THIS SITE HAS BEEN ARCHIVED, AND IS NO LONGER UPDATED. CLICK HERE TO RETURN TO THE CURRENT SITE
Post Format

E pluribus, unum

Scalfari su Repubblica e la logica sbagliata sull’Europa che dovrà venire.

Parte bene Scalfari, paragonando l’Europa della moneta unica agli Stati Uniti ed allo loro storia. Ma pare imparare poco da quella storia per noi così importante.

“…l’Europa federale ancora non è nata. Non abbiamo molto tempo per farla nascere: l’economia globale prevede confronti tra continenti. L’Europa … ha una forza potenziale enorme … ma diventerà del tutto irrilevante se continuerà ad essere sgovernata (nostra enfasi) da una confederazione di Stati con una moneta comune usata da poco più di metà di essi.”

Concordiamo in pieno. Eppure Scalfari non trae le logiche conseguenze dal suo paragone e dal suo ragionamento quando continua affermando:

“Abbiamo a disposizione non più di una decina di anni di tempo per arrivare a quel risultato e, poiché si tratta d’un percorso fitto di ostacoli, occorre intraprenderlo da subito. Non è un obiettivo che viene dopo gli interessi nazionali perché è esso stesso un interesse nazionale e non può essere accantonato o timidamente sostenuto. L’Europa deve diventare uno Stato con il suo bilancio, un suo governo, un suo Parlamento, una sua Banca centrale. Per ora ci sono soltanto timidi abbozzi dai quali emerge soltanto un Consiglio intergovernativo che decide solo all’unanimità o con maggioranze altissime dell’80 per cento. Se resteremo in queste condizioni, tra dieci anni saremo solo una memoria nella storia culturale del pianeta. E nulla più.”

No. Lo sgoverno europeo è dovuto all’incapacità dei governanti di generare un coeso tessuto europeo, pre-condizione essenziale per volere una unione di singoli interessi nazionali.  Coesione. Coesione. Coesione.

L’etimologia della parola unione è semplice: “rendere uno”. Ma chi dovrebbe “rendere uno”? Dall’alto l’elite o dal basso i popoli? La mia impressione è che i leader debbano ottenere l’assenso dei popoli, voi che ne dite?

Per fare ciò, dobbiamo far sì che il progetto europeo sia innanzitutto percepito come coerente con l’interesse nazionale di ognuno. E dunque prima di avventurarci in qualsiasi altro progetto abbiamo bisogno di crescita, in ogni dove. Là dove vi è già, pare facile, come in Germania. Ma là dove non vi è, come la Grecia, o l’Italia, come generarla? Nel lungo periodo, con le riforme, certo. Ma nel breve periodo, quello a cui è giustamente interessato Scalfari (e altro che dieci anni di tempo. Qui il tempo è molto di meno), come fare? C’è una sola via. Con politiche della domanda che sostengano l’economia. E qui la Germania può fare molto, nel suo stesso interesse: una sua politica fiscale espansiva, meno tasse a carico dei suoi lavoratori, accoppiata a minore austerità greca ed italiana, generano benessere sia per i lavoratori tedeschi che per quelli greci, rafforzando la voglia di Europa di ognuno.

Lo “sgoverno” europeo non è dovuto a una mancata di centralizzazione delle istituzioni, ma alla stupida austerità di cui un giornale come Repubblica dovrebbe chiedere la testa ogni giorno, ma chissà perché non lo fa. Anzi, concentrarsi oggi a costruire altre istituzioni, distraendosi dal compito principale di accogliere la richiesta di aiuto di chi è in difficoltà, renderà i popoli ancora più distanti dall’Europa, rendendo questa ancora più fragile di quanto non sia già oggi.

Lo sanno gli Stati Uniti, che sono diventati una vera unione – con una unione fiscale che delegava il potere di dettare il bilancio al centro – solo dopo 130 anni di vita, quando un Presidente solidale e vero leader, Franklin Delano Roosevelt venne incontro con i soldi degli stati meno in difficoltà e dei mercati alle difficoltà di quelli più sofferenti. Il contratto sociale americano fu scritto allora, l’Unione, in un certo senso, nacque allora.

L’unico credito, quello che viene sempre ripagato, è quello della gratitudine. Sarebbe ora che lo capissimo e ci gettassimo a capofitto a mostrare di averlo capito con scelte di politica economica conseguenti.

Post Format

La manovra che salverà l’Italia, in attesa di domani

Ieri a Empoli al circolo SEL a presentare il Programma dei Viaggiatori. Molto bello confrontarsi. Molto bello.

*

Il punto fondamentale, il nostro apporto concreto per il rinascimento del Paese, emerso durante il dibattito: la manovra dei Viaggiatori di pari aumenti di tasse e riduzioni di spese (in realtà tagli di sprechi, che spese non sono: sono solo trasferimenti, addizionali e non necessari, dai contribuenti alle imprese vincitrici dell’appalto che ricevono più del dovuto a causa di incompetenza o corruzione e che sappiamo bene come eliminare) per un 5,25% di PIL che finanzia riduzioni di altre tasse e maggiori spese (queste ultime vere spese, domanda di beni e servizi via appalti che generano produzione ed occupazione, anche queste che sappiamo fare) per un 5,25% di PIL.

La leggete sotto. Ora il punto chiave che rimane da svelare: cosa succede al PIL ed al debito pubblico in rapporto PIL quando nel mezzo di una recessione fate una manovra di questo tipo, di espansione non finanziata da maggiore debito?

La sorpresa incredibile ve la svelerò domani. Veramente incredibile.

Post Format

Come fare politica monetaria veramente espansiva? Con il tasso di cambio

Patte Lourde è particolarmente invasivo della mia privacy questi giorni. Così mi sveglio alle 7 di mattina e mi ritrovo con un sms di origine notturna. E’ un twit. Il primo twit che riceve il mio vecchio cellulare poco prono ad accogliere i prodotti dell’innovazione tecnologica dei social network. Tant’è, qualcosa si legge. E’ un tweet di Tito Boeri:

Cosa aspetta la BCE per abbassare i tassi? Di quanti altri milioni deve aumentare disoccupazione nella zona euro?”.

In effetti, un tweet che merita di essere analizzato. Molto strano. Anche Tito si è finalmente convertito al partito della carenza di domanda aggregata nel sistema europeo? Meglio tardi che mai. Chissà quando deciderà di unirsi al minuto ma appassionato squadrone di quelli che credono che più della politica monetaria, per stimolare la domanda, può la politica fiscale, specie quella fatta di maggiore spesa pubblica?

Comunque sia vediamo di capirci meglio su questo urlo di dolore di Tito.

*

When nominal interest rates are at the zero lower bound, expansionary monetary policy can increase output in part by raising expectations of inflation and lowering real interest rates.”

