essere un battito tale da causare il tornado. Ma lo fu, a causa di 2 complici che vennero meno al loro dovere e potere di prevenirlo.

Perché, mi direte? E chi?

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Perché dopo quella transazione che denunciai non avvenne nulla. Nulla.

Né la Commissione europea, né la BCE, né Eurostat, che erano ben al corrente di tali pratiche fecero nulla per indagare e denunciare il caso pubblicamente. Peggio ancora, aspettarono il 2008 per muoversi pigramente e ammettere che forse transazioni di quel tipo che truccavano i bilanci dei Governi non andavano autorizzate. Ancora oggi, la BCE non rivela la natura di un altro derivato, ben più drammatico di quello che analizzai io, tra Grecia e Goldman Sachs.

Nessuno, dico nessuno, nella stampa si è sognato di indagare sulla transazione in derivati che denunciai nel 2001. Nessuno, a parte Bloomberg, si è azzardato a denunciare l’immorale scelta della BCE di non rivelare nulla sulla transazione greca.

OK, mi direte, ma cosa c’entra con il Monte dei Paschi tutto ciò?

C’entra eccome. C’entra.

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La stampa omertosa è stato  il battito d’ali numero 1 della tempesta MPS. I suoi silenzi complici col potere, caro Rizzo che credo difende inutilmente la sua categoria, hanno reso questi Governi arroganti e capaci di attuare tutti i trucchi del mondo senza essere nemmeno questionati.

E se i Governi fanno trucchi contabili con i derivati e nascondono l’informazione rilevante, come non pensare, come dubitare che qualsiasi operatore privato, magari a conoscenza di quegli stessi trucchi, non si sia sentito nella condizione di fare “legittimamente” altrettanto?

I governi europei e le loro istituzioni, specie la BCE, hanno creato il clima affinché queste scandalose operazioni potessero avvenire. Sono stati il secondo batter d’ali, quello più devastante.

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A me vien da sorridere quando sento Zingales proporre come soluzioni:

a)  ”introdurre quel premio per i denunzianti civici che da anni vado proponendo. Se ci fosse stato un premio di svariati milioni a chi denunciava grosse irregolarità nel bilancio, pensate forse che nessun dipendente di Montepaschi si sarebbe fatto avanti per rivelare il contratto segreto?”

Ma lo sa Zingales qual è il rischio che in Italia avrebbe corso un dipendente MPS da solo a rivelare tutto ciò in tempo? Nemmeno i 220 milioni di euro sarebbero bastati come premio per  compensarlo della perdita della vita che andava a rischiare.

b) “Per evitare che questo succeda è necessaria la massima trasparenza. Per questo io assoggetterei la validità di un derivato alla controfirma della società di revisione, che così si assume la responsabilità che questi contratti siano riportati correttamente in bilancio.”

Ma lo sa Zingales, senza ricordargli di Enron, di quanto sia facile in questi ambienti catturare una società di revisione? Lo sa?

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Come risolvere dunque per sempre questa piaga dei derivati e dei trucchi di bilancio che sconvolgono le società moderne con crescente frequenza? Solo con un’azione credibile e vincolante dei Governi. Ma cosa chiedere ai governanti? Tre cose veramente difficili da digerire per la classe dirigente europea dominante. Ma proviamo a dirle.

1) Chiedere al prossimo Governo italiano di fare, appena insediato, quello che non ha fatto nessun Governo sinora: rendere pubbliche tutte le transazioni di derivati ancora esistenti nel libro derivati del Governo italiano;

2) Chiedere alla BCE di rivelare una volta per tutte le transazioni tra Grecia e Goldman Sachs;

3) Impedire che l’Agenzia di Vigilanza Bancaria Europea sia concentrata presso la BCE ma sia piuttosto affidata ad un ente europeo autonomo senza la presenza delle banche centrali all’interno della sua governance. Perché se c’è qualcosa che dobbiamo imparare dal fallimento della vigilanza bancaria italiana in questo caso MPS è che le banche centrali (come diciamo in questo blog da tempo) saranno sempre troppo vicine ai soggetti da regolare. Così è stato a Via Nazionale, così sarà a Francoforte. Per evitare di dire tra 3 o 4 anni, “che scandalo, la vigilanza europea in mano alla BCE non funziona!”.

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12 anni di politica economica, in percentuale di PIL, non in euro

Mi ero ripromesso di parlarvi di ben altra analisi economica (grazie a Stefano) sulle politiche fiscali di questo ultimo decennio: quella svolta da un attore importante di quegli anni, direttamente coinvolto, come viceministro del Ministero dell’Economia nel quinquennio berlusconiano 2001-2006, Mario Baldassarri sul Corriere.

Io che in quegli anni gli ero molto vicino anche sul piano lavorativo mi ricordo di quando elaborò il primo ed unico DPEF di quel Governo che risentisse di una forza ideale. Ero lì accanto a lui quando scrisse “-1% di PIL ogni anno di spesa e tasse, per 5 anni”. Una piattaforma vincente. La riduzione della spesa? Riduzione di sussidi alle imprese e soprattutto di spesa per acquisti di beni e servizi. E poi andai magicamente in Consip, grazie al suo sostegno, e la mia vita cambiò per sempre. Ma perdemmo su tutti i fronti. Lui contro Tremonti, io fui gentilmente non rinnovato dopo un triennio di presidenza. Ma, come sempre, l’importante non è vincere, è avere combattuto, prendendone e dandone. E Dio sa se combattemmo. Anni incredibili, anni formativi oltre ogni misura, anni indimenticabili, anni di amici veri che ci sono ancora, tutti a credere, da allora, che una pubblica amministrazione efficiente sia a portata di mano. Se solo …

Ecco, il Baldassarri di allora ragionava così, come fanno i Viaggiatori oggi nel loro programma: in percentuale di PIL, non in euro. Tagliare o aumentare di 1 euro le tasse vuol dire poco, se si vuole capire la qualità di una politica economica. Dipende da quanto più ricchi o più poveri sono diventati gli italiani nel frattempo. E quindi quell’euro va rapportato alla capacità contributiva di pagare le tasse, ovvero dal PIL e dal suo andamento. Così per la spesa pubblica. Una cosa è spendere 10 euro in un Paese che ha un PIL di 10 euro, una cosa in un Paese che ha un PIL di 100 euro. La spesa pubblica, la dimensione dei servizi pubblici che vengono forniti ai cittadini, ha un senso misurarla solo rispetto alla capacità delle imprese e dei cittadini di generare ricchezza alla quale si accompagnano, appunto, i consoni servizi sociali per il tenore di vita prevalente in quel Paese. Ha poco senso un PC per dipendente pubblico in un Paese in cui nessuno ha un PC, molto di più in Italia.

Oggi Baldassarri però non ragiona più in percentuale di PIL, ma in euro. Ora schierato con il Governo Monti, giustamente fa il suo mestiere di politico e cerca di mostrare con dovizia di argomenti che Monti è stato – tra i premier di questo secolo – il meno invasivo quanto a tasse e spesa:

il centro destra di Berlusconi-Tremonti (dal 2001 al 2006 e dal 2008 al 2011) ha aumentato le tasse … di 22 miliardi l’anno… e la spesa pubblica di 26, … Prodi e Padoa Schioppa (dal 2006 al 2008) … di 26 miliardi … e la spesa pubblica di 14,5, nell’anno del governo Monti … di 20 miliardi … e la spesa pubblica di 7 miliardi”.

Conclude: “è allora ancor più demagogico e privo di fondamento numerico attribuire ai 12 mesi del Governo Monti la forte caduta del reddito e dell’occupazione che stiamo soffrendo. Questa grave situazione non si è prodotta in un anno ma, purtroppo per tutti, è il risultato di oltre 10 anni di mancate riforme strutturali”.

Non c’è dubbio che sia demagogico attribuire a Monti la colpa della crisi di lungo periodo in cui versa il Paese. Meno demagogico attribuirgli una buona dose della forte caduta del reddito e dell’occupazione attuale, una volta inserite queste nel contesto europeo assurdamente austero che Monti ha quanto meno subito passivamente.

Ma, al di là delle riforme, scarse nel Governo Monti come in quelli guidati dai predecessori, e tornando a noi: chi e quali responsabilità dobbiamo attribuire ad ogni singolo governo di questo secolo una volta che più correttamente guardiamo a come sono variati nel tempo non spesa e tasse ma queste in rapporto al PIL?

Il quadro che emerge dalla tabella sottostante si basa sulle seguenti assunzioni (contestabili): che ogni Governo eletto in un determinato anno prende in eredità per quell’anno le performance e le grandezze economiche del governo che ha votato la finanziaria dell’anno precedente. Così, per esempio, se vogliamo giudicare il Governo Berlusconi del 2001-2006, presupporremo che i numeri del 2001 non possono essergli attribuiti, in quanto “decisi” dal governo dell’anno precedente, e che la sua prima performance sarà misurata dai dati dell’anno successivo alla sua entrata in carico, il 2002 in questo caso.

Riassumiamo: i dati 2001 sono responsabilità del Governo Amato in carica nel 2000; il Governo Berlusconi (tondo blu) si misura dalla sua performance con il cambiamento che avviene tra il 2001 ed il 2006, anno in cui lascia il potere al Governo Prodi (quadrato rosso) che a sua volta viene misurato da come riesce a variare i dati dal 2006 al 2008. Il Berlusconi bis, che arriva nel 2008, si giudicherà dal cambiamento che genera tra 2008 e 2011. Il Governo Monti (quadrato bianco) dal cambiamento tra 2011 e 2012 (dati 2012 stimati). Ovviamente tenendo conto anche dell’andamento dell’economia di quegli anni, che viene influenzato anche da fattori esterni come l’andamento dell’economia mondiale e le annesse crisi.

Cosa emerge dai dati di cui sopra? Alcune cose evidentissime:

1)    Uno sciagurato aumento della spesa pubblica dal 46,2% al 48,1% (non compensato da aumenti di tassazione) del PIL da parte del Governo Amato in anno elettorale, con l’economia in piena crescita che dunque non necessitava di tale aumento. Ma alla tentazione elettorale nessuno ha resistito meno del suo Governo. E questo aumento ha lasciato una cicatrice profonda che con tutta probabilità ci portiamo ancora appresso. Voto: 4.

2)    Il Primo Governo Berlusconi (2001-2006), in cui albergava anche il Sen. Baldassarri, ha aumentato sì tasse (meno) e spesa pubblica (di più) in percentuale del PIL ma ben meno di Amato. Ma quello che appare evidente è l’incredibile fallimento della sua promessa di -5% di spesa e tasse vergata da Baldassarri (prima ed ultima volta responsabile della sua stesura) nel primo DPEF. E Dio sa se le condizioni dell’economia (pre-crisi) non fossero propizie ad una tale strategia. Voto: 5.

3)    Il Governo Prodi (2006-2008) ha anche lui aumentato sia le tasse (di più) che le spese (di meno). La crisi non era ancora arrivata, ma a suo discapito una maggioranza ben più invisibile di quella a disposizione del Berlusconi di cui sopra. Voto: 6.

4)    Quando arriva il nuovo governo Berlusconi (2008-2011), il mondo è cambiato. La crisi impera (guardate la colonna del tasso di crescita del PIL). Che le tasse aumentino poco e che le spese crescano molto in crisi è semplicemente il frutto della non austerità allora prevalente (ah che tempi…) ma anche del dolce far niente del Governo in carica che, quasi unico Governo nell’area occidentale, non usò la leva fiscale discrezionale per combattere la crisi. Senza voto, perché anche una politica non austera in tempi di crisi ha bisogno di un premier austero e dignitoso nei comportamenti per poter essere ben valutata.

5)    E poi arriva Monti. E fa l’incredibile. Non tanto nella spesa pubblica, che segue l’orrido dolce non far niente berluscon-tremontiano, invece di combattere la crisi con spese discrezionali che avrebbero arrestato l’emorragia di PIL e fatto diminuire il rapporto debito PIL. No, con l’incredibile aumento, in una delle peggiori crisi della nostra storia repubblicana, delle tasse del 2,3% del PIL, portando queste al livello più alto del secolo e contribuendo così al crollo dell’economia e al salto verso l’alto, inarrestabile, a quanto pare, del rapporto debito-PIL. Voto: 6 politico.

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Stimo il Sen. Baldassarri e ammiro la sua capacità – unica – di capire i dati del bilancio pubblico e le loro dinamiche. La politica essendo la politica ammiro anche la sua capacità di trovare interpretazioni verosimili.

Ma non vere. La verità è che questo sciatto XXI° secolo ha scritto una delle più desolanti pagine di politica economica che è stata data vedere. E che il Paese ha bisogno di altro, ben altro, per rinascere. La buona notizia? Si può fare.

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Cameron Braveheart e quell’Europa che va cambiata

Ecco quello che mi è piaciuto di più del discorso del Primo Ministro britannico Cameron, che ha parlato alla sua nazione ed all’Europa del futuro del Regno Unito, se fuori o dentro l’Unione europea.

