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E ora non vi azzardate a chiedere il prestito alla BCE

Eccoci qui.

A dire ai mercati l’ovvio, ovvero che l’esito elettorale italiano dovrebbe vederli entusiasti, a tal punto da abbassare gli spread di tutti i governi europei dell’area euro Sud. Perché se è vero che io non ho tifato per questo esito, a guardarlo da vicino ne apprezzo più le qualità dei difetti inevitabili che accompagnano ogni tornata elettorale e ogni nuova composizione parlamentare.

E a puntualizzare le poche cose che mai, mai e poi mai dovremo fare in questo nuovo contesto.

*

Comincio dalle seconde. Mai, mai e poi mai cedere all’idea che si debba negoziare un prestito in aiuto dalla BCE, magari perché in preda al panico di uno spread che sale verso quota, chissà, 400. Perché come ben sappiamo questo aiuto viene in cambio di austerità. E l’Italia ha votato chiaramente, come richiamava il Premio Nobel Krugman: contro l’austerità.

E allora? Anche se fosse? Non saremmo comunque obbligati a farlo?

No. Mai. Sarebbe un suicidio.

Di suicidio convinto e liberatorio mi ricordo solo quello di Thelma e Louise nel grande film di Ridley Scott. Anche loro potevano arrestare la loro folle corsa verso il baratro ma scelsero di non farlo. Una scelta obbligata dalle circostanze e dal persistente inseguimento delle tutte identiche e burocratiche autovetture della polizia. Anche noi abbiamo i tanti funzionari grigi della Commissione europea che ci obbligano a lanciarci verso il suicidio chiedendoci ancora austerità (magari su questo punto tornerò con un altro post), ma la differenza è che possiamo dire “no” ed imboccare un’altra strada. Non solo, ma il “no” italiano può innescare una serie di dinamiche positive in Europa che porterebbe il continente a vedere finalmente la luce del sole e ad adottare le giuste politiche, le sole politiche in queste circostanze, per proseguire sul cammino comune europeo, rendendo docili e mansueti mercati e burocrati.

Abbiamo votato.

Contro l’austerità.

Contro l’austerità.

Contro l’austerità!

E’ stato un urlo corale, immenso che è venuto da tutta la penisola: la sconfitta di Monti in questo senso è mostruosa, ha perso 90 a 10. Avesse ascoltato quanto gli chiedevamo da questo blog da più di anno chissà … Ma no, non era nel suo DNA, l’anti austerità. Ha perso, e gli va dato atto dell’eleganza del gesto di ammettere subito la sconfitta. Ma ora è fuori, basta. E non deve rientrare dalla finestra sotto le mentite spoglie di una organizzazione non politica basata a Francoforte a cui non spettano decisioni decisive per il nostro futuro come quelle delle politiche economiche da adottare.

Ma non è nemmeno questione di attribuzione o meno di competenze. E’ questione, appunto, di evitare il suicidio.

L’ingresso a gamba tesa della BCE sarebbe un suicidio per coloro come me che credono ancora nel fatto che senza euro s’interromperebbe per un lungo periodo la costruzione comune europea e vedono in ciò una sciagura.

Sono 2 i motivi che mi portano a sostenere che l’intervento della BCE porterebbe alla fine dell’euro. Primo, perché l’austerità negoziata nell’accordo con la BCE ucciderebbe l’euro (non è l’euro che genera austerità, ma le folli politiche che si perseguono all’interno della sua area) tramite quella recessione che con il voto abbiamo rifiutato. Secondo, perché con il voto abbiamo anche rifiutato 90 a 10 che la nostra politica economica fosse dettata unilateralmente da Bruxelles come è stata in maniera ottusa in questi ultimi anni.

Continuare a giocare con i processi democratici come se nulla fosse, ignorandoli, non sarebbe più tollerato: sarebbe una prova eclatante della non democraticità dell’attuale costruzione istituzionale europea che non rispetta il voto popolare, una prova talmente eclatante da rendere il partito non euro sempre più forte. Entro 1 anno la coalizione di Grillo, che pure oggi non è a vocazione maggioritaria contro l’euro, si riempirebbe di adepti dell’uscita dall’euro, richiedendo ed ottenendo un referendum su questo e con buone possibilità vincendolo. Usciremo dall’euro, pensando di avere risolto i nostri problemi e invece di avere combattuto per un’Europa migliore avremo abbandonato la sfida di migliorarci tramite dialogo e crescita. Ma sarebbe inevitabile.

I mercati capiscano questo e nel loro stesso interesse scommettano invece sugli aspetti incredibilmente pieni di opportunità che ci consegna questo voto.

*

Quali opportunità?

Per prima cosa la possibilità finalmente concreta di negoziare con Bruxelles in maniera più convinta politiche a favore della crescita. L’Italia, al contrario di Grecia, Irlanda, Francia, Olanda, Spagna, ha avuto il coraggio piuttosto unico e raro di votare  senza se e senza ma contro l’austerità. I suoi rappresentanti, al tavolo politico europeo, non potranno presentarsi come hanno fatto sinora consistentemente tutti i leader vincitori delle consultazioni nei Paesi di cui sopra ovvero: parto per Bruxelles per dire no all’austerità e arrivo a Bruxelles e mi taccio umilmente (Hollande essendo forse il caso più smaccato di questo atteggiamento). Ecco, l’Italia può diventare il perno dell’alleanza per la crescita al tavolo europeo. Quello che Monti non è mai stato capace né desideroso di essere. E questo non può che far piacere ai mercati: non che l’Italia si attivi da sola, unilateralmente, cosa che li terrorizza, forse a ragione, ma insieme, con una strategia unita e coerente per la crescita. Perché nessuno ama avere un debito con una controparte la cui attività economica costantemente declina.

Ma di quale crescita parliamo? Anche qui è fondamentale capire che la nuova composizione parlamentare può tornare estremamente utile per fare finalmente chiarezza. Non la crescita via riforme imposte da Bruxelles, uguali per tutti i Paesi. Non le riforme dei taxi quando i taxi sono vuoti a causa della recessione. Non la riforma delle pensioni che lascia giovani ed esodati senza un lavoro. Non la riforma del mercato del lavoro che alza i costi delle imprese, nega i sussidi di disoccupazione ai giovani, riduce la domanda di consumi rendendo i licenziamenti più facili e quindi introducendo maggiore precarietà nel momento peggiore. Non la spending review fatta a casaccio che taglia risorse alle amministrazioni virtuose come a quelle più bisognose, riducendo l’unica fonte di domanda alle imprese attivabile in questa recessione, quella pubblica.