Così recita l’ultimo lavoro di Chritina e David Romer. Non gli ultimi arrivati quanto a bravura come economisti. Lei l’economista di Obama nei primi anni del suo mandato, quelli più fertili quanto a coraggio di politica economica del Presidente appena rieletto. Stavolta esaminano quanto fu sbagliata la politica monetaria negli Usa negli anni della Grande Depressione, un qualcosa a cui pare avere interesse anche Tito Boeri per i problemi dei nostri giorni.

Traduciamo il passo: “quando i tassi d’interesse toccano il limite di zero, una politica monetaria espansiva può aumentare il PIL in parte aumentando le aspettative di inflazione e così riducendo i tassi d’interesse reali” (il tasso d’interesse reale è il numero di patate che dovete ridare a scadenza a chi vi presta una patata, prestito che nasce tipicamente dalla voglia di consumare o investire da parte del debitore, voglia che è tanto più grande quanto più basso è, appunto, il tasso d’interesse reale).

*

Non è in effetti facile fare molto con la politica monetaria in tempi di crisi come questi. Sia perché la maggiore disponibilità di liquidità non si tramuta in maggiore offerta di credito da parte delle banche, perché queste hanno paura di prestare, sia perché famiglie ed imprese non hanno nessuna voglia di prendere a prestito, timorose come sono del grigio futuro.

Certo, si potrebbero comunque abbassare i tassi già bassi, come chiede Tito Boeri. Ma anche se la BCE facesse scendere i tassi a zero, Tito, lo spazio di manovra per aiutare l’economia è minimale.

Specie perché quello che conta sono i tassi nominali depurati dell’inflazione attesa. E quest’ultima è … in discesa, vicino alla temutissima  deflazione dove i prezzi scendono. Infatti la BCE stima l’inflazione euro scendere (dal 2,5% di quest’anno) all’1,6% ed 1,4% rispettivamente nel 2013 e 2014. E siccome quello che dice la BCE influenza le aspettative dei mercati, e i tassi nominali difficilmente potranno scendere di tanto quanto l’inflazione, il paradosso è che ci troviamo con tassi reali in aumento e non in diminuzione. Cosa che preoccupa Tito. Preoccupa anche me, specie se teniamo conto che ciò è frutto di una testarda posizione della BCE che nel peggior momento della storia dell’euro pensa bene di annunciare che farà scendere l’inflazione.

A meno che …

A meno che non si faccia come dicono i Romer, non si creano cioè aspettative d’inflazione talmente ampie da generare tassi reali bassi che invitano a domandare di più. Quelle aspettative d’inflazione alte che Roosevelt impose alla Fed e aiutarono a creare ossigeno prezioso per arrestare l’emorragia degli anni 30.

*

Ma come, mi direte. Non ci hai appena detto che la BCE sta abbassando le aspettative di inflazione? Non vorrai mica attentare all’indipendenza della BCE imponendole maggiore inflazione?

Beh, certamente non vorrei attentarvi, come sta facendo il democratico Giappone che ha chiesto (silenziosamente) ed ottenuto (rumorosamente) le dimissioni del governatore della banca centrale che si rifiutava di fare quanto richiesto dal Governo per sostenere la ripresa economica via domanda, quella che chiede Tito Boeri.

Perché non ce n’è bisogno.

In fondo, come diceva Milton Friedman, certo non un pericoloso comunista, “It is my conviction that when push comes to shove the President will always get his way regardless of who is running the Federal Reserve”:  “sono convintissimo che, al dunque, il Presidente degli Stati Uniti otterrà sempre quanto da lui richiesto, indipendentemente da chi è a capo della Federal Reserve”, la banca centrale statunitense. Ed è giusto che sia così, implicitamente diceva, perché riteneva i banchieri centrali troppo vicini agli interessi delle banche e troppo poco a quelli dell’economia più largamente intesa.

Basta che i Governi chiedano, dalla BCE otterranno. Lo facciano in silenzio, come hanno fatto sinora, per non turbare i sonni di chi crede ancora alle favole sull’indipendenza del banchiere centrale.

Cìè un altro modo per ottenere lo stesso risultato senza far sembrare troppo palese la capitolazione della BCE. Modalità che in questi giorni Hollande ha gettato come opzione sul tavolo della politica (Monti l’avrebbe mai fatto? Mah…). Un bel deprezzamento dell’euro per far fronte all’atteggiamento analogo di Stati Uniti e Giappone, così da rispondere al loro opportunismo con altrettanto opportunismo. Così da salvare il nostro export? No. Per due altri motivi.

Primo, per mostrare che esiste qualcosa come una Unione europea politica che sa prendere decisioni strategiche altrettanto caparbiamente di Stati Uniti e Giappone.

Secondo, per reflazionare l’economia europea. Il deprezzamento di tutte le valute principali non aiuterà il nostro export. Però genererà inflazione mondiale. E chi ha più da guadagnarne? Quel Paese che è più in recessione e dove le aspettative sull’inflazione sono più lente a modificarsi e ad allontanarsi dalla deflazione. Esatto, l’area euro.

Non credo che Tito Boeri sottoscriverebbe questa mia agenda. Ma è solo la logica conseguenza del venire incontro al suo grido di dolore.

Grazie a NF e PL

Post Format

Last but not least. MPS, di nuovo, e i sospetti maligni di Penati

Mi dice un caro amico piscologo: con i miei pazienti le cose più importanti le tengo sempre per la fine della seduta.

*

Così fa oggi Alessandro Penati parlando di derivati e caso Monte Paschi Siena.

*

A metà del guado Penati afferma, e mi sento di condividere il suo pensiero:

Se questa è la trasparenza della terza banca e della seconda assicurazione italiana, credo sia perlomeno legittimo avere dubbi sulla qualità dei bilanci dell’intero sistema finanziario. Infatti, la Borsa esige oggi un forte sconto (più alto che altrove) rispetto ai valori di libro per le banche e le assicurazioni italiane. Il rischio “Italia” è anche questo. È ora nell’interesse nazionale che, al posto della solita stucchevole difesa di ufficio, o della storia della mela marcia, si richieda una generalizzata ed energica operazione di pulizia: i prossimi bilanci 2012 sono l’occasione di dimostrare che si è passati dalle dichiarazioni ai fatti. Importante accertare le responsabilità. Ma nel caso Mps è ancora più importante far emergere rapidamente la vera situazione patrimoniale e chiudere la ristrutturazione nel minor tempo possibile. Nel frattempo, il premio per il rischio “Italia” lo paghiamo tutti.”

Anche il Tesoro italiano, il cui spread è salito. Mancanza di credibilità del sistema Italia?

