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Let the sunshine in the boring world

“After the euro dropped below parity to $0.98, at the end of January 2000, the Eurogroup issued its first substantial joint statement on exchange rates in the form of a ‘common understanding’: “The Euro-11 Ministers and the ECB share the view that growth is now very robust in the Euro area and is increasingly rooted in domestic demand. As a consequence, the Euro has potential for appreciation, firmly based on growth and internal price stability. A strong economy goes along with a strong currency.” The statement was the beginning of a series of increasingly strong warnings to the markets about the weakness of the euro.”

Taken from C. Randall Henning’s 2007 paper “Organizing Foreign Exchange Intervention in the Euro Area”.

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Now these were wild years for European governments and the Eurogroup. Sort of a 1968 for the Eurogroup.

These days are gone.

Welcome to boring 2013. Where you would never read an obvious statement of this kind:

The Euro Ministers and the ECB share the view that growth is now very  weak in the Euro area and is increasingly dampened by in domestic demand. As a consequence, the Euro has potential for depreciation, firmly based on growth and internal price stability. A weak economy goes along with a weak currency.

Boring world.

A world where the ECB Governor rules out depreciation by saying that let me be clear that the exchange rate is not a policy target, but it is important for growth and price stability” disavowing article 111 of the Treaty that explicitly states that “in the absence of an exchange-rate system in relation to one or more non-Community currencies … the Council, acting by a qualified majority either on a recommendation from the Commission and after consulting the ECB or on a recommendation from the ECB, may formulate general orientations for exchange-rate policy in relation to these currencies.”

A world where the ECB Governor, instead of rushing toward depreciation in an extremely recessionary environment, prefers to shape inflation expectations toward deflation by stating that annual inflation in the euro area has continued to moderate, falling from 2.5% in October to 2.2% in November and December and 2.0% in January, as we had foreseen. Inflation is expected to decline to below 2% in the near term”, as if inflation expectations declines announced by a central bank do not translate, when interest rates are close to zero, in higher real rates.

Boring world. Only hope? M. Hollande gets some serious back-up from Italy in the next few months in the euro power boring room.  So we might finally Let the Sunshine in.

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Potrebbe non bastare. Cervelli in fuga dalla stupidissima austerità

“Se vi fosse una Maastricht delle Università, noi saremmo ormai fuori dall’Europa. C’è bisogno di una scossa che metta istruzione e ricerca tra le prime priorità dell’agenda-Paese del futuro Governo. La CRUI, Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, propone sei misure urgenti per affrontare le emergenze più gravi, con l’impegno poi a verificarne puntualmente l’attuazione:

…. 4) finanziare posti di ricercatore da destinare ad almeno il 10% dei dottori di ricerca e togliere i vincoli al turnover per impedire l’espulsione dei giovani migliori dal Paese e il progressivo invecchiamento della docenza; “.

Potrebbe non bastare.

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“Negli ultimi decenni, la quota di Dottorati in Ingegneria e Scienze conferiti da università statunitensi a cittadini stranieri è cresciuta dal 23% nel 1970 al 56% nel 2007″, così avviano il loro ultimo lavoro scientifico sulla fuga dei cervelli due economisti di Chicago e San Diego.

Ma lo studiare all’estero dei propri cittadini non dovrebbe essere un problema per un Paese. Certo diventa un problema se poi questi non tornano a casa.

E fondamentale diventa capire da cosa dipende la loro scelta di restare e non tornare.

Tante variabili ovviamente contano in maniera statisticamente significativa. Per noi italiani una su tutte dovrebbe preoccuparci più di altre in questo momento: le condizioni del ciclo macroeconomico nel Paese di nascita del dottorando.

E in effetti i due economisti scoprono, grazie ai tantissimi dati a disposizione, che tanto più l’economia Usa tira, e tanto meno tira quella del Paese di provenienza, tanto più probabile che lo studente straniero decida di restare, dopo il dottorato, negli Usa. Creando un circolo vizioso, visto che l’economia in difficoltà ciclica finisce per soffrire effetti negativi di lungo periodo, a causa della minore disponibilità di ricercatori o lavoratori brillanti a contribuire alla crescita del proprio Paese, a volte per tutta la loro vita.

Risultati simili valgono per studenti di economia e business. Meno per altri settori più umanistici. Sono dunque risultati che valgono specialmente per quei settori scientifici che hanno grande valenza per il mercato privato, dove molti di questi dottorati una volta terminati gli studi si vanno a collocare.

Ecco, la stupida austerità italiana ed europea, che semina morte ovunque, silenziosamente.

