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Per fortuna gli imprenditori in una maledetta recessione non leggono il CV

Nel secondo trimestre 2012 il tasso di disoccupazione (dati grezzi) è pari al 10,5%, con un aumento di 2,7 punti percentuali rispetto a un anno prima. L’incidenza della disoccupazione di lunga durata (dodici mesi o più) sale dal 52,9% del secondo trimestre 2011 all’attuale 53,1%.

Istat, flash statistiche 31 agosto 2012

Visto che viviamo in un contesto in cui la disoccupazione peggiora sempre più e, al suo interno, sempre più importante diventa quella di lunga durata, sarebbe importante capire quanto quest’ultima rischi di divenire permanente con un effetto di “isteresi” che rende la momentanea perdita di lavoro uno shock invece permanente, in ultima analisi capace di aumentare disagio, depressione, uscita dalla forza lavoro di coloro che cercano lavoro, emarginazione, suicidio.

Se sono disoccupato per un periodo più lungo ho meno possibilità di ritrovare lavoro? E ancora: da cosa dipende cio? E’ perché sono meno formato e bravo mano a mano che passa il tempo e non lavoro? O che le imprese lo prendono come un segnale della mia non bravura e stimano stereotipicamente che vi siano state valutazioni precedenti negative da parte di altre imprese?

Un lavoro di 3 ricercatori americani aiuta notevolmente nel dare una risposta e nel comprendere quanto sia rilevante una recessione nell’influenzare queste dinamiche.

Hanno inviato, a 3000 posti di lavoro aperti via Web da imprese in cerca di lavoratori, 12000 curriculum vitae falsi. Già, falsi.

Li chiamiamo, noi economisti,  esperimenti (e, per chi fosse curioso, per poterli fare hanno avuto bisogno di essere autorizzati dalla University of Chicago, che ha posto limitazioni “etiche” a quanto potevano chiedere e a cosa fare con le risposte ricevute).

Ogni curriculum vitae (CV) falso differiva per caratteristiche della persona. In particolare, il 25% di questi faceva riferimento a candidati in quel momento occupati in altra azienda, mentre il 75% di questi era disoccupato. Tra questi ultimi, i ricercatori hanno differenziato il curriculum a seconda della durata della disoccupazione (da 1 a 36 mesi). E si sono messi ad aspettare.

Aspettare che le imprese richiamassero per intervistare il (finto) candidato.

Alla fine il 5% delle imprese ha richiamato il suo candidato. E … indovinate? La probabilità di essere richiamato se disoccupato diminuisce al crescere del periodo di disoccupazione, fino a stabilizzarsi quando raggiunge gli 8 mesi e si stabilizza.

Notate che il fatto che dopo 8 mesi di disoccupazione la probabilità di essere chiamati è indipendente dal periodo di disoccupazione sembra dire che non tutto si spiega con una teoria dove le imprese non richiamano per l’intervista perché temono di trovare un candidato che ha perso abilità stando fermo.

E rafforza invece l’idea che le imprese giudicano i candidati sulla sola base del CV, in un certo senso supponendo senza prove che il candidato sia stato bocciato da altre imprese.

Questa teoria è confermata dal fatto che gli autori possono verificare come variano i risultati a seconda della situazione economica in termini di disoccupazione locale dove è situata la coppia impresa/candidato: là dove la disoccupazione è maggiore, e dunque è più difficile trovare lavoro, le imprese sembrano dare peso minore (linea rossa) al fatto che il candidato sia stato per un certo periodo disoccupato, rispetto ad un mercato locale che “tiri” (linea blu).

Quindi, sebbene “un tasso di disoccupazione più alto abbia un effetto diretto nel rendere più difficile per i lavoratori trovare un’azienda – e ciò causa periodi più lunghi di disoccupazione - ha anche un effetto indiretto di portare le imprese a fare meno valutazioni sulla base del mero periodo di disoccupazione quando in cerca di lavoro”.

Le imprese cioè capiscono, probabilmente anche in una recessione come quella nostra odierna, che valutare i giovani che fanno domanda per un lavoro sulla base del loro periodo di disoccupazione non ha un vero valore informativo. Bene.

Purtroppo, e sempre più, le imprese che cercano di coprire posti di lavoro decresce. E noi non abbiamo ancora fornito la risposta giusta per combattere questo dramma.

4 comments

  1. Interessante.
    Temo però che non sia possibile applicare queste conclusioni al mercato del lavoro italiano, date le notevoli differenze con quello USA. O no?

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      • Quello che voglio dire è che le modalità con cui si sviluppa un contatto per un eventuale impiego in Italia non sono le stesse che troviamo negli USA. Per la verità io non conosco il mercato del lavoro americano (per cui rischio anche di dire una cretinata) ma ritengo, da letture e informazioni che ho, che i rapporti di lavoro nascano in modo diverso.
        Tanto per dirne una, non mi risulta che nelle aziende italiane qualcuno guardi i curriculum che gli arrivano se, come minimo, non c’è un contatto diretto e/o una “presentazione”.
        Sarebbe interessante fare un esperimento analogo in Italia; temo però che i risultati darebbero percentuali di risposta da parte delle aziende drammaticamente basse.

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        • Come ha visto solo il 5% viene selezionato per un colloquio. Ma credo che in Italia, malgrado certamente + arretrati, ci andiamo avvicinando a sistemi di selezione per l’intervista di questo tipo.

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