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Quando (ri)nascono i fiori

Interessante studio di 2 studiosi italiani ed una statunitense basato su quasi 17000 interviste a scienziati di 16 paesi nel campo della biologia, chimica, ingegneria dei materiali e infine delle scienze ambientali, volto a conoscere le ragioni delle loro eventuali “fughe” quali cervelli ambiti nel mondo e la loro eventuale voglia di tornare.

Sono dati che paiono smentire alcuni stereotipi, specie sui nostri ricercatori.

Ma non sempre. Per esempio tra i 16 paesi siamo quello, dopo l’India, con la minore percentuale di ricercatori presenti in Italia nel 2011 che a 18 anni vivevano fuori dall’Italia: solo il 3% contro il 56,7% della Svizzera (prima classificata), il 38,4% degli Usa, il 32,9% del Regno Unito e il 23,2% della Germania. Ci torneremo su questo risultato così triste, ma non siamo evidentemente capaci di rendere attraente l’Italia ai cervelli stranieri.

Dove vanno gli italiani (o meglio coloro che a 18 anni risiedevano in Italia)? Il 13% dei ricercatori belgi è “italiano”, il 13,8 in Francia, il 10,4 nel Regno Unito. Ma ovviamente vanno anche altrove. Come negli Stati Uniti, dove tanti sono i ricercatori stranieri, quasi il 30% cinesi ed indiani. Negli Usa vanno il 25% dei ricercatori italiani, il 20% va nel Regno Unito, il 15% va in Francia, il 10% va in Germania.

Il 16% di quelli in Italia a 18 anni fanno oggi ricerca all’estero. Meno dei tedeschi (23,3), poco più dei francesi, meno dei britannici (più del 25%): insomma fuga di cervelli sì, ma non enorme in termini quantitativi. Quando gli si chiede a questi migranti (tutti, non solo gli italiani) il perché sono andati a “ricercare” all’estero, la risposta dominante è per migliorare le proprie prospettive di carriera e di lavorare con team di ricerca di grande qualità.

Ma per noi italiani è importante leggere la risposta, a seconda del paese di provenienza, alla domanda “è possibile che tu ritorni un giorno nel tuo paese”?

Italiani e britannici sono coloro che rispondono meno di tutti “sì”: circa solo il 15% contro il quasi 40% dei ricercatori svedesi. Ma la notizia interessante è che gli italiani sono anche in minoranza a rispondere “no”: il 10%, secondi a nessuno (contro il 35% dei britannici). Quindi? Cosa risponde il restante 75% dei ricercatori italiani? Il 35% dice “forse part-time o a fine carriera”, ma, attenzione, ben 40% rispondono “dipende dalle opportunità di lavoro”. Un risultato che dà speranza e che dovrebbe mobilitarci come Paese per creare le condizioni giuste per la ricerca, non trovate?

Anche perché a quelli che sono tornati è stato chiesto perché lo hanno fatto. In generale per quasi tutti i paesi la ragione numero 1 è il motivo familiare. Così anche in Italia. Ma tra le altre motivazioni possibili l’Italia spicca per l’irrilevanza nello spiegare la scelta di risposte come: migliori condizioni di lavoro, migliori salari, maggiore prestigio, migliore qualità delle infrastrutture di ricerca. Irrilevanti per noi, rilevantissime per tanti ricercatori di altri Paesi che sono tornati a casa loro. Solo il 5% degli italiani menziona come motivo per essere tornati i salari, le infrastrutture, la disponibilità di fondi di ricerca (l’82% i motivi familiari) contro il 50% dei ricercatori svizzeri e statunitensi.

Si chiama politica industriale: creare il tessuto unico e vincente per far crescere la pianta del sapere, farla attecchire, sbocciare, impollinare tutto attorno. Dando opportunità a tanti giovani che poi resteranno e, che, a loro volta, più avanti nel tempo, faranno prima restare o andar via, ma poi certamente tornare e crescere, tanti altri giovanissimi.

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