Potrebbe dunque non bastare, finanziare posti per ricercatori: primo perché nuovi posti a salari che sono la metà (o ancora meno) di quelli Usa non attraggono nessuno; e secondo perché molti dei cervelli vogliono lavorare nel settore privato. Ma se il settore privato è ucciso dalle politiche economiche austere e stupide di tutti questi ultimi governi che si sono succeduti e non riceve speranza dai programmi dei futuri governi, a che volete che serva qualche posto di ricercatore in più?

La vera battaglia per il rientro dei cervelli è molto di più che qualche decreto per fare rientrare qualche decina di loro. E’ una battaglia per ridare sangue ed ossigeno alla nostra economia sfinita, così da far partire il circolo virtuoso: più spesa pubblica per l’economia oggi, più PIL oggi, più mercato oggi, più rientro dei cervelli domani, più idee dopodomani, più progresso, crescita e sviluppo tra 3 giorni.

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Democrazia, mercato oppure … Cosa consigliare alla Russia per crescere?

Mi lascio dietro la Siberia. Arrivo a casa e scarico di getto fotografie e impressioni su PC.

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Difficile capire la Russia se non ci vive stabilmente. Come per tutti i paesi.

Ancora più difficile capire l’atteggiamento, a queste conferenze geopolitiche con tanti personaggi importanti (a quella a cui sono stato invitato personaggio di punta era Medvedev, primo ministro russo), dell’intellighenzia … americana. Economisti, sociologi, politologi a stelle e strisce che vengono regolarmente invitati a partecipare, e che vengono altrettanto regolarmente invitati a pronunciarsi dai russi stessi sulle strade da seguire per crescere economicamente. Strana forma di masochismo, quella russa, di sentirsi dire dagli storici nemici (e ora dirimpettai sgomitanti in un mondo sempre più stretto) cosa fare e dove si sbaglia. Anche considerato l’incredibile e spesso affascinante orgoglio russo.

E che fa, di fronte a cotanto invito, l’intellighenzia americana? Un po’ di ritrosia iniziale, qualche passo di danza, quello schermirsi e fare attenzione a non apparire troppo ingerenti e poi giù con i consigli.

Che di fatto si limitano a due: più democrazia e più mercato.

Ambedue i consigli hanno una valenza strategica pro domo … loro, ovviamente. Ma serve a poco. Nel senso che i russi finiscono per non ascoltare, alzando le larghe spalle e vanificando l’assalto culturale statunitense, che credo faccia più danni che altro. E non ascoltano perché sono consigli deboli nelle loro fondamenta.

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Più democrazia uguale più crescita? Facile rinfacciare come esista poca evidenza empirica al riguardo (vedi il denso confronto di qualche anno fa di due esperti, Acemoglu e Glaeser). Esempi di non democrazie o semi-democrazie che crescono vigorosamente, come Cina e Singapore, sono vicini abbastanza al confine siberiano da lasciare freddi i partecipanti al dibattito, che vedono in frasi di questo tipo più un invito Usa a opporsi a Putin che un genuino interesse ad avere accanto una Russia vibrante con cui commerciare e attivare legami culturali.

Più mercato uguale più crescita? Anche qui l’argomento fa immediatamente sospettare, nell’interlocutore russo, un secondo fine. Più mercato può volere dire tante cose. Potrebbe per esempio voler dire il desiderio di aprire a un nuovo concorrente, magari straniero, un monopolio lucrativo. Per esempio dell’energia. Magari tramite un cartello che divida i profitti tra grandi imprese russe ed americane, senza procurare vantaggi in termini di minor prezzo dell’energia per i cittadini russi. Questo “liberismo”, questa maggiore apertura, spesso non genera crescita, ed è certamente guardato con (giusto) sospetto da Mosca.

Più mercato potrebbe invece voler dire più partecipazione, ovvero più attenzione alle esigenze delle piccole imprese russe, abbattendo i costi del fare impresa, e riservando, come fanno non a caso dal 1953 gli Stati Uniti, una quota sostanziale di appalti alle imprese piccole locali per permetterle di crescere e diventare più competitive. Non c’è dubbio che è questo tipo di politica di “maggiore mercato”, che incoraggia dinamismo, quella giusta per la Russia. Ma è anche quella politica russa che agli Stati Uniti interessa meno per le proprie aziende: incoraggiare la Russia ad elaborare una politica industriale che aiuti le piccole imprese russe a svilupparsi, che senso avrebbe? Molto meglio dividersi la torta nei settori russi dove grandi multinazionali americane trovano ancora oggi vincoli.

Eppure.

Eppure forse ben farebbe l’intellighenzia Usa ad approfittare di queste occasioni di dialogo per incoraggiare la Russia a, appunto, una politica veramente liberale. Perché nel lungo periodo tutti hanno da guadagnare da una Russia più vitale nei suoi livelli di imprenditorialità. Non solo perché maggiore crescita russa vuole dire maggiore export per i suoi partner commerciali ma anche perché, con tutta probabilità, una Russia meno oligarchica e a più diffusa imprenditorialità è un pre-requisito per una vera democrazia come, forse, ci insegnano proprio gli Stati Uniti.