No. Parliamo della crescita che nasce dalla solida alleanza tra politiche delle infrastrutture e politiche della lotta agli sprechi. Ovvero quelle politiche che non solo ridanno fiato alla domanda interna ma abbattono i costi di competere delle nostre imprese perché vanno ad incidere sui nostri ritardi strutturali veri, non quelli che dice Bruxelles spesso senza sapere quello di cui parla. Non quelle facili da fare ma inutili. Politiche, piuttosto, che creano risorse abbattendo la recessione e usano parte di quelle risorse per compensare se del caso gli sconfitti dal cambiamento strutturale in cui si avvierà il Paese con le riforme vere di cui abbiamo bisogno.

Abbattimento della burocrazia pervasiva, della tassazione sul lavoro, dei ritardati pagamenti che mangiano vive le piccole imprese. Anti corruzione, ma vera. Riforma universitaria, ma vera. Riforma della scuola, riforma liberale e democratica. Veri investimenti senza sprechi: nelle carceri, nelle Pompei, nelle scuole, sul riassesto del territorio, sulle vie commerciali, negli ospedali, nei tribunali, nella ricerca.

Sono temi di cui su questo blog parliamo da sempre. Sono temi che vedono sensibile la coalizione del Movimento a 5 stelle. I mercati dovrebbero brindare alla possibilità che questi ritardi strutturali avranno finalmente più probabilità di entrare nell’Agenda (ooops) del Paese.

Come devono brindare alla quasi-fine di un quindicennio che ha visto spesso (anche se non sempre) una leadership incompetente al comando. Nulla ci garantisce che il Movimento a 5 stelle non riempirà le aule del Parlamento di decreti scritti male, di caos demagogico e populistico, di incompetenza. Anche se, se il buongiorno si vede dal mattino, l’atteggiamento adottato nel Consiglio regionale siciliano dal Movimento depone bene, è costruttivo e, a quel che mi è dato sentire, per ora efficace. Non è nemmeno pensabile che un partito nuovo che attragga il 25% dei votanti non sia stato capace di trovare al suo interno gente pulita e competente. E certamente non sarà difficile fare meglio di quanto è stato fatto in quest’ultimo quindicennio. Tanti motivi per dire ai mercati: aspettate e guardate, il potenziale c’è tutto.

Certo a fronte di una novità Grillo che giudicheremo nel tempo manca ancora in questo Paese la novità di una forza convintamente liberale e democratica, che metta al centro del suo progetto impresa e sviluppo abbinandolo a solidarietà vera per restaurare le pari opportunità dei discriminati. Non è detto che a questa costruzione non ci si possa dedicare nei prossimi mesi, con la buona volontà dei tanti che non si ritrovano in Grillo ma che sentono il bisogno di far entrare il nostro Paese nel XXI secolo edin Europa con tutto quel nostro enorme potenziale che non abbiamo ancora saputo mettere al servizio della felicità di questa e delle future generazioni.

Ma ai mercati, sono certo, può bastare per ora l’incredibile laboratorio di innovazione sociale che la penisola italiana può finalmente diventare per l’Europa. Sarebbe una mossa autolesionista prevenirne il successo facendosi prendere da un panico che noi italiani non abbiamo avuto nel votare come abbiamo votato contro l’austerità.

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Why the Italian vote is good news for financial markets

Make no mistake this time. The Italian vote should make investors rejoice. Here are 4 reasons why and why markets can gain from it:

a)    Paul Krugman rightly called the Italian election a test on austerity. Austerity has lost. It is quite a remarkable and unique result. Italian voters have been clearer than Greek, Irish, Spanish, French, Dutch voters so far: we have said clearly and loudly that austerity is not in our best interest. If it is not in the best interest of Italians, it should not be in the best interest of markets, which most of all from Italy and Europe are expecting policies capable of creating growth.

Italy could become the igniter of a new approach to growth-oriented policies in the euro area. I did not say in Italy: I am not talking about policies that are taken unilaterally. I am talking about an alliance of the willing who so far have shown incredible shyness in fighting against austerity at the European Council table. I am talking about letting the euro Northern countries become aware once and for all of the obvious: that the suffering of Southern euro countries would one day become the suffering of the whole area.

In this sense, asking the ECB to step-in and provide support in exchange for austerity would be a disastrous plan with severe unintended consequences that even usually sensitive opinion-makers like FT’s Munchau seem not gauge fully.

If Italy were to submit to such a plan in the face of a spread rising to 400 or 500 basis points the coalition of the Italian voters in favor of an exit from the euro would grow substantially. So much that in a next election (which is likely to be called within the next year or so) a referendum could be called on the euro issue, and at that point it would be one that would have the serious chance of seeing Italy abandon the common currency.

There is instead ample space for sustaining an expansion of European internal demand through public spending and lower taxes that first stops and then reverses the huge growth of the public-debt ratio that austerity has generated in weakly perfoming member States. These expansions can be deficit-based in Northern countries and with a balanced budget approach in Southern countries. Italy for example has raised enough taxes in the past year to have the resources to dedicate to sorely needed public investment programs rather than to improving its primary surplus. By so doing the growth that would follow would make Italian public accounts improve, together with a boost to the competitiveness and capacity utilization of Italian firms. An element financial markets should rejoice upon, since it would make Italian capacity to repy more sustainable;

b)    Growth-oriented policies should not be considered those under the uncertain label of “European-wide reforms”, that is those reforms enforced homogeneously across member states under the supervision of the European Commission. These reforms, proposed and sometimes enacted by the Monti Government, have vastly failed. Both in terms of approval (Monti’s party results having been sanctioned by the voters) and in terms of impact, two circumstances that are clearly intertwined. They have failed because they were and were rightly perceived as either irrelevant (cab reform, when nobody wanted to ride on cabs because of the recession) or damaging (labor market reform that, in the midst of a very hard recession raised the cost of hiring and made consumption demand collapse in the face of greater uncertainty about job precariousness; or a spending review that cut spending independently of whether it was good or bad spending) or erroneous (the Italian pension reform left many workers without a job and without a pension because of legislative mistakes).