1. La retorica. Quanto mi piace ascoltare un politico che tenti di emozionare le sue truppe. E non c’è dubbio che gli anglosassoni siano proprio bravi a farlo, altro che i nostri politici. Ogni volta mi emoziono, come in questo splendido passaggio di Braveheart, scozzese nemico acerrimo della tirannia inglese, scusate ma non resisto a farvelo rivedere.


 
E poi questi passaggi (tratti da Discorso PM Cameron – Regno Unito e Unione Europea – versione italiana, traduzione di cortesia dell’Ambasciata britannica a Roma).

2. Voglio che l’Unione sia in prima linea negli accordi commerciali trasformativi con gli Stati Uniti, il Giappone e l‟India, per contribuire ad andare verso il libero scambio globale. E voglio che facciamo pressioni per esentare le piccole imprese europee da ulteriori direttive UE.

Ma perché solo il Regno Unito pensa alle piccole imprese? Perché nessun Presidente del Consiglio italiano oserebbe mai esplicitamente menzionarle? Quale supponente tara genetica lo impedisce?

3. Il mio quarto principio è la responsabilità democratica: dobbiamo prevedere un ruolo più importante e significativo per i parlamenti nazionali. Non c’è, a mio parere, un unico popolo europeo. Sono i parlamenti nazionali la fonte autentica della vera legittimazione e responsabilità democratica nell’UE, e continueranno ad esserlo. È al Bundestag che Angela Merkel deve rispondere. È dal Parlamento greco che Antonis Samaras deve ottenere l‟approvazione per le misure di austerità del suo governo. È al Parlamento britannico che io devo rendere conto sui negoziati per il bilancio dell’UE, o sulla tutela della nostra posizione nel mercato unico. Questi sono i Parlamenti che incutono vero rispetto, e persino timore, nei leader nazionali. Dobbiamo riconoscere questo nel modo in cui l’UE agisce.

Ora i Viaggiatori nel loro programma vogliono, come Cameron, una Commissione europea che tenda a sparire. Per cedere il passo, diciamo noi, ad una sovranità europea guidata dal Parlamento europeo, di cui Cameron non parla proprio. Cameron invece parla del suo Parlamento, quello nazionale. Eppure l’enfasi sul ruolo dei Parlamenti nazionali non può che emozionare.

Forse per il riferimento sottile ad uno scatto di orgoglio necessario per i nostri cugini greci, a riprendersi in mano il filo della democrazia strappato dalle troike della stupida austerità? Forse per l’invidia che provo al pensiero che nel Regno Unito vi sia un Parlamento che incute timore e non un Parlamento tagliato fuori dai giochi?  Forse per la speranza che l’obbrobrio di democrazia di quest’ultimo anno in Italia, in cui il Fiscal Compact e le modifiche della Costituzione sono stati imposti e non discussi, nascosti e non dibattuti, sia per sempre archiviato come un incubo che non si ripeterà più, e la cui cicatrice possa svanire al sole di una nuova era di partecipazione collettiva?

Forse.

4. Dovremmo prendere attentamente in considerazione anche l’impatto sulla nostra influenza sui vertici degli affari internazionali. Non c’è alcun dubbio sul fatto che siamo più potenti a Washington, a Pechino, a Delhi perché siamo un giocatore importante all’interno dell’Unione europea.

Nessuno tocchi l’Europa. Perché se non sei al tavolo delle decisioni, sei sul menu. Chi legge questo blog sa quanto credo sia vera questa frase.

Ma ce n’è una ancora più vera. L’ha pronunciata, di nuovo, Mr. Cameron.

5. Dovremmo pensarci molto attentamente prima di abbandonare quella posizione. Se lasciassimo l’Unione europea, lo faremmo con un biglietto di sola andata, non di andata e ritorno.

Ecco un’altra gran bella verità. Quando uscite da una Unione, non si torna più indietro. Perché i rapporti si lacerano e ci vogliono decenni, forse secoli, prima che qualcosa del passato possa essere recuperato.

Così da sempre su questo blog dico che la stessa cosa vale per l’euro: una volta usciti, non si tornerebbe più indietro. Sarebbe un biglietto di sola andata. E io sarò pure Viaggiatore, ma il nostro simbolo è un ponte e non ci tagliamo i ponti dietro di noi, li costruiamo. Questo simbolo lo abbiamo scelto anche per dire che vogliamo sempre avere la possibilità di ritornare a casa dopo un lungo viaggio.

