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Derivati del Tesoro: la palla passa a Monti.

Qualcosa si muove nella storia dei derivati del Governo italiano e della spesa di 0,15% di PIL, di spesa per perdita sugli stessi derivati con la banca Morgan Stanley.

Fa bene Alessandro Penati a rimarcare su Repubblica come il Sole 24 Ore “non si sia accorto” della questione e della cripticità con la quale il Corriere della Sera abbia coperto una storia di questa rilevanza. “Voglia di minimizzare?” si chiede Penati. Basta con una stampa di questo tipo. Basta.

Parla di “punta dell’iceberg” Penati, chiedendo che sia data informazione di tutti i contratti e delle controparti coinvolte. Concordiamo. E che poi siano liquidate tutte le posizioni e che il Tesoro italiano smetta di fare derivati, astenendosi come fanno alcuni Governi tra cui quello statunitense. Non siamo certi che questa sia necessariamente la giusta scelta: molti Governi usano con intelligenza questi strumenti e ne traggono vantaggi per la collettività, senza specularvi ma gestendo meglio il rischio. Ma lo fanno con trasparenza.

Un miracolo è comunque avvenuto giovedì. In audizione alla Camera il Sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi Doria ha chiarito alcuni aspetti della questione a fronte dell’interrogazione parlamentare di alcuni onorevoli che riportiamo in calce. Un raggio di sole flebile nella cantina più scura d’Italia. Fa sorridere che sia un Sottosegretario all’Istruzione ad istruire il popolo italiano al riguardo leggendo una nota scritta con tutta probabilità dal Ministero del’economia e delle finanze. Cosa avrebbe detto se fossero proseguite le domande dei parlamentari, trovandosi sprovvisto di altri testi da leggere?

Ma riportiamo qui i passaggi chiave della risposta all’interrogazione:

“Signor Presidente, con l’interpellanza urgente l’onorevole Borghesi ed altri pongono quesiti in ordine alla reale composizione del debito pubblico italiano…  Ad oggi il nozionale complessivo di strumenti derivati a copertura di debito emessi dalla Repubblica italiana ammonta a circa 160 miliardi di euro, a fronte di titoli in circolazione, al 31 gennaio 2012, per 1.624 miliardi di euro. Quindi, il nozionale ammonta, per rispondere alla domanda, a circa il 10 per cento dei titoli in circolazione. Degli strumenti derivati in essere circa 100 miliardi sono interest rate swap, 36 miliardi cross currency swap, 20 swaption e 3,5 miliardi degli swap ex ISPA. I 36 miliardi di euro di nozionale dei cross currency swap corrispondono alla quasi totalità dei titoli emessi nel corso degli anni in valuta non euro, sotto il programma delle missioni internazionali. Pertanto, la quasi totalità delle missioni estere sono state coperte dal rischio valutario.

Al lettore parrà irrilevante questo passo o tecnicamente noioso, ma sappia che è la prima volta che possiamo venire a conoscenza di questa situazione dei derivati del Governo italiano.  Immaginate Indiana Jones davanti all’Arca, così rimangono gli esperti che da anni chiedono luce, quando leggono di questi dati.

160 miliardi di euro non devono tuttavia essere i numeri a cui il contribuente italiano si dovrà interessare: sono ammontari di riferimento che non vengono (generalmente) scambiati tra le controparti all’inizio del contratto derivato. Gli scambi rilevanti sono quelli che avvengono durante la vita del contratto o, appunto, ad eventuale chiusura anticipata del contratto, come è avvenuto nel caso particolare di Morgan Stanley, quando si scambia il valore di mercato del derivato dalla controparte “perdente” (in questo caso l’Italia) a quella “vincente” (in questo caso MS).

Conoscere quotidianamente il valore di mercato di quei 160 miliardi significa conoscere il rischio che corrono i cittadini contribuenti e dunque permette di valutare l’operato del Governo e del Ministero dell’Economia e la sua competenza. Significa anche avere la possibilità di prendere decisioni oculate su cosa permettere e cosa non permettere al Governo italiano di fare con i nostri soldi. Penati, citando l’agenzia di stampa Bloomberg, parla di 24 miliardi di euro. 1 punto e mezzo di PIL. Se fosse vero ci sarebbe da chiamare la Finanza e scoprire esattamente cosa è successo in questi anni nella gestione del debito pubblico italiano. Cifre simili fanno rabbrividire e è a mio avviso impensabile che il Tesoro  si sia esposto a tali livelli. Ma va fatta chiarezza proprio per questo.

