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La madre di tutte le liberalizzazioni. Portare da 70 a 1000 il numero di università. Prima puntata

Allora parliamo di liberalizzazioni. Spesso si parla di liberalizzare le professioni. C’è chi chiede di abolire gli ordini professionali, sostenendo che la loro missione principale di tutela del consumatore -fornendo informazioni e certificando le competenze – non solo è divenuta secondaria  rispetto alla difesa dei propri interessi particolari ma è comunque da rigettare in quanto è la reputazione sul mercato che fornisce l’informazione ai consumatori. Un medico incapace? Nessuno andrà da lui comunque dopo … il primo morto sotto il bisturi, non abbiamo bisogno di un ordine per dircelo (certo magari il morto non sarebbe d’accordo ma i più contrari agli ordini argomentano che comunque gli ordini non ci avrebbero mica tutelato negando la licenza a quel medico lì).

La madre delle liberalizzazioni? Sorpresa sorpresa … quella delle università. In che senso? Intanto cominciamo dalle analogie. Anche se non si chiama ordine, vi è un’associazione, la CRUI (conferenza dei Rettori) che vigila anche sull’assetto universitario impedendo spesso l’entrata di nuove università apparentemente di cattiva qualità, come le c.d. università telematiche. Come gli ordini dei medici o dei commercialisti, argomenta questa sua opposizione in nome della qualità minima necessaria che deve avere una università e non ci vuol sentire sul fatto che la reputazione di ogni università  presso le famiglie, studenti e le imprese basterebbe da sola a scremare le buone dalle cattive. Gli ordini restringono il numero di individui che possono praticare la professione? Le università esistenti restringono il numero di università. Non è vero nella forma, lo è spesso nella sostanza.

Chi vuole una riforma radicale degli ordini vorrebbe la loro abolizione lasciando ognuno libero di praticare la professione ed ai consumatori-utenti di valutare la qualità del servizio spargendo la voce su di questa. Ciò allargherebbe enormemente il numero di fornitori di servizi professionali e spesso la concorrenza, riducendo spesso anche le tariffe minime. Bene, io vorrei che ci fossero 1000 e non 70 università. La cui qualità sia lasciata alle famiglie, agli studenti ed alle imprese da valutare. Avete sentito bene. Mentre ci sono Ministri che dicono che ci sono troppi Atenei io dico che è ridicolmente basso il loro numero. Perché lo dico.

Guardate il grafico qui accanto (tratto dall’ottimo rapporto ISTAT 2011). Non so quanti di voi sanno che Europa 2020 è una iniziativa dell’Unione Europea che ci chiede (e chiede agli altri 26 paesi membri) di raggiungere una serie di obiettivi importanti per il 2020. Uno di questi riguarda la crescita del capitale umano dei nostri giovani facendo sì che entro il 2020 appunto il numero di laureati tra i giovani tra i 30 ed i 35 anni sia pari al 40% della loro popolazione. Nel grafico vedete dove sono oggi i vari paesi (in celeste il totale, in verde chiaro gli uomini, in verde scuro le donne). Alcuni paesi già hanno raggiunto questo risultato: Irlanda, Danimarca e Finlandia sono le prime 3 classificate. Altri ci arriveranno per il 2020. Altre ancora sono talmente indietro che hanno dovuto fissare obiettivi di convergenza graduale. L’Italia è 24° su 27. Avete letto bene. 24°. 24°!!! Come uomini, siamo addirittura i peggiori in tutta l’Unione. I peggiori! Circa il 15% dei nostri trentenni maschi risultano laureati.

Come pensiamo di potere raggiungere l’obiettivo di Europa 2020 senza migliaia di altre università? E’ ovvio che con lo Stato da solo non abbiamo le forze in campo a disposizione perché mancano i fondi pubblici. C’è bisogno della libertà per i privati di rilasciare titoli universitari come gli pare e piace.

Due questioni rimangono aperte.  Perché abbiamo bisogno di tutti questi laureati? Come facciamo a far sì che queste università siano tutte di qualità?

E la mia risposta è la seguente. Alla prima domanda:  anche se non imparano nulla dalle lezioni in aula e anche se nessuno gli darà un lavoro, l’alfabetizzazione universitaria di cui parliamo è essenziale. Alla seconda domanda: non devono assolutamente essere tutte università di qualità, anzi, per carità.

Ma questo è un post già molto lungo e va digerito. Quindi rimando alla prossima puntata (post) l’approfondimento ulteriore.

13 comments

  1. Dario Giulitti

    04/01/2012 @ 19:47

    Buonasera Professore,

    non entro nel merito del suo post, in quanto aspetto di leggere il prosieguo per poter capire fino in fondo la sua idea in proposito, mi permetto, però, di fare una personale premessa.

    Partendo dal presupposto che, prima ancora di valutare la qualità e le possibilità occupazionali dei laureati, è in ogni caso auspicabile un aumento sostanzioso di questi, sarebbe il caso, parallelamente alla “liberalizzazione delle università”, una seria “riforma culturale” del sistema scolastico.
    Non parlo di programmi o modalità di assunzione (anche se credo che i professori di medie inferiori e medie superiori debbano essere maggiormente controllati, preparati e, soprattutto, guadagnare di più, in quanto si tratta di una funzione fondamentale a livello sociale), piuttosto mi riferisco alla formazione di diplomati che siano realmente pronti a livello mentale per affrontare l’università, che sappiano fino in fondo cosa li aspetta e quanto sia importante per la loro vita il percorso accademico, e lo sappiano prima ancora di cominciarlo.
    Dico questo perchè, per aumentare il numero di laureati, occorrerebbe in primo luogo fare sì che si migliori il rapporto iscritti/laureati all’università, la mia sensazione di studente è che in questo momento non tutti arrivino pronti e motivati all’inizio del percorso accademico, ma che il raggiungimento del titolo sia ancora troppo legato alle diverse motivazioni personali (che spesso si perdono ai primi insuccessi) e poco alla cultura pregressa (cultura intesa come impostazione mentale) dei ragazzi, che invece dovrebbero essere educati, non solo dalla famiglia, a vedere la laurea come un punto di arrivo/partenza obbligato.
    Ovviamente con questo non voglio dire che l’università debba diventare alla stregua della scuola dell’obbligo, in quanto arrivati alla maggiore età si deve essere liberi e soprattutto si deve avere la possibilità di perseguire la propria realizzazione personale nella maniera più adatta per ognuno (anzi, per un paese come il nostro il vero recupero delle arti e dei mestieri sarebbe addirittura auspicabile a mio avviso).
    Dico solo che, oltre a liberalizzare all’arrivo, bisognerebbe erudirsi culturalmente già in partenza.

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  2. Giorgio Zintu

    05/01/2012 @ 13:43

    Non so se sia auspicabile la proliferazione delle università, e il proporzionale incremento dei laureati, in qualsiasi disciplina.
    Vorrei citare il caso dei veterinari che sono disoccupati cronici, i quali dopo lunghi periodi di prova a titolo gratuito non sono assunti oppure lavorino anche per meno di 5€ l’ora.
    Il solo fatto di esercitare la professione richiede di essere iscritti all’ordine dei medici veterinari e di conseguenza all’Enpav, l’Ente di previdenza. A quest’ultimo vanno pagati non meno di 2 mila euro l’anno, anche se il reddito dichiarato dal veterinario sia stato pari a zero.
    Poniamo il caso che il numero dei veterinari cresca ancora cosa può produrre la concorrenza?

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  3. Fabio Fraternali

    06/01/2012 @ 19:43

    Professore,

    posso chiederLe di approfondire le ragioni per cui una laurea nel nostro paese ha un certo valore ed all’estero è differente? In concreto: perché un laureato italiano riceve una paga simile a quella di un non laureato. Oltre alla cultura ed alla formazione personale dov’è il valore aggiunto di una laurea? E’ solo una questione di domanda e offerta o, come si diceva prima (abbiamo tantissimi laureati), c’è qualche problema nel nostro paese? Ricordo che negli Stati Uniti ed in UK appena ho detto che ero laureato sembrava avessi detto un fatto eccezionale. La ringrazio

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    • I laureati sono pochissimi quindi direi che possiamo escludere un effetto “offerta di lavoro” alta. Perché un fatto eccezionale? Non evito la domanda, spero di scriverne domani.

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  4. Fabio Fraternali

    06/01/2012 @ 21:59

    Eccezionale per la reazione della gente. Subito rispondevano “you’re a doctor?!” (London – UK) con aria stupefatta. Se pronunciavo la parola Economics ancor di più. Negli Stati Uniti mi hanno esplicitamente detto di andare a vivere da loro che avrei guadagnato molto denaro. Reazioni diffuse da più persone in ambienti e contesti diversi che mi hanno fatto pensare. Una considerazione diversa da quella domestica. Poi guardo al Dott. BXXX che mi dice che in Italia per un lavoro come il suo ( in Germania a 2500 euro al mese come primo stipendio presso Deutsche Bank ) la gente potrebbe saltar lui addosso…insomma perchè in Italia ad una laurea ed economics mi rispondono “ma c’è qualcuno che ti raccomanda, che ti spinge” ed all’estero c’è la considerazione e l’argent? Di nuovo La ringrazio

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    • Certo, perchè doctor significa che hai il dottorato di ricerca (nella fattispecie in economia)! Ci credo che gli sembrava strano.

      Notizia che ti sconvolgerà: solo in italia un laureato normalissimo si può freggiare del titolo di dottore. Anzi, in italia addirittura un triennale si può far chiamare dottore. Nel resto del mondo tocca solamente a chi ha una laurea magistrale + un dottorato di ricerca.

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  5. Condivido assolutamente la sua idea. Aggiungo un dettaglio “tecnico”, dato che mi occupo di formazione professionale. Il quadro europeo delle qualifiche permetterebbe oggi di “liberalizzare” senza del tutto perdere un minimo di garanzia sul rilascio dei titoli.
    Ho notato che università stanno facendo una discreta guerra a questa prospettiva…
    Il potere di certificare le competenze è un potere enorme: secondo me deve essere emancipato come avvenuto per il potere politico feudale.
    Le pare?

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