Che dice, il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina? Tante cose, alcune oggettivamente sbagliate, come quella che si voterà presto perché non c’è bisogno di aspettare tanto.
Parla però anche (basti guardare la stessa intervista linkata) del danno che apporterebbe maggiore flessibilità sul mercato del lavoro.
Dico bravo per due ragioni, oggettive anche queste.
1. Non è facile, oggidì, sentire qualcuno che rappresenti degli interessi immediati delle parti contrattualmente deboli. Dico immediati, perché ci può stare l’argomento liberista che nel lungo termine maggiore flessibilità faccia bene, ma nel breve termine? Dico “degli” e non “gli” perché non mi sfugge che altri interessi, come quelli dei giovani disoccupati, possano essere danneggiati da una resistenza a riforme del mercato del lavoro. Ma tant’è, in questo deserto di attenzione ad una parte importante del mondo lavorativo sano, la politica essendo rappresentanza, Fassina colma un vuoto.
2. Ora parlo da macroeconomista. Ma proprio durante la più grande crisi economica occidentale (non mondiale) dal 1930, proprio ora dobbiamo liberalizzare il mercato del lavoro? Ora che, in crisi di domanda aggregata, i consumi languono, vogliamo creare la sensazione di precarietà e dunque spingere le famiglie a risparmiare ancora di più e consumare meno? Per ottenere guadagni che tutti concordano si materializzeranno solo nel lungo termine, sapendo che creeremmo maggiore instabilità sociale in un momento di difficoltà, non rischiamo di rendere il lungo termine irraggiungibile per la pressione a cui sottoporremmo le nostre istituzioni? Lo sappiamo che gli studi sulla felicità indicano l’incertezza di perdere il posto di lavoro come uno dei danni psicologici più forti che possa avere un essere umano, anche se costui oggi ha un lavoro? Creare posti di lavoro per (soprattutto) donne e giovani passa solo per maggiore flessibilità o passa invece per altre riforme, che permettano alle imprese di assumere di più (come? di nuovo, stimolando l’economia con maggiroe e migliore spesa pubblica) e meglio ed alle nostre università di laureare di più e meglio?
Quindi bravo Fassina, avanti così.
28/11/2011 @ 16:14
Concordo con la tua riflessione.
Però in Italia il rischio è di non fare nulla ora perchè c’è una crisi e di non fare nulla quando le cose vanno bene (ci saranno ancora quei giorni?) perchè, appunto, non dobbiamo toccare la nave che va.
Io ritengo che le riforme, quelle serie, andavano fatte in piena crisi del 2008 quando gli altri Stati facevano debito per salvare le banche. Noi avremmo dovuto fare debito per riforme strutturali come quella della tasssazione che avrebbe, oggi, spiegato i suoi effetti positivi.
Bisogna saper osare e non essere troppo conservatori.
17/01/2013 @ 11:19
Alcuni economisti che stimo ma le cui posizioni non condivido pensano che la crisi attuale sia figlia della bolla immobiliare, della deregolamentazione , del denaro a basso prezzo etc (vedi Zingales).
In realtà questi fenomeni non sono frutto di un improvviso e immotivato impazzimento dei mercati e della politica ma di una compressione dei redditi reali dei lavoratori autonomi e dipendenti frutto sia delle liberalizzazioni che della deregolamentazione e quindi della sostituzione del debito al salario.
Quindi le riforme invocate e la flessibilità del lavoro non fanno altro che aggravare la crisi e hanno contribuito a causarla.
Del resto se come dice Marchionne il lavoro incide per l’8% sul prezzo di un auto basterà vendere 800 euro in meno un auto di 10.000 euro per venderla?
21/08/2013 @ 21:05
Mi chiedo se il problema prioritario sia la “forma contrattuale” del rapporto di lavoro o, piuttosto, la totale assenza di una minima politica dei redditi. Forse più che da una impostazione “classista” del rapporto di lavoro che potrebbe portare, tra l’altro, a ulteriori fratture sociali (proletariato e sottoproletariato?), occorrerebbe mettere al centro l’aspetto della distribuzione della ricchezza prodotta (conto economico), ma anche della ricchezza posseduta (stato patrimoniale), ma questo, sì, potrebbe essere un percorso forse troppo “rivoluzionario” anche per Fassina. Mi chiedo: oggi la struttura della distribuzione del reddito non è una delle cause non secondarie della diminuzione dei consumi? Concordo con Salvatore Rapisarda, ma mi chiedo: se il problema prioritario è la distribuzione della ricchezza prodotta, il punto centrale è la tipologia di rapporti di lavoro? O occorre ricercare in altri ambiti le ragioni vere del problema? Può apparire una provocazione: visto che prospettive per il futuro per i giovani oggi non se ne vedono molte (parlo del futuro di 30/40 anni, cioè di quando diventeranno vecchi e non potranno più produrre), non sarebbe meno ipocrita e più realistico pensare intanto al presente immediato? Per esempio: nessun onere per previdenza pensionistica per i primi 5 anni di lavoro (con possibilità di recuperare in seguito) a prescindere dalla forma contrattuale. Questa potrebbe sembrare una provocazione, ma potrebbe anche “stanare” tante volpi e faine dalle loro comode e protette tane.