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Check up del malato Lavoro.

Sempre un meritato ”bravissimo” all’Istat guidata dal mio collega a Tor Vergata Enrico Giovannini. La loro “Noi Italia” è uno strumento agile e amico per ottenere dati sulla nostra economia, la nostra società e sul nostro Continente e come ci rapportiamo ad esso. Ottimo per insegnare agli studenti e anche per loro (e per me!) per imparare di più.

Guardate qui i dati che ne ho tratto. Un rapido check-up del nostro mercato del lavoro nell’ultimo decennio.

Cosa spicca?

Intanto esaminiamo i trend. Primo risultato (pessimo): è cambiato poco dal 2001. Se non l’impatto delle riforme pensionistiche che ha portato gli ultra cinquantenni a lavorare di più di prima. Notate anche il recente peggioramento (ciclico) della disoccupazione totale e giovanile e  la crescente ripresa dell’incidenza dei disoccupati di lunga durata sul totale dei disoccupati, anticamera del pericolosissimo aumento del tasso d’inattività (dato dal rapporto percentuale tra le non forze di lavoro nella fascia di età 15-64 anni e la corrispondente popolazione, dove sono definite come non forze di lavoro le persone che non sono classificate né come occupati, né come in cerca di occupazione).

Nella legenda ho aggiunto altra informazione. Vedete intanto in lettere la nostra posizione nell’Unione Europea misurata come “peggiore”: per esempio come tasso d’inattività siamo addirittura i secondi peggiori in Europa mentre come tasso di occupazione totale siamo i quinti peggiori. Aspettiamo gli effetti della recessione per vedere come reggiamo come tasso di disoccupazione, ma il disagio sociale immenso si annida nel tasso di inattività ovviamente. E’ lì che dobbiamo incidere.

Il mio collega Luca De Benedictis mi ricorda giustamente che devo fare la tara a quel numero: ci potrebbero essere molti non veramente inattivi ma impegnati nell’economia irregolare o nera. Per questo ho fatto anche un raffronto con un mercato del lavoro, quello spagnolo, in difficoltà ben più del nostro come disoccupazione e noto anch’esso per la difficoltà di quantificare “il nero”. La classifica spagnola la vedete nel numero arabo in parentesi. E come vedete loro non stanno così male come tasso di inattività.

Insomma molti degli spagnoli dichiarono di cercare lavoro mentre non lo trovano. Noi lo troviamo di più, se lo cerchiamo, ma cerchiamo molto meno. Forse in Spagna la ricerca “finta” di lavoro ha un qualche vantaggio in termini di sussidi? Parrebbe di sì: un disoccupato spagnolo ha diritto al 65% del salario nazionale medio e il periodo di sussidio è di 2 anni per coloro che avevano lavorato 6 anni prima. Noi no. Il che forse ci dice che una riforma mirata a introdurre i sussidi ai disoccupati ci porterebbe più verso un modello spagnolo che non uno … danese. Non molto efficace.

Il problema vero che dunque pare rimanere è quello di molti lavori in nero. Che comportano meno garanzie di quelle che si ottengono con un lavoro regolare ma spesso più garanzie rispetto a quell’assenza di lavoro che seguirebbe se obbligassimo l’azienda – con una politica di controlli fatti bene -  ad emergere (e spesso a chiudere per mancanza di competitività) . Senza però scordare che forse le aziende regolari, a quel punto senza concorrenza sleale del settore in nero, assumerebbero di più.

Un minore carico fiscale sul lavoro e una minore burocrazia potrebbero aiutare ovviamente a far emergere questi lavori che esistono ma che mancano all’appello della statistica ufficiale. A quel punto e solo a quel punto potremmo dichiarare guerra totale al nero, sulla base di un contratto sociale meno ingiusto? Navigo in acque dove sono meno esperto e dunque il dibattito è aperto.

ps: bello a questo riguardo l’articolo di Fareed Zakaria oggi sul Corriere. Dove si cita con ammirazione il modello tedesco che ha “incentivato le aziende a guardare al lungo termine, a valorizzare la mano d’opera e a investire nelle professionalità” contro il modello statunitense che “punta tutto sulla flessibilità, sulla facoltà di licenziare ed assumere, e sulla capacità di mantenere basse le retribuzioni”.