PS: Acemoglu nel testo linkato argomenta come sia vero il viceversa, e cioè che è la democrazia a generare maggiore imprenditorialità grazie alla rappresentanza di interessi diffusi che essa garantisce. Può anche darsi che sia così, nel lungo periodo, ma in una fase iniziale in cui rimane accentrato il potere e scarsa l’imprenditorialità, solo decisioni amministrative dal centro, da Mosca per intenderci, che aiutino le PMI a nascere e rafforzarsi, possono costituire la scintilla iniziale. Decisioni certamente difficili da immaginare, vista la storia russa di questi ultimi 20 anni, ma certamente più immaginabili di cessioni di potere esplicite da parte degli attuali capi dell’esecutivo.

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Revolution in European Public Procurement for SMEs (in inglese: PMI e Appalti pubblici, la rivoluzione)

My Bangor’s lecture on why a European revolution should start from protecting European SMEs in public procurement.

Il video della mia lezione (in inglese) a Bangor, Galles, sulla rivoluzione europea che protegge le PMI europee negli appalti pubblici, prevista nel programma per l’Italia dei Viaggiatori.

Grazie a Marta.

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La fuga e l’esilio – Appunti di viaggio

"Jenisej", di Vasily Ivanovich Surikov nato nel 1848 a Krasnoyarsk, Siberia

Krasnoyark, Siberia. Gentilmente sfiorata dal lunghissimo, larghissimo e profondo Enisej. Fiume così importante da essere l’unico a essere riuscito a strappare un’adorata figlia al Grande Uomo Bajkal (grandioso lago patrimonio dell’umanità secondo l’Unesco), padre di ben 336 discendenti, i suoi immissari.

Secondo la leggenda il “Grande Uomo Bajkal” giunse in questa regione della Siberia con le sue 337 figlie e decise di fermarsi a riposare; mentre dormiva una delle figlie, l’Angara, alla quale i gabbiani avevano raccontato le prodezze di Enisej, l’uomo-fiume, decise di fuggire per correre verso costui, di cui si era innamorata; svegliatosi, il Bajkal scagliò verso la fuggitiva una pietra, oggi chiamata la Roccia dello Sciamano, ben visibile lungo le rive del Grande Uomo.

L’Angara, dalle acque tanto rapide ed irruente. L’Angara, la donna-fiume, unico fiume della regione a non gelare d’inverno, unico emissario, tramite il quale il lago tributa allo Enisej.

L’Angara, in fuga, o esiliata. In fuga e esiliata.

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La Siberia. Esilio. L’esilio.

Pushkin – a seguito della rivolta del dicembre 1825 di alcuni giovani ufficiali, amici del poeta, a San Pietroburgo che reclamavano una Costituzione e ne ottennero invece impiccagione o esilio, in Siberia – scrisse pochi anni dopo il poema “Vo glubine sibirskikh rud…”, agli esiliati dedicato e pubblicato in Russia solo 50 anni dopo (mia traduzione):

la sorella fedele di tutti  dolori, la speranza, nelle vostre case sotterranee, presto solleverà il coraggio e la Gioia; ed il tempo atteso giungerà”.

Siberia. Esilio. Ex-solum, fuori dal suolo. Ma anche gli esiliati esiliano, lasciano, in una paradossale rivincita, alcuni fuori dall’accesso al suolo siberiano. E’ stato a lungo così per molte città siberiane, non accessibili allo straniero, non russo, “ex-” anche lui, seppure di un altro insieme. Ancora oggi alcune, sebbene pochissime, città siberiane, per ragioni di riservatezza strategica dobbiamo immaginare, sono vietate a chi russo non è. Me lo dice Olga, la brava accompagnatrice che scorta noi relatori stranieri al convegno, ci scorta dovunque, una sorta di esilio anche il nostro, condannati a seguire, per quanto piacevolmente e non sempre, i passi programmati per la città di Krasnoyark da qualcuno che non siamo noi.

Siberia, esilio e dunque la fuga, ovviamente.

E oggi, ascoltando il Primo Ministro Medvedev al convegno, a pochi passi da me, esclamare come la Russia debba competere e battersi per far rientrare “le persone” così che possano vivere in questo Paese (intendeva brillanti ricercatori stranieri, un po’ come fanno gli Stati Uniti) , non mi sono sorpreso più di tanto. Perché è un Paese che, nella lotta disperata per mantenere la crescita economica così da mantenere il consenso politico, ha bisogno di modificare la sua semantica anche nelle sue radici più profonde.

Ma in realtà, mi dico, quello che più di tutti Medvedev e Putin temono non è tanto il mancato ingresso dei cervelli stranieri. E’ piuttosto la fuga dei tanti russi brillanti verso gli Stati Uniti, paese a cui, non a caso e simbolicamente, è stato tolto l’accesso all’adozione di orfani. E’ piuttosto il carcere per chi canta nelle chiese canzoni rock, facendo fuggire nell’aria nuove aspirazioni.

Come se la Russia fosse sempre più in in bilico. Tra il cercare di esiliare tutti i suoi cittadini e il, come dice Pushkin (libera traduzione), liberare tutti verso la fuga verso la piena libertà:

Allora l’amore e l’amicizia recideranno

I tristi chiodi della vostra prigionia,

E come intrudendo nei buchi delle prigioni

La mia voce libera ora vi raggiunge.

E le catene pesanti cascheranno vicino al tavolo,

E le prigioni segrete si apriranno e le voci della libertà

Vi saluteranno al cancello, esultando,

E fratelli vi daranno una spada.

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Ecco le prove: si può fare. Si deve fare.

Quasi 6 mesi fa (qui il tempo passa ma nessuno fa nulla, quindi tutto si deve ripetere) vi illustravo uno dei più importanti lavori di economia usciti di recente riguardanti il dibattito sulla politica fiscale. Era scritto da 3 valenti ricercatori del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Centrale Europea, tutti italiani.

Chiudevo quel post soffermandomi su uno dei loro risultati: che la maggiore spesa pubblica ha più impatto (positivo) sul PIL che la maggiore tassazione (impatto negativo sul PIL), specie in una recessione come la nostra:

Particolarmente importante per me e per quel che sostiene il blog da tempo …. gli effetti della spesa pubblica essendo più potenti delle tasse, la mia proposta (p.s.: di Stiglitz, l’ho solo rubata) in recessione di aumentare la spesa pubblica con pari aumento delle tasse (senza deficit) è decisamente espansiva. Peccato che gli autori non ne esaminino l’impatto sul rapporto debito-PIL: che sarebbe ovviamente quello di farlo calare, con PIL che cresce. Spesa pubblica espansiva oggi, senza deficit, maggiore PIL, minore debito-PIL, minori tassi d’interesse e parte il circolo virtuoso che permette a quel punto di rafforzare l’Europa come Unione da applaudire ed amare perché genera crescita e non sofferenza, finendo poi, nella ripresa, per riabbassare i livelli di spesa pubblica, l’unica cosa che i governi europei non hanno mai sorvegliato e preteso, e Dio sa se dovevano farlo allora, altro che austerità oggi.

Insomma le cose che dico da sempre, con una ripetitività che suona, a me ed a voi, quasi nauseante.

Eppure.

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I tre autori hanno letto il mio pezzo sul blog. E si sono detti disposti, su mia richiesta, ad usare il loro modello per vedere cosa succede al rapporto debito pubblico-PIL, e cioè alla stabilità dei conti pubblici, se usassimo le tasse (finora aumentate in maniera enorme, ma solo per ripagare il debito) per fare maggiore spesa pubblica per acquisti di beni e servizi e infrastrutture, quella spesa di cui parla Janet Yellen, Vice Presidente della Fed, nel post di ieri.

Insomma, se facessimo una manovra come quella contenuta nel Programma per l’Italia dei Viaggiatori che espande del 5% del PIL l’intervento pubblico senza farlo in deficit: cosa succederebbe alle finanze pubbliche ed in particolare al rapporto chiave del debito-PIL  (sappiamo già che il PIL salirebbe, senza dubbio)?

Li devo ringraziare pubblicamente per avermi risposto, per essersi prestati a verificare le mie richieste, non capita spesso di trovare nelle istituzioni chi si mette in gioco in questo modo. E i loro risultati hanno del clamoroso.

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Prima domanda che ho posto al loro modello: “consideriamo una manovra di finanza pubblica che non abbia nessun impatto sul saldo primario, ovvero aumento di tasse e di spesa per lo stesso ammontare” che succederebbe al debito su PIL in un contesto non recessivo ma normale?”

Il grafico che vedete rappresenta sull’asse delle ordinate la dinamica del rapporto debito PIL per diversi valori di shock (sull’asse delle ascisse i trimestri, 20 equivalente dunque a cosa avviene dopo 5 anni) di minore o maggiore intensità (addirittura la linea viola rappresenta un aumento annuale di spesa pubblica e tasse del 5% del PIL, una mega manovra simile a quella dei Viaggiatori).

Cosa notate? Che il debito pubblico-PIL che parte da livelli del 120% si riduce sempre con questo tipo di manovra: aumentare la spesa pubblica via tassazione comporta maggiore PIL e migliori finanze pubbliche, esattamente l’opposto delle stupide manovre austere finora richieste dall’Europa all’Italia.