All these wrong reforms that ousted Monti from political relevance are due to the fact that they were negotiated at the European level, with little knowledge of the true and non recessionary reforms  that the country needs. Italy is in bad need of its own, specific, reforms over which Europe has so far helped little in forcing us to adopt them: anti corruption, public investment in critical assets that are non maintained and crumbling, university enrollment, school reorganization, support in terms of internal demand and lower red tape to SMEs. Mr. Grillo’s movement has a keen interest in some of these reforms and will likely push the debate a step forward on these issues that are critical for long-run competitiveness of Italy without generating a suicidal recession. Markets should push for this momentous occasion to ask Italy once and for all to take advantage of these few months before a new election to support those reforms.

c) An ECB-led austerity plan in exchange for support would not only be an economic faux-pas: it would generate a political tsunami of vast proportions that would rock the Italian prospects of remaining in the euro area. The sensitivity of Italian citizens to the (wrong) impositions from Europe and the related perception of an increasing lack of a European democratic process are the 2 factors that, together with austerity, explain the success of Grillo and the defeat of Monti. Were we, in the face of a just-occurred democratic process of voting, surrender our autonomy in economic policy to a foreign-based, independent institution would be equivalent to throw 1000 burning cigarettes in a huge and dry forest: a massive destructive fire would ensue. Grillo’s party, which is not currently made by a majority of  anti-euro voters, would see an immediate increase in popularity and an increasing share of its electoral base against the euro. It would be sheer folly for markets not to understand this and ask for ECB support.

d)    Finally, one word about politics. Italy’s disastrous economic performance in the past 15 years is no doubt related to the disastrous leadrship performance of many (albeit not all) of its Prime Ministers. The fact that most of these leaders (albeit one is still heavily there!) have been forced out of the Parliament or heavily penalized by the vote is a result that should rejoice markets since it enhances the likelihood of a bright future ahead of us with new leaders in traditional parties (like Mr. Renzi in the left coalition and possibly one day a new conservative leader) more likely. Also, Grillo’s MP will probably prove to be competent, much more than we think: the way they are working with the Center-Left regional government of Sicily is a prima-facie indication of this.

To sum up. Markets should rejoice. Italian voters’ courage and inventiveness give new hope and energy to a sick Europe. Any older version of politics running the sow would have seen much more of the same and that would have simply prolonged a slow death of Europe by exit of the euro of some of its most suffering members. Markets should give a chance to this new experiment, for their own self-interest, that is, just like good Adam Smith always said.

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Public Procurers: Angels or Demons?

Click here for my video presentation in Krasnoyarsk on Angels and Demons in Public Procurement (thank you Olga).

As for some fond memories, here we are, with Prof. Peter Havlik and Dr. Dalbir Singh at -30 degrees Celsius near the Yenisej river. Unforgettable.

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Dareste l’Italia in mano ad un economista?

Luizi Zingales e Paola Sapienza hanno ultimato il 1mo febbraio un lavoro che è stato pubblicato nei Working Papers della Booth School of Business della University of Chicago, dove lavora Zingales. La stessa Scuola presso la quale  Oscar Giannino ha detto di avere conseguito, e così non era, un Master.

Fa un po’ sorridere il tema del lavoro: “i programmi politici fatti da economisti non trovano sostegno tra la gente comune”. Fa sorridere solo perché lo scrive Zingales, che si è impegnato in prima persona nel creare un movimento politico che al suo interno ha come estensori del programma molti economisti ed anche perché Zingales si è ritirato da quello  stesso partito pochi giorni prima della campagna elettorale in reazione alle comunicazioni non corrette di Giannino sul Master.

Ma al di là del sorridere, il lavoro pone una questione chiave. Vale dunque ripercorrerlo e sintetizzarne prima alcuni risultati.

*

a) Le opinioni su temi economici di noti economisti che insegnano nelle migliori scuole (di élite, così si legge sul lavoro dei due ricercatori) differiscono molto da quelle della gente comune: la percentuale media di accordo su un tema differisce addirittura del 35%.

b) Il disaccordo è maggiore là dove maggiore è l’accordo tra economisti (secondo gli autori perché là dove la questione ha un’unica soluzione, come per un’equazione matematica, quella vale per tutti gli economisti mentre la gente comune risponderebbe … casualmente);

c) Se alla gente comune si comunica come hanno risposto ad una domanda gli economisti, questa non cambia opinione. Anzi, se a questa si chiede “sono difficili da prevedere i prezzi delle azioni”, il 55% risponde sì, ma quando gli si dice che gli economisti alla stessa domanda rispondono di sì compatti, allora la gente comune dice “sì” … solo per il 42%. Ovvero, dimmi cosa dice un economista e crederò nel contrario.

Tante ragioni per spiegare questi risultati, ma la più convincente secondo Sapienza e Zingales è la mancanza di fiducia della gente comune sulle assunzioni alla base dei ragionamenti degli economisti.

Mancanza di fiducia? Ok, ma è una mancanza di fiducia che ha una sua ragione di essere? E’ giustificata?

Concludono gli autori: “La nostra analisi suggerisce cautela nell’utilizzo di queste opinioni di esperti economisti come una leva utile per fare politica economica. Il contesto in cui queste domande vengono poste induce gli economisti a rispondere in senso letterale, dando per scontato che valgano le ipotesi standard (del modello di riferimento da loro utilizzato, NdR)”.

Bene. Ma un Ministero, questi economisti, un Governo, questi economisti, al dunque, saprebbero gestirlo? Saprebbero dare la risposta giusta alle esigenze concrete della popolazione?

E’ quello che si chiedono gli autori.

“Sperabilmente, questi stessi economisti, quando danno consigli ai politici, risponderebbero alle stesse questioni in modo diverso. Altrimenti, dovremmo concludere come disse William F. Buckley, Jr. che “preferirei affidare il Governo degli Stati Uniti alle prime 400 persone riportate nell’elenco telefonico di Boston che ai membri della Facoltà di Harvard”.”

Sembra trasparire da questa risposta un punto importante: che il vero rischio non è tanto che sia la gente comune a sbagliare nelle sue opinioni, ma che siano gli economisti a non possedere la cultura generale, il senso pratico, la deontologia professionale, la sensibilità per capire che la realtà non è mai un’equazione con la risposta esatta ma con una risposta che varia immensamente dal contesto, dai valori, dalla storia, dalla capacità di negoziare, dalle dinamiche sociali.

Quando leggo la Prof.ssa Fornero dire ieri alla stampa, giudicando l’anno del Governo Monti, che “all’inizio Mario Monti ha cercato di includere. Ma quello era il momento invece per spingere sull’acceleratore. Penso che, guardandomi indietro, avremmo dovuto mostrare più determinazione … Forse siamo stati ingenui”, ecco, ringrazio ancora Iddio per questa ingenuità.

Perché non c’è nulla di peggio di quando i modelli economici astratti e non adattati alla realtà diventano politica economica tramite l’imposizione.

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Italian elections. 4 marzo 2013, 80 anni dopo, un leader si rivolge ad una Nazione in difficoltà

Often I am asked by journalists what Italy needs. It needs leadership I say to them. What do you mean by leadership, I am asked? I mean the leadership that was shown by Franklin Delano Roosevelt. How would you define such leadership, I am asked? One that is capable of moving a nation, with all possible democratic means, to face an unprecedented emergency with the strongest resolution the largest amount of resources and the greatest dedication to the public good.

So what would you want from the winner of the next Italian elections as a first step? I would like to hear the words I heard 80 years ago from Roosevelt to a crippling nation the day of his Inauguration.