5 comments

  1. Riccardo Colangelo

    21/01/2012 @ 19:43

    … ma finalmente abbiamo le misure “cresci Italia”! Dopo un intenso lavoro, che ha costretto a ritardare di otto giorni la nomina del commissario per il disastro del Giglio, abbiamo la prospettiva di crescita del PIL dell’11% (in 10 anni, ha detto Catricala’ ma allora perché tanta timidezza e non 22% in 20?) e del reddito del 12%!!!!
    Peccato che siamo al 21 gennaio, e dovremo attendere a lungo i primi risultati, fino al 6 gennaio 2013.
    Sempre se sopravviveremo al 21 dicembre 2012!

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  2. Tiziano Micci

    22/01/2012 @ 10:15

    L’analisi e le considerazioni sui dati ISTAT sono eccellenti. A prova di politico: i trend parlano chiaro, come il confronto con un paese fondamentalmente più povero dell’Italia.

    Personalmente Le sono grato per l’articolo sul Corriere che mi era sfuggito, mi conforta il fatto di vedere che il modello americano (che conosco benissimo in via diretta) comincia ad essere osservato criticamente. Purtroppo non fa comodo a coloro che, nelle imprese, prendono decisioni solo sul breve termine ed orientate al valore delle loro azioni.
    Lavoro da anni in una multinazionale americana con fabbriche in tutta Europa. Negli ultimi anni ho potuto confrontare i metodi produttivi e manageriali dei vari paesi. Non solo ho anche visto alcune chiusure di stabilimenti (nostri e di altre realtà) ed i diversi approcci: In Italia, man mano che le fabbriche si chiudono, vediamo spazi vuoti e personale che deve ricorrere agli ammoritzzatori sociali. In Germania ho constatato la prontezza di altre società a rilevare proprietà e personale per riconvertirli a produzioni alternative.
    Mi spiego meglio, in un paese con il costo del lavoro più alto d’Europa ( e con i ritmi di lavoro molto più bassi che da noi, credetemi ) ci sono imprenditori o società che hanno una visione a medio lungo termine. Non sono esterofilo ma credo che i tedeschi abbiano preservato i valori base dello sviluppo economico.
    Come possiamo farlo anche noi?

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  3. Caro Gustavo, secondo te un salario di disoccupazione aiuterebbe a diminuire il nero (“Meglio il sussidio che farmi sfruttare”) oppure non cambierebbe nulla (“Prendo il sussidio, e lavoro anche di straforo”)?
    Grazie!

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  4. Se parliamo di nero “per necessita’”, ad esempio giovani disoccupati con poche qualifiche, intuitivamente il salario minimo dovrebbe aiutare a ridurre il sommerso. Lo stesso non dovrebbe valere per un adulto con famiglia a carico o giovani che intendono avere una famiglia in quanto di solito e’ difficile avere un salario minimo molto alto, come invece accade in francia.

    La seconda ipotesi che menziona e’ un fatto vero, ma purtroppo poco dibattuto e analizzato con vere evidenze. Lavoratori stagionali hanno un incentivo a lavorare in nero una stagione e beneficiare contemporanemante dei sussidi di disoccupazione (es. turismo).
    TUttavia, applicando schemi incentivanti, questi fenomeni possono essere facilmente combattuti.
    nel caos del salario minimo, potremmo immaginare 1. una stretta sui controlli e 2. l’ineligibility per un periodo piu’ o meno lungo nel caso il “finto disoccupato” sia scovato a lavorare in nero.
    C’e’ da considerare tuttavia il costo per lo Stato di aumentare i controlli.
    Quando parliamo invece di sussidi di disoccupaione, potremmo fare come in Svizzera o Germania. Qualora i disoccupati ricevano un’offerta tramite i centri per l’impiego e rifiutano (a meno di cause di forza maggiore o incompatibilita’ per motivi di saluta accertati), il disoccupato eprde il sussidio epr un periodo di tempo piu’ o meno lungo!

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