Questo anche perché con uguali shock su tasse e spesa l’effetto netto sulla crescita è positivo, visto che la spesa pubblica (che gioca un ruolo espansivo) ha moltiplicatori più alti delle tasse. Se si inverte il segno dei due shock (riduzione della spesa e riduzione delle tasse come chiedono Alesina e Giavazzi) il debito su PIL aumenta perché la minore spesa deprime di più il PIL di quanto non lo stimoli la minore tassazione.

L’impatto sul debito-PIL diventa comunque rilevante solo per livelli piuttosto alti di manovre di finanza pubblica: una manovra (linea blu) con un aumento di spesa primaria discrezionale e di tasse dello 0.5% del PIL ogni anno ed ha un effetto positivo ma minimale sul debito-PIL, molto più forte l’impatto (linea viola) di manovre del 5% del PIL. Ma manovre grandi (come 5% di PIL) hanno poco senso se protratte a lungo, perché implicano livelli di spesa e tasse in rapporto al PIL assai poco realisti.

È anche importante notare che questi tipi di shock fiscali così grandi con tutta probabilità spingono l’output oltre il livello potenziale, ed hanno dunque senso solo se esaminati in un contesto recessivo. Ecco perché ho chiesto ai 3 economisti di esaminare gli effetti della stessa manovra, o della sua assenza, in un contesto in cui l’economia sta soffrendo, ovvero in cui è in recessione per uno shock negativo da domanda aggregata. Li ringrazio immensamente per avere fatto anche questa verifica.

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E i risultati sono confermati, come non mai, anzi diventa enorme il potenziale della spesa pubblica finanziata non in deficit.

Seconda domanda posta: in presenza di uno shock negativo della domanda (temporaneo shock negativo della durata di 3 trimestri) che differenza c’è nelle dinamiche del debito tra adottare o no una manovra di finanza pubblica con maggiori spese e pari maggiori tasse?

Nel grafico sottostante vedete la differenza delle dinamiche del debito su PIL con l’adozione o meno di manovre di finanza pubblica come quelle di cui sopra (aumento di spesa pubblica finanziato da tassazione) per diversi livelli di intensità della manovra (meno intensa, blu, più intensa, viola) in caso di recessione.

Notate la linea viola di manovra del 5% del PIL di spesa e tasse. Vedete che dopo 5 anni c’è una differenza di circa 33% di PIL? Dato che senza manovra stile Viaggiatori il debito sale al 133% del PIL dopo 5 anni, con la manovra esso scende a livelli intorno al 100% dopo 5 anni.

In questo caso, l’impatto della manovra sul debito-PIL è maggiore, molto maggiore, dato che i moltiplicatori sono quelli dei periodi di recessione e quindi maggiori.

Queste simulazioni quindi supportano l’adozione di manovre di maggiore spesa pubblica non finanziata in deficit, specie in caso di recessione. Le tasse avendole noi già aumentate, basta usare queste risorse per farci appalti, e sappiamo bene di quanta infrastruttura abbisogna il nostro Paese e di quanto sia facile non farle diventare sprechi con una appropriata leadership di Governo.

Ribadiamo ancora una volta: prendendo per buoni i nostri risultati, però, diventa di centrale importanza che la manovra non sia costruita come diminuzione contemporanea di tasse e spesa à la Alesina-Giavazzi, perché con i nostri moltiplicatori questo porterebbe ad una contrazione del PIL.

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Insomma. Nel caos più totale di questa Europa piccina picciò che va a brandelli per stupida incompetenza o mancanza di coraggio, la ricetta per uscirne fuori c’è, eccome. Per far tornare a crescere il Pil e l’occupazione, far scendere il debito su PIL e stabilizzare dunque i mercati e gli spread su livelli più bassi.

Incredibile ma vero. Si può fare, si deve fare.

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Quella crescita bassa del 2,2%

Mosca, aereoporto. Ho 3 ore da uccidere prima dell’aereo per … Krasnoyark, Siberia. Adesso mi metto a scrivere il pezzo incredibile che dimostra che da un anno e mezzo stiamo dicendo la cosa giusta. Lo facciamo uscire domani. Ma visto che ho letto in aereo il discorso della Yellen e che è funzionale al mio argomento nel prossimo post, tanto vale offrirvi l’antipasto.

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Janet Yellen, eccellente economista statunitense della University of Berkeley ed ora Vice Presidente della Fed, la banca centrale Usa, nel suo ultimo discorso ha parlato di crescita molto bassa per gli Usa negli ultimi anni. Ecco la frase usata:

“nei tre anni da quando è terminata la Grande Recessione (2008-2009), la crescita del PIL in media è stata soltanto del 2,2 per cento l’anno.”