Ma forse lo spread sul Tesoro italiano non è salito solo per colpa di MPS. Anzi, forse la direzione causale è rovesciata. Forse, come ho già avuto modo di dire in altre occasioni, il fatto che lo stesso Tesoro italiano non abbia mai, dico mai, rivelato nulla sul suo libro derivati spiega perché MPS si è dilettato nel tempo a nascondere le sue operazioni senza nulla temere dai regolatori. E forse il Tesoro non sente il bisogno di rivelare nulla perché a sua volta chi dovrebbe controllare i conti del Tesoro, la BCE, non rivela nulla sulla scandalosa transazione di inizio secolo tra Goldman Sachs e governo greco e dunque ovviamente nulla chiede al Tesoro italiano di fare quanto a trasparenza sui propri derivati. Come mai la Banca d’Italia non chiede più trasparenza sui derivati del Tesoro al Tesoro?

La domanda sorge spontanea. Specie ad Alessandro Penati, che nel chiudere l’articolo, quasi en passant, afferma:

Infine, Nomura: c’è sempre una banca di investimento connivente. La connivenza va punita quanto l’abuso. Dietro a qualsiasi dissesto e scandalo finanziario nel mondo ci sono sempre sì e no dieci istituzioni. Il modo migliore è di toccarle pesantemente nel portafoglio, e nella loro capacità di operare, anche con revoche temporanee della licenza a operare nel paese. Vedo invece molta titubanza. Come se lo Stato non volesse inimicarsele dati gli stretti rapporti per la gestione del debito pubblico. Anche su questo sarebbe ora di fare chiarezza.”

Non mi piace questa ultima frase. Sembre il tirare il sasso e nascondere il braccio. Perché Penati non dice chiaramente quale sia il sospetto? Penati pensa forse che il Tesoro abbia dei derivati con Nomura e che ciò abbia reso meno forti i controlli su MPS? Lo dica pure, farebbe un migliore servizio alla causa di una stampa libera.

Il problema è che la risposta non l’abbiamo perché i dati (pubblici) non ci sono: e Banca d’Italia al Tesoro non ha mai chiesto di pubblicarli e, toh, nemmeno la BCE.

Ed è pure possibile che Penati sbagli e non ci sia nessun derivato fra Nomura e Tesoro, o forse che i derivati che ci sono sono sono assolutamente legittimi. Ma siccome non possiamo saperlo, ogni sospetto è legittimo. E dannoso.

E’ ampiamente tempo che la si pianti di dire che ci vogliono più poteri di regolazione e che ci si dia da fare con quelli che si hanno. Un passo epocale? Pubblicare i derivati fatti dal Tesoro nell’ultimo decennio compresi quelli ancora in vita: con nomi delle controparti, loro rating, e stima del valore di mercato. Se non lo si fa, non mi si venga a dire che la colpa di MPS è dell’insufficienza degli strumenti  di controllo.

Grazie a PL

Post Format

Perché lo spread è sceso e quando scenderà ancora

Perché lo spread è sceso?

Paul De Grauwe, bravissimo economista e la sua coautrice, correttamente argomentano come il debito pubblico e lo stato delle finanze pubbliche poco hanno a che fare col livello dello spread. Prova ne è, aggiungo io, che l’Italia ha visto il suo spread crollare proprio quando di recente schizzava verso l’alto il suo debito su PIL. E dunque, con buona pace per tutti gli appassionati venditori degli immobili pubblici, ne consegue che ridurre il debito vendendoli non avrebbe effetti significativi sullo spread.

De Grauwe crede tuttavia che lo spread sia calato per l’intervento BCE di fine luglio 2012. E che fosse salito prima per un panico che ha colto i mercati. Addirittura secondo lui tale panico ha contagiato i governi obbligandoli successivamente all’austerità. Maggiori gli spread maggiore l’austerità successiva.

Vi offro una storia alternativa altrettanto realistica, forse più documentata, che comporta politiche economiche radicalmente diverse da quelle suggerite da De Grauwe.

Partiamo dai dati. Quando a fine luglio Draghi comunica la svolta di politica monetaria lo spread viaggia attorno ai 450 punti base e più (freccia rossa). Come vedete dal grafico sottostante, esso non cala successivamente all’annuncio: rimane attorno ai livelli di fine luglio fino ad inizio settembre.

Poi ad inizio settembre succede qualcosa (freccia blu): lo spread cala strutturalmente di 100 punti base e fino a fine anno resterà attorno a quei livelli o poco inferiori a 350 punti base. In quelle settimane, a partire dal 6 settembre, la BCE dettaglia tecnicamente i suoi interventi di sostegno, legandoli a programmi di aggiustamento dei singoli governi che dovessero richiedere un aiuto. I tassi d’interesse fissati dalla BCE rimangono invece invariati.

Tutto ciò pare dunque confermare la teoria di De Grauwe: è stata dunque la BCE a far calare gli  spread?

Ma siamo proprio sicuri che null’altro sia accaduto in quella cruciale settimana quasi autunnale che possa spiegare contemporaneamente sia la riduzione degli spread che il comportamento più accondiscendente della BCE?

Basta rileggersi i giornali tedeschi dell’epoca per scoprire che quel qualcos’altro è avvenuto, eccome. Per esempio Der Spiegel. Che il 10 settembre scrive:

“Osservatori attenti hanno già notato come la cancelliera Merkel abbia avuto un cambiamento di opinione due settimane orsono. La Merkel, figlia di un pastore della Germania orientale, ha d’un tratto ritrovato una profonda simpatia per la sofferenza della gente della Grecia. La Merkel ha preso la sua decisione. Dopo lunghe esitazioni, si è schierata con il Presidente francese Hollande e la Commissione europea. La nuova determinazione tedesca di salvare la Grecia rappresenta un incredibile cambio di rotta per la cancelliera. Fino a poco tempo fa la Merkel era pronta ad abbandonare la Grecia al suo destino se non avesse ottemperato ai suoi impegni. Ma ora vede una uscita della Grecia come foriera di troppi rischi. L’incredibile pressione politica in tale direzione è esemplificata dalla controversa decisione della BCE di giovedì (6 settembre, NdR) di ricomprare, se necessario, quantità illimitate di titoli sovrani di paesi euro in difficoltà.

Insomma, la BCE avrebbe agito dopo una forte spinta politica della Germania che avrebbe riconosciuto l’inutilità della prosecuzione dell’austerità.

A seguito di ciò gli spread calarono. Notate bene: i mercati scommettono sulla fine della crisi perché la politica ha finalmente scommesso sulla fine dell’austerità. Detta in altro modo, gli spread alti non hanno causato l’austerità, ma piuttosto quest’ultima ha causato gli spread alti.

Ha senso? Certo che sì: i creditori sono sempre felici quando il loro debitore riprende a crescere.

Siamo dunque in disaccordo quando De Grauwe ed il suo coautore Yuemei Ji affermano che è stato il panico dei mercati finanziari a generare panico ed eccessiva austerità nelle politiche economiche. Piuttosto, è il panico dei nostri politici europei inesperti – panico che li ha portati a scegliere le politiche sbagliate dell’austerità di fronte alla prima crisi di inusitate proporzioni che ha colpito la nuova giovane unione monetaria – che ha seminato il panico nei mercati, facendo innalzare gli spread caricati ai debitori. Perché di fronte al potenziale crollo del PIL generato dall’austerità, non c’è dubbio che il terrore si debba essere impossessato dei creditori, così come avviene ad una banca quando l’impresa che essa ha finanziato passa brutti momenti.