Imbarazzante per pochezza tecnica a questo proposito quanto dice Rossi Doria: “In merito al valore di mercato del «portafoglio derivati» della Repubblica italiana, si precisa che lo stesso è definito come il valore attuale dei flussi futuri scontati al presente e che varia continuamente al variare sia del livello dei tassi di mercato sia della conformazione della curva dei rendimenti. Appare evidente che lo stesso è, quindi, un valore in continuo mutamento, la cui rilevanza per uno Stato sovrano risulta essere limitata.” Immaginate voi se una banca vi dicesse che non vi dice il valore di mercato dei vostri investimenti perché “variano di giorno in giorno”. Non chiamereste la polizia? E non vorreste forse sapere questa informazione anche per sapere la bravura del vostro gestore di fondi?

Ma continuiamo. C’è dell’altro di più specifico.

Per quanto riguarda, in particolare, la vicenda relativa alla Morgan Stanley, riportata da alcuni organi di stampa e richiamata nell’interpellanza, si fa presente che alla fine del 2011 e con regolamento il Ministero dell’economia e delle finanze, in data 3 gennaio 2012, ha proceduto alla chiusura di alcuni derivati in essere con Morgan Stanley (due interest rate swap e due swaption) in conseguenza di una clausola di «Additional Termination Event» presente nel contratto quadro (ISDA Master Agreement) che regolava i rapporti tra la Repubblica Italiana e la banca in questione. Tale clausola, risalente alla data di stipula del contratto, nel 1994, era unica e non presente in nessun altro contratto quadro vigente tra il Ministero e le sue controparti, e non è stato possibile, nel corso degli ultimi anni, rinegoziare la stessa. In virtù di tale clausola, si è proceduto alla chiusura anticipata di alcuni derivati con Morgan Stanley, regolandone il controvalore in 2,567 miliardi senza il coinvolgimento di terze parti.”

Bene. Anzi male. Sembra tanto ma è poco. Possiamo conoscere che tipo di operazioni hanno portato a questa perdita così da capire per quale motivo il Tesoro vi entrò a suo tempo? Non sempre perdite sono da addebitare al gestore: a volte i mercati girano male, si chiama rischio. Ma è importante capire in che tipo di rischio ci siamo infilati per sapere se un buon padre di famiglia avrebbe fatto lo stesso e, in caso negativo, prendere le opportune decisioni contro coloro che effettuarono questa operazione e soprattutto prendere le giuste contromisure affinché questi rischi non siano più assunti.  Una cosa comunque già la sappiamo: un errore fu fatto nel firmare il derivato con una clausola di chiusura che non è stata più inserita in nessun contratto successivo: come mai fu apposta in quel contratto? Chi fu il responsabile?

E’ falso dire che chiusure di contratti come questa non potranno più avvenire perché quella clausola non è stata più inserita. Le ragioni per le chiusure di un contratto possono essere svariate e possono avere a che fare anche con la forza contrattuale di una controparte. Essendo la Repubblica italiana in questo momento particolarmente in difficoltà a causa del suo debito pubblico non è da escludersi che controparti bancarie che abbiano forza contrattuale chiedano di essere ripagate, tanto più che ora una controparte (Morgan Stanley) lo è stata, per qualsiasi motivo lo sia stata.

Ma magari le questioni finissero qui. E’ stato fatto notare su altri siti con un qualche elemento di veridicità che:

a)      Come le garanzie date alle banche e di cui ci siamo occupati a suo tempo e suo cui la stampa ha calato un silenzio indicativo, queste perdite potenziali non sono messe a bilancio fino a quando non avvengono.  Il paradosso è che Morgan Stanley in questo affare le perdite potenziali (dovute al mancato pagamento che si paventava da parte del Governo italiano) a riserva le aveva messe. Il nostro Governo no.  O vogliamo aspettare di fare dell’Italia un’altra Grecia perché tanto noi…. “non siamo le Grecia” che è andata sotto a cause dei derivati?

b)      Cosa ha fatto Morgan Stanley con questo rischio Italia a parte mettere dei soldi a riserva? Non avrà forse acquistato assicurazioni contro il default italiano (si chiamano Credit Default Swap, CDS) contribuendo all’allargamento dei nostri spread? E se così fosse a chi chiederemo di restituirci i soldi della maggiore spesa per interessi causata da questo abbraccio mortale? E non è forse possibile – si interroga il sito – che con la liquidazione da parte del Governo italiano della somma dovuta a Morgan Stanley questa abbia liquidato in questi giorni anche le posizioni nei CDS, spiegando il perché del calo degli spread a cui stiamo assistendo in questi giorni?