Mi chiedono spesso i giornalisti stranieri: secondo lei, di cosa ha bisogno l’Italia. Leadership, gli rispondo. Ma cosa significa “leadership”, mi ribatte una giornalista. Intendo con leadership quella che mostrò il Presidente Franklin Delano Roosevelt negli Stati Uniti durante la Grande Depressione degli anni 30. Sì, ma come definirebbe tale leadership. Una volontà capace di portare una nazione, con tutti i mezzi democratici a sua disposizione, a fronteggiare una emergenza mai fino ad ora conosciuta, con la più convinta determinazione, la più ampia disponibilità di risorse e il più sincero attaccamento al bene comune.

E dunque cosa vorrebbe che facesse il leader della coalizione italiana vincitrice delle prossime elezioni. Vorrei che facesse risuonare da subito per tutto il Paese parole molto simili a quelle che Roosevelt indirizzò ad una nazione allo sbando il giorno dell’inaugurazione del suo primo mandato, il 4 marzo 1933. 80 anni dopo, il 4 marzo 2013.

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I am certain that my fellow Americans expect that on my induction into the Presidency I will address them with a candor and a decision which the present situation of our people impel. This is preeminently the time to speak the truth, the whole truth, frankly and boldly. Nor need we shrink from honestly facing conditions in our country today. This great Nation will endure as it has endured, will revive and will prosper. So, first of all, let me assert my firm belief that the only thing we have to fear is fear itself—nameless, unreasoning, unjustified terror which paralyzes needed efforts to convert retreat into advance. In every dark hour of our national life a leadership of frankness and vigor has met with that understanding and support of the people themselves which is essential to victory. I am convinced that you will again give that support to leadership in these critical days.

In such a spirit on my part and on yours we face our common difficulties. They concern, thank God, only material things. Values have shrunken to fantastic levels; taxes have risen; our ability to pay has fallen; government of all kinds is faced by serious curtailment of income; the means of exchange are frozen in the currents of trade; the withered leaves of industrial enterprise lie on every side; farmers find no markets for their produce; the savings of many years in thousands of families are gone.

More important, a host of unemployed citizens face the grim problem of existence, and an equally great number toil with little return. Only a foolish optimist can deny the dark realities of the moment.

Yet our distress comes from no failure of substance. We are stricken by no plague of locusts. Compared with the perils which our forefathers conquered because they believed and were not afraid, we have still much to be thankful for. Nature still offers her bounty and human efforts have multiplied it. Plenty is at our doorstep, but a generous use of it languishes in the very sight of the supply. Primarily this is because the rulers of the exchange of mankind’s goods have failed, through their own stubbornness and their own incompetence, have admitted their failure, and abdicated. Practices of the unscrupulous money changers stand indicted in the court of public opinion, rejected by the hearts and minds of men.

True they have tried, but their efforts have been cast in the pattern of an outworn tradition. Faced by failure of credit they have proposed only the lending of more money. Stripped of the lure of profit by which to induce our people to follow their false leadership, they have resorted to exhortations, pleading tearfully for restored confidence. They know only the rules of a generation of self-seekers. They have no vision, and when there is no vision the people perish.

The money changers have fled from their high seats in the temple of our civilization. We may now restore that temple to the ancient truths. The measure of the restoration lies in the extent to which we apply social values more noble than mere monetary profit.

Happiness lies not in the mere possession of money; it lies in the joy of achievement, in the thrill of creative effort. The joy and moral stimulation of work no longer must be forgotten in the mad chase of evanescent profits. These dark days will be worth all they cost us if they teach us that our true destiny is not to be ministered unto but to minister to ourselves and to our fellow men.

Recognition of the falsity of material wealth as the standard of success goes hand in hand with the abandonment of the false belief that public office and high political position are to be valued only by the standards of pride of place and personal profit; and there must be an end to a conduct in banking and in business which too often has given to a sacred trust the likeness of callous and selfish wrongdoing. Small wonder that confidence languishes, for it thrives only on honesty, on honor, on the sacredness of obligations, on faithful protection, on unselfish performance; without them it cannot live.

Restoration calls, however, not for changes in ethics alone. This Nation asks for action, and action now.

Our greatest primary task is to put people to work. This is no unsolvable problem if we face it wisely and courageously. It can be accomplished in part by direct recruiting by the Government itself, treating the task as we would treat the emergency of a war, but at the same time, through this employment, accomplishing greatly needed projects to stimulate and reorganize the use of our natural resources.

Hand in hand with this we must frankly recognize the overbalance of population in our industrial centers and, by engaging on a national scale in a redistribution, endeavor to provide a better use of the land for those best fitted for the land. The task can be helped by definite efforts to raise the values of agricultural products and with this the power to purchase the output of our cities. It can be helped by preventing realistically the tragedy of the growing loss through foreclosure of our small homes and our farms. It can be helped by insistence that the Federal, State, and local governments act forthwith on the demand that their cost be drastically reduced. It can be helped by the unifying of relief activities which today are often scattered, uneconomical, and unequal. It can be helped by national planning for and supervision of all forms of transportation and of communications and other utilities which have a definitely public character. There are many ways in which it can be helped, but it can never be helped merely by talking about it. We must act and act quickly.

Finally, in our progress toward a resumption of work we require two safeguards against a return of the evils of the old order; there must be a strict supervision of all banking and credits and investments; there must be an end to speculation with other people’s money, and there must be provision for an adequate but sound currency.

There are the lines of attack. I shall presently urge upon a new Congress in special session detailed measures for their fulfillment, and I shall seek the immediate assistance of the several States.

Through this program of action we address ourselves to putting our own national house in order and making income balance outgo. Our international trade relations, though vastly important, are in point of time and necessity secondary to the establishment of a sound national economy. I favor as a practical policy the putting of first things first. I shall spare no effort to restore world trade by international economic readjustment, but the emergency at home cannot wait on that accomplishment.

The basic thought that guides these specific means of national recovery is not narrowly nationalistic. It is the insistence, as a first consideration, upon the interdependence of the various elements in all parts of the United States—a recognition of the old and permanently important manifestation of the American spirit of the pioneer. It is the way to recovery. It is the immediate way. It is the strongest assurance that the recovery will endure.

In the field of world policy I would dedicate this Nation to the policy of the good neighbor—the neighbor who resolutely respects himself and, because he does so, respects the rights of others—the neighbor who respects his obligations and respects the sanctity of his agreements in and with a world of neighbors.

If I read the temper of our people correctly, we now realize as we have never realized before our interdependence on each other; that we can not merely take but we must give as well; that if we are to go forward, we must move as a trained and loyal army willing to sacrifice for the good of a common discipline, because without such discipline no progress is made, no leadership becomes effective. We are, I know, ready and willing to submit our lives and property to such discipline, because it makes possible a leadership which aims at a larger good. This I propose to offer, pledging that the larger purposes will bind upon us all as a sacred obligation with a unity of duty hitherto evoked only in time of armed strife.