E così, se volete sapere come scenderanno ancora di più gli spread, la risposta è una sola: con un’azione forte, convinta e coordinata contro la recessione dei governi europei, che comprenda una analoga spinta espansiva da parte della BCE che ovviamente non avrebbe difficoltà ad adeguarsi ad ordini tanto chiari quanto segreti dei Governi europei.

Post Format

Does the ECB cause Merkel or does Merkel cause the ECB?

Paul De Grauwe with Yuemei Ji (DGY from now on) provided interesting correlations of economic variables with euro spreads of Southern countries with Germany. Their statements in what follows are in italics. Here are my reasons to disagree at least partly with their analysis or to put some obvious doubts in readers’ minds.

*

DGY: “The decision by the ECB in 2012 to commit itself to unlimited support of the government bond markets was a game changer in the eurozone crisis.”

Is this an assumption or an empirically proven fact? By simply looking at the spread with Italy one would notice that the spread between Italy  and Germany prevailing at the end of July (Draghi’s speech was at the end of July, the 26th to be precise) was not such a game changer. Italian spreads were at the same level (around 450 basis points) one month later, at the end of August.

Rather, what seems to be the start of a structural decline sees its beginning in the first days of September (350 basis points). What happened at the beginning of September? One might argue not so much that the ECB changed its mind, but that Mrs. Merkel did. According to the Spiegel on Line of September 10, 2012, one can read some interesting passages which I here quote (my bold):

“Attentive observers already noticed the chancellor’s apparent change of heart two weeks ago. Merkel, whose father was a pastor in communist Eastern Germany, has suddenly discovered a deep affection for the downtrodden people of Greece. She compassionately expressed empathy for “what many in Greece have to suffer,” and said that “it does make one’s heart bleed.” … One doesn’t need to be a rocket scientist to see through Merkel’s maneuver: The chancellor wants to buy time. She hopes to calm the general public and the notoriously nervous financial markets through meditative repetition — and ultimately create the impression that it actually matters what the troika finds out during its mission to Greece. But it doesn’t. In reality, Merkel has already made up her mind. After long hesitation, she has sided with French President François Hollande and the European Commission. Merkel’s newfound determination to rescue Greece is a remarkable U-turn for the chancellor. Until recently, Merkel was prepared to drop the country if it failed to meet its commitments. But she now regards a Greek departure from the euro zone as entailing too many risks. In the Chancellery in Berlin, officials fear that such an outcome could trigger a domino effect like the one caused by the Lehman Brothers bankruptcy in September 2008. But the political costs are also too high for Merkel. If Greece withdrew from the euro zone, her advisers fear that this could mean that it would eventually be necessary to create a common “debt union” to stabilize problem countries like Italy and Spain. It would be a paradoxical situation: Germany would take a hard-line approach with Greece, but might subsequently have to accept jointly issued euro bonds, which German voters widely oppose.”

DGY argue that “While the ECB finally acted in September 2012, it can also be argued that had it acted earlier, much of the panic in the markets may not have occurred and the excessive austerity programmes might have been avoided.” But why did the ECB finally act? Let us read from the Spiegel a bit more:

“The enormous political pressure in this direction is exemplified by the ECB’s controversial decision last Thursday to purchase, if necessary, unlimited quantities of sovereign bonds from struggling euro-zone member states”. So it does seem that one possible alternative interpretation is that the ECB was the follower and Germany the leader in the spreads movements and the beginning of a decline.

Why, you might ask, is this an important difference with respect to DGY’s story? It’s simple: because it implies that what might really drive down the spreads and up markets beliefs is not so much a (yet to occur) ECB expansive monetary stance but rather  how much is Europe willing to avoid a recession in debt ridden countries.

But let us follow on DGY’s argument.

According to one theory, the surging spreads observed from 2010 to the middle of 2012 were the result of deteriorating fundamentals (e.g. domestic government debt, external debt, competitiveness, etc.). The implication of that theory is that the only way to bring these spreads down is by improving the fundamentals, mainly by austerity programmes aimed at reducing government budget deficits and debts.  

Another theory, while accepting that fundamentals matter, recognises that collective movements of fear and panic can have dramatic effects on spreads. These movements can drive the spreads away from underlying fundamentals, very much akin to the way stock markets prices can be gripped by a bubble pushing them far away from underlying fundamentals. The implication of that theory is that while fundamentals cannot be ignored, there is a special role for the central bank that has to provide liquidity in times of market panic.

What about the third theory? What if spreads go up if markets observe chances of economic growth disappear? What if among fundamentals it is the one forgotten by DGY, GDP growth, the one most likely to explain spreads’ movements? And what if the worse are growth prospects the higher is the spread in a given country and across countries? After all, since when lenders do not care about growth prospects of borrowers?

DGY then find that:

“Countries whose spread had climbed the most prior to the ECB announcement experienced the strongest decline in their spreads – a remarkable phenomenon.”

Once again, is it only possible that we could rephrase the sentence as:

“Countries whose spread had climbed the most prior to Merkel’s change of heart experienced the strongest decline in their spreads – a remarkable phenomenon.” ?

Certainly.

Again DGY: “By taking away the fear factor, the ECB allowed the spreads to decline. We find that the decline in the spreads was the strongest in the countries where the fear factor had been the strongest.”

Let us rewrite it as:

“By taking away the recession factor, Mrs. Merkel allowed the spreads to decline. We find that the decline in the spreads was the strongest in the countries where the recession factor had been the strongest.”

Credible? Well, why not!

Now let us totally agree with DGY’s following statement:

“What about the role of fundamentals in explaining the decline in the spreads observed since the middle of 2012? … the decline in the spreads observed since the ECB announcement appears to be completely unrelated to the changes of the debt-to-GDP ratios. If anything, the fundamentalist school of thinking would have predicted that as the debt-to-GDP ratios increased in all countries, spreads should have increased rather than decline.”

We agree. And actually an important policy advice we take from this is: forget about those theories that say that spreads will decline when you lower debt through, as often suggested in Italy, privatizations or other asset sales.

But here is again where we disagree with DGY who claim that:

“From the previous discussion one can conclude that a large component of the movements of the spreads since 2010 was driven by market sentiment. It was fear and panic that first drove the spreads away from their fundamentals. Later as the market sentiment improved, thanks to the announcement of the ECB, these spreads declined spectacularly.”

Which we rewrite:

From the previous discussion one can conclude that a large component of the movements of the spreads since 2010 was driven by market desperation with policies. It was lack of growth prospects that first drove the spreads away from their fundamentals. Later as the market desperation subsided, thanks to the stance of Mrs. Merkel, these spreads declined spectacularly.”