Giuro. Ha detto soltanto. Per un europeo, per un italiano, che dalla Grande Recessione in pratica non è mai uscito, è un colpo basso. A livelli di 2,2%, nel XXI° secolo, noi ci siamo stati nel 2000 (3,7%) e nel 2006 (2,2 esatto) e mai più. Vi dà l’idea di quanto gli americani siano fissati con la crescita rispetto a noi. Nessun leader politico negli Stati Uniti avrebbe una chance di essere rieletto con i numeri prodotti in questi ultimi anni in Italia. Ma tant’è.

Prosegue la Yellen: “nello stesso arco di tempo, dopo le ultime 10 recessioni, il PIL reale crebbe, in media, due volte più veloce, a un tasso del 4,6%. Dunque, perché la ripresa dell’economia dopo questa grande Recessione è stata così debole?”

Già. Perché?

La Yellen propone diverse cause. Ma sulla prima, e la più ovvia, non ha dubbi.

La Storia mostra come la politica fiscale spesso aiuta a sostenere la ripresa economica … azioni fiscali discrezionali, diminuzioni delle aliquote fiscali, spesa pubblica in infrastrutture ed altri beni e servizi, e più duraturi sussidi alla disoccupazione … per esempio dopo la dura recessione del 1981-82, la politica fiscale discrezionale contribuì con un incremento di circa 1% di crescita di PIL reale nel triennio successivo“.

Non dopo questa ultima recessione però. Negli Stati Uniti lo stimolo fiscale dell’Amministrazione Obama si è ben presto interrotto, malgrado sia stato comunque ben più espansivo di quello europeo, determinando una minore ripresa, con tutto quello che ne consegue per le PMI morte ed i tanti disoccupati che non hanno potuto trovare lavoro e sono dunque usciti dalla forza di lavoro:

“il 7,9% di disoccupazione odierno, malgrado sia decisamente inferiore al 10% raggiunto a fine 2009, è comunque il più alto livello di disoccupazione nei 24 anni prima della Grande Recessione, e le stime dei 12 milioni di disoccupati non includono gli 800 mila scoraggiati che sostengono di avere rinunciato a cercare lavoro”.

Ecco un grafico che la dice lunga su quanto poco è stata usata la politica fiscale negli Usa in questa ultima occasione per combattere la recessione:

Gli istogrammi misurano il contributo alla crescita del PIL Usa della politica fiscale di maggiori spese e minori tasse 1 anno (azzurro), 2 anni (blu scuro) e 3 anni (viola) dopo l’inizio della ripresa. Il primo gruppo di istogrammi fa riferimento alla ripresa reaganiana, il secondo quella clintoniana, il terzo quella media dopo tutte le recessioni del dopoguerra, il quarto, appunto, dopo l’ultima recessione, robetta rispetto al passato.

Parola di banchiere centrale, mica di irriducibili comunisti.

Ed ora prendete il transatlantico e lasciatevi alle spalle New York, direzione Rotterdam, Europa o Civitavecchia, Roma. E chiedetevi con che coraggio parlano ancora gli incompetenti policy-makers europei che hanno volontariamente scelto, con l’austerità che potevano tranquillamente evitare, di uccidere PMI e scoraggiare lavoratori dal cercare ancora lavoro.

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Derivati dei governi locali? E perché non guardare anche ai derivati del MEF?

Sull’uso dei derivati da parte del Governo centrale si è sempre sentito parlare pochissimo, rispetto a quanto si è parlato dei derivati degli enti locali. La Corte dei Conti ha finalmente aperto un piccolo ma significativo pertugio. Deve insistere. Citiamo qui il passaggio chiave dalla relazione scritta del Procuratore Generale Salvatore Nottola alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2013. (pagina 193 del pdf e pagina 189 della relazione). I grassetti sono i nostri.

Grazie Daniela.

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“Per questi motivi la normativa si è mossa nel senso di assicurare maggiore trasparenza contrattuale dell’operazione attraverso l’illustrazione di scenari di probabilità. Tuttavia le difficoltà dell’approccio normativo alla materia sono talmente elevate che ad oggi ancora non è stato adottato (se non in bozza) il regolamento del MEF previsto dalla finanziaria 2009 in materia di contratti derivati stipulati da Regioni ed enti locali.

L’utilizzo della finanza derivata concerne anche le amministrazioni centrali dello Stato che dagli anni 90 hanno fatto ampio ricorso a detti strumenti con possibili ripercussioni sui conti pubblici stante la natura di “debito sommerso” che i rischi collegati alla stipulazione dei contratti vengono ad assumere a tutti gli effetti.