With this pledge taken, I assume unhesitatingly the leadership of this great army of our people dedicated to a disciplined attack upon our common problems.

Action in this image and to this end is feasible under the form of government which we have inherited from our ancestors. Our Constitution is so simple and practical that it is possible always to meet extraordinary needs by changes in emphasis and arrangement without loss of essential form. That is why our constitutional system has proved itself the most superbly enduring political mechanism the modern world has produced. It has met every stress of vast expansion of territory, of foreign wars, of bitter internal strife, of world relations.

It is to be hoped that the normal balance of executive and legislative authority may be wholly adequate to meet the unprecedented task before us. But it may be that an unprecedented demand and need for undelayed action may call for temporary departure from that normal balance of public procedure.

I am prepared under my constitutional duty to recommend the measures that a stricken nation in the midst of a stricken world may require. These measures, or such other measures as the Congress may build out of its experience and wisdom, I shall seek, within my constitutional authority, to bring to speedy adoption.

But in the event that the Congress shall fail to take one of these two courses, and in the event that the national emergency is still critical, I shall not evade the clear course of duty that will then confront me. I shall ask the Congress for the one remaining instrument to meet the crisis—broad Executive power to wage a war against the emergency, as great as the power that would be given to me if we were in fact invaded by a foreign foe.

For the trust reposed in me I will return the courage and the devotion that befit the time. I can do no less.

We face the arduous days that lie before us in the warm courage of the national unity; with the clear consciousness of seeking old and precious moral values; with the clean satisfaction that comes from the stern performance of duty by old and young alike. We aim at the assurance of a rounded and permanent national life.

We do not distrust the future of essential democracy. The people of the United States have not failed. In their need they have registered a mandate that they want direct, vigorous action. They have asked for discipline and direction under leadership. They have made me the present instrument of their wishes. In the spirit of the gift I take it.

In this dedication of a Nation we humbly ask the blessing of God. May He protect each and every one of us. May He guide me in the days to come.

Source: Franklin D. Roosevelt, Inaugural Address, March 4, 1933, as published in Samuel Rosenman, ed., The Public Papers of Franklin D. Roosevelt, Volume Two: The Year of Crisis, 1933 (New York: Random House, 1938), 11–16.

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L’alleanza di quelli con il verbo al futuro

Tänään on kylmää

Oggi fa freddo, in finlandese.

Huomenna on kylmää

Domani fa freddo, in finlandese.

Pardon, farà freddo. Ma i finlandesi dicono così: domani fa freddo. Come oggi. Fa freddo.

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C’è chi, nel parlare del futuro, non ha bisogno di marcare la differenza con il tempo del verbo. Noi sì. Anche i francesi, e tutti coloro che parlano in inglese. Che differenziano nel verbo a seconda che si parli del presente o del futuro.

I tedeschi, no: Morgen regnet es. Domani piove. Sì domani piove, non “domani pioverà”. I cinesi nemmeno.

Cosa succede se da più di duemila anni ti eserciti con un linguaggio che non marca le differenze tra presente e futuro?

Oh, cose incredibili. Almeno secondo il giovane Prof. Keith Chen della Yale University, ormai alla ribalta, negli Stati Uniti, con la sua ricerca pubblicata sul giornale più prestigioso per noi economisti, l’American Economic Review sul legame tra struttura del linguaggio e scelte di risparmio. (In calce al blog il video-short dove descrive ad un pubblico non specialistico il suo lavoro).

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Chen esamina quei linguaggi che nel discorrere abituale richiedono di dissociare il futuro dal presente (italiano, inglese) e quelli che non lo fanno (tedesco, cinese).

E afferma: quelle persone che distinguono nel loro parlare corrente tra presente e futuro? Risparmiano di meno. Perché creano uno iato mentale tra i due momenti. Perché fanno sentire distante, meno rilevante dell’oggi, il futuro. Oppure perché chi marca distintamente il futuro nel suo discorrere ha su questo meno incertezze e quindi necessita di risparmiare di meno.

Un po’ come gli effetti permanenti della Grande Depressione che aumentò per lungo tempo la propensione al risparmio dei nostri bisnonni e nonni, sconvolti dal dubbio che quella tempesta sarebbe un giorno tornata.

E cosa scopre Chen? Scopre che, in aggiunta a tutti i fattori che già sappiamo influenzano le scelte di risparmio, il linguaggio che utilizziamo è capace di spiegare in maniera statisticamente significativa perché si risparmia: addirittura i paesi con lingua “che differenzia il futuro” (barre scure) risparmiano in media il 6% in meno di PIL rispetto ai paesi con lingua dominante “che non differenzia tra presente e futuro” (barre bianche). E i pensionati che parlano lingue “con futuro” hanno accumulato circa il 39% di ricchezza finanziaria in meno di pensionati equivalenti che parlano lingue “senza futuro”.

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Certo, la lingua potrebbe essere il segnale di un qualcos’altro nella cultura in questione che spiega il risparmio: Chen cerca questo qualcos’altro ma non lo trova.

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E così eccovi spiegati in un attimo le differenze di risparmio tra tedeschi ed italiani che spiegano la crisi? Tutta una questione linguistica? Chissà.

Certo è che se così fosse l’Europa avrebbe nel suo DNA l’antidoto alla crisi: il comune parlare (in inglese?) dovrebbe … lentamente avvicinarci. Questione di qualche decennio o forse secolo. E i tedeschi diverranno più … spendaccioni. :-)

E’ anche vero che la recessione attuale comincia, almeno per l’area “sud” dell’euro, ad assomigliare sempre più alla Grande Depressione degli anni Trenta (ancora più buia, forse, vista l’assenza di un Roosevelt che possa salvarci). Se così fosse, ben presto dovremmo assistere, al di là del linguaggio, ad una crescita strutturale del tasso di risparmio del Sud a causa del crescente timore ed incertezza sul futuro. Un altro fattore di convergenza, così come auspicato dai tedeschi?

Purtroppo no. Parliamo di effetti di lungo periodo. Affascinanti di per sé. Ma quando l’austerità avrà ucciso l’Europa sarà troppo tardi per rallegrarci di una tale convergenza.

Ecco. Se vi è qualcosa che possiamo trarre dall’affascinante studio di Chen è proprio sull’austerità.

Se i tedeschi hanno una lingua che gli fa dare lo stesso peso a presente e futuro e dunque a guardare con maggiore intensità al futuro di quanto non facciano italiani e greci, rovesciamolo, questo risultato: i tedeschi danno culturalmente meno peso al presente di quanto non facciamo noi ed i greci. Se così è, si capirebbe perché si ostinano a non comprendere i drammi del consumo corrente e dell’attuale occupazione dei paesi in preda a crisi gravissime. E pensano che riforme a 10 anni possano essere utili a risolvere i problemi.

Una ragione in più per costituire un’alleanza politica che fronteggi e si contrapponga ai tedeschi in un franco dibattito contro l’austerità. L’alleanza di quelli con il verbo al futuro.

 

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Il giullare d’Europa e quella stupida prova di cui (non) abbiamo bisogno

Dentro il modello economico della Commissione europea, incastrato tra due complicate equazioni, c’è un piccolo giullare, sorridente. Come quello che vedete nella fotografia.

Il suo status? Asservito all’elite di Bruxelles. Il suo compito? Ridare slancio ed allegria alle sempre più nere previsioni della Commissione, uscite, oggi, come ogni trimestre.

E dunque eccolo di nuovo qui, ad aiutare un re-padrone in difficoltà, obbligato a spiegarci come sia possibile che solo 3 mesi fa la sua previsione di crescita 2013 per l’area euro era +0,1% ed oggi è di -0,3%, facendo entrare formalmente l’economia dell’area per il  secondo anno consecutivo in recessione, come l’Italia.

Il piccolo giullare deve giustificare, come per tutti i modelli economici, l’impossibile: ovvero che tutto ritornerà a splendere, se si seguiranno i consigli del re-padrone, non quest’anno, ma … l’anno prossimo.

Ma certo, perché no, il 2014. Visto che doveva essere il 2013, ma chissà perché non lo è stato, l’anno della ripresa, allora adesso annunciamo urbi et orbi che c’è poco da temere. Verrà, siate pazienti, verrà. Nel 2014.

E qui il giullare si infila nel modello econometrico per dare scientificità a tali asserzioni.

Quali le cause del disastro 2013? La domanda interna, inesistente, i cui effetti recessivi sono stati soltanto in parte compensati dalla positiva performance dell’export fuori dall’area euro.

Allora un buon economista si dovrebbe porre la domanda ovvia: ma chi ci dice che nel 2014 la domanda interna migliorerà e l’export fuori area euro terrà come ha tenuto quest’anno?

Semplice. La risposta ce l’ha pronta il giullare, al lavoro sugli ingranaggi dei modelli per fargli sputar fuori non la risposta economicamente giusta, ma quella politicamente corretta.

E così scopriamo che nel 2014 … gli investimenti e i consumi riprenderanno con vigore. Ohibò. E come mai?

Ma certo, basta leggere: perché “l’incertezza si diraderà, la fiducia ritornerà e l’aggiustamento comincerà a dare i suoi frutti”. Nulla di scientifico, solo ipotesi ad hoc. Fuffa. Imbarazzante fuffa. E’ ovvio che nell’attuale clima nessuno nel 2014 avrà maggiore fiducia. Ci vuole ben altro.

Questo ovviamente vale anche per l’Italia: che comincerà a “risalire (un verbo montiano, NdR!) grazie alla migliorata fiducia e alle condizioni del credito che permetteranno un rimbalzo degli investimenti”.

Addirittura per l’Italia – che ha visto gli investimenti calare nel 2012 del 2,9% e dell’1% nel 2013 – nel 2014 secondo la Commissione si vedrà una loro crescita del 2,8%!

E che dire della crescita mondiale che sostiene il nostro export? Il PIL non EU del mondo è previsto crescere del 4% nel 2012 e 2013, e addirittura del 4,5% nel 2014, ma l’export italiano, condannato ad un 2,3 e 2,6% di crescita nel 2012 e 2013, misteriosamente nel 2014 crescerà del … 5%.

Meglio guardare a quello che sappiamo. Per ora l’unica certezza è che il debito-PIL dell’area euro è al suo massimo, condannando la stupida austerità a rivelarsi per quello che è: la più stupida ed ottusa di tutte le politiche economiche, che genera instabilità nei conti pubblici, recessione e spread che non ci pensano proprio ad azzerarsi.

*

Bisogna però stare attenti ai giullari, perché come ben sappiamo sono personaggi doppi: sono obbligati a dire quello che gli ordina il re-padrone, ma hanno l’incredibile licenza anche di dire la verità, nascosta tra le pieghe dei sussiegosi inchini.

Così potrete leggere nelle previsioni della Commissione che “il mercato del lavoro, tuttavia, rimane un serio problema. L’occupazione è prevista rattrappirsi ulteriormente per alcuni trimestri, e la disoccupazione rimanere a livelli così alti da essere inaccettabili, specie in quei paesi membri che fronteggiano gli aggiustamenti fiscali più ampi. Ciò ha gravi conseguenze sociali e, se la disoccupazione diverrà strutturale, avrà un impatto sulla crescita di lungo periodo.”

Grecia e Portogallo sono in condizioni di difficoltà che qualcuno non esita a definire di crisi umanitaria.

E tutti sanno quale è la soluzione. Addirittura un rappresentante del Ministero delle Finanze austriaco esclama: “ci potrebbero essere buoni argomenti macroeconomici (per arrestare l’austerità, NdR), ma penso sia altamente dannoso per la nostra credibilità”. Quale credibilità?

Eppure si sa che anche quando la soluzione ovvia è a portata di mano, si rifugge da essa. Per ignavia, timore, interessi costituiti.

Ho appena terminato di ascoltare un bel discorso di Malcom Gladwell alla University of Pennsylvania, giornalista del New Yorker, su tutt’altro argomento. Sul perché, quando tutte le prove sono a disposizione per dimostrare che qualcosa è sbagliato e va modificato, anche di fronte a tanta sofferenza, ci si rifiuta di prendere atto dell’errore e si persevera. Lui ne parla pensando alle tante evidenze che esistevano nel XIX secolo per i minatori minorenni a riguardo dei danni delle polveri nei loro giovani polmoni, o per il XXI secolo per i giocatori di football americano il cui danno cerebrale è oggi noto a tutti. Eppure si continuò ad inviare i giovani nelle miniere e si continua a far sbattere l’uno contro l’altro gli elmetti di giovani atleti la cui aspettativa di vita si riduce dopo ogni incontro sportivo che disputano.

Chi si oppone a far cessare queste idiotiche e dannosissime pratiche chiede la dimostrazione certa del loro errore. La prova finale. Perché non gli basta tutta l’evidenza a disposizione per smuoverli. Coì per la stupida austerità, di cui ormai sappiamo tutto. Tutto.

E’ allora che Gladwell esclama, schifato: “e se ti chiedono le prove, digli che non ce n’è bisogno. A volte le prove sono solo una parola per far soffrire la gente”. E ancora: “c’è questa strana catena di indifferenza che si osserva verso la sofferenza altrui …”, che impedisce di agire, anche di fronte alla più smaccata evidenza.

Ecco, è questa catena che dobbiamo spezzare. Se vogliamo ancora che l’Europa si tenga in piedi, ascoltiamo il giullare. Che parla di conseguenze sociali, sapendo bene che presto la Grecia ed il Portogallo prenderanno le tronchesi da soli e spezzeranno loro la catena. Ma non quella della nostra indifferenza, l’altra catena. Quella che li legava  ad un progetto europeo di coesione e che si è rivelata, se non agiamo subito, un cappio soffocante di stupida ottusità.

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Progettare il futuro dell’anti-corruzione

Oggi all’Istat – Undicesima Conferenza nazionale - a parlare con Simone Borra di informazione per combattere la corruzione.

Bello il motto del convegno: “conoscere il presente, progettare il futuro“.

Non tanto per l’ovvio fatto che per progettare il futuro bisogna conoscere il presente. Ma piuttosto  perché per conoscere il presente, specie nel campo ancora oggi così ignoto della corruzione, bisogna prima di tutto progettare il futuro: un futuro dove la lotta alla corruzione è posta come priorità. A quel punto certo che potremo conoscerla la corruzione nel presente, e combatterla, perché avremo messo a disposizione di chi la corruzione deve analizzare, prevenire, combattere, le giuste e necessarie risorse (oggi pari a briciole).

Rimane l’amarezza. Per un Paese che fino ad ora sull’informazione contro la corruzione non ha voluto investire. Non ci sono soldi, quei pochi spiccioli, per pagare statistici di valore che lavorino sulle varie banche dati delle denunce e delle condanne e mettere i risultati al servizio di chi combatte sul territorio la corruzione con poche armi e tanta abnegazione. Non ci sono soldi, pochi spiccioli, per premiare e proteggere chi potrebbe testimoniare contro la corruzione. Non ci sono soldi, pochi spiccioli, per centralizzare i dati sugli appalti in tempo reale così da bloccare sprechi ed identificare i cartelli tra imprese, spesso segnali inequivocabili della presenza di corruzione.  Non ci sono soldi, due spiccioli, per finanziare la nuova Autorità Anti Corruzione.

Di buono c’è che il Paese è pronto, per appoggiare qualsiasi governo che ci metta la faccia nella lotta contro la corruzione. Una maggioranza trasversale, che taglia spesso in due i partiti, è pronta a sostenere tale azione.

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La giustizia non è uguale per tutti, specie quella “contro” le piccole

Odio chi, parlando delle PMI, dice “piccolo è brutto”. E non “piccolo è bello” o meglio “crescere è bello”. Sono tanti. Perché li odio? Questione di semantica. Se dici “piccolo brutto” stai già al lavoro per aiutare le grandi, al loro soldo. Se dici “crescere è bello”, sei già tutto teso ad aiutare le piccole.

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Dal Programma per l’Italia dei Viaggiatori in Movimento, scheda Giustizia:

“I Viaggiatori credono nella necessità di modificare gli adempimenti che rallentano l’iter processuale. Vogliamo uffici giudiziari aperti e operanti: riduzione delle chiusure da 45 a 15 giorni l’anno. Eliminate le 18 tipologie di riti, tutte le cause, in ogni materia, devono essere introdotte con lo strumento del ricorso all’Ufficio Giudiziario che provvede a fissare l’udienza e a notificare alle controparti presso PEC o residenza anagrafica ANCI, con dimezzamento del termine per la costituzione in giudizio.

Le parti devono integrare nella prima udienza tutte le richieste istruttorie così da evitare ulteriori termini per memorie difensive od udienze, un onere inutile per avvocati e magistrati. La fase istruttoria orale sarà ammessa soltanto in caso di motivata necessità di acquisire testimonianze rilevanti ai fini della decisione della lite. La discussione finale deve avvenire con la partecipazione delle parti.”

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Dal bel lavoro di due economisti della Banca d’Italia, Silvia Giacomelli e Carlo Menon, “Dimensione d’impresa ed efficienza della giustizia: evidenza dal tribunale del vicino”:

Il lavoro analizza gli effetti della durata dei procedimenti civili in Italia sulle dimensioni d’impresa nel settore manifatturiero … L’originalità di questo studio consiste nel confrontare le dimensioni medie delle imprese, calcolate in termini di numero di occupati, all’interno di gruppi di Comuni contigui che si trovano sui due lati dei confini della giurisdizione dei tribunali. Ciò consente di ridurre grandemente il problema dei fattori non osservabili che in genere non consentono di stabilire un nesso causale tra malfunzionamento della giustizia civile e dimensioni d’impresa. L’ipotesi sottostante implicita nel lavoro è infatti che i fattori non osservabili siano omogenei tra gruppi di Comuni contigui e che quindi l’unico fattore che differisce sistematicamente tra Comuni situati sui due lati del confine della giurisdizione dei tribunali sia la durata dei processi. I risultati mostrano che la durata dei processi civili ha un effetto negativo sulle dimensioni delle imprese manifatturiere. I coefficienti stimati inducono a ritenere che la riduzione della durata dei processi possa favorire significativamente l’accrescimento delle dimensioni medie delle imprese italiane. I dati utilizzati non consentono di analizzare direttamente i canali attraverso i quali l’inefficienza della giustizia potrebbe ostacolare la crescita delle imprese. I risultati indicano però che gli effetti  di freno alla crescita prevalgono sugli incentivi all’integrazione verticale. Le stime indicano anche l’assenza di effetti negativi sulle dimensioni d’impresa dovuti alla durata dei processi del lavoro.”

In parole più semplici? Certo, ecco qui:

dimezzare la durata dei processi civili ridurrebbe la dimensione media d’impresa di circa lo 8,5%. Dato che il tribunale più lento tra quelli compresi nel 10% più efficiente (Trento) è circa 1,4 volte più veloce del tribunale più veloce tra il 10% peggiore (Nola), questi risultati indicano che spostarsi dalla giurisdizione della Corte di Trento a quella di Nola porterebbe ad una riduzione della dimensione media d’impresa del 23% …. per una dimensione media di 8,2 impiegati nel campione, l’effetto assoluto per l’impresa media di spostarsi da Trento a Nola è all’incirca di 2 impiegati” (in meno). Per alcune microimprese, dunque, stare a Trento o stare a Nola diventa questione di vita o di morte.

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La Giustizia non è uguale per tutti. Le piccole imprese lo sanno bene, tutti i giorni della loro vita: un bollo di 15 euro incide sui loro costi unitari e dunque sulla loro competitività ben di più di quanto non lo faccia lo stesso bollo per una grande impresa. Questi fiori delicati richiedono un giardiniere competente: cerchiamolo.