DGY then make another important claim:

The fact that spreads were largely unrelated to real economic fundamentals does not mean that they were not without influence for the real economy. The main channel of influence of the spreads was through policy reactions. As the spreads increased due to market panic, these increases also gripped policy-makers. Panic in the financial markets led to panic in the world of policy-makers in Europe. As a result of this panic, rapid and intense austerity measures were imposed on countries experiencing these increases in spreads.

Indeed we believe that spreads have everything to do with real economic fundamentals. But not in the manner that DGY claim. He claims that panic in financial markets led to panic among policy makers? We believe the reverse is true. The panic of policy-makers led them to choose the wrong policies and this led to panic in financial markets. Austerity measures were indeed taken as a result of panic: but that panic did not originate from market fears communicated to policy makers, but from a basic incapacity of European leaders and a lack of knowledge on how to deal with a crisis of huge proportions that never before had hit the new currency union. That incapacity has made markets nervous and unstable.

PDG: “The higher the spreads in 2011, the more intense were the austerity measures.”

Piga: The more intense were the austerity measures, the higher the spreads in 2011.

DGY then conclude:

“Two conclusions can be drawn from the previous analysis. First, the power of the ECB to counter market sentiments of fear and panic is great. Up to now this power has been exerted only by announcement. Not a single shot was fired. It is clear, however, that if market sentiments were to turn around again, the ECB would be forced to fire, i.e. to actually intervene. Otherwise it would immediately lose its credibility and its power.”

What if instead, this power of the ECB comes from the stance of euro leaders, as represented in the most evident way by Mrs. Merkel? Then it would mean that it would be in Mrs. Merkel hands to actually intervene with all guns at her disposal to fire: fiscal policy (no more austerity in the euro area) and monetary policy (by calling on the phone the Bundesbank representative and asking him to let go rates a bit more?).

“Second, the evidence provided here suggests that since the start of the debt crisis financial markets have provided wrong signals. Led by fear and panic, they pushed the spreads to artificially high levels and forced countries lacking the cash into intense austerity producing great suffering in these countries. They also gave these wrong signals to the European authorities, in particular the European Commission that went on a crusade trying to enforce more austerity. Thus financial markets acquired great power in that they spread panic into the world of the European authorities, who translated the market panic into enforcing excessive austerity.”

What if market signals were right the whole time of the crisis? What if the wrong signals were instead given by stupid austerity policies chosen at the political level? Well then we would have to totally disagree with DGY’s last statement:

“In order to avoid misunderstanding: we are not saying that southern European countries will not have to go through austerity so as to return to sustainable government finances. They will have to do so. What we are claiming is that the timing and the intensity of the austerity programmes have been dictated too much by market sentiment instead of being the outcome of rational decision-making processes. There can be little doubt that the governance of the eurozone will have to change in order to avoid being taken hostage again by volatile market sentiments.”

And we would instead argue that:

In order to avoid misunderstanding: we are not saying that southern European countries will not have to go through austerity so as to return to sustainable government finances. They will have to do so. What we are claiming is that the timing and the intensity of the austerity programmes have been dictated too much by policy mistakes instead of being the outcome of rational decision-making processes. There can be little doubt that the governance of the eurozone will have to change in order to avoid being taken hostage again by erratic and dumb policy choices.

Thank you Ale

Post Format

Quis custodiet ipsos custodes? Il tema difficile della vigilanza ai tempi di MPS

Avrete letto nel caso Monte Paschi di Siena la difesa del regolatore Banca d’Italia: abbiamo bisogno di più poteri.

Difesa che per certi versi mi è piaciuta, perché era cosa chiesta dai vertici dell’istituzione già da tempo, prima che si materializzassero i problemi, non fatta dopo che questi si sono materializzati. Ma siamo sicuri che più poteri sono necessari? O sufficienti?

Si dà il caso che sia uscita proprio negli stessi giorni dell’affermazione di Bankitalia un lavoro defatigante di tre noti esperti del tema della supervisione: “Bank Regulation and Supervision in 180 Countries from 1999 to 2011” di James R. Barth, Gerard Caprio, Jr. e Ross Levine. Che studiano come è cambiata nel mondo negli ultimi 10 anni, prima e dopo la crisi finanziaria, la supervisione bancaria. Affidandosi anche alla costruzione di indicatori sintetici di bontà dell’attività dei supervisori.

Ho letto questo lavoro guardando a cosa aveva da dire sull’Italia e dunque anche sulla Banca d’Italia. E i risultati sono interessanti, anche per capirci di più sul tema MPS. Ne consiglio al lettore curioso la lettura. Di seguito elenco alcuni punti che ho ritenuto più rilevanti ai nostri fini:

1)    Tra il 1999 ed il 2011 l’Italia è il paese sviluppato che ha più aumentato il suo grado di concentrazione bancaria misurato dal tasso di attività bancarie detenuta dalle 5 più grandi banche: dal 25% al 65% circa, raggiungendo la Svizzera. Se uno crede, come io credo, che i regolatori diventano più deboli e meno efficaci al crescere della dimensione dei regolati, che hanno più potere e più possibilità di catturare i regolatori, beh, eccovi un indizio di un problema. E chi ha autorizzato una crescita della concentrazione bancaria in un mero decennio di questa ampiezza?

2)    Gli autori costruiscono poi un indicatore dei poteri di supervisione e di come questi sono cambiati nell’ultimo decennio. Interessante è che Italia e Islanda siano i paesi che hanno più aumentato questi poteri di supervisione così come misurati dall’indice. Quasi altrettanto è cresciuto l’indice formale di controlli esterni. Malgrado il lavoro non indichi il valore di partenza degli indici, è plausibile pensare che l’Italia non partisse da valori molto bassi nel 1999.

3)    Impressionante è l’aumento avvenuto dell’indicatore di governance esterna (possibilità di auditing a banche ecc.): l’Italia spicca come primo Paese tra i 180.

4)    Se guardiamo al numero di dipendenti dedicati alla supervisione bancaria in rapporto al numero di banche, otteniamo lo 0,9%. Il numero massimo tra paesi è 25, quello mediano 2,7. E’ di 0,3 negli Usa e di 0,8 nel Regno Unito, di 6,1 in Grecia. Gli autori sono bravi a  ricordare come questo sia spesso un indicatore fallace, o meglio un indicatore di qualcos’altro: “in paesi con istituzioni democratiche deboli maggiore potere di supervisione viene associato con maggiore corruzione nel processo di prestiti senza miglioramenti in termini di stabilità”. I 25,3 massimi di dipendente per banche sono in Colombia.

Insomma, non parrebbe proprio che le cose siano state così terribili per i nostri supervisori in questi ultimi anni in termini di maggiori poteri.

Come conciliare questo maggiore potere con il fiasco regolatorio di MPS?