L’entità in termini economico/finanziari del fenomeno appare evidente. Nel corso del 2012 l’Italia ha chiuso un debito derivato contratto con la Morgan Stanley (contratto stipulato nel 1994) con una perdita di 2, 6 miliardi di euro. In risposta ad una interpellanza presentata sulla vicenda si è appreso che “alla data del 6 aprile 2012 il nozionale complessivo di strumenti derivati a copertura di debito emessi dalla Repubblica italiana ammonta a circa 160 miliardi di euro, a fronte di titoli in circolazione, al 31 gennaio 2012, per 1.624 miliardi di euro. “Degli strumenti derivati in essere circa 100 miliardi sono interest rate swap, 36 miliardi cross currency swap, 20 swap ion e 3,5 miliardi degli swap ex ISPA”.

Malgrado i chiarimenti non è ancora dato sapere ad oggi quanti dei contratti in essere prevedano delle clausole di estinzione anticipata (Additional Termination Event) come quella presente nel contratto con la Morgan Stanley.

Esigenze di trasparenza ed affidabilità dei conti pubblici, anche al fine di evitare fenomeni speculativi da parte della finanza internazionale , renderebbero opportuna la conoscenza di detto dato, specie alla luce  degli importanti principi richiamati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 70 del 2012 in cui, proprio con riferimento alla mancata previsione di copertura finanziaria di oneri imprevisti derivanti da contratti derivati stipulati dalla Regione Campania, la Corte ha affermato che è necessario che non ci si limiti “a richiedere un’indicazione sommaria e sintetica dei derivati stipulati dall’ente pubblico, ma pretende l’analitica definizione degli oneri già affrontati e la stima di quelli sopravvenienti sulla base delle clausole matematiche in concreto adottate con riferimento all’andamento dei mercati finanziari“.

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Derivati, incompetenza e corruzione: una lezione dal caso MPS

Leggere l’esposto alla Consob da parte dell’anonimo dipendente del Monte dei Paschi di Siena pubblicato sul sito del Corriere è particolarmente istruttivo, sotto molto punti di vista.

Per le incredibili similitudini con le operazioni in derivati che descrivevo nel mio libro del 2001: non solo, come ho già avuto modo di rilevare, la struttura tecnica delle operazioni ma anche la loro conoscenza comune e diffusa, spesso accompagnata da quei sorrisetti ammiccanti a cui si fa riferimento nell’esposto, presso gli operatori di mercato a Londra e altrove, come se fossero operazioni note, all’ordine del giorno. Allora i derivati illeciti o impropri erano con i Governi, oggi col Monte dei Paschi di Siena, domani chissà.

Ma quello che mi ha colpito, leggendo il testo, è un punto di cui continuo ad essere convinto e che ho già riportato in questo blog: che ignoranza, incompetenza, e corruzione sono “complementi strategici”, vanno cioè a braccetto e la presenza di uno rende più probabile la presenza dell’altro.

Nell’esposto si legge:

Che fosse evidente la mala gestione lo si deduceva dalla scarsa preparazione del personale che circondava e circonda il responsabile dell’area, quasi mai in grado di valutare le operazioni proposte delle controparti. Ne consegue che nessuno, Baldassarri incluso, aveva gli strumenti per valutarle … D’altra parte questo non interessava e non interessa in quanto le uniche cose importanti per il Dott. Baldassarri ed il Dott. Vigni era ed è l’impatto in conto economico…. e magari ricevere “qualcos’altro” in cambio”.

Ecco, la competenza avrebbe reso la corruzione più complicata. E la diffusa corruzione ed i facili guadagni che venivano con essa levavano ogni incentivo a formarsi o a assumere giovani competenti. L’unico, Flavio Borghese, che segnalò qualcosa fu subito allontanato: ma questo non è altro che la prova provata che di Flavio Borghese non ne basta uno in ogni organizzazione, ma tanti.

Così funziona la corruzione. Così la si sconfigge. Scommettendo sulla battaglia della competenza, un’armata di giovani ben formati e ben pagati per le loro capacità che pervadano i gangli delle pubbliche amministrazioni e degli uffici dei regolatori pubblici. Oggi la nostra P.A. è vecchia e spesso poco competente: nel migliorarla e premiarla non solo otteniamo benefici diretti, ma anche quello essenziale ed indiretto di togliere ossigeno alla corruzione.

Lo so, pecco di ottimismo: alla fine i regolatori che dovevano agire non si sono mossi e al loro interno c’erano le competenze sufficienti per muoversi e “odorare” le improprietà. Quando nel 2000 girai per il mondo per scrivere il mio libro sui derivati dei governi, ci misi un paio di mesi a sentire la puzza di bruciato (i sorrisetti ammiccanti certo aiutarono a far suonare qualche allarme nella mia testa) e non ero certo l’economista più competente al mondo sui derivati.

