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Ricetta per la felicità dei Piccoli e del Paese.

Prendete 3 economisti. Non gli ultimi arrivati. Yale, MIT di Boston, Banca Mondiale.

Mandateli in Messico, a Puebla.

Fategli monitorare un piano di assistenza pubblica a piccole e medie imprese locali, finanziato con soldi dei contribuenti. Esso permette a 80 aziende sorteggiate di fruire di servizi di consulenza manageriale per 2 anni (incontri di 1 volta a settimana per 4 ore per ogni impresa), sugli aspetti operativi su cui l’azienda rivela essere più indietro in base alla valutazione di test standardizzati e della valutazione degli stessi consulenti.

Le micro imprese sorteggiate hanno pagato il 10% del costo della consulenza, le piccole il 20%, le medie il 30%. Il costo della consulenza non scontato era di circa US$57 orari in media, 11,856 dollari annuali ad impresa (4 ore per 52 settimane).

Fategli paragonare al termine del programma i cambiamenti di performance rispetto a quelli di un altro gruppo di imprese di settori e dimensioni simili, non aiutati dalla consulenza.

Ecco gli ingredienti. Il piatto che ne risulta? Sorprendentemente squisito.

80% per cento di più di vendite e 120% di più profitti per le aziende che ricevono supporto consulenziale. Grazie, soprattutto, ad aiuti su due funzioni chiave: marketing e finanza e controllo. Al termine del periodo di affiancamento salgono anche nelle 80 aziende l’auto-stima e la sicurezza del padrone-imprenditore.

C’è di più. L’esperimento essendosi svolto poco prima della crisi economica del 2008, è interessante domandarsi cosa sia avvenuto ai due gruppi di aziende durante la stessa. Ebbene: 89% di esse, aiutate o no dai consulenti, si sono dette colpite dalla crisi. Quando gli è stato chiesto come hanno reagito alla crisi, le risposte si sono differenziate proprio tra gruppi di imprese. Quelle che erano state aiutate dai consulenti si sono dimostrate di avere 8% meno di probabilità  di avere tagliato la produzione di quelle che non avevano avuto supporto consulenziale. Forse perché avevano più strumenti manageriali e strategici per reagire alla crisi?

Perché allora così poche aziende piccole usano servizi di consulenza? Forse non sono poche: forse quelle che non li usano non ne hanno bisogno e quelli che li usano sono quelli che più ne beneficiano come sembrano dimostrare i risultati. Ma allora, comunque, perché quelle che hanno tanto guadagnato da questi servizi non li prendevano prima? Ci avrebbero guadagnato, mostrano gli autori, eccome, anche pagandoli senza sussidio statale. L’evidenza mostra che molte aziende a cui erano stati offerti tali servizi, anche scontati, e li hanno rifiutati, hanno motivato la risposta dicendo che avevano problemi di liquidità. Ma anche questa risposta non spiega tutto: perché allora le aziende di consulenza non  si fanno pagare a risultato o le aziende si fanno prestare i soldi per pagare una consulenza che si ripagherà abbondantemente?

Forse c’è una ignoranza sul valore enorme che la consulenza può avere specie per le piccole imprese.

C’è dunque una risposta diversa, nuova, più fresca e ottimista al famoso nanismo delle piccole, che nulla ha a che vedere con l’art. 18 e la sua grigia riforma. “Il capitale serve, certo, ma bisogna saperlo usare … Ci vogliono capacità manageriali” per crescere dicono gli autori. Ma per acquisire queste capacità qualcuno te le deve insegnare. Il problema è che spesso non sai di non averle: mentre non avere credito il padrone lo tocca con mano, non avere doti manageriali non lo nota, è umano. E quindi non si domandano servizi consulenziali.

Ecco dove può entrare lo Stato con la sua mano potente. Negli Usa la famosa Small Business Administration, Ministero vero e proprio per la piccola impresa, si dà da fare anche per formare i managers delle micro e piccole, sovvenziandonandole con training appropriato.

Invece di licenziare capitale umano, aiutiamo il capitale manageriale, mi verrebbe da dire. Ma va là, mi dicono i piccoli imprenditori, chi ci pensa in questo Paese a noi piccoli?

Ecco un’altra prova che siamo un Paese di im-pari opportunità? No, ecco una nuova opportunità di sfidare il declino con attivismo e intelligenza di politica economica. Si può fare. Si può fare. Si può fare.

10 comments

  1. Piga, ma Lei non trova mai il modo di urlare al mondo cose straordinarie come queste? La ringrazio per la notizia: mi piacerebbe girarla alla CGIA di Mestre, alle associazioni di categoria, a quelli che raccontano barzellette sui consulenti.
    Grazie

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  2. Pingback: Se le Pmi leggessero qua.. | John Maynard

  3. Professore,
    Lei ha perfettamente ragione. Mi avrà letto spessissimo criticare la spesa pubblica, ma al tempo stesso sono convintissimoche l’altra faccia della medaglia del problema italiano sta nella gestione delle PMI.
    La barzelletta che non crescono per colpa dell’articolo 18, che comunque abolirei per principio (io sono tutelato dall’articolo 18 per evitare malintesi), è appunto una barzelletta.
    La maggior parte non cresce perché l’imprenditore vuole continuare ad essere il sovrano assoluto, il Re Sole, della sua azienda.
    Per un anno ho lavorato nel settore della consulenza per le PMI e ne ho viste di tutti i colori. E questi colori riguardavano l’80-90 % delle aziende che ho incontrato.
    Gente che si lamenta per il difficile accesso al credito bancario, ma che va in banca senza uno straccio di business plan e con il bilancio, falso, che consegna al fisco.
    Gente che non conosce i più banali strumenti informatici.
    Gente che non ha la minima idea di cosa significa motivare il personale e che non sa proprio selezionarlo.
    Gente che ha flussi di cassa elevatissimi e tiene i soldi parcheggiati sul conto corrente.
    Gente che si affida in toto al commercialista di paese il quale, in alcuni casi (rari per fortuna) a un certo punto scappa con la cassa.
    C’è un problema in quello che Lei scrive però: la consulenza è come la psicoterapia.
    Per essere effice bisogna essere culturalmente preparati, motivati e pagarsela di tasca propria. Questo è quanto della psiconalisi diceva Freud; ho l’impressione che se ne intendesse.
    Regalare consulenza ad aziende a caso non credo che raggiungerebbe lo scopo.
    Quando ho lavorato nel settore il 90 e più per cento degli imprenditori che incontravo rifiutavano anche la semplicissima analisi aziendale, che in un buon 20-30 % dei casi è già sufficiente ad aiutare l’imprenditore a correggere gli errori più marchiani, che veniva fatta per 2000 euro proprio per incentivare l’impresa ad entrare a contatto con la consulenza. Ah, fuori c’era sempre il Mercedes da 70000 euro.
    Forse bisogna trovare altre strade per mettere in contatto le aziende con la consulenza

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  4. Nella cifra del costo orario della consulenza, deve essere saltata una virgola. Mi pareva troppo alto: rifacendo i calcoli, il numero giusto è 57,4 dollari/ora.

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  5. Giuseppe Pizzino

    03/04/2012 @ 08:45

    Egregio Professore,
    con la presente, mi permetto sottoporre alla sua attenzione questa mia personalissima riflessione riguardo l’argomento di maggiore attualità (crisi economica) che, mi sia consentito sostenere, non sembra essere (tecnicamente) percepito sia dai tecnici sia dai politici che, dai giornalisti di approfondimento se, invece, ben capito potrebbe evitare lo tsunami sociale.
    La prego di farne un buon uso trattandosi di esperienza di un imprenditore con oltre trent’anni di attività, conclusasi con un fallimento. Con la massima stima. Giuseppe Pizzino.
    Riflessione costruttiva: imprese nella crisi, suicidi imprenditori e lavoratori.
    Lo stato di fatto:
    Dodicimila imprese fallite nel 2011, la disoccupazione al 9,3%, i consumi delle famiglie Italiane tornati ai livelli di quindici anni fa, mentre le imprese che resistono alla crisi non crescono ormai da più di cinque anni. A fronte di una stagnazione, o meglio di una decrescita, dei consumi, i costi fissi per personale, trasporti, servizi, cui si aggiungono le insolvenze dei propri clienti, sono aumentati a livelli insostenibili, infine le banche hanno contratto il credito e la PP.AA ha allungato i tempi di pagamento delle forniture.
    Questa è la situazione che in generale stiamo attraversando ma , in particolare, deve preoccupare, perché sottovalutato, il sistema che regola la diversa tassazione tra imprese con lavoratori e senza.
    Ipotizziamo (migliore casistica) che due imprese sane, gestite bene da due imprenditori onesti, rispettosi delle norme e di tutte le leggi, hanno entrambe ricavi annui per due milioni di euro e che il loro bilancio di fine anno segni un sostanziale pareggio. Chiarisco, nessun utile, nessuna perdita.
    Le due aziende, storiche, sono state entrambe sufficientemente capitalizzate e sono ben assistite dal sistema bancario, nel rispetto di tutti i parametri di Basilea.
    La prima impresa ha quaranta dipendenti che costano un milione di euro, mentre la seconda non ha dipendenti, poiché ha scelto di far eseguire i propri lavori conto terzi.
    La prima impresa per effetto dell’Irap, sebbene in pareggio, deve pagare una tassa di cinquantamila euro, la seconda invece non deve pagare alcuna tassa aggiuntiva.
    Primo punto di domanda che sorge spontaneo all’imprenditore, ma chi me l’ha fatto fare di tenere dei dipendenti se questo deve rappresentare una penalizzazione rispetto al mio collega?
    Secondo aspetto non trascurabile ma, caratteristico in un momento di congiuntura sfavorevole è, se per l’imprenditore che non ha dipendenti a parità di ricavi e utile/perdita cambia sostanzialmente poco o nulla, discorso completamente diverso sia dal punto di vista finanziario/patrimoniale che sociale riguarda l’imprenditore che occupa i quaranta dipendenti, perché deve coprire un deficit di cassa che riguarda non solo l’anno in corso ma anche l’anticipo del 99% dell’anno successivo e mantenere i quaranta posti di lavoro senza peraltro dilazionare il pagamento degli stipendi.
    L’impresa migliore, che mantiene mediamente un pareggio di bilancio, in quattro anni di recessione o stagnazione, è costretta a pagare duecentomila euro di Irap cui si aggiunge l’anticipo dell’anno successivo per un totale di duecentocinquantamila euro, cui sommano gli interessi passivi, che nei quattro anni maturano circa cinquantamila euro, per complessive trecentomila euro, non imputabile alla gestione di impresa, alle capacità imprenditoriali, alla produttività dei propri collaboratori.
    Il solo maggior debito per Irap rappresenta oltre il quindici per cento di sovra indebitamento rispetto alla gestione ordinaria che, a questo punto, esonda dai parametri di merito creditizio bancario.
    L’imprenditore è disarmato, impotente, avendo investito quanto nelle proprie possibilità nell’azienda, non trovando altri fallituri disposti a partecipare con nuovi mezzi finanziari al capitale, è quindi anche “costretto”, consapevole dell’esito, a ricorrere all’assistenza del sistema bancario.
    L’imprenditore va in banca, dove è molto apprezzato e stimato, e chiede al responsabile un nuovo fido di cinquantamila euro, per pagare l’Irap, continuare a fare impresa in attesa di tempi migliori, poter rimborsare la maggiore esposizione nei confronti della banca amica, ma molto responsabilmente avverte che, in caso di stagnazione, di sicuro avrà bisogno di altri cinquantamila euro per pagare l’anticipo dell’Irap dell’anno successivo.
    Il responsabile inserisce tutti i dati di bilancio nel suo computer e si accende la famosa lucina che sostiene che in virtù delle rigide norme di Basilea non è possibile concedere nuovo credito.
    L’imprenditore incredulo parla con il direttore della filiale, amico, con il quale aveva sempre giocato a tennis, che gli dice: mi dispiace ma abbiamo direttive precise che non ci consentono concedere nuovo credito a imprese che non guadagnano, rischio il mio posto di lavoro. Addio.
    L’imprenditore a questo punto può solo decidere di liquidare la sua impresa o fare come il collega chiedendo ai propri dipendenti di aprirsi una partita iva, per poter continuare a lavorare, tutti.
    Questo è l’esempio più plastico in grado di rappresentare il buon connubio tra banca e impresa.
    Questo è l’esempio migliore che può capitare senza alcuna degenerazione del sistema.
    Le regole oggi in vigore non consentono di superare la crisi alle imprese sane, in pareggio, che occupano dipendenti diretti, figurarsi le aziende, com’è logico siano in recessione, che sono in perdita o non sono assistite adeguatamente dal sistema creditizio.
    Il sistema Italia penalizza, rispetto agli altri, chi occupa stabilmente propri dipendenti, e istiga al suicidio imprenditori innocenti, per non aver commesso il fatto, ma che per la legge commettono un reato penale per non aver potuto pagare una tassa illegittima e incostituzionale e aggiungo discriminatorio verso le imprese, gli imprenditori e i propri dipendenti.
    Che si voglia credere o meno questo può determinare quanto oggi stiamo vivendo.
    Vorrei riportare la rappresentazione dello stato d’animo, avendolo già vissuto, di quegli imprenditori che si trovano nella situazione di cui sopra, in prestito da un post letto sui blog:
    “Vivere col nodo in gola, col capo chino per il peso dell’angoscia, smettere i sorrisi, sussultare ogni volta che arriva una lettera o una telefonata, perdere la fiducia e sentirsi umiliato perché la posizione è “debitoria” o c’è una “esposizione” eccessiva o perché si deve “rientrare”.
    E intanto le tue mani che hanno sempre lavorato si stringono in pugni sempre più deboli.
    Poi non ce la fai più. Per davvero…”
    Esiste il fondo “Salva Stati” per soccorrere gli Stati che hanno bisogno di finanziamenti per risanare i propri conti, esiste il fondo sociale della cassa integrazione che ammortizza i disagi che sono costretti a subire i lavoratori che perdono il proprio posto di lavoro ma, non esiste alcun strumento in grado di intervenire a sostegno delle imprese e degli imprenditori nei momenti di recessione o di congiuntura sfavorevole.
    Volendo invece essere non pessimisti e credendo che sia ancora possibile fare impresa in Italia, creare occupazione e nuove opportunità per le generazioni che seguiranno, penso, molto modestamente, che in effetti, per le capacità che sono sempre stati in grado di esprimere i piccoli e medi imprenditori Italiani anche nei momenti di grave crisi, non sarebbe impossibile rimuovere gli ostacoli che determinano” la fuga” dall’impresa. Consapevoli che, eliminare questa tassa iniqua, non è possibile nel breve/medio termine in quanto ciò determinerebbe il fallimento delle Regioni che incassano l’Irap per sostenere il costo della spesa sanitaria, l’unica soluzione praticabile nell’immediato, per affrontare la congiuntura sfavorevole, è permettere alle imprese di accedere al credito bancario in modo automatico inserendo la norma del numero dei dipendenti stabilizzati quale elemento migliorativo del merito creditizio.
    Basterebbe solo buona volontà e credibilità verso pmi che, malgrado tutto, rappresentano i due terzi dell’economia reale Italiana.
    La soluzione è più semplice del problema
    Bloccare il fenomeno di uscita dalle PMI dei dipendenti stabilizzati e innescare un processo di crescita e di nuova occupazione, dando valore al lavoro stabile e alle nuove occupazioni.
    Un posto di lavoro stabilizzato (tempo indeterminato) ha un valore di circa € 25.000 lordi l’anno.
    Ogni azienda deve valere per il numero dei dipendenti stabili (norma di buon senso).
    • L’azienda che ha cento dipendenti stabili da oltre cinque anni deve avere il diritto, a prescindere da tutto, a vedersi riconosciuto credito dalle banche per almeno un anno di lavoro per il numero dei propri dipendenti.
    • Un’azienda il cui numero medio dei dipendenti, a tempo indeterminato, degli ultimi cinque (meglio tre) anni è stato cento deve avere diritto, sacrosanto, di credito per € 2.500.000,00.
    Tale somma dovrà essere disponibile su un conto, vincolato, che dovrà servire per il pagamento solo dei salari, dei relativi contributi, agevolazioni, TFR, verso i propri dipendenti.
    Tale norma permetterà, in primis, di bloccare immediatamente il fenomeno dei licenziamenti e della cigs, perché gli imprenditori che in questo momento, lasciati soli, sono costretti a chiudere solo perché non ottengono credito dalle banche riprenderebbero a lavorare senza soluzione di continuità, sarebbero rivalutati socialmente ed economicamente, e rilancerebbero le loro produzioni.
    Altre aziende che nella crisi hanno resistito a fatica, ma hanno dovuto bloccare gli investimenti strutturali, potrebbero utilizzare il credito quale volano per nuovi investimenti e nuova occupazione.
    Infine, le aziende che nella crisi hanno avuto maggiore fortuna potranno utilizzare tale disponibilità per agevolare i propri dipendenti concedendo anticipi su TFR, che rilancerebbero i consumi.
    Creare questo nuovo elemento di valutazione del merito creditizio per le PMI, ha degli aspetti positivi incredibilmente sottovalutati.
    1. Riduce il costo verso la collettività per cigs per tutte quelle aziende che sono costrette a ricorrervi per impossibilità/discrezionalità di accesso al credito.
    2. Stimola le aziende ad assumere i propri dipendenti a tempo indeterminato.
    3. Elimina il fenomeno del lavoro nero e del sotto salariato.
    4. Da affidabilità, fiducia, e prospettiva agli imprenditori che possono dedicarsi al proprio lavoro senza bisogno di perder tempo per elemosinare credito presso bancari incompetenti, maldisposti, e discriminanti.
    5. Rilancia il valore della piccola impresa e delle start up dei giovani che potranno contare su norme democratiche, certe e non discrezionali.
    6. Elimina il fenomeno delle partite iva create per raggirare l’assunzione diretta.
    7. Limita la nascita delle aziende che gestiscono lavori conto terzi (sfruttando i lavoratori).
    8. Rilancia il valore del lavoro stabile.
    9. Interviene con una sola norma (consorzio fidi, pagato da imprese) democratica, a costo zero, abolendo qualsiasi altra forma di aiuti (discriminatori) ad appannaggio solo di una parte bene introdotta nei meccanismi burocratici e organizzativi.
    10. Combatte contemporaneamente l’evasione fiscale, il lavoro nero, il sotto salariato, la disoccupazione, la discriminazione creditizia territoriale, la discrezionalità bancaria, le agevolazioni legislative non produttive, la mancanza di stimoli per la ripresa, infine limita lo strapotere esercitato indiscriminatamente dalla finanza e dalle banche nei confronti dell’economia reale, rivalutando la produzione (people) rispetto alle swap.
    Il costo di questo nuovo strumento non solo è inesistente ma addirittura crea reddito, perché lo Stato sarebbe chiamato a intervenire solo come co-garante nei confronti delle Istituzioni bancarie, che a fronte di un consorzio fidi, pagato dalle imprese, dovranno concedere questo strumento creditizio, per sostenere il quale dovranno essere utilizzate tutte quelle somme che lo Stato impegna ogni anno per agevolazione e contributi vari, inutili e dannose. Termino facendo rilevare che per le personalità che oggi sono al Governo, diverse rispetto a chi li ha preceduti, invisi al sistema bancario, sarebbe esercizio facile, sarebbe un’intuizione brillante e originale, che non richiederebbe una riforma ma solo un tavolo al quale convocare i vertici delle Istituzioni bancarie. Una vera iniziativa per la crescita e lo sviluppo, troppo facile. Cordialità. Giuseppe Pizzino.

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    • Egregio Signor Pizzino,
      comprendo perfettamente il suo sfogo che nasce dalla sua esperienza di imprenditore. Mi sento in ogni caso di fare alcune osservazioni su di esso.
      1) Lei paragona due ipotetiche aziende entrambe in pareggio di cui una con 40 dipendenti che le costano 1 milione l’anno e l’altra che ha esternalizzato e che quindi quel milione lo versa al sub-fornitore.
      Lei afferma che la prima impresa è penalizzata perché deve pagare l’IRAP cosa, che, in tempi di crisi, contribuisce allo strangolamento.
      Ma è anche vero che l’IRAP il sub-fornitore la paga per i suoi dipendenti quindi vuol dire che in realtà riesce a fare quello stesso lavoro per un costo inferiore, e certo non è solo per sfruttamento dei lavoratori. Altrimenti come farebbe a fornire quelle prestazioni per la stessa cifra che la prima impresa spende per farsele in proprio? Tenga conto che ci deve anche fare un profitto
      2) Lei dice che l’imprenditore, in un momento di necessità, non trova certo altri fallituri disposti ad apportare altro capitale. Ma la realtà, a mio avviso, è che l’imprenditore dovrebbe cercarsi soci non quando le cose vanno male, ma quando vanno bene, in modo da apportare in azienda capitali che possano permettere di fare fronte a momenti di difficoltà. Allo stesso modo l’imprenditore, quando le cose vanno bene dovrebbe lasciare in azienda una quota sufficientemente alta di utili da usare come polmone per i momenti di difficoltà. Come ho scritto nel mio commento diretto al Professor Piga, quando ho lavorato per una società di consulenza troppe volte ho incontrato imprenditori che si lamentavano per la difficoltà di accesso al credito ma che comntemporaneamente avevano la Mercedes da 70000 € parcheggiata fuori. E magari il figlio aveva la Porsche e la moglie il SUV, e al mare c’era la barca da 15 metri. Ho conosciuto qualcuno anche con la Ferrari. Se mi permette questo non va. E’ giusto che l’imprenditore si goda i frutti del suo lavoro, non voglio certo fare del pauperismo da quattro soldi, ma è anche giusto che si renda conto della responsabilità che ha nei confronti dell’azienda che lui ha creato e dei suoi dipendenti.
      L’attività imprenditoriale ha alti e bassi. E’ responsabilità dell’imprenditore tenerne conto e accumulare fieno in cascina per i tempi grami. D’altra parte i nostri bis e tris-avoli, quasi tutti agricoltori, sapevano benissimo che quando mietevano il grano anche se il raccolto era ricco dovevano metterne da parte una quota perché nessuno poteva prevedere se l’anno successivo il clima sarebbe stato favorevole.

      3) Per uscire dalla crisi servono idee nuove e Lei ne ha portata una che io, nella mia incompetenza, trovo molto interessante, quella del conto vincolato. Le chiedo però una cosa: invece di affidarsi a mamma-Stato, anche perché sappiamo bene come andrebbe a finire con l’attuale burocrazia (favoritismi, ruberie, clientelismi), perché un qualche cosa del genere non può essere organizzato a livello di associazioni di imprenditori, magari su base geografica in modo che al fondo partecipino aziende di settori diversi così che non capiti che vadano tutte in crisi contemporaneante?
      Tra l’altro lo stesso meccanismo lo potrebbero mettere in piedi anche i lavoratori per il sostegno di coloro che perdano temporaneamente il posto.

      I miei più cordiali saluti

      Reply
      • Giuseppe Pizzino

        03/04/2012 @ 17:08

        Caro Vincenzo, ho voluto fare la premessa che trattasi di imprenditori onesti. Non ho scritto di sfruttamento di lavoratori ma, solo di una diversa scelta operativa. Ho anche scritto che trattasi di società perfettamente capitalizzate che non necessitavano di ulteriori capitali e soci. La mia personale riflessione ha l’ambizione di voler spiegare che le Leggi in vigore non stimolano l’occupazione.
        Le degenerazioni di alcuni imprenditori non sono la regola.
        Cordialità

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        • Forse ho scritto in modo poco chiaro. Intendevo dire che il sub-fornitore non è necessariamente uno sfruttatore.
          Pertanto, ritornando al suo esempio.
          L’imprenditore 1 fa all’interno certe lavorazioni pagando 1 milione i suoi 40 operai.
          L’imprenditore 2 paga 1 milione a 1 sub-fornitore per le stesse lavorazioni e risparmia l’IRAP. E’ chiaro che 2 è più concorrenziale di 1 poiché si avvale delle prestazioni di un sub-fornitore che gli fa spendere sempre 1 milione e ci fa pure un profitto.
          Relativamente alla capitalizzazione, se l’azienda ha abbastanza liquidi in cassa, e di questo un imprenditore accorto ne dovrebbe tenere conto, riuscirà a superare anche il credit-crunch. Altrimenti mette mano al portafoglio, vende la Mercedes e ricapitalizza. Perlomeno credo che avrebbe il dovere morale di farlo entro i limiti di una certa quota dei profitti che ha incamerato negli anni buoni.
          Vede, pur essendo io un liberale, credo che i profitti non appartengano all’imprenditore, ma all’azienda nel suo complesso. L’imprenditore va remunerato, bene, per il lavoro che svolge in azienda, ma come che ne fosse un dipendente. Va remunerato, tenendo anche conto del fattore rischio, il capitale che ci ha messo, ma questo in base ad un normale tasso bancario. Ciò che rimane è dell’azienda, non dell’imprenditore. E se rimane in azienda aiuta a superare i periodi difficili. In fondo l’imprenditore gode anche dell’aumento di valore dell’azienda nel caso che decida di cederla.

          Reply
  6. Giuseppe Pizzino

    05/04/2012 @ 16:24

    Lasciamo perdere le autovetture degli imprenditori e proviamo a ragionare sul ciclo di congiuntura, stagnazione, recessione che stiamo attraversando da circa cinque anni e che stanno mettendo a dura prova la liquidità delle imprese e degli imprenditori, che diversamente dalla logica ( investire in aggiornamento tecnologico e ricerca ) sono obbligate a pagare delle tasse anche quando non guadagnano. E’ doveroso pagare le tasse ma sul reddito non sull’attività produttiva. Se non si innesca un processo virtuoso di crescita rischiamo di fare la fine della Grecia.

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