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I conflitti d’interesse degli economisti

Non capita spesso che l’industria americana del cinema si occupi della professione dell’economista. Eppure, grazie al film documentario Inside Job (il Boston Globe lo ha definito, con un briciolo di ironia, un “capolavoro più terrorizzante di qualsiasi cosa abbiano mai girato Wes Craven o John Carpenter”)  la stampa ha acceso i riflettori sulla “scienza triste”. Anzi, sui suoi scienziati, che tanto tristi non sembrano. Magari un po’ imbarazzati, questo sì.

Come Frederic Mishkin, notissimo economista della Columbia University, ex Vice Presidente della potente Federal Reserve di New York, che ha accettato di essere intervistato, dagli autori del film, pensando di dovere commentare sulle cause della crisi finanziaria e trovandosi invece a difendere la sua scelta di produrre nel 2006 – senza divulgare di esser stato pagato 124,000 dollari per farlo dalla Camera di Commercio islandese – una ricerca, dal titolo “La Stabilità Finanziaria in Islanda” – che costituisce una lode al sistema bancario di quel paese, poi crollato clamorosamente, poi riportando il titolo del lavoro nel suo Curriculum Vitae, disponibile su internet,  come “l’Instabilità Finanziaria in Islanda” (qui la difesa di Mishkin).

L’IEO (una sorta di Ufficio di Controllo Interno) del potente Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato un rapporto in cui mostra come una parte della dirigenza del Fondo temeva di vedere rovinata la propria carriera se avesse espresso la propria visione contraria a quella dominante (e sbagliata) sul come gestire la crisi. Il New York Times ha aperto una finestra sul mondo dei conflitti d’interesse degli economisti, partendo da uno studio effettuato da 2 economisti della University of Massachusetts, sostenendo come “molti economisti coinvolti nel dibattito lo scorso anno su come modificare la regolazione di Wall Street non hanno rivelato volontariamente il loro ruolo come direttori aziendali, assistenti o consulenti quando hanno testimoniato davanti al Congresso o commentato nei media”.

Codici etici universitari si sono mostrati troppo deboli per arrestare un trend piuttosto diffuso e, comunque, non riguardano  tanti economisti che lavorano nel settore privato o che, addirittura – prima, durante o dopo un lavoro nell’amministrazione del Governo statunitense – ad un certo punto hanno accettato incarichi nel settore finanziario che hanno gettato forse un’ombra sulla loro imparzialità quando dipendenti pubblici (i casi di Timothy Geithner, Larry Summers e Peter Orszag sono i più noti e discussi).

Con ciò si va dunque al di là della critica “à la Tremonti” che gli economisti “non conoscono l’economia” (e dunque sono in parte responsabili di avere causato la crisi, non prevedendola) suggerendo che forse, almeno alcuni di loro, “la conoscono troppo bene”. Il saggio dei due economisti della University of  Massachusetts indica come, dei tredici economisti universitari esperti di regolazione finanziaria considerati che lavorano anche per istituzioni private soggette potenzialmente a tale regolazione,  otto di questi, quando scrivono per la stampa o vengono da essa intervistati su tali temi, non menzionano il loro potenziale conflitto d’interessi dichiarando la doppia affiliazione.

Proprio pochi giorni fa la prestigiosa American Economic Review, la società degli economisti degli Stati Uniti, ha deliberato nuove regole per i propri soci che – quando scrivono articoli anche sui quotidiani - dovrebbero elencare “le parti interessate” che li hanno pagati per consulenze e che hanno un potenziale guadagno dalle opinioni degli economisti.

La questione non è stata ancora studiata per l’Italia, ma possiamo sperare che la Società Italiana degli Economisti (a cui non appartengo) adotti finalmente un Codice di Condotta per i suoi soci? E che i media italiani nel pubblicare le opinioni di o intervistando noti economisti richiedano che questi rivelino potenziali conflitti d’interessi?

One comment

  1. Stefano Caiazza

    13/01/2012 @ 19:01

    Molto interessante.
    Suggerisco di integrare l’analisi con la parte del’articolo di Rajan apparso sul Sole24ore (http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2011-02-07/illusi-fiducia-mercato-perfetto-213317.shtml).
    Aggiungerei infine che la possibilità di guadagno extra, necessario nella realtà italiana ma sempre piacevole per tutti noi che viviamo nella società consumistica, alletta gli economisti e li induce a dedicare meno attenzione alla macro-realtà che e più tempo e attenzione al micro-cosmo delle consulenze. L’esperienza statunitense ci insegna che non basta aumentare i salari agli economisti accademici. Servono regole, del tipo che tu riporti e, forse, il ritorno ad un’etica di frugalità, in cui l’uomo non sia più ossessionato dal denaro, dal consumo, dalal crematistica. Riordinando la scale di valori, allora, il lavoro verrebbe prima delle consulenze che, a questo punto, potrebbero non venire affatto.

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