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Lo spread, vent’anni dopo

Il grafico dei differenziali di tasso reale fatto da Thomas Manfredi, Tommaso Nannicini e Riccardo Puglisi, è bello e interessante, c’è un bel po’ di storia d’Italia e d’Europa dietro.

Contrariamente a quanto dicono alcuni, il secondo picco di differenziale con la Germania – dopo quello dovuto alla prossima svalutazione ed alla inutile difesa del cambio via alti tassi (1992, freccia rossa) da parte della Banca d’Italia – nel 1993 e 1994 (freccia verde) ed il successivo crollo ha poco a che vedere con l’Unione monetaria e molto a che vedere con la riforma che Alberto Giovannini, allora capo del debito estero al Tesoro, su spinta di Mario Draghi, allora direttore del Tesoro, orchestrò per eliminare gli ampi ritardi amministrativi del rimborso agli investitori esteri delle ritenute fiscali sulle cedole dei titoli di Stato che spettava loro.

Nei primi anni dell’euro i differenziali di tassi nominali tra Italia e Germania (che comprendono l’inflazione attesa) sono inferiori ai differenziali d’inflazione (freccia gialla): probabilmente sono le aspettative di minore inflazione in Italia che contano per gli investitori, in un processo di convergenza attesa che pare riflettere l’entusiasmo di allora per l’euro.

Oggi (freccia viola) lo spread reale è tornato a livelli alti, malgrado la nostra inflazione sia più alta di quella tedesca. E qui sta la crisi odierna, che nulla ha a che vedere con il debito pubblico ma con l’aspettativa da parte dei mercati del rischio di svalutazione con il crollo dell’euro, un po’ come prima della crisi del 1992.

Ma una differenza c’è con 20 anni fa. Questo spread è europeo e non più italiano. Se questa svalutazione avverrà, se l’euro morirà non sarà per un errore di politica economica italiana ma per un errore politico europeo. Sarà solo perché in Grecia, con mancanza di lungimiranza politica e di solidarietà sociale, avremo avuto talmente tanta stupida austerità e recessione che il popolo greco dirà basta e uscirà, scatenando un effetto domino.

L’unico antidoto per far crollare questo spread europeo è scommettere sulla crescita economica. Subito. Quella che viene da maggiore domanda interna in tutto il Continente guidato da programmi di spesa pubblica di appalti e minore tassazione.

10 comments

  1. L’euro continuerà ad esistere se la Germania consentirà di finanaziare il sud europa come il Nord d’Italia ha fato con il Sud. Domanda: secondo Lei i tedeschi accetteranno di trasferire parte delle loro tasse ?

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  2. Scusi prof., ma che il tasso nominale al netto dell’inflazione in Italia fosse piú basso che in Germania potrebbe banalmente dipendere dall’afflusso di capitali dal centro (dove c’è bassa inflazione) alla periferia (dove l’inflazione è piú alta).
    È pacifico che un investitore tedesco non abbia interesse nel fatto che in Italia ci sia un’inflazione piú alta, se i soldi li spende in Germania.

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  3. Penso proprio di sì, in quel periodo arrivarono i capitali dal centro che ora inguaiano le periferie.

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  4. Sí, mi riferisco al periodo pre-crisi.
    A mio avviso semplicemente gl’investitori del centro non avevano interesse per l’inflazione della periferia, e questo abbassava i tassi nominali italiani, visto che l’inflazione del centro era piú bassa.
    Ma se le cose stanno cosí non si tratta di un processo di convergenza.
    Ritengo sia fuorviante il modo in cui è calcolato il tasso reale illustrato nel grafico. Per calcolare un tale tasso bisognerebbe considerare il tasso d’inflazione di riferimento degl’investitori (ovvero il Paese in cui spendono i propri soldi), e farne una media ponderata, e non il tasso d’inflazione del Paese che emette i titoli, che all’epoca sembrava irrilevante (oggi lo è perché c’è il rischio di deflagrazione dell’Euro).

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    • Sul tasso reale: beh per i conti pubblici mi pare corretto usare il nostro tasso d’inflazione.
      Certo, lei ex-post ha ragione sulla convergenza. Ma io parlavo di cosa pareva ex-ante: come lei sa, dopo siamo tutti diventati bravissimi a prevedere cosa era successo.

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  5. “bisognerebbe considerare il tasso d’inflazione di riferimento degl’investitori”
    (Alessio).

    Considerato che ben più della metà del debito italiano era (e oggi ancor di più è) detenuto da investitori domestici mi riesce difficile comprendere l’obiezione. Se poi si depura la rimanenza dai detentori non europei (quelli basati in dollari e in sterline per esempio) le difficoltà aumentano

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