Ci potrebbero essere 1000 risposte. Tra cui quella che se qualche banca vuole nascondere qualcosa è facile farlo, anche al miglior regolatore. Per esempio, nell’indicatore di governance esterna su cui siamo migliorati così tanto trova spazio anche la domanda chiave “operazioni fuori bilancio (off-balance sheet items) sono rivelate al pubblico?”. Ebbene la risposta per l’Italia è sì, e dunque prendiamo tanti punti come Paese, ma se poi queste operazioni vengono delinquenzialmente nascoste, a cosa serve quest’indice?

Eppure vi propongo un’altra possibile risposta, che vale tanto quanto quella sopra. Dato un certo livello di poteri, ampi quanto vi pare, alla fine quello che conta è se questi vengono esercitati. E vengono esercitati se il supervisore è veramente al servizio della collettività e non dei regolati. Ovviamente la Banca d’Italia è istituzione prestigiosa che fa onore al nostro Paese. Ma che sia controllata da banche private, anche se solo formalmente, e che, nella sostanza, come dicevamo sopra, le grandi banche siano divenute più grandi nell’ultimo decennio, fa sorgere alcuni dubbi. Dubbi sul fatto che quello di cui abbiamo bisogno oggi forse non sono maggiori poteri alla Banca d’Italia, ma una Banca d’Italia più indipendente e meno vicina, anche solo formalmente, ai regolati.

Un argomento, ovviamente, che varrebbe anche per la Banca Centrale Europea nel momento in cui decidessimo (a mio avviso miopicamente) di concentrare presso di essa e non di una nuova istituzione indipendente la vigilanza europea.

Post Format

Sen: con Keynes, oltre Keynes, contro la stupida austerità che uccide l’Europa

Oggi non parlo io, che sono nella meravigliosa Beirut perché domani cercheremo di convincere  funzionari pubblici libanesi a venire a formarsi a Tor Vergata sugli appalti pubblici al Master. Un modo di fare “sistema Paese”- di far crescere la reputazione del e la gratitudine verso il nostro Paese – quello di accogliere funzionari e giovani stranieri nei nostri Atenei, il cui valore è troppo spesso sottostimato.

Faccio parlare il Nobel Amartya Sen, tratto dal Sole 24 ore del 28 gennaio (grazie Giak, grazie Paolo), così da spiegarvi perché odio la stupida austerità europea e perché la soluzione non la offre chi regala sogni non ancorati nei valori ma nella salvaguardia dei propri interessi.

*

Nella brutale recessione che il mondo, e l’Europa in particolare, sta attraversando, c’è un numero enorme di persone disoccupate, dai redditi drasticamente ridotti, che non possono permettersi beni e servizi essenziali e hanno poca libertà di gestire la propria vita, mentre altre prosperano. E’ tipico di una crisi economica suscitare forti divisioni, eppure il senso di infelicità per qualcosa di molto sbagliato può essere provato sia da quelli colpiti dalla lunga recessione che da quelli immuni che ne sono comunque oltraggiati. La povertà, la miseria non si condividono, l’oltraggio sì e, per l’infelicità in senso lato, basta e avanza.

Perché l’Europa è tanto nei guai? In effetti ha due problemi da affrontare: l’inflessibilità della moneta unica nella zona euro e la gestione della recessione attraverso la politica di austerità scelta da potenti leader politici e finanziari europei. Ne ho già scritto altrove (“Cosa ti è successo, Europa?” Domenica – Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2012, ndr) e sarò breve. Nella zona euro, l’integrazione e l’unione monetaria realizzate prima di avere il sostegno di una più stretta unione politica e fiscale non suscitano solo infortuni economici ma anche rapporti ostili tra i popoli dei vari paesi.

Di conseguenza, lo scenario di crisi e di salvataggi in cambio di tagli draconiani ai servizi pubblici – questioni economiche sulle quali tornerò – ha suscitato malumori. Se errori nella successione delle misure prese e nelle decisioni politiche contingenti hanno peggiorato il disamore internazionale per l’Europa (è stato così, a giudicare dalla retorica politica sentita di recente con forme diverse da nord a sud), è il pegno da pagare per la via che si è imboccata. La visione di un’unità europea crescente che era nata a Ventotene e a Milano negli anni Quaranta è stata assecondata male da piani di salvataggio che non solo hanno precipitato milioni di cittadini in una miseria nera, ma hanno anche generato una divisione di cui si poteva far a meno tra tedeschi prepotenti, secondo i greci, e greci fannulloni, secondo i tedeschi.

L’analogia, spesso invocata, con i sacrifici dei tedeschi per unire le due Germanie è del tutto fuorviante. In parte perché i sacrifici coordinati dal cancelliere Kohl erano intelligenti e progettati bene, e soprattutto perché al momento tra i paesi europei non esiste il senso di unità nazionale che predisponeva i tedeschi ad accettarli. Inoltre ricadevano sulla parte ricca del paese dove il cancelliere era basato: questo fatto ha una qualità politica assai diversa dei tentativi di imporre una rigida austerità ai paesi più poveri dell’Europa meridionale da parte di leader politici che vivono in regioni più prospere.

Vengo ora alla crisi economica globale e agli sforzi europei per rimediare alla propria con l’austerità.La crisi che ha travolto il mondo nel 2008 non è nata in Europa, ma negli Stati Uniti e la recessione che ne è conseguita negli Stati Uniti ha avuto ripercussioni sul resto del mondo, in particolare in Europa. E’ iniziata negli Stati Uniti, dove il settore finanziario si era comportato in modo estremamente irresponsabile e avventato. Il mondo aveva molte ragioni di essere infelice e scontento dell’economia statunitense, data l’eliminazione graduale – dai tempi del presidente Reagan – di quasi tutti i controlli sensati che regolamentavano le istituzioni finanziarie e le assicurazioni. Nel settore finanziario, i giocatori di serie A fecero un sacco di soldi, per se stessi innanzitutto, con esiti scintillanti ai quali corrispondevano prassi inaccettabili. Gli americani hanno causato la crisi, ma sono stati più veloci degli europei a temperarne l’intensità con uno stimolo fiscale. Contagiata dalla recessione, l’Europa adottò invece una filosofia immensamente contro-produttiva di redenzione attraverso l’austerità.

E’ difficile vedere nell’austerità una soluzione economica assennata all’attuale malaise europeo. Non è neppure un buon mezzo per ridurre il deficit pubblico. Il pacchetto di provvedimenti richiesto dai leader finanziari è stato decisamente anti-crescita. Nella zona euro, la crescita è stata così tentennante e il prodotto interno lordo è calato così tanto che l’annuncio di una crescita zero sembra addirittura una “buona notizia”. Sebbene la Gran Bretagna non sia sotto il potere finanziario dei leader della zona euro, ha scelto deliberatamente la strana filosofia della ripresa attraverso l’austerità, con lo stesso triste risultato. E’ una politica fallimentare in Europa come lo è stata negli Stati Uniti negli anni Trenta e più recentemente in Giappone (una politica di contrazione che il primo ministro neo-eletto Shinzo Abe sta cercando di ribaltare).

