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Agenda Monti: quando lo spread impara dai suoi errori

Roger Abravanel ieri sul Corriere sosteneva come l’Agenda Monti non fallisca tanto sul programma – “tanto si assomigliano tutti, perché la strada è obbligata”- quanto sul non spiegare perché si è fallito in passato e sul non aver voluto rottamare la vecchia politica.

Mentre ho già avuto modo di argomentare recentemente come più della vecchia politica sia la vecchiaia dei politici a preoccuparmi, mi sia consentito dire che non si può, proprio non si può, spiegare il fallimento passato del Governo Monti senza capire il fallimento del suo programma.

Non è vero che i programmi si assomiglino tutti. L’Agenda Monti attuale prevede ad esempio la continuazione esplicita del Fiscal Compact tramite austerità, una interpretazione particolare dello stesso Pact, che richiede invece non la focalizzazione sulla riduzione del debito ma sulla riduzione del rapporto debito-PIL. Con tutto quel che ne consegue.

E’ obbligata questa strada preferita dall’Agenda Monti? Nessuna è strada è mai obbligata, specie se porta a cadere in un burrone. E che questo sia così è cosa ormai nota.

Così nota che lo dice anche la BCE, proprio di recente, con i suoi ricercatori (assieme ad uno della Cambridge University). Che studiano nel loro lavoro la bellezza di 41 anni di politiche economiche(1970-2011) per 14 paesi europei. 41 anni per capire cosa fanno i Governi europei quando salgono gli spread e cosa succede dopo che hanno fatto quel qualcosa che si sentivano di fare dopo che sono aumentati gli spread.

Incredibilmente interessante come domanda, non trovate? Che di fatto implica chiedersi che effetto ha la disciplina dei mercati sui Governi: benefico o malefico?

Sorpresa … i nostri ricercatori ci dicono che …

Un aumento del costo del debito dell’1% porta ad un aumento dell’avanzo primario (entrate meno uscite al netto degli interessi) dell’1,9% dopo 10 anni”.

Funziona! Eureka, funziona! La strada è obbligata! I mercati hanno ragione a forzare i governi all’austerità! Ed evviva l’austerità che mette a posto i conti pubblici!

Purtroppo no. Non è così semplice. Continuano i nostri:

Malgrado ciò, il rapporto debito su PIL dopo 10 anni è più alto dell’1% a seguire al rialzo del costo del debito”.

Ovviamente per i ricercatori falchi della BCE l’interpretazione è che … l’aggiustamento fiscale austero non è stato … sufficiente. E’ partito tardi. E’ stato troppo basato sugli aumenti di entrate e non sui tagli di spesa (come fino a poco tempo fa ripetevano anche Alesina e Giavazzi).

La verità è che i ricercatori della BCE non riescono a dire semplicemente che l’austerità fa male ai conti pubblici perché genera recessione.

In realtà nemmeno questo è vero. E’ pensabile teoricamente che l’austerità faccia bene: in tempi buoni, quando i Governi sono chiamati a ritirarsi dall’economia lasciando operare maggiormente il settore privato e a mettere fieno in cascina, come una formichina che mette da parte per i tempi bui e invernali, tempi in cui la manina timida del settore privato, come oggi, necessiterebbe di più mano pubblica a sostegno, con i fondi messi da parte nelle estati.

Ma così non è mai stato in Europa. Ai tempi delle vacche grasse non si è fatta austerità e la si fa piuttosto nel momento peggiore, ora, in piena recessione. E’ questa la stupida storia degli ultimi 20 anni di politiche economiche europee (non a caso i nostri ricercatori BCE trovano che questi effetti degli aumenti dei tassi e degli spread diventano più evidenti nel periodo più recente della storia europea).

Appare ancora più interessante chiedersi cosa imparano i mercati da questi risultati. Ovvero dai loro stessi errori, per i quali, obbligando i governi alla disciplina fiscale, hanno ottenuto in cambio risultati perversi. Chiedevano infatti, con l’aumento degli spread, ai governi minore debito su PIL, di cui hanno invece forzato l’aumento tramite la stupida austerità.

Ma se hanno imparato dai loro errori … arriva un paradosso: se ci fu un tempo in cui maggiori spread causavano surplus primari nel tentativo di disciplinare i governi, oggi che i mercati hanno imparato la lezione, sono i surplus primari dei Governi, scelte suicide, a generare alti spread. I mercati cioè vogliono crescita, non austerità, perché sanno che solo questa genera conti in ordine. E se non vedono crescita ma austerità tramite alti surplus, gli spread rimangono alti.

Allora ad Abravanel dico: eccome se contano i programmi. E no, non si assomigliano tutti. Chi vi chiede austerità in una recessione dovrà continuare a non spiegarvi perché continua a fallire. Chi vi chiede di mollare con l’austerità (come chiede l’Ocse via Europa) ha una qualche possibilità di portarvi, come si dice, a vedere la luce fuori dal tunnel.

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Cucchiaini o pompe? Le soluzioni per la disoccupazione giovanile

Quasi 10 mesi pubblicai sul Corriere della Sera un mio intervento sulla disoccupazione giovanile.

Il tempo passa e le cose peggiorano, se è vero come è vero che “il tasso di disoccupazione dei 15-24enni sale dal 26,5% del terzo trimestre 2011 al 32,1%, con un picco del 43,2% per le giovani donne del Mezzogiorno” (Istat, 30.11.2012).

Fa piacere notare che il Corriere della Sera con l’articolo di Dario Di Vico si occupi della situazione menzionando alcune proposte per porre rimedio a tale fenomeno.

Sono soluzioni accomunate da un giusto desiderio di fare ma anche da una incapacità di aggredire con successo la crescente dimensione del fenomeno nei tempi brevi richiesti per evitare che tale disoccupazione si tramuti, come spesso accade, in abbandono della forza lavoro per scoraggiamento e depressione, fenomeni spesso legati alla mancanza di attenzione sociale che recepiscono i più giovani, tipicamente fragili. Per non parlare di quando questo scoraggiamento non si tramuta poi in passaggio all’economia del sommerso con vicinanza al mondo della criminalità.

Banche per i giovani e centri per impiego giovanile, soluzioni proposte, sono misure strutturali, utili in qualsiasi momento, ma incapaci di gestire momenti ciclici di questa dimensione con la dovuta tempestività.

La riduzione del cuneo fiscale per i neoassunti e agevolazioni per le start-up presumono che il settore privato sia in grado di ritrovare in questo momento di gravissima recessione che si protrarrà fino al 2014 almeno la voglia di investire in un momento di forte pessimismo. Difficilissimo che avvenga.

Insomma qui si usa il cucchiaio per buttare fuori l’acqua dalla barca che affonda. Benissimo, ma abbiamo bisogna di una pompa, altro che di cucchiaio. Di ben altre misure, senza perdere ulteriore tempo, necessita il Paese se veramente vuole affrontare questa piaga.

Proprio 6 mesi fa ricevevo la risposta del Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri all’invio del testo dell’appello da me coordinato – seguito dalle firme dei 1300 sottoscrittori – inviato allo  stesso Presidente del Consiglio dei Ministri e, per conoscenza, al Presidente della Repubblica. Il nostro suggerimento era di occupare direttamente e temporaneamente per 1 anno i giovani disoccupati, nei gangli della pubblica amministrazione (tribunali, musei, università, ospedali) così che non perdessero entusiasