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Se lo sanno fare loro, lo sappiamo fare noi

Sono stato il primo studente di dottorato che ha avuto il Prof. Roberto Perotti quando arrivò ad insegnare alla Columbia University dopo avere lui stesso preso il dottorato al MIT di Boston. Dubbio onore per lui (lo feci impazzire ed ebbe santa pazienza a tollerarmi) grande onore per me. Mi fece le pulci su qualsiasi passaggio, su qualsiasi equazione, su qualsiasi affermazione. Un lavoro folle, ma che rese il successo finale con il titolo di dottore di ricerca la più bella medaglia al petto che posso ancora oggi appuntarmi, una spinta ad andare avanti con entusiasmo quasi infinito.

Dunque la mia stima per Roberto Perotti è, coerentemente, quasi infinita. Tra l’altro gli dobbiamo gratitudine per avere messo a soqquadro l’università italiani anni fa introducendo il Bollettino dei concorsi che tanti baroni di Economia ha terrorizzato, migliorando grandemente la qualità dei concorsi stessi. Proposte estreme, a volte sbagliate, le sue, ma importanti.

Quindi lo leggo sempre volentieri. Come oggi sul Sole. Dove dice: Per ridurre la pressione fiscale di cinque punti percentuali del Pil in cinque anni, e assumendo una crescita reale dell’1% annuo, bisogna ridurre la spesa di circa 70 miliardi ai prezzi attuali.

E che:  L’alternativa cui ricorrono tutti sono i tagli ai consumi intermedi dello Stato e alle remunerazioni dei dipendenti. Ma non basta enunciarne la quantità, bisogna dire “come” attuarli. Per fare un solo esempio, si è parlato molto in queste ultime settimane della sanità. Ma in Gran Bretagna da quindici anni commissioni su commissioni studiano il problema di come ridurre la spesa sanitaria in un sistema pubblico, senza pregiudicare la qualità dei servizi, e non ne sono ancora venuti a capo. Quante persone in Italia hanno la competenza necessaria per fare una proposta organica e quantitativamente rilevante? Quanti partiti hanno fatto proposte concrete? …Che ci piaccia o no, il problema dei tagli alle tasse è prima di tutto, e molto semplicemente, un problema di ordine pubblico….

E conclude: Ma non c’è una lista o un commentatore (incluso il sottoscritto, per quel che conta) che sia in grado di proporre un programma dettagliato, credibile, e politicamente sostenibile per affrontarlo.

Ecco 4 punti su cui non concordo con Roberto:

a) presume che il fine ultimo dei tagli di spesa sia la riduzione delle tasse. Non è così. Ridurre le tasse oggi non aiuterebbe il ciclo economico (vedi post di ieri) e non affronterebbe il problema di lungo periodo numero uno del Paese: la urgente necessità di mettere mano alla ricostruzione delle infrastrutture materiali ed immateriali del Paese per vincere la battaglia della produttività del nostro settore privato con i nostri partner internazionali.

b) conclude che non ci siano persone in Italia capaci di tagliare le spese in acquisti di beni e servizi (non con tagli lineari) e anche di lavori. Non è vero. E’ vero che la Ragioneria Generale dello Stato è un moloch immobile dentro la quale ci si perderebbe anche Teseo con gomitolo annesso, ma questo è un (rilevantissimo) problema politico. Ma non tecnico. Su questo blog da 1 anno diciamo come si dovrebbe fare e sappiamo benissimo che si potrebbe fare.  Il Regno Unito, al contrario di quel che dice Roberto, in questi 30 anni ha rivoluzionato la qualità dei suoi appalti pubblici con competenza e professionalità, premiate. Se lo sanno fare loro, lo sappiamo fare noi.

c) Ma parrebbe vero che nessun programma lo prevede. Appunto. E’ un problema politico. Ma nemmeno questo è vero. Il programma dei Viaggiatori in Movimento che stiamo ultimando in questi giorni (è dura! tanta fatica!) prevede un taglio del 3%  di PIL di spesa nominale di acquisti di beni e servizi e lavori, senza toccare la spesa reale (ovvero: tagli di sprechi non tagli recessivi). Da usare però in modo ben diverso da quanto richiesto da Perotti: far diventare quegli sprechi spesa vera, per le infrastrutture a supporto del nostro settore privato. Università, scuola, dissesto idro-geologico, le nostre Pompei in malora, carceri, ospedali, tribunali, ICT. Così da ridare vita anche al settore privato, sia in termini di ciclo che di capacità di crescita strutturale.

d) Roberto Perotti a Gustavo Piga: “anche se superassi il vincolo politico, cosa impossibile, quella spesa ulteriore sarebbero ulteriori sprechi”. Vero, se governasse la macchina pubblica chi non ha mai preso un impegno nei confronti del taglio degli sprechi. Falso, se chi promette di tagliarli sa farlo e ha la forza politica per farlo.

E’ semplicemente ora di votare sulla base dei programmi. Ma non i temini di 25 pagine scritti in 3 giorni a 6 mani.

Quelli, per favore, no.

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Recessioni che uccidono la speranza

Escono i dati Istat su risparmi, consumi e reddito. Dopo avere letto il comunicato che mi dice che:

a) dal terzo trimestre 2011 al terzo trimestre 2012, i redditi disponibili delle famiglie sono scesi di 1,9%;

b) dal terzo trimestre 2011 al terzo trimestre 2012, i consumi delle famiglie sono scesi del 2,2%;

c) dal terzo trimestre 2011 al terzo trimestre 2012, i risparmi delle famiglie sono cresciuti dello 0,3%.

a) ci ricorda che il 2012 è un anno di recessione. Nulla di nuovo in questo senso. Ma che tipo di recessione? E che tipo di aspettative paiono avere le famiglie che vengono rivelate da questi dati?

Normalmente se una recessione è intesa come passeggera e non permanente dovremmo vedere che il calo dei consumi odierni è minore del calo dei redditi: non vogliamo ridurre i tenori di consumo oggi così tanto e li scarichiamo in parte anche sui consumi futuri. Come? Risparmiando di meno o indebitandoci di più oggi.

Insomma se una recessione è percepita come passeggera la propensione marginale al risparmio cala. Quando sarà tornato il bel tempo, i nostri redditi saranno tornati a crescere ed avremo le risorse per ripagare i debiti senza contrarre troppo, di nuovo, il consumo futuro.

E’ quello che è successo fino ad oggi durante questa crisi.

Fino ad oggi.

Oggi però le cose paiono cambiare: la gente sembra smettere di ridurre la quota di reddito risparmiato malgrado il calo del reddito che continua. Anzi, risparmia di più in percentuale del reddito benché sia più povera. E tutta la riduzione del reddito si traduce in una riduzione di egual misura dei consumi. Questo avviene solo quando la gente non ritiene più passeggera la crisi, ma permanente. Quando la speranza scema e si adeguano i tenori di vita ad un nuovo corso.

In un clima così nero, notate bene, c’è anche un altro risvolto: che riduzioni eventuali delle tasse per aiutare il ciclo non farebbero altro che tradursi in aumenti di risparmio per far fronte a questa incertezza plumbea. E non in domanda di beni alle imprese.

E dunque che l’unico piano per sconfiggere l’austerità passa per un intelligente piano di spesa pubblica per acquisto di beni, servizi, lavori, finanziato da … 1) quei tagli agli sprechi che Bondi non ha saputo affettuare procedendo con tagli lineari e 2) dall’utilizzo di tutte quelle tasse che gli ultimi governi hanno sì aumentato, ma usandole pensando di ridurci il debito ed invece lasciandoci un debito su PIL altissimo, come non si vedeva da quasi 100 anni a questa parte.

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Quella vite che non proteggiamo dalla grandine

La riforma Fornero è partita. Tra i suoi aspetti c’è quello dell’ASPI,  una sorta di assicurazione che tutela in caso di disoccupazione. Leggiamo meglio:

“A partire dal 1 gennaio 2016, l’indennità ASPI sarà erogata per tutti per un periodo di 12 mesi, per lavoratori con meno di 55 anni, e di 18 mesi per i lavoratori con più di 55 anni. Nel periodo transitorio (dal 1 gennaio 2013 al 31 dicembre 2015), l’ASPI sarà erogata in misura inferiore ma con crescita progressiva. Per il 2013 l’ASPI è prevista per un periodo di 8 mesi (per chi ha meno di 50 anni) e di 12 mesi (per chi ha più di 50 anni).

Saranno le aziende a dover finanziare l’ASPI ed è innegabile che il finanziamento sarà particolarmente gravoso. E’ infatti previsto per finanziare l’ASPI un contributo pari all’1,31 % per ogni contratto a tempo indeterminato stipulato (compreso quello degli apprendisti) e un contributo aggiuntivo (oltre a quello dell’1,31%) pari all’1,4% per i contratti a tempo determinato, esclusi i lavoratori assunti per sostituzione e gli stagionali.

Saranno richiesti molti sacrifici ma l’ASPI mira all’obiettivo ambizioso di una tutela universale in caso di disoccupazione, un obiettivo di cui i Governi precedenti hanno sempre detto di voler raggiungere( lo hanno detto tutti i Governi indistintamente dal 1996) senza però fare davvero nulla di concreto.

Un obiettivo che la stessa CISL sollecitava chiedendo di far convergere indennità di disoccupazione e indennità di mobilità in un’unica prestazione che potesse valere per tutti i disoccupati. Forse è anche per questo che Raffaele Bonanni ha riconosciuto che Mario Monti è una risorsa del nostro Paese.”

Non ho riportato a caso questi passaggi dall’articolo del Corriere della Sera. Essi segnalano da un lato un meccanismo di tutela non condizionato ad alcuna azione di ricerca di lavoro del disoccupato, dall’altro il suo costo per la collettività ed infine la necessità di comprendere se siamo di fronte ad un “meccanismo ottimale” o se si poteva fare di meglio.

Ricorderete la nostra (eravamo 1300) proposta alternativa al Presidente Monti, nell’appello, chiedevamo di riservare uno stipendio base di 1000 euro per tutti i disoccupati giovanili in cambio di un lavoro temporaneo di 2 anni nella Pubblica Amministrazione.

Sono ambedue meccanismi per venire incontro al dramma della disoccupazione. C’è un qualche studio che possa esaminarne il loro valore? E magari paragonarli? E magari dirci se c’è un modo ottimale di scadenzare i diversi interventi a seconda del periodo di disoccupazione trascorso tenendo conto delle risorse a disposizione del Governo?

Domande che mi sfrugugliavano in testa da un po’ ma che non avevo il coraggio di affrontare, non essendo un esperto della materia. Finché Marta non mi segnala oggi l’uscita di un lavoro di 3 economisti di prestigio (tre cui 2 italiani, Pavoni della Bocconi e Violante della New York University). Molto bello. Forniscono elementi preziosi per fare un po’ di chiarezza.

Studiano, i 3 ricercatori, la validità di 5 possibili schemi a disposizione del legislatore:

- l’assicurazione contro la disoccupazione (UI, sta per Unemployment Insurance, in verde nel grafico), simile in parte all’ASPI ma che richiede al lavoratore di fare uno sforzo per cercare lavoro per ricevere il pagamento del sussidio;

- l’obbligo di un lavoro - in cambio di un salario – nel settore pubblico o nel non-profit (MW, sta per Mandatory Work, in celeste nel grafico), simile alla nostra proposta di cui all’appello al Presidente Monti;

-   l’assistenza (costosa per lo Stato) al lavoratore per trovare un lavoro (JA, sta per Job Search Assistance, in arancione nel grafico);

-    lavoro pubblico con aiuto alla ricerca di un altro lavoro (TW, sta per Transitional Work, in giallo nel grafico), un misto di JA e di MW;

- assistenza sociale, (SA, sta per Social Assistance, in blu scuro nel grafico), dove si trasferisce semplicemente un ammontare al lavoratore senza lavoro senza richiedere sforzi particolari. Insomma come per l’ASPI: un trasferimento incondizionato vero e proprio a coloro che hanno perso lavoro.

Nel modello dei tre ricercatori vi sono delle ipotesi chiave che mi sento di condividere in pieno:

1) i salari e la probabilità di ritrovare lavoro dipendono dal livello di istruzione/conoscenze in possesso del disoccupato (tanto maggiore tale livello, maggiori sono i primi);

2) la conoscenza/istruzione acquisita dal lavoratore decade al crescere del periodo di disoccupazione;

3) dunque al crescere del periodo passato come disoccupato diminuisce il salario che ci si può vedere offerto e le probabilità di trovare un lavoro (come ben noto su questo blog, la mia più grande preoccupazione è che la disoccupazione di oggi si tramuti per alcuni in disoccupazione permanente e poi uscita dalla forza lavoro per depressione o scoramento perché diventa sempre più difficile trovare lavoro).

A questo punto vi chiedo un ultimo sforzo, ma ne vale la pena: capire il grafico delle zone in cui è ottimale uno schema piuttosto che un altro.

Ancora vivi? Allora. Più vi spostate da sinista a destra più state cercando di capire qual è lo schema ottimale mano a mano che il periodo di disoccupazione diviene più lungo (leggere in viola). Più vi spostate dall’alto al basso più state considerando uno Stato con scarse risorse a disposizione (leggere in rosso).

Avete già capito dove miro a portarvi. Che siccome in Italia il periodo di disoccupazione dei nostri disoccupati sta allungandosi rapidamente e le risorse a disposizione dello Stato non sono ampie, ci troviamo nell’angolo in basso a destra, dove il colore è celeste (MW) e lo schema ottimale è uno di lavorare nel settore pubblico per un salario relativamente basso.

Già, lo schema ottimale è quello del nostro appello.

Notate che l’ASPI (SA, blu scuro), sarebbe lo schema ottimale, se avessimo più soldi. Ambedue costano ma … Il vantaggio di MW (appello) su SA (ASPI) è che dovete considerare il valore del prodotto generato da coloro che sono … obbligati a lavorare per il Paese per essere pagati: piccolo o grande che sia, è valore che l’ASPI non genera.

Notate che in realtà lo schema ottimale per un Paese che ha pochi soldi (parte bassa del grafico) richiede uno schema in cui le politiche adottate variano (voi intanto che scrivo seguite il percorso della freccia nera più in basso) da UI (indennità legata alla ricerca di lavoro) quando si è da poco disoccupati, per poi passare ad uno schema di lavoro pubblico assistito da aiuto per cercare lavoro (TW)  ed infine ad un obbligo di lavoro nel pubblico (MW).

In questo caso il lavoro poco pagato nel settore pubblico funge anche da incentivo a cercare realmente un lavoro durante il periodo iniziale di disoccupazione, quando si è più attraenti per le imprese perché ancora “non depressi”: per il lavoratore che non cerca lavoro non c’è la sicurezza di avere soldi “gratis” ma solo soldi in cambio di “lavoro”.

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Come leggiamo sul Corriere, con l’ASPI “oltre allo status di disoccupazione, per poter usufruire dell’ASPI ordinaria, il soggetto richiedente dovrà possedere almeno 2 anni di anzianità assicurativa nonché 1 anno di contributi nel biennio precedente l’inizio del periodo di disoccupazione”.

Nessun giovane dunque potrà richiederla se è alla ricerca di un primo lavoro in questa drammatica recessione. Spero di sbagliarmi, ma pare così: abbiamo dunque una “tutela universale”, ma che rischia di non esserci per i più giovani? Che universo è?

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I giovani non costano tanto al Paese se gli offriamo un lavoro temporaneo nel settore pubblico durante una crisi così grave, perché hanno un capitale umano dovuto all’esperienza scarso e sono disposti a lavorare per poco, fornendo grandi rendimenti a delle amministrazioni pubbliche che sono grige, vecchie e bisognose di nuove idee.

I giovani costano tanto, ma proprio tanto, al Paese se li lasciamo andare in soffitta senza proteggerli. Perché perdiamo gli enormi frutti della loro vite una volta che, finita la grandine, sarà riuscita a crescere rigogliosa.

E’ tempo di dare risposta a questo immenso spreco con politiche che pensino a loro prima che a qualsiasi altra cosa.

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Gioventu’ bruciata

Tramite un ampio programma di assistenza sociale, abbiamo colpito alle radici la criminalità … I nostri cittadini che negli ultimi 6 anni non trovavano lavoro non hanno dovuto rubare per non morire di fame. Ovviamente, quando abbiamo creato questi programmi non avevamo in mente semplicemente il ristretto obiettivo di prevenire i crimini. Malgrado ciò, nessuno che sappia quanto possano essere demoralizzanti gli effetti dell’inattività sarà incline a dubitare che la prevenzione del crimine può essere un importante effetto addizionale del nostro sforzo di fornire ai nostri bisognosi cittadini disoccupati l’opportunità di guadagnarsi, tramite un onesto lavoro, quanto necessario per i bisogni essenziali della vita.”

Franklin Delano Roosevelt, Presidente degli Stati Uniti, 17 aprile 1939.

Perché vi siete tutti preoccupati per la notizia di oggi che il tasso di disoccupazione giovanile italiano ha raggiunto il picco del 37,1%, del 5% superiore a quello di un anno prima, nel novembre 2011 quando il Governo Monti si è insediato (l’aumento dell’Unione europea nello stesso periodo è stato solo dell’1,5%), ed è un passo da superare quello portoghese, così entrando sul podio dei primi tre peggiori in Europa?

Tante ragioni. Una che mi preoccupa, così tanto, e che so preoccupare tantissimo anche uomini di valore del Governo Monti come il sottosegretario all’istruzione Rossi Doria, è l’immenso rischio che a queste statistiche si accompagni un lento ma inesorabile sprofondare di tanti giovani nel mondo del sommerso e dell’economia criminale.

Quando abbiamo pensato a scrivere l’appello al Presidente Monti sul garantire un salario di 1000 euro al mese per due anni ai giovani disoccupati che lavorassero nei gangli della Pubblica Amministrazione avevamo anche questo in mente. Non è stato fatto. Colpevolmente?

Un parametro per giudicarlo è chiedersi appunto quale sia il legame, in periodi di grave crisi recessiva come questi, tra introduzione di assistenza sociale e riduzione del tasso di criminalità. Non possiamo accertarlo per l’Italia visto che il Presidente Monti non ha raccolto il nostro appello ma ha preferito costruire un costoso meccanismo di indennità di disoccupazione che incentiva a lavorare di meno e che comunque non tutela i giovani disoccupati in cerca di una prima esperienza lavorativa, le più giovani viti da proteggere dalla grandine, visto che ad essi questa non si estende.

Eppure ci furono altri leader che ebbero il coraggio e la visione di affrontare di petto il problema in un momento di crisi analogamente drammatico, forse di più, di quello odierno. Già, FDR, Franklin Delano Roosevelt tre volte presidente degli Stati Uniti.

Che lanciò un programma di aiuti, di assistenza sociale diretta (in contanti o in natura, come cibo, alloggio, abiti … ) ma anche  di salari (specie agli uomini in età da lavoro) condizionati all’accettazione di una occupazione nel settore pubblico, che cambiarono per sempre il panorama sociale degli aiuti agli indigenti, che da finanziato (poco) dalla beneficenza privata divenne finanziato (molto) dall’aiuto federale voluto da FDR, dal 1932 in poi. Aiuti volti a colmare la differenza tra reddito familiare effettivo durante la crisi e bilancio ipotetico di una famiglia tipo.

Qualche cifra (tratta dal bell’articolo pubblicato due anni fa da Price V. Fishback, Ryan S. Johnson, and Shawn Kantor nel Journal of Law and Economics di Chicago): tra il 1932 ed il 1934 il Governo federale triplicò l’aiuto pro-capite, mentre il totale dell’aiuto pubblico crebbe dai 262 milioni di dollari del 1932 al picco di 1,38 miliardi del 1938, facendo scendere la quota di aiuti privati dal 27% del 1930 a meno dell’1% dopo il 1935.

Cosa avvenne al tasso di criminalità nelle città aiutate dai programmi di sostegno ai disoccupati di FDR? Un aumento dell’1% nella spesa pro-capite in aiuti si associò all’epoca ad una riduzione statisticamente significativa dello 0,154% nei crimini contro la proprietà. Per capirci, ai giorni nostri, una spesa di circa 70.000 euro (96.000 dollari del 2000 in realtà) avrebbe permesso l’eliminazione di un crimine, con tutti i suoi danni economici e psicologici connessi.

Ma, ancora più importante ai nostri fini, sembra dallo studio citato che l’effetto più rilevante quanto a capacità di abbassare il tasso di criminalità, lo ebbero i salari in cambio di occupazione nel settore pubblico. Perché ridussero il tempo a disposizione delle persone per commettere crimini. Ma anche perché aumentarono il costo opportunità di commettere atti criminali, ovvero rinunciare al salario pubblico messo a disposizione.

Ha ragione dunque Roosevelt: con il suo programma di sussidi legati ad occupazione pubblica venne ridotta la criminalità.

Torniamo a noi. Avessimo dedicato i soldi del contribuente, che c’erano eccome, invece che a pagare contributi ai disoccupati non giovani senza nemmeno condizionarli alla ricerca di un lavoro, incentivando per di più le persone a lavorare meno, se li avessimo dedicati a soddisfare le richieste del nostro appello oggi ci troveremmo con un generazione giovanile non solo meno disillusa, ma anche meno illusa dalla tentazione drammatica dell’illusione del guadagno facile, illecito, criminale.

Grazie Francesco.

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La stupida austerità messa alla berlina dal Fondo Monetario Internazionale

Negli anni novanta, alla Columbia University, quando studiavo per il dottorato, era appena uscito un libro di Macroeconomia sul quale studiavamo tutti. Era la grande moda, se volete. Scritto da due economisti del MIT di Boston, Olivier Blanchard e Stanley Fischer, che consideravamo allora il “top” della macroeconomia. Li includevamo, come una buona parte degli economisti del MIT, nella scuola keynesiana, degni allievi di Modigliani.

Non deve stupire dunque che abbiano poi deciso ambedue di accettare posti importanti e di prestigio nelle istituzioni sovranazionali. Stanley Fischer, dal 1994 al 2001 fu il vice capo (Deputy Managing Director) del Fondo Monetario Internazionale (FMI), a Washington. Istituzione di cui oggi Olivier Blanchard, cittadino francese, è capo economista.

Quando un ricercatore del FMI vuole pubblicare un suo lavoro deve passare per l’approvazione di Olivier Blanchard. Raramente di questi tempi Blanchard ha tempo di scrivere lui un lavoro presso il Fondo, troppo impegnato, troppa crisi in giro per il mondo da gestire, specie in Europa. Quindi quando esce un lavoro del FMI firmato tra gli altri da Blanchard, che autorizza se stesso, c’è da drizzare le orecchie. Perché vuol dire che il lavoro scotta, a livello politico, e che l’istituzione tutta si impegna al suo massimo livello a confermare la bontà dei contenuti del lavoro.

Un lavoro sui moltiplicatori della politica fiscale nel mondo. Specie nell’area euro.

E già, perché sarà più di un anno che su questo blog parliamo, tanto, quasi fino alla nausea, dei moltiplicatori fiscali, chiedendo che siano messi al centro del dibattito di politica economica in Italia ed in Europa, protestando perché non capendo che moltiplicatori di grande dimensione, come noi abbiamo sempre sostenuto essi siano in questa fase unica della storia economica moderna dei paesi occidentali e in particolare dell’Europa, fanno sì che l’austerità generi recessioni così ampie da minare la coesione sociale di un Paese e, ancor di più, quella di un giovane Paese in divenire, l’Unione europea.

“Se tagliate la spesa pubblica, cosa avviene al PIL ed alla disoccupazione?”. Nulla! Anzi, le cose andranno meglio!, ci hanno detto per mesi Alesina, Giavazzi e tanti altri. Ho insistito nel dire che nessuno che ha studiato economia e conosce la storia economica taglierebbe mai la spesa pubblica in un periodo così recessivo. Che questa andava aumentata e certo mai tagliata, se non in quegli sprechi, una volta identificati, che spesa non sono (non ci si compra nulla di più con essi) ma meri trasferimenti di denaro dalla gente onesta che paga le tasse a gente disonesta che viene pagata più di quanto sia necessario per quello che vende al settore pubblico. Ma invece abbiamo fatto tutto il contrario: non abbiamo cercato gli sprechi, ed abbiamo tagliato domanda pubblica vera che creava lavoro ed occupazione.

“Se aumentate le tasse, cosa avviene al PIL ed alla disoccupazione?”.Qui eravamo un po’ tutti d’accordo. Fa male all’economia. Ma io ho continuato a dire che a PIL ed occupazione in questa recessione incredibile faceva più male il taglio alla spesa pubblica, perché la gente, tassata, quelle maggiori tasse imposte sul reddito non le avrebbe spese così tanto, per paura del domani, se le avessimo lasciate nelle loro tasche. Detto in altro modo tecnico, che il moltiplicatore della spesa pubblica - quanto una diminuzione (o un aumento) di questa genera di diminuzione (aumento) del PIL – è più ampio del moltiplicatore delle tasse. Apriti cielo se ce n’era uno d’accordo ai tavoli della politica economica e delle prime pagine di Corriere e Repubblica!

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Così arriviamo a Blanchard ed al suo studio, assieme a Daniel Leigh,  sull’impatto dell’austerità su PIL ed occupazione. Che affronta con un qualche coraggio la critica rivolta al FMI che quando questo ha stimato gli impatti dell’austerità ha sottostimato sistematicamente l’impatto recessivo di questa su PIL e disoccupazione. Il sospetto che i due hanno voluto verificare è che gli errori nelle previsioni FMI di (de)crescita dopo misure austere provenisse dai loro modelli econometrici che non hanno incorporato durante la crisi un moltiplicatore sufficientemente alto.

Un po’ come il nostro Ministero dell’economia e delle finanze che da qualche anno a questa parte, a seguito delle sue politiche di austerità, deve poi costantemente rivedere le sue stime sulla crescita, rivedendole drammaticamente al ribasso.

Se ciò fosse vero, abbiamo la perfetta spiegazione del perché il governo Monti ed il governo Berlusconi prima di lui, grazie al mirabile apporto dei tecnici europei, hanno generato recessione, disoccupazione e debito pubblico su PIL crescente (e sto contando il debito pubblico su PIL, Presidente Monti, senza tener conto degli aiuti italiani alla Grecia, per tener conto del suo intervento non proprio chiarissimo al riguardo ad Otto e mezzo l’altra sera): avrebbero pensato che la stupida austerità servisse a qualcosa perché avrebbero sottostimato la dimensione dei moltiplicatori.

Ecco cosa scoprono di incredibile Blanchard ed il suo coautore (tenetevi forte):

1. Se l’austerità attesa aumenta di 1% di PIL, nella crisi del 2010-11, il PIL cade di circa 1% in più di quanto non già previsto: “un’interpretazione naturale di questo risultato è che i moltiplicatori impliciti nelle previsioni erano sottostimati di 1 unità”. Ovvero, se come poi racconta Blanchard, il FMI ha usato in questa crisi un moltiplicatore di 0,5, quello vero era 1,5. Non bazzecole, come errore;

2. I risultati sono sorprendentemente robusti: non dipendono dai c.d. casi estremi (come Germania e Grecia), né dipendono dal considerare solo i paesi euro o anche altri paesi europei. Se però si inseriscono i dati di Paesi non in una crisi estrema come la nostra i risultati spariscono, a conferma che è in Europa OGGI che stiamo vivendo un momento eccezionale in cui particolarissima cura va adottata nel fare politica fiscale intelligente;

3. Mah, forse, mi direte, forse non è tanto che si è sottostimato l’impatto dell’austerità sulla crescita, ma di qualche altra variabile? Forse è l’alto livello del debito pubblico sul Pil che spiega perché la crescita è stata più bassa del previsto? Macché. Spiacenti per i declinisti del debito che pensano di salvare il Paese vendendo immobili: l’effetto dell’austerità permane, debito alto o debito basso.

4. C’è poi un passaggio che mi delizia nel lavoro di Blanchard e soci: un esempio che fanno. Che calza a pennello per il caso italiano. Loro non lo riferiscono all’Italia, lo dicono in generale, ed io ve lo riporto: “per esempio, un aumento degli spread potrebbe anche essere il risultato di una crescita inferiore a quella attesa e anche causa di minore crescita. In tal caso, una crescita economica inferiore a causa dell’austerità potrebbe generare un aumento degli spread, e tali aumenti di spread potrebbero, a loro volta, ridurre ulteriormente la crescita del PIL”. Wow. Avete mai pensato a ciò? Che tutte le manovre austere che abbiamo fatto potrebbero avere fatto aumentare lo spread e con ciò peggiorare ancora di più la crescita? Il FMI ci ha pensato.

5. Continuiamo, la cosa si fa sempre più interessante. Dove sono stati maggiori gli errori? Nel valutare gli effetti della spesa pubblica o delle tasse? Errori da ambedue le parti, ma maggiori … sul sottostimare il peso negativo del tagliare la spesa pubblica. Insomma al FMI non hanno usato modelli à la Alesina e Giavazzi che dicono che tagliare la spesa pubblica fa bene, per fortuna (avrebbero commesso errori ancora più giganteschi), ma anche usando modelli normali non hanno resistito a sottostimare la gravità del tagliare la spesa pubblica in una crisi eccezionale come questa.

6. Ma quando aumenti le tasse e diminuisci la spesa pubblica la recessione si … moltiplica appunto, via taglio dei redditi (le imprese non partecipano più agli appalti che sono stati cancellati, non si pagano le imprese, che smettono di investire, queste non pagano i dipendenti, che smettono di consumare…). Dove ha fatto più male l’austerità inaspettatamente? 4 volte più sul taglio degli investimenti che sul taglio dei consumi. E poi: molto più del previsto sulla disoccupazione e sulla domanda interna.

Insomma, povero Keynes, sempre così poco ascoltato a Washington.

Ora, lo ripeto, quando voterete questa o quella coalizione, per favore, chiedetegli, al leader: quale pensa sia il moltiplicatore della spesa pubblica in questa drammatica recessione? E cosa intende fare al riguardo? Se vi risponde: ancora austerità, saprete cosa fare. Spero. Ne sono certo.

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Della cecità non intenzionale, di Apollo Robbins e delle nostre elezioni

Stiamo esaurendo le pile nello scrivere il Primo Programma per l’Italia dei Viaggiatorinmovimento. Bellissimo. Mi perdonino i lettori se sarò breve, ma lavorare su un programma, anche o soprattutto quando siamo in cento a farlo, porta via veramente tanto tempo. Bellissimi anni di vita, quelli a scrivere un programma tutti insieme. Ci siamo quasi.

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Quando vivevo a New York e studiavo a Columbia prendevo spesso la metro (non il primo anno, eravamo chiusi in casa a studiare e basta!). Se andavo solo, siccome il viaggio da Harlem poteva durare anche 25 minuti, portavo letture. Libri? Spesso giornali, letture più brevi.

La tecnica era semplice, me l’aveva insegnata il mio indimenticabile amico e compagno di studi, figlio di egiziani scappati dopo l’arrivo di Nasser e subito affermati medici e poi cittadini degli Stati Uniti, Sherif. “Nelle ore in cui la metro è piena porta l’Economist se vuoi avere un’idea per la tesi, il New Yorker per leggere storie brevi bellissime che ti distraggano. Nelle ore in cui la metro è vuota (sere o week-end) idem: Financial Times o New York Times.”

Ovviamente il bellissimo New York Times, con le sue stupende storie di tutti i giorni che non leggiamo mai in nessun quotidiano italiano, le sue storie di gente unica, gente comune, criminali fuori dalle righe, inventori, scienziati, tassisti, giovani intraprendenti, gente che vive ed ha cose fantastiche da raccontare, non si può aprire se la Metro è piena da scoppiare, con le sue pagine che pari un gabbiano quando le sfogli. Ma il New Yorker, oh sì. Parevo un gabbiano rattrappito, ma un gabbiano felice, intento a leggere. Parevano 2 minuti da Harlem a Wall Street. Che storie, le storie del New Yorker.

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Leggetelo sul sito del New Yorker se vi va, sono 9 paginette internet in inglese, la storia  di un grande piccolo uomo, Apollo Robbins, un borseggiatore divenuto mago e poi attore e ora professore di trucchi a colloquio costante con scienziati e premi Nobel dell’economia.

Apollo Creed o meglio, Carl Weathers

Ora al di là del fatto che una persona quando si chiama Apollo mi sta immediatamente simpatico perché mi ricorda il grandissimo Apollo Creed, prima sfidante e poi grande amico e allenatore di Rocky Balboa, è una storia proprio bella, quella di Robbins. Una vita speciale.

Di fatto ti racconta come Apollo (Robbins) riesce a rubare qualsiasi cosa alle persone (la restituisce sempre!) anche prevenendole che lo sta per fare. E’ divenuto famoso, nei circoli scientifici, per avere focalizzato l’attenzione su una caratteristica umana, “la cecità non intenzionale”, il fenomeno di focalizzare l’attenzione delle persone così intentamente su una singola cosa da far sì che queste smettano di accorgersi di cose evidenti che le passano di fronte al naso (“inattentional blindness”, the phenomenon of focussing so intently on a single  task that one fails to notice things in plain sight). Così Robbins, personaggio affascinante e sveglissimo, riesce a portare a termine la sua innocua ma significativa dimostrazione di borseggiatore scientifico.

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Ecco, siccome da tanti anni a questa parte vi siete sentiti dire che i conti pubblici sono in ordine, e che lo saranno ancora di più domani, che le riforme hanno funzionato, e che funzioneranno ancora di più domani, e che l’austerità è stata necessaria a salvarci, non fatevi distrarre. Continuate a chiedere. Chiedere perché malgrado l’austerità i conti pubblici peggiorano, perché nessuno percepisce che vivere e creare impresa in Italia sia divenuto più facile, chiedere se è vero o no che fino al 2015 con le attuali politiche non usciremo dalla recessione. Se non lo fanno i giornalisti italiani, fatelo voi.

Le risposte che otterrete vi aiuteranno a capire meglio la realtà, se hanno ragione, per esempio, i rigoristi o i keynesiani. Non dico, per carità, che hanno ragione questi ultimi necessariamente. Dico solo che se non chiedete rischiate maggiormente di finire per essere accecati, malgrado le vostre migliori intenzioni, da qualsiasi affermazione mai comprovata.

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Germania presbite, Europa miope, Italia …?

Squilla il telefono, mi chiama il GR3 per un intervista oggi alle 13.45 da registrare. Stavo preparando pezzo, l’ennesimo pezzo, sul moltiplicatore della spesa pubblica che ora, solo ora, pare chiaro anche al Fondo Monetario esista eccome e sia stato ampiamente sottostimato.

Mi fermo per ragionare sulla domanda della giornalista, rinvio il moltiplicatore a domani.

Mi chiede del perché l’inflazione sale in Italia e i dati tedeschi sulle vendite tirano.

Non che le due cose abbiano necessariamente un legame. Eppure in tutte le domande è bello, è divertente, provare a intrecciare, a connettere, per cercare di rispondere e ridire le stesse cose in modo nuovo o magari, se sei fortunato, a trovare cose nuove da dire.

L’inflazione italiana. Come possono crescere i prezzi in un ambiente così recessivo? I prezzi sono in buona parte figli del costo del lavoro per unità di prodotto per le aziende. I costi del lavoro certo non sono aumentati, ma è la produttività che rende praticamente impossibile per le imprese non trasferire in parte i costi unitari sui prezzi.

E da dove viene questa carenza di produttività? Dai ritardi in termini di secondi e minuti che abbiamo nel consegnare la nostra merce, nel ritardo con cui i nostri lavoratori escono dagli ospedali perché male e tardi curati, dai ritardi che abbiamo a comunicare con fornitori e clienti via internet, dal fatto che i nostri ragazzi quando sono andati a scuola o all’università non hanno avuto i migliori servizi intellettuali, vuoi perché il professore non arrivava in classe, vuoi perché i termosifoni non funzionano ed è difficile seguire quando fa freddo.

Sì, è questa la madre di tutte le riforme per la competitività italiana e la moderazione nei prezzi. La madee ditutte le riforme a favore delle nostre imprese. La madre di tutte le riforme, quella per gli investimenti pubblici, quelli crollati negli ultimi decenni, ma anche quelli buttati via con sprechi immensi dovuti a corruzione o a mancanza di capacità di controllare i lavori, quella madre di tutte le riforme che nessun governo ha avuto voglia e coraggio di negoziare con Bruxelles, magari chiedendo aiuto a ispettori europei, in deroga al Fiscal Compact che in recessione non si dovrebbe applicare.

Ed ecco la connessione magica con la Germania, quella Germania mai miope che 20 anni fa vide più lontano di tutti, capì che il mondo era cambiato per sempre, che l’Est non era più Dresda ma Shangai, e che nel giro di 10 anni con investimenti pubblici di una dimensione da togliere il fiato ha rimesso a posto una quasi metà del Paese la cui infrastruttura fisica soprattutto cadeva a pezzi. Altro che Mezzogiorno d’Italia, lo stato della Germania dell’Est e altro che spesa pubblica italiana la spesa tedesca, pubblica.

Certo, i tedeschi non sono miopi. Ammirevoli.

Ma sono presbiti. Non ci vedono, da vicino. Non è vero che la Germania oggi va bene: se le va bene, avrà due anni di crescita sotto l’1%. Certo, meglio del Sud, ma se continua a non vedere ad un palmo di naso gli effetti della stupida austerità europea di cui è leader, ben presto ne pagherà le conseguenze, assieme ovviamente a noi, fino a quando, come spero, la barca sia comune.

E’ essenziale che il prossimo Governo italiano abbia il coraggio di fare quello che gli ultimi non hanno saputo fare. Chiedere all’Europa l’unica riforma che genera stabilità dei conti pubblici e minore tensione dei mercati finanziari: investimenti pubblici nei paesi dove ce n’è bisogno (Sud), abbassamento delle tasse dove si può (Nord).

Dopo di che, rimesso a nuovo il nostro stock di capitale a disposizione delle imprese e dei cittadini, usciti dalla recessione, annullato lo spread, potremo far uscire il settore pubblico dall’economia e mettere da parte dei bei soldini in attesa di una prossima Grande recessione, tra 30 anni.

Ma sarà una recessione che potremo governare meglio e non subirla né farcela imporre da comportamenti sregolati del mondo finanziario d’oltre Oceano. Perché se avremo superato l’angolo oggi, tra 30 anni saremo al tavolo delle decisioni mondiali con Usa e Cina, e potremo dire “no”, come non abbiamo mai fatto, a decisioni scellerate e, queste sì, miopi che ogni tanto provengono dalla bella terra di Washington e Lincoln.

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Lisbona, Italia, Europa

Il Portogallo ha una tassazione sul PIL che per il 2012 era prevista essere del 42,9%. Doveva essere, secondo i piani della Troika (Fondo Monetario Internazionale, Commissione europea, Banca Centrale Europea). Sarà del solo 41,7%. Il crollo del PIL non ha permesso che i piani di entrate fiscali fossero rispettati.

Dal 2009 il Portogallo ha conosciuto 3 anni di recessione su 4. Il 2013 sarà il quarto anno di recessione, il terzo consecutivo (la Troika si aspettava per il 2013 un +0,2% ma ha causato un -1% con l’austerità), con un tasso di disoccupazione che toccherà il 16,5%. Meramente sommando il cambiamento PIL 2009-2013 si giunge ad un -7,2% in 5 anni. Ovviamente (sono ironico) nelle stime della Troika il 2014 vi sarà un ritorno alla crescita.

Detto in altro modo, non è stato ben valutato l’effetto moltiplicativo nefasto per l’economia e le finanze pubbliche dell’austerità. Nelle parole stesse della Troika sintetizzate dal Fondo Monetario: “finora lo staff della Troika ha usato un moltiplicatore di 0,5 (1% di tasse in più o di spesa pubblica in meno causano 0,5% di PIL in meno) basato su precedenti studi empirici sul Portogallo. Ma le recenti esperienze, in Portogallo ed altrove, suggeriscono maggiore cautela al riguardo … e sono ora concordi nell’usare un moltiplicatore più alto, pari a 0,8. In conseguenza di ciò la recessione continuerà anche nel 2013”.

Come se i precedenti studi empirici, basati sullo studio dell’economia portoghese in tempi normali, avessero potuto essere usati per tempi straordinari come quelli che viviamo. Quante volte su blog abbiamo detto che in tempi di forte recessione come questa i moltiplicatori sono ben più ampi e di fare attenzione, molta attenzione? Quante?

Anche le spese, dal 47,4 previsto sono scese al 46,7 del PIL e la spesa per interessi, dal 2,9% del PIL del 2009 al 4,5% del 2015. Il debito su PIL – indicatore principe per chi vuole migliorare le finanze pubbliche – anziché scendere dall’83,1% del 2009 è salito oggi al 119% quest’anno. Nei piani avrebbe dovuto essere del 114%. Ma i piani, si sa, non fanno i conti con la stupida austerità. Nel 2014 sarà nelle stime più ottimistiche della Troika del 124%. Ovviamente dopo di ciò comincerà a calare, o così dice la Troika.

La Troika si preoccupa che il contesto europeo di restrizione continuerà a incidere negativamente su PIL e debito. Ma di questo contesto prende meramente atto, non lo contrasta, non è il suo compito. Il suo compito è fare la piccola austerità del piccolo Portogallo.

A qualcun altro spetta di fare la piccola austerità greca. Ad un altro quella spagnola. Ad un altro quella italiana.

Nessuno comprende che la somma di tante piccole austerità rende ogni singola austerità più grande. Ma vallo a spiegare alle piccole troike di ogni Paese.

L’economia portoghese riduce parzialmente le sue sofferenze grazie all’export, ma l’export nell’area euro (non solo dai vicini spagnoli) crolla. Arriverà finalmente il giorno in cui crollerà anche il mondo a causa del crollo della casa europea? E allora chi salverà il Portogallo, i marziani?

Non che la Troika in Portogallo non sia conscia di questi problemi. L’austerità, perseguita comunque incessantemente, è stata smorzata d’accordo con la Troika stessa perché:

malgrado tutto, i rischi che circondano gli esiti tendenziali del programma sono aumentati significativamente. Prima di tutto, vi è un’abbondanza di segnali di affaticamento verso l’austerità. Con una disoccupazione già molto alta e l’economia in recessione, le difficili decisioni da prendersi in termini di politica economica stanno mettendo alla prova il consenso politico allargato che ha finora sostenuto il programma. Secondopoi, gli effetti di ritorno della svalutazione interna, della riduzione dei debiti e dell’indebolimento delle condizioni esterne hanno reso l’aggiustamento fiscale più difficile. Superare queste sfide sarà importante per il successo del programma”.

Così, ad ottobre 2012, la Troika.

Ora accelerate il filmino fino al primo dell’anno, quando il Presidente della Repubblica portoghese si è visto obbligato dal crescente malcontento dei parlamentari dell’opposizione a chiedere alla Corte Costituzionale di valutare l’equità della nuova manovra 2013. Richiesta tra l’altro già avvenuta lo scorso anno quando il taglio di tredicesime e quattordicesime portò la Corte, interessata della materia, a sancire la violazione della Costituzione portoghese e a obbligare il governo a fare marcia indietro. Quest’ultimo poi elaborò una proposta alternativa (spostare i contributi sociali dalle imprese ai lavoratori) per recuperare il gettito perso con la decisione della Corte, errore strategico che portò in piazza tantissime persone per protestare una soluzione proposta che aggiungeva benzina sul fuoco.

Oggi, nel secondo interpello alla Corte, i dubbi riguardano tra le altre cose i tagli una tantum alle pensioni, che apparentemente contraddicono il principio di uguaglianza di trattamento.

Cresce dunque la difesa che montano le parti più deboli contro l’austerità. Cresce con la stanchezza e la mancanza di speranza che arriva dall’Europa.

A tal punto da preoccupare la Troika portoghese.

Fa bene la Troika a preoccuparsi.

Anche perché, e questo la Troika lo dice chiaramente, la questione portoghese oramai travalica le frontiere portoghesi e arriva dritto dritto sul tavolo del Consiglio d’Europa dove dormono sogni sempre meno tranquilli 27, anzi 26, addormentati nel bosco i governanti europei. In attesa che arrivi il nuovo capo di governo italiano. Che, lo speriamo vivamente, sappia risvegliare tutti dal torpore di cui parla così chiaramente il Nobel Joe Stiglitz quando dice che: “il vero rischio per l’economia globale è in Europa. La Spagna e la Grecia (e, aggiungiamo noi, il Portogallo) sono in una depressione, senza speranza a breve di uscirne. Il Fiscal Compact dell’area euro non è una soluzione, e la BCE ed i suoi acquisti di debito sovrano sono al più un palliativo temporaneo. Se la BCE dovesse imporre addizionale austerità … in cambio di finanziamenti, la cura potrà solo peggiorare le condizioni del malato”.

Ma chi dei nostri candidati premier saprà tessere le alleanze necessarie per avviare la guerra di Bruxelles contro la stupida austerità? Chi?

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I discorsi di fine anno dei Presidenti della Repubblica europei

E’ un’Europa che anche al vertice massimo delle sue istituzioni democratiche sente la necessità di sottolineare la dimensione umana della fine di un anno difficilissimo per tante famiglie ed imprese. Eppure, anche qui, non è possibile non constatare, assieme a sensibilità retoriche simili sulla crisi, modelli di ragionamento economici e reazioni istituzionali agli antipodi all’interno dello stesso continente.

In Italia il Presidente Napolitano si mostra sensibile al dramma causato dalla recessione:

“Da noi la crisi generale, ancora nel 2012, si è tradotta in crisi di aziende medie e grandi (e talvolta, dell’economia di un’intera regione, come ho constatato da vicino in Sardegna), si è tradotta in cancellazione di piccole imprese e di posti di lavoro, in aumento della Cassa Integrazione e della disoccupazione, in ulteriore aggravamento della difficoltà a trovare lavoro per chi l’ha perduto e per i giovani che lo cercano. Per effetto di tutto ciò, e per il peso delle imposte da pagare, per l’aumento del costo di beni primari e servizi essenziali, “è aumentata l’incidenza della povertà tra le famiglie” – ci dice l’Istituto Nazionale di Statistica – specie “quelle in cui convivono più generazioni…. Complessivamente sono quasi due milioni i minori che vivono in famiglie relativamente povere, il 70 per cento dei quali è residente al Sud”.Ricevo d’altronde lettere da persone che mi dicono dell’impossibilità di vivere con una pensione minima dell’INPS, o del calvario della vana ricerca di un lavoro se ci si ritrova disoccupato a 40 anni.”

Ben vengano queste parole. Dovrebbe spettare al Governo combattere questi drammi. Ma come? Anche il Presidente Napolitano pare trappola purtroppo della fallacia logica del paradigma dell’austerità quando dice che, malgrado quanto detto sopra:

“…Ciò non significa, naturalmente, ignorare le condizioni obbiettive e i limiti in cui si può agire – oggi, in Italia e nel quadro europeo e mondiale – per superare fenomeni che stanno corrodendo la coesione sociale. Scelte di governo dettate dalla necessità di ridurre il nostro massiccio debito pubblico obbligano i cittadini a sacrifici, per una parte di essi certamente pesanti, e inevitabilmente contribuiscono a provocare recessione. Ma nessuno può negare quella necessità : è toccato anche a me ribadirlo molte volte. Guai se non si fosse compiuto lo sforzo che abbiamo in tempi recenti più decisamente affrontato : pagare gli interessi sul nostro debito pubblico ci costa attualmente – attenzione a questa cifra – più di 85 miliardi di euro all’anno, e se questo enorme costo potrà nel 2013 e nel 2014 non aumentare ma diminuire, è grazie alla volontà seria dimostrata di portare in pareggio il rapporto tra entrate e spese dello Stato, e di abbattere decisamente l’indebitamento. C’è stato cioè un ritorno di fiducia nell’Italia, hanno avuto successo le nuove emissioni di Buoni del Tesoro, si è ridotto il famoso “spread” che da qualche anno è entrato nelle nostre preoccupazioni quotidiane.”

Non è così. Non è così non solo perché, formalmente, la spesa per interessi continuerà – ultime stime Ministero Economia e Finanza – a crescere contabilmente dagli 85 miliardi a cui fa riferimento il nostro Presidente ai 105 miliardi del 2015 previsti nella Nota di aggiornamento dal Documento di Economia e Finanza di settembre 2012 (a proposito in aprile 2012, solo 6 mesi prima, la stima per il 2015 era di 99 miliardi). In termini di PIL al 5,5% al 6,3%. Non è così perché, nella sostanza, il nostro debito su PIL, a causa dell’austerità che abbiamo voluto e saputo generare, salirà a livelli mai visti, livelli così alti soltanto nell’anteguerra, grazie alla recessione ed al conseguente deficit di bilancio.

Un altro Presidente della Repubblica, quello portoghese, Aníbal Cavaco Silva, si è rivelato altrettanto attento ai danni della recessione del nostro Presidente. Ha però potuto fare di più, sulla base anche di una visione diversa delle dinamiche generate dall’austerità. Annunciandolo, a sorpresa, nel suo discorso di fine anno.

Ha ritenuto che la manovra di bilancio austera e recessiva da poco approvata sotto la spinta dell’Europa e del Fondo Monetario Internazionale trattasse “ingiustamente” i cittadini e che avesse “colpito alcuni peggio di altri”. E dunque, ed è la sola seconda volta nella storia del Paese, ha  deciso che invierà la manovra di bilancio alla Corte Costituzionale per una valutazione.

“Di mia iniziativa, la Corte Costituzionale sarà chiamata a decidere sulla conformità del bilancio 2013 con la Costituzione della Repubblica”, ha affermato.

Ha anche aggiunto, sempre pare nel suo discorso di fine anno, che il paese era inviluppato in un circolo vizioso di austerità e recessione. Ma del Portogallo ci occuperemo meglio, spero, domani.

Oggi a noi economisti italiani che guardiamo al 2012, rimane da prendere atto di una sconfitta. Non siamo riusciti, con la nostra retorica ed il nostro argomentare, a cambiare, in un anno di critica costruttiva, il linguaggio economico del Paese così da comprendere la realtà che ci circonda, a creare nel Paese gli anticorpi affinché si riconoscessero col loro vero volto la malattia dell’austerità ed i suoi nefasti effetti: sofferenza ma anche instabilità dei conti pubblici e minaccia alla sopravvivenza dell’euro e dunque dell’Europa.

Avremmo, se ci fossimo riusciti, insegnato a comprenderla  questa austerità.

A rifiutarla.

A isolarla.

A superarla con l’unica arma a cui è dato questo onere ed onore: la politica.

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Il XXI secolo dei giovani: luddisti o cittadini?

Buon anno a tutti voi. Domani riposerò. Intanto chiudiamo quest’anno così difficile per noi europei. Ma come concludere un anno di blog?