Nella storia del mondo abbondano invece le prove che il modo migliore per ridurre il deficit non è l’austerità, ma una rapida crescita economica che generi reddito pubblico con il quale colmare il deficit. Dopo la seconda guerra mondiale, gli enormi deficit europei sono in gran parte spariti grazie a un veloce sviluppo; è successo qualcosa di simile durante gli otto anni della presidenza Clinton, iniziata con un deficit enorme e conclusasi senza, e in Svezia tra il 1994 e il 1998. Oggi la situazione è diversa, perché in aggiunta alla recessione la disciplina dell’austerità viene imposta per ridurre il deficit a molti paesi con un tasso di crescita zero o negativo. Creare sempre più disoccupazione laddove c’è una capacità produttiva inutilizzata è una strategia bizzarra, e non basta ai padroni della politica europea dire che non si aspettavano forti cali di produzione e alti e crescenti tassi di disoccupazione. Perché mai non se l’aspettavano? Da quale idea dell’economia si fanno guidare? Di sicuro la qualità intellettuale del loro pensiero è un motivo di infelicità. Non si tratta soltanto di avere un’etica solidale, ma anche un’epistemologia decente.

Dire che in caso di recessione la politica dell’austerità rischia di essere contro-produttiva può sembrare una critica sostanzialmente “keynesiana”.

John Maynard Keynes ha sostenuto in modo convincente che durante un eccesso di capacità produttiva dovuto alla scarsa domanda del mercato, tagliare la spesa pubblica rallenta l’economia e accresce la disoccupazione invece di diminuirla. Gli va riconosciuto il grande merito di aver fatto capire questo punto fondamentale ai responsabili politici di ogni tendenza. Sarebbe sensato avvalerci delle buone ragioni di Keynes, fanno ormai parte del pensiero economico comune (anche se sono ignote ai leader europei), ma per quanto riguarda la totale inadeguatezza dell’austerità in Europa, ce ne sono altre.

Dobbiamo andare oltre Keynes e chiederci a che cosa serva la spesa pubblica, oltre a rafforzare la domanda del mercato, qualunque ne sia il contenuto. Il risentimento – l’infelicità – di tanti europei per i tagli feroci ai servizi pubblici e per l’austerità indiscriminata non si basa soltanto e neppure primariamente su un ragionamento keynesiano. Fatto altrettanto importante, se non di più, quella resistenza esprime un’opinione costruttiva interessante dal punto di vista sia politico che economico. Parla di giustizia sociale, di ridurre l’ingiustizia invece di aumentarla. I servizi pubblici sono apprezzati per ciò che forniscono in concreto alle persone, soprattutto alle più vulnerabili, e in Europa sono stati ottenuti con decenni di lotta. Tagliarli spietatamente significa rinnegare l’impegno sociale degli anni Quaranta che ha portato alla previdenza e alla sanità pubblica in un periodo di cambiamento radicale. Questo continente ne è stato il pioniere, ha dato una lezione di responsabilità sociale poi imparata nel resto del mondo, dal Sud-est asiatico all’America latina.

Keynes parlò pochissimo di disuguaglianza economica; sugli orrori della povertà e delle privazioni fu di una reticenza straordinaria. Non lo interessavano granché le esternalità e l’ambiente, trascurò del tutto “l’economia del benessere” di cui si occupava invece il suo rivale e antagonista A.C. Pigou. Come ho scritto sulla New York Review of Books – persino Bismarck nell’Ottocento si interessò di sicurezza e di giustizia sociale più di quanto avrebbe fatto Keynes. Gli amici keynesiani mi accusarono di irriverenza (anche quelli della Banca d’Italia), di aver insultato Keynes e vollero farmi ritrattare. Dimenticavano che, sebbene fosse un leader conservatore, Bismarck aveva molto da dire sull’importanza dei servizi sociali.

Per finire, vorrei accennare alla riforma economica di cui molti paesi europei, e non solo la Grecia o l’Italia, hanno senz’altro un gran bisogno. Uno degli aspetti peggiori dell’austerità è stato di rendere questa riforma impraticabile confondendo due programmi: l’austerità dei tagli spietati e la riforma di una cattiva amministrazione (evasione fiscale diffusa, favori concessi da funzionari pubblici per lucro personale e anche insostenibili convenzioni sull’età pensionabile). I requisiti della presunta disciplina finanziaria li hanno amalgamati, sebbene qualunque analisi della giustizia sociale porti a politiche distinte per ciascun programma.

L’amalgama è il frutto di una confusione intellettuale che porta al disastro politico perché collega un bisogno forte e sensato a una follia intempestiva, e nelle campagne politiche unisce gli oppositori dell’austerità a quelli delle riforme indispensabili. L’Europa deve cambiare ora. Nessun paese scaccerà da solo la potente illusione di cui i leader politici sembrano prigionieri, né la Grecia, né il Portogallo e nemmeno l’Italia, eppure bisognerà trovare una voce collettiva per porre fine a tanta miseria e a tanta infelicità.

Post Format

Panda o ape? La lenta morte dell’Università italiana

Da due giorni a questa parte sto cercando di capire come scrivere questo pezzo. Se parlare dell’Università che sta morendo sotto i miei occhi o dell’Università che è portata di mano, se soltanto. Solo perché l’urlo di allarme l’ha lanciato qualcun altro, incisivamente, sceglierò di chiudere questo post con una dichiarazione di amore e di ottimismo.

*

Farvi vedere il grafico che riporta il rapporto CUN, Consiglio Universitario Nazionale, sui finanziamenti all’Università e come questi si sono evoluti nell’ultimo ventennio può generare due tipi di risposte.

Da un lato può portare a lamentarsi dell’incredibile crollo in termini reali degli stanziamenti, segnale di disinteresse totale dei precedenti Governi alla cosa pubblica universitaria.

Dall’altro può generare una scrollata di spalle e quasi un consenso (leggendo i commenti all’articolo del Corriere della Sera sul rapporto è facile rintracciare elementi di questo tipo da parte di non pochi lettori), da parte di chi crede che l’università essendo centro degli sprechi e dei baroni meritasse solo un trattamento simile.

Una simile doppia interpretazione la possono generare tante altre statistiche riportate. Per esempio quelle sul crollo degli immatricolati. C’è chi dice che questo crollo è dovuto ai tagli che rendono impossibile fornire servizi di qualità, c’è chi dice che è semplicemente il segno che l’Università italiana è di pessima qualità e dunque o si lavora o si va a lavorare all’estero.

Non c’è dubbio che ambedue i meccanismi sono al lavoro e che rendono assieme meno attraente il sistema universitario italiano: la globalizzazione, la maggiore concorrenza tra Atenei in Europa, la crescita di programmi in lingua inglese, i minori costi di trasporto fanno il resto, naturalmente portando via dalle università italiane i figli dei più abbienti o i più talentuosi. Se fino a un decennio fa erano i ricercatori che non tornavano, ora sono i diplomati che non tornano.