Certo, ci vuole la volontà politica. Ma nulla mi toglierà dalla mente che più siamo, e per esserci dobbiamo essere competenti, più diventa difficile per la politica e la stampa collusa nascondere la verità.

Investiamo investiamo investiamo in un settore pubblico forte, competente, retto. Sappiamo come si fa, possiamo farlo.

Grazie Ros.

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La sentenza che scagiona Draghi e il (non) conflitto d’interessi con il G30

“Ma penso che tutti siano d’accordo, Draghi compreso, e che ben presto egli si dimetterà dal G30. Problema chiuso”.

Così chiudevo, circa 6 mesi fa, il mio post sul caso aperto dal Mediatore europeo, una inchiesta sul potenziale conflitto d’interessi di Mario Draghi in quanto membro del Gruppo dei 30. Un gruppo di, appunto, 30 persone creatosi nel 1978, che si autodefinisce organizzazione internazionale privata, no-profit composta da rappresentanti molto senior del settore privato e pubblico e dell’università, che discute e approfondisce tematiche economiche e finanziarie internazionali.

Tale inchiesta era stata aperta sulla base di una denuncia del CEO, Corporate Europe Observatory, che ricordava come “la partecipazione al G30 del Presidente della BCE è incompatibile con l’indipendenza, reputazione ed integrità della BCE” e che dunque “la BCE dovrebbe chiedere al suo Presidente di ritirarsi da tale gruppo”.

Sono membri del G30 tra gli altri:

1) Gerald Corrigan, Managing Director, Goldman Sachs Group, Inc.;

2) Guillermo de la Dehesa Romero, Director, Grupo Santander

3) Arminio Fraga Neto, Founding Partner, Gavea Investimentos;

4) Gerd Häusler, CEO, Bayerisch Landesbank;

5) Guillermo Ortiz, President and Chairman, Grupo Financiero Banorte;

6) David Walker, Senior Advisor, Morgan Stanley International, Inc.;

7) Axel A. Weber, Chairman, UBS.

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Draghi non si è dimesso. Ed il mediatore europeo ha concluso la sua indagine non trovando elementi di una cattiva gestione della BCE nel caso in questione. Ha chiesto tuttavia che la BCE includa sul suo sito l’informazione che il suo presidente è un membro del Gruppo dei 30, anche aggiungendo tale informazione al Curriculum Vitae di Mario Draghi disponibile sul sito della BCE.

Il mediatore, nota come la “BCE, quando contattata la prima volta dal denunciante CEO, fornì una risposta vaga e sulla difensiva.” “Alla luce delle sue crescenti responsabilità e visibilità pubblica, il Meditore incoraggia la BCE ad adottare le giuste misure per migliorare la qualità della sua comunicazione con il pubblico”.

Il Mediatore ha anche notato come “l’art. 41 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea include il diritto di scrivere a qualsiasi istituzione e ricevere una risposta. Dunque i cittadini hanno la possibilità di richiedere alla BCE informazioni addizionali su qualsiasi meeting del Gruppo dei 30 al quale partecipa il Presidente della BCE”.

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Il denunciante CEO aveva contestato alla BCE, a mo’ di esempio, come il Gruppo dei 30 avesse pubblicato un ampio rapporto, scritto dai rappresentanti di  JPMorgan, BNP Paribas, Morgan Stanley e l’associazione dei traders di derivati ISDA, che rigettava la supervisione pubblica o regolazione, ed a favore di un sistema di auto-regolazione, nel campo dei derivati.

Il denunciante, CEO, nel commentare la decisione del Mediatore, ritiene che “le implicazioni del caso sono serie, particolarmente alla luce del crescente ruolo che la BCE ha nella regolazione finanziaria. Ma anche alla luce delle recenti decisioni sulla BCE, specie il caso Bloomberg, in cui la Corte di Giustizia Europea si è schierata con la BCE, concordando come questa poteva definire “segreti” documenti su derivati legati alla crisi finanziaria.”

“CEO considera che le attuali regole dell’Unione europea sulla responsabilità (accountability) e sui conflitti d’interesse sono chiaramente inadeguate e continuano a permettere alla BCE di operare senza alcun serio scrutinio democratico.”

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“Ma penso che tutti siano d’accordo, Draghi compreso, e che ben presto egli si dimetterà dal G30. Problema chiuso”.

A quanto pare, mi sbagliavo. Anche alla luce di un potenziale incarico sulla vigilanza bancaria europea alla BCE mi pare straordinaria una decisione di questo tipo.

Ma, ho sempre letto sui giornali, che si usa dire che le sentenze non si commentano. Non ho dunque nulla da aggiungere. Proprio nulla.

Grazie a Marta.