La storia è solo iniziata. Che continui la richiesta di chiarimenti, su tutti i contratti. Che il Governo Monti faccia chiarezza sul passato ed indichi la nuova via per il futuro. Tanto ci aspettiamo da lui, niente di più né di meno.

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Informazioni circa l’incidenza degli strumenti finanziari derivati nell’ambito della complessiva esposizione debitoria dello Stato italiano – 2-01385

I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dell’economia e delle finanze, per sapere – premesso che:

un interessante articolo è stato pubblicato il 4 febbraio 2012 sull’autorevole International Financing Review (si veda il sito ifre.com) e ripreso sul sito linkiesta dal giornalista economico Nicolò Cavalli, articolo che getta luce su un importante aspetto della composizione del debito pubblico del nostro Paese e, quindi, sulla sua sostenibilità. Si tratta di capire, infatti, quanti derivati possiede il Ministero dell’economia e delle finanze italiano nel suo portafoglio;

come riportato quasi un anno fa dal Wall Street Italia, il New York Times ha sostenuto che, a partire dal 1996, l’Italia avrebbe «truccato» i propri conti utilizzando derivati grazie all’aiuto di JP Morgan;

su questo argomento tutti i Governi succedutisi nel tempo hanno mantenuto uno scrupoloso silenzio, anche quando, il 19 dicembre del 2009, il Fatto Quotidiano aveva segnalato uno strano fenomeno: i tassi di interesse scendevano, ma lo Stato continuava a pagare sempre lo stesso tasso sullo stock di debito;

i dati Eurostat rivelano che il Ministero dell’economia e delle finanze italiano ha utilizzato massicciamente i derivati, in particolare dal 1998 al 2008, utilizzando cross currency swap e interest rate swap, ma anche cartolarizzazioni. Ciò che si sa dai dati Eurostat è che l’Italia ha guadagnato su questi strumenti almeno fino al 2006, anno in cui la tendenza ha iniziato ad invertirsi e le perdite hanno iniziato a materializzarsi. Per gli anni successivi non esistono dati accertati, a causa dell’assenza di informazioni provenienti da fonti ufficiali;

la maggior parte delle stime sostiene che i derivati del Ministero dell’economia e delle finanze abbiano un valore di circa 30 miliardi di euro, e molti banchieri sostengono che l’Italia sia il più grande utilizzatore sovrano di strumenti derivati. Ciò non sarebbe un problema in sé, se non fosse che l’opacità informativa rischia di alimentare dubbi circa la sostenibilità di questo stock di contratti, in particolare in un momento in cui nessun Paese è bersagliato come l’Italia, con 29 miliardi di dollari di scommesse contrarie su oltre 7500 contratti di solidarietà;

la questione è tutt’altro che irrilevante: l’articolo di Ifre prende l’esempio di Morgan Stanley, che ha recentemente ridotto la sua esposizione in swap verso l’Italia di circa 3,4 miliardi di dollari. Se questo interest rate swap fosse stato ristrutturato e assegnato a un’altra banca, allora l’Italia non sarebbe stata particolarmente toccata dalla vicenda. Ma se lo swap fosse stato chiuso, allora l’Italia avrebbe dovuto pagare almeno 2 miliardi di euro;

l’European Bank Authority riporta che l’Italia è esposta per 5,1 miliardi di euro in swap verso le banche europee e ciò non include quelle statunitensi, quelle svizzere né quelle inglesi. Se gli investitori decidessero di chiudere queste posizioni, che sono peraltro più costose con il nuovo regime regolatorio, l’Italia si troverebbe d’improvviso a dover pagare svariati miliardi di euro -:

quale sia la reale esposizione italiana al rischio sopra indicato e come possa incidere sulla tenuta dei conti pubblici italiani.

(2-01385) «Borghesi, Donadi, Mura, Messina, Barbato».

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