In tutto ciò, la maggioranza silenziosa, quelli che non andavano prima all’Università, quelli meno abbienti, e che pagavano di fatto l’università dei ricchi, continua a fare quello che ha sempre fatto: non andare all’università. Lo dicono i dati, che nulla è stato fatto per diventare in questo senso più europei e più capaci di far diventare l’università qualcosa di meno aristocratico:

Il numero di chi accede a un titolo di studio universitario, in Italia, è decisamente sotto la media OCSE, le cui rilevazioni riferite al 2010 collocano l’Italia al 34° posto su 36 Paesi considerati. In termini assoluti, nella fascia di età 30-34 ann, solo il 19% possiede un diploma di laurea, contro una media europea del 30%. Si ricorda che la Commissione UE, ai fini della strategia Europa 2020, chiede agli Stati membri di raggiungere una percentuale almeno del 40% di laureati in quella fascia di età. Nel Programma Nazionale di Riforma 2012 l’Italia s’impegna a portare al 26-27% la percentuale di popolazione in possesso di un diploma di Istruzione superiore.

In realtà il sistema sì sta diventando meno aristocratico, perché gli aristocratici fuggono. E’ chiaro dove finiremo se i ricchi scappano e i poveri non entrano: l’Università italiana sta per scomparire.

Secondo i dati MIUR (Anagrafe Nazionale degli Studenti), gli immatricolati sono scesi da 338.482 (nel 2003-2004) a 280.144 (nel 2011-2012), ciò che significa un calo di 58.000 studenti pari al 17% degli immatricolati del 2003, come se in un decennio fosse scomparso un Ateneo grande come la Statale di Milano con tutti i suoi iscritti.

Ottimo modo di comunicare la dinamica dei dati: come cascano i muri di Pompei per incuria, per incuria spariscono le università.

*

Sparire come i Panda? No, sparire come le api.

L’altra sera a cena mi hanno detto che le api hanno smesso di morire e sparire. Hanno trovato apparentemente la causa, in un prodotto chimico che ne distruggeva il senso dell’orientamento. Causa trovata, causa eliminata, ape salvata.

*

Si può fare. Certo che sì. Ridare vita all’ape operosa chiamata Università. Restaurare il muro crollato e ridargli bellezza e dignità, splendore per chi contempla. Al contempo iniettando più fondi ed ottenendo più qualità. Addirittura mettere a frutto un investimento ingente, facendola divenire polo di attrazione di tantissimi studenti stranieri e delle loro risorse, fonte infinita di export. E di rientro di giovani ricercatori italiani, ed europei.

Nel programma dei Viaggiatori c’è scritto come. Vi assicuro, è facile. Richiede un po’ di coraggio, un po’ di fantasia, molta leadership sicura, un po’ di fondi, tanta capacità organizzativa e di monitoraggio.

Post Format

Quaranta motivi per (provare a) pensare positivo…

Dal Viaggiatore Fabrizio Padua riceviamo e volentieri pubblichiamo

Quaranta, tanti sono i prodotti metalmeccanici e dei mezzi di trasporto in cui l’Italia batte la Germania per surplus commerciale con l’estero, qui cioè l’Italia (udite un pò) supera la mitica Germania. In un momento di grande crisi anche della meccanica alcune realtà industriali riescono a sopravvivere con l’export, con la qualità e una oculata gestione commerciale internazionale. E quali sono queste aree di vera eccellenza italiana di cui parla il Sole24ore nel rapporto 2011 pubblicato il 15 gennaio scorso?

Ecco i primi dieci: parti di autoveicoli, oggetti di rubinetteria, macchine per imballare, parti di turbine a gas, barche da diporto (la tanto bistrattata nautica…), conduttori elettrici, tubi e profilati, parti di aeroplani o elicotteri, pompe per liquidi, scambiatori di calore,….

Sono aree pregiate perchè qui non si parla di finanza creativa ma di piccole o medie imprese manifatturiere, quelle che producono sul serio, quelle che conquistano clienti e mercato a colpi di prodotti di qualità, merito di grandi professionisti della produzione e imprenditori coraggiosi.

Sono la vera trazione anteriore del nostro sistema produttivo e dovremmo metterli in testa nelle agende politiche di rilancio della nostra economia, dovremmo agevolarli sotto ogni punto di vista incluso quello  fiscale e supportarli nel loro sviluppo all’estero, come ben descritto nel programma dei Viaggiatori.

Subito dopo la Germania siamo il paese europeo con maggiore produzione manifatturiera, è una ricchezza importante da valorizzare.

Incrociamo allora questi dati con quelli pubblicati dal rapporto Unioncamere nello scorso anno (vedi sistema Excelsior – rapporto 2011) dove si dichiara che ben 117.000 posti di lavoro non sono coperti da offerta qualificata. Qui troviamo profili di diverso livello di qualifica professionale, dai posatori di materiali speciali ai falegnami, dagli elettricisti agli ingegneri informatici… complessivamente la metà riguarda l’industria e le costruzioni. Guarda caso la maggior parte di queste figure professionali sono proprio quelle cercate dalle aziende che lavorano nei 40 settori di eccellenza del nostro export: siamo alla assurdità che il lavoro ci sarebbe ma il nostro sistema formativo non sforna le professionalità che servono, esistono dei profili professionali introvabili sul mercato italiano, soprattutto nel settore manifatturiero. Anche nel mercato ICT mancano figure preziose ad esempio come i data scientist (gli esperti informatici e statistici che si occupano della analisi dei dati, dei Big Data) o i risk manager per applicare tecniche statistiche in ambito bancario o industriale, e anche questa è economia reale non finanza creativa.

Dobbiamo valorizzare oltre alle aziende di eccellenza anche quelle  scuole di ogni ordine e grado che qualificano adeguatamente i giovani in funzione della domanda del mercato che deve essere la vera e unica bussola che orienta qualsiasi decisione e distribuzione delle (poche) risorse disponibili.

Ci sono tanti giovani con testa di gran valore e voglia di lavorare (due condizioni importanti), bisogna indirizzarli nel modo giusto anche verso le scuole professionali che sono in collegamento con le aziende che hanno bisogno urgente di specialisti, il processo deve essere facilitato e reso visibile, usando soprattutto la risorse che la Rete mette a disposizione.

Ed è qui che entra la res publica, con politiche industriali e riforma della scuola che oltre a vedere il lungo periodo si occupino con urgenza del brevissimo periodo, facilitando l’incontro tra domanda e offerta del lavoro, risorsa pregiata perchè scarsa. Nel programma dei Viaggiatori ci sono tante idee su cui aprire un vero dibattito sul lavoro e sul ruolo dello Stato come erogatore di servizi utili.

Giovani, PMI, res publica: il triangolo dei Viaggiatori, un edificio che vorremmo costruire con i mattoni…  non con i derivati.