Una maggiore protezione del lavoro riduce gli investimenti in capitale da parte delle imprese, mostra un rigoroso studio scientifico, nei settori naturalmente ad alto tasso di creazione e distruzione di occupazione, ovvero quelli dove la protezione del lavoro rischia in effetti di creare danni all’economia.
Questo impatto specifico sugli investimenti è tuttavia ridotto laddove esistono minori problemi di razionamento del credito per l’azienda. Quindi sembra che la nostra normativa, che prevede la non applicazione dell’art. 18 per le aziende più piccole – che sono tipicamente più razionate nel credito - abbia una sua logica su questo aspetto.
E soprattutto saembra proprio che un settore bancario più liberalizzato ed efficace nel prestare alle aziende possa essere un’ottima alternativa ad una minore protezione del lavoro.
Liberalizziamo il mercato finanziario piuttosto che il mercato del lavoro? Sembrerebbe proprio così. Se è vero infatti che là dove i mercati finanziari sono poco efficienti per le imprese è più utile per loro “aiutarsi” con meno protezione del lavoro, è proprio in quei paesi che i lavoratori necessitano di maggiori protezioni dai danni della disoccupazione perché non ricevono aiuto dalle banche nei momenti difficili della loro vita.
Ma, soprattutto, è importante ricordare che l’Italia non spicca tra quei paesi dove la protezione del lavoro è alta. Forse lo era, ma il grafico (estratto dal lavoro citato) chiaramente mostra che siamo stati il Paese con uno dei maggiori tassi di aumento della precarizzazione.
La freccia verde a sinistra mostra il livello di protezione del lavoro in Italia (istogramma scuro), chiaramente intermedio, mentre è il Paese ad avere avuto (istogramma chiaro, freccia rossa) la maggiore diminuzione (1997-2003) di protezione.
Non spicca infatti come paese a basso livello di investimenti o capitale per lavoratore (grafico in alto o in basso a destra).
Fornero e Passera dovrebbero dunque concentrarsi sulla riforma bancaria piuttosto che su quella del lavoro? Così parrebbe.