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Tasso di cambio o cambio di passo?

Si torna a parlare di tassi di cambio. Con Mario Draghi, Presidente della BCE, che rimbrotta il Presidente della Repubblica francese Hollande per aver fatto balenare la pur minima possibilità di un deprezzamento dell’euro per ridare crescita all’area tutta via export, specie in un momento in cui dollaro e yen fanno altrettanto, seguendo i voleri dei loro rispettivi Paesi.

Governi contro Banca centrale sui cambi? Certo, e non è una novità. Sempre conteso, povero tasso di cambio. Paese che vai, tradizione che trovi.  Stati Uniti, Giappone e Francia, fino a quando aveva il suo franco, ne lasciano tradizionalmente la gestione ai Governi. La Germania invece, alla sua banca centrale, alla Bundesbank. Fino all’arrivo dell’euro.

Quando si trattò di allocare l’autorità sul tasso di cambio dell’euro tra Consiglio europeo dei Governi e BCE, la decisione fu salomonica assai:

In mancanza di un sistema di tassi di cambio rispetto ad una o più valute non comunitarie … il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata su raccomandazione della Commissione e previa consultazione della BCE, o su raccomandazione della BCE, può formulare gli orientamenti generali di politica del cambio nei confronti di dette valute. Questi orientamenti generali non pregiudicano l’obiettivo prioritario del Sistema Europeo di Banche Centrali di mantenere la stabilità dei prezzi.”

Questo dice la  Costituzione europea, il Trattato, art. 111. Questa la forma.

La sostanza è invece la storia di una lunga e complessa battaglia tra banca centrale, la BCE,  e ministri economici dell’area euro, il c.d. Eurogruppo. Battaglia che nasce di fatto insieme all’euro, alla fine degli anni novanta. Battaglia, quella di allora, ben narrata da un bell’articolo di Randall Henning del 2007, a cui attingere abbondantemente per comprendere il destino odierno dello scontro in nuce tra Draghi ed Hollande.

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Il 4 gennaio 1999 è il primo giorno di scambio della nuova valuta. Apre ad 1,17 dollari Usa.

Da lì in poi, e per quasi un biennio, è un dolce declino (vedi figura) che pare inverosimile agli occhi odierni, come un giovanotto che non si ritrova nella sua fotografia di bambino 10 anni prima.

Nel gennaio del 2000, però, è tempo di mettere un primo freno al costante deprezzamento dell’euro. L’Eurogruppo, coeso, così si esprime:

I ministri dell’euro-11 e la BCE condividono una visione che la crescita nell’area euro è ora robusta e in maniera crescente radicata sulla crescita della domanda interna. Di conseguenza, l’euro ha il potenziale per apprezzarsi, stabilmente ancorato su crescita e stabilità interna dei prezzi. Una economia forte va di pari passo con una valuta forte”.

E così prima si arresta il deprezzamento dell’euro e poi partità l’apprezzamento fino ai giorni nostri.

Strana dichiarazione? No. Una dichiarazione che mostra la capacità dei Governi di poter gestire saggiamente uno strumento prezioso di politica economica, come stanno facendo Giappone e Stati Uniti.

Eppure.

Eppure oggi troveremmo strano sentirci dire dall’euro Gruppo una frase di questo tipo:

“I ministri dell’euro e la BCE condividono una visione che la crescita nell’area euro è ora debole e in maniera crescente radicata sulla decrescita della domanda interna. Di conseguenza, l’euro ha il potenziale per deprezzarsi, stabilmente ancorato su crescita e stabilità interna dei prezzi. Una economia debole va di pari passo con una valuta debole”.

Ah, magari leggessimo una tale dichiarazione, oggidì… Ma, malgrado Draghi abbia affermato proprio pochi giorni fa come l’aspettativa della BCE sulla crescita dei prezzi è una di declino sotto all’obiettivo BCE del 2% – e vi è dunque ampio spazio per permettere all’euro di deprezzarsi dando ossigeno al nostro export – lo strapotere di una BCE arci-conservatrice in sede di politica economica rende queste frasi, così realistiche solo 10 anni fa, assolutamente irrealistiche oggi.

Ma non impossibili da resuscitare domani nel linguaggio dei ministri dell’economia. Se solo questi lo volessero.

*

Perché lo spazio per imporsi sulla BCE c’è, eccome.

BCE ed Eurogruppo, in un accordo nell’autunno del 1999 in Finlandia, si ripartirono i compiti sul tasso di cambio, consci che l’art. 111 del Trattato lasciava aperto un potenziale conflitto di attribuzioni, un fuoco pericoloso che doveva essere rapidamente spento prima di diventare incendio.

Un accordo sempre ricontrattabile, quello del 1999, non scolpito sulla pietra, ma che fino ad oggi ha retto. Accordo che lascia alla BCE la scelta di quando, quanto e come intervenire sui cambi (modello à la tedesca) sulla base però di un assenso preventivo dell’eurogruppo.

Già, sembra quasi un rovesciamento dell’art. 111, che sembra lasciare l’azione all’Eurogruppo con l’assenso della BCE,

Un accordo definito come “modus vivendi” tra istituzioni ma non certo scolpito nella pietra, come dicevamo sopra. Come argomenta Henning nel 2007: “se i ministri economici nel 1999 avessero accettato il ruolo dominante della BCE de jure, l’Eurogruppo avrebbe avuto spazio limitato per riconquistarsi un’autorità in futuro. Ma accettando il ruolo dominante della BCE (solo) de facto, i ministri conservarono per loro il potere di riappropriarsi di una qualche autorità ad un certo punto nel futuro, specie quando collettivamente capaci di esercitarla”.

Ecco. Ma quando mai saranno i Ministri economici dell’euro capaci di trovare accordi collettivi tra loro per imporre alla BCE una politica più attiva del tasso di cambio?

Henning chiudeva, nel 2007, il suo saggio, quanto mai profeticamente, affermando come “se dovesse aumentare la divergenza di performance economica tra paesi membri dell’area euro … i governi potrebbero avere ben più difficoltà a raggiungere un consenso all’interno dell’eurogruppo sui limiti desiderabili alle fluttuazioni del cambio… queste barriere al consenso potrebbero limitare la capacità dell’area dell’euro a agire esternamente.”

La divergenza tra Paesi, con la stupida austerità, è aumentata ed è parallelamente diminuita la capacità dei governi euro di unirsi per affrontare coesi la BCE e riappropriarsi di un potere che il Trattato non gli nega.

Ma non tutto è perduto.

Mi è molto chiaro che il governo Hollande ha bisogno di alleati forti nell’Eurogruppo per cambiare i rapporti di forza con la BCE nella politica del cambio. L’esito delle prossime elezioni determineranno se quell’alleato, così indispensabile, sarà italiano.