E la nostra casa, senza avere i dubbi che si pone legittimamente Mr. Cameron assieme ai suoi concittadini, è l’Europa. Da rifondare, certamente, specie nei suoi processi di rappresentanza democratica e nel suo scarso afflato verso una maggiore solidarietà. Da rifondare, lo speriamo, pragmaticamente anche assieme ai coraggiosi guerrieri britannici.

E, rifondata, sempre più casa nostra sarà.

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Il fisco dei viaggiatori

Ieri su Affari e Finanza con Mauro Marè.

L’articolo di Alberto Bisin solleva questioni condivisibili, richiama l’urgenza di una riforma fiscale in Italia per troppo tempo rimandata. La questione però è come realizzarla e come finanziarla, concretamente.

Il punto di partenza è che il livello del prelievo fiscale in rapporto alla ricchezza del Paese non solo è ormai troppo elevato ma, in un perverso operare, incide proprio sulla capacità di crescita del Paese. Un primo ragionare concreto, ossia coerente con il contestuale miglioramento dei conti pubblici, è dunque se sia possibile riorientare il sistema fiscale per favorire la crescita economica, senza turbare l’equilibrio del contratto sociale italiano con un ulteriore aggravamento delle disuguaglianze, fatto questo che si ripercuoterebbe sulla stabilità del Paese e dunque sulla sua attrattività per gli investimenti.

La risposta è: certo. La proposta per l’Italia della nostra Associazione dei Viaggiatori in Movimento indica concretamente come.

Innanzitutto, è possibile e necessario modificare la composizione delle entrate (tax mix) con uno spostamento del prelievo dalle imposte dirette (lavoro e impresa) a quelle indirette e sui patrimoni. Come dimostrano in modo robusto sul piano empirico alcuni lavori recenti Ocse e FMI e la storia dei paesi dell’Unione Europea nell’ultimo decennio, uno spostamento da Irpef e Ires verso le imposte sui consumi e quelle ordinarie sui patrimoni (entrambe sono le imposte meno distorsive), anche a parità di gettito, può stimolare la crescita e rendere la posizione del nostro paese più competitiva.

Il recupero di gettito che si avrebbe con il prelievo sui consumi andrebbe ovviamente restituito alle famiglie non solo per la crescita ma anche per neutralizzare la regressività dovuta all’aumento dell’Iva: ad esempio, più che con una riduzione delle prime due aliquote Irpef – costosa perché beneficerebbe tutti i contribuenti – con un potenziamento delle detrazioni che maggiormente riguardano i redditi bassi, quelle legate ai bisogni fondamentali delle famiglie – quelle per reddito da lavoro dipendente, pensioni e per carichi familiari.

Tale potenziamento può essere ulteriormente rafforzato, senza mettere a repentaglio i conti pubblici e migliorando l’equità sociale, con la semplificazione del sistema tributario e l’allargamento delle basi imponibili tramite una drastica revisione del regime delle tax expenditures che appaiono spesso vere e proprie forme di sussidio a lobby e gruppi di interesse.

Tanto basterebbe al Paese per avviarsi verso una concreta riduzione della pressione fiscale a parità di gettito, grazie a una forte spinta alla crescita economica che viene dallo stimolo a investimenti e consumi.

Si può fare ancora di più concretamente? Certo. Individuare gli sprechi che vera spesa pubblica non sono, ma meri e costosi trasferimenti da onesti a corruttori, tramite una seria cabina di regia su appalti ed acquisti. Altro è possibile fare in materia di pensioni e sanità.

Ci sono altre risorse per un’ulteriore riduzione del prelievo? Si ma non con disavanzo o debito; resta allora ciò che si può ricavare da vendite mobiliari e immobiliari, dal recupero dell’evasione fiscale e da un piano di revisione della spesa – che però nelle diverse proposte resta ancora molto fumoso e trascura la qualità dell’amministrazione pubblica e le sue capacità organizzativi e manageriali.

Che fare di queste risorse addizionali? Chiedetelo al capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard, che di recente ha spiegato come lo stimolo di maggiore (e vera) spesa pubblica sia ben più espansivo in questa recessione di una riduzione delle imposte, che famiglie ed imprese risparmiano e non spendono.