Ho chiesto al mio amico e collega Leonardo Becchetti di scrivere un pezzo su questo blog su un tema di estrema importanza, quello della tassazione delle attività finanziarie. Grazie Leo.
Aggiungo (io) che userei questo gettito non per ridurre il debito o deficit ma per finanziarci spesa pubblica essenziale per la Ricostruzione del nostro Paese: prigioni decenti, ospedali decenti, scuole messe in sicurezza e piene di supporti informatici per l’apprendimento, patrimonio artistico esaltato e messo in risalto per i turisti e per noi stessi, campi sportivi per i ragazzi nelle periferie, progetti per migliorare e mettere in sicurezza il nostro territorio.
E’ opportuno interrogarci sul perché la posizione degli economisti e della società civile (a maggioranza favorevole nell’UE) nei confronti della tassa sulle transazioni finanziarie è cambiata nel corso degli ultimi anni. Lo scorso anno 130 economisti italiani hanno firmato un appello in suo favore (http://www.dirittiglobali.it/home/categorie/17-globalizzazionesviluppo- ultinazionali/6663-perche-e-il-momento-di-una-tassa-sulle-transazioni-finanziarie.html?ml=2&mlt=yoo_explorer&tmpl=component) che è poi confluito nell’analogo appello di 1000 economisti di 53 Paesi consegnato ai ministri finanziari dei Paesi del G20 in occasione del vertice svoltosi a Washington il 14 e 15 aprile 2011 (tra i firmatari ci sono figure di primissimo piano come Dani Rodrik, Tony Atkinson, Joseph Stiglitz e Jeffrey Sachs) (http://www.guardian.co.uk/business/2011/apr/13/robin-hood-tax-economists-letter).
Due i principali motivi di questo cambiamento di opinione: gli eventi della crisi finanziaria globale e maggiore evidenza in materia che ha aiutato a superare alcuni pregiudizi. Con la crisi finanziaria globale i debiti pubblici di alcuni dei principali paesi occidentali sono significativamente aumentati per le operazioni di salvataggio degli intermediari in crisi (o per gli effetti indiretti della crisi) e sono successivamente diventati il nuovo obiettivo di attacchi speculativi. Una parte del mondo finanziario ha così privatizzato i profitti, socializzato le perdite e successivamente utilizzato i fondi pubblici impiegati per il proprio salvataggio per scommettere contro gli stessi salvatori. E’ comprensibile pertanto che la maggioranza dell’opinione pubblica sia dell’avviso che chi opera sui mercati finanziari debba contribuire a pagare i costi di questa crisi, per ora ridossati sulle fasce più deboli. Da questo punto di vista si ritiene che la TTF risponda ad un’esigenza di giustizia e sia addirittura urgente visti gli eventi più recenti per mantenere la coesione sociale a livello comunitario. Il secondo motivo dell’aumentato favore della tassa nasce dal superamento di un pregiudizio. Sino a poco tempo fa si è ritenuto che essa non fosse applicabile se non a livello globale pena la fuga di capitali dal paese che decidesse di porla in vigore. Questo pregiudizio appare infondato perché esistono ad oggi, come documenta un lavoro di ricerca del Fondo Monetario Internazionale, ben 23 paesi che applicano unilateralmente la tassa (nient’altro che un fissato bollato) senza che si sia verificata una massiccia fuga di capitali (Matheson T., Taxing Financial Transactions. Issues and Evidence, IMF Working Paper n. 11/54, marzo 2011, 8). Il paese con la tassa più alta è il Regno Unito che applica la Duty Stamp Tax su un solo tipo di attività finanziaria (tassa del 5 per mille sui possessori di azioni quotate alla borsa di Londra). La tassa consente di raccogliere circa 5 miliardi di sterline all’anno. Per via di quest’evidenza la proposta franco-tedesca fatta propria da Barroso di introduzione della tassa a livello UE parla correttamente di “armonizzazione” a livello europeo delle tasse sulle transazioni finanziarie e non di loro introduzione. Proprio la tassa londinese ha generato un interessante esempio di elusione: per non pagare la tassa una parte degli operatori sono usciti dal mercato azionario per costituire nuovi derivati OTC (contracts for differences) che consistono in scommesse sulle variazioni di prezzo delle azioni. Interessante dunque notare che la tassa ha separato in due diversi mercati gli interessati ad investire realmente nei titoli azionari delle imprese e gli operatori che giocano sulle variazioni di breve dei prezzi. Questo tipo di elusione è già implicitamente considerata nella proposta Barroso che estende la tassazione ai derivati (e quindi anche ai contracts for differences). Esse può essere altresì contrastata proibendo i contract for differences come avviene su un mercato non secondario come quello degli Stati Uniti.
Ancora sul piano scientifico, esistono numerosi lavori che misurano l’elasticità dei volumi di transazioni all’introduzione di tasse simili evidenziando coefficienti piuttosto contenuti e non tali da avvalorare l’ipotesi di fuga dei capitali. Un altro motivo per i quali la fuga non può avvenire è che proprio le operazioni ad altissima frequenza usufruiscono di un vantaggio di prossimità alla sede fisica della borsa da cui partono le informazioni in via telematica (New York Times (2009): Stock Traders Find Speed Pays, in Milliseconds). Spostare le operazioni lontano dai mercati principali comporterebbe la perdita di questo vantaggio.
Un’altra obiezione che appare infondata è quella dell’impatto della tassa sul costo del capitale. Per l’aliquota fissata dalla proposta Barroso i calcoli fondati sui modelli di capitalizzazione dei valori futuri attesi degli asset dimostrano che questo costo è pressochè nullo (vedasi ancora Matheson 2011). L’altra obiezione che la tassa diminuisca la liquidità dei mercati è anch’essa opinabile. Di quanta liquidità abbiamo bisogno ? Dean Baker in un suo commento sul tema dice che la tassa ci riporterebbe ai costi di transazione e alla liquidità di dieci anni fa, ovvero ad un periodo più florido di quello che stiamo vivendo (http://www.cepr.net/index.php/blogs/cepr-blog/ken-rogoff-misses the-boat-on-financial-speculation-taxes). La verità è che non esiste nessun evidenza certa sugli effetti della tassa sulla liquidità ma solo una serie di diversi modelli che trovano risultati opposti a seconda del tipo di microstruttura dei mercati finanziari e del modello di competizione ipotizzato tra gli intermediari.
Riassumendo le quattro principali obiezioni all’istituzione della tassa (non si può imporre se non a livello globale, non ci sarebbe gettito per la fuga dei capitali, la tassa aumenta significativamente il costo del capitale, la tassa riduce la liquidità dei mercati) sono false per l’evidenza dei fatti (le prime due) o infondate per mancanza di prove (le seconde due).
Per quanto esposto sopra la tassa sulle transazioni (pur non essendo ovviamente la panacea di tutti i mali) può rappresentare una tappa importante in quel riequilibrio dei rapporti tra istituzioni e finanza. In questo senso essa può favorire le altre riforme auspicate per prevenire nuove crisi finanziarie dalla legge Dodd-Frank o dalla commissione Vickers nel Regno Unito (Volcker rule, riduzione della leva degli intermediari too big to fail, penalizzazione nei requisiti di capitalizzazione per le attività più rischiose rispetto al credito ordinario) e il recupero di fiducia da parte della società civile nei confronti delle banche e delle istituzioni finanziarie di cui abbiamo urgente bisogno.