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A scuola mi hanno sempre insegnato che in chiusura di un racconto se ne deve aprire un altro, ad esso legato, di cui se ne intuiscono i contorni grazie a quanto analizzato fino ad allora. Terminare sollevando uno squarcio di luce sull’oscurità davanti a noi, ancor prima di esplorarne i misteri.

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Come vivremo in un mondo in cui le macchine hanno rimpiazzato il lavoro e i profitti i salari?

La risposta mi pare abbastanza ovvia. Per i nostri nipoti, o i loro nipoti, per avere un mondo possibile, la proprietà del capitale dovrà essere democratizzata. Se i redditi da capitale saranno la sola fonte di reddito che conta, allora tutti quelli che contano – e cioè tutti – avranno bisogno di un’adeguata fonte di reddito da capitale. Ci sono molti meccanismi istituzionali che potrebbero permettere tale democratizzazione. Ma ciò richiederà creatività ed immaginazione, magari tramite una qualche forma di obbligo di risparmio o di dividendo universale o di fondi pensione allargati o qualcosa insomma“.

Robert Solow, Premio Nobel, nel nostro “XXI secolo di Keynes”, MIT Press e Luiss University Press in Italiano.

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Jeffrey Sachs e Larry Kotlikoff non sono esattamente due pesi leggeri dell’economia. Quando si mettono a pensare insieme, come nell’ultimo affascinante lavoro di cui vi parlerò, ne possono venir fuori delle belle. Anzi belle no, proprio no. Eccone una lunga citazione.

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Può la meccanizzazione condurre alla miseria per i  lavoratori? E’ una vecchia idea, dai tempi del luddismo. Il timore è che le macchine sostituiscano gli uomini e deprimano i salari di questi. La tipica replica è che le macchine rendono i lavoratori più produttivi e fanno crescere i loro salari. Gli economisti hanno a lungo ridicolizzato il luddismo basandosi su un fatto che pare testardamente resistente – i salari reali medi crescono assieme alla produttività media.

Ma che succederebbe se stavolta i luddisti avessero ragione, non per tutta la classe lavoratrice, ma per quella parte di essa meno specializzata, i cui salari già da tempo non seguono più la produttività media? Più precisamente, cosa avverrebbe se le macchine diventassero così intelligenti, grazie ai loro cervelli fatti di microprocessori, che non abbisognano più di lavoro non specializzato per operare?

E gli indizi che ciò stia avvenendo sono dappertutto. Macchine intelligenti ora ricevono il nostro pagamento dei pedaggi, ci fanno pagare il conto ai negozi, ci prendono la pressione sanguigna, massaggiano la nostra schiena, rispondono al nostro telefono, stampano i nostri documenti, trasmettono i nostri messaggi, … leggono i nostri libri, spengono le nostre luci, puliscono le nostre scarpe, proteggono le nostre case, pilotano i nostri aerei, scrivono le nostre ultime volontà, insegnano ai nostri figli, uccidono i nostri nemici. E la lista può continuare.

Sì, è vero, la tecnologia da sempre muta. Ma ora muta sostituendo, e non complementando, la forza lavoro non specializzata. Le carrozze di ieri furono rimpiazzate dai taxi di oggi. Ambedue richiedevano fattore umano con relativamente poche abilità e poca istruzione (poco investimento in capitale umano): un conducente.

Ma le macchine di domani si condurranno da sole, passandoci a prendere, portandoci a destinazione e riportandoci a casa sulla base di pochi comandi. E i conducenti diverranno una professione del passato.

Ora, se è vero che le macchine intelligenti sostituiscono lavoratori non specializzati, sono tuttavia costruite e manovrate da lavoratori specializzati. Dunque non dovrebbe sorprendere che i redditi dei secondi oggi ormai siano cresciuti relativamente a quelli dei primi… Un segnale essendo la drammatica crescita (negli Usa, NdR) della disuguaglianza … il 10% delle famiglie americane ora riceve il 50% di tutti i redditi, contro il 35% di 40 anni fa.

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Macchine con maggiore cervello non sono una minaccia economica solo per i lavoratori non specializzati di oggi, ma anche di quelli domani, che siano specializzati o meno. Perché specializzarsi richiede tempo: per studiare e per imparare sul lavoro. In realtà dunque i lavoratori specializzati sono predominantemente lavoratori anziani. E dunque, quando le macchine diventano più intelligenti, i lavoratori anziani diventano più ricchi. E dato che questi anziani e i pensionati sono i proprietari delle macchine e delle invenzioni che migliorano queste macchine, miglioramenti tecnologici sulle macchine redistribuiscono reddito via dai giovani relativamente meno specializzati  a pensionati e vecchi lavoratori.”

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Kotlikoff e Sachs si chiedono cosa succederà allora ai giovani che, più poveri di prima, risparmieranno di meno e dunque genereranno un calo del finanziamento degli investimenti nell’economia. Semplice, quest’ultima crescerà di meno e i lavoratori futuri otterranno sempre minori salari. Ecco perché chiamano il loro lavoro “Macchine intelligenti e miseria di lungo periodo”.

Soluzioni?

I due concludono affermando come “vi sia qualcosa di paradossale in un aumento della produttività che peggiora il benessere di tutte le generazioni meno quella attuale. In fondo, le macchine possono fare di più per l’umanità di quanto non potessero fare prima del miglioramento tecnologico: in linea di principio dovrebbe risultare possibile migliorare il benessere di tutte le generazioni a seguito del miglioramento della produttività delle macchine“.

Come?

Con, secondo i due economisti, tasse ai lavoratori anziani più ricchi e trasferimenti ai più giovani accoppiati ad investimenti pubblici nelle nuove tecnologie che generano reddito sufficiente per continuare questi trasferimenti nel tempo.

Meglio fare ciò, sostengono gli autori, che distruggere o impedire il progresso delle macchine, seconda soluzione per evitare il declino del mondo.

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Non c’è dubbio nella mia testa che il problema del XXI secolo sia quello della crescente disuguaglianza salariale dovuta alla crescita della potenza produttive delle macchine che sostituiscono il lavoeo nelle attività routinarie. Ne avevamo già parlato.

Mi colpiscono di questo lavoro due addizionali intuizioni: che questa perversa redistribuzione dovuta al progresso possa portare ad una crescita complessiva minore e non maggiore. E che la redistribuzione sia non solo tra specializzati e non ma tra anziani e giovani.

Il XXI secolo dei robot potrebbe dunque rivelarsi il secolo in cui i giovani bruceranno le fabbriche di robot come fecero i luddisti con i telai, bruceranno il tessuto civile, ritirando la loro cittadinanza da un mondo che li schiavizza. Non una prospettiva allettante. Oppure il secolo in cui impareremo ad istruire rapidamente i nostri giovani, redistribuendo loro anche parte del surplus delle macchine. Ma per fare questo c’è bisogno: a) di leader giovani e visionari che sappiano gestire con sicurezza masse di giovani esasperati e b) del supporto di un buona fetta della classe anziana ricca, capace di cavalcare l’onda del cambiamento per non venir travolta da uno tsunami di proporzioni fino ad oggi sconosciute, e che rinunci dunque a parte delle sue prerogative economiche ottenute con un progresso che non può accreditare esclusivamente a meriti propri ma alla fortuna ed ai casi della storia che hanno voluto che secoli di idee accumulatesi nel tempo producessero una manna dal cielo caduta un po’ casualmente nelle loro mani.

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Buon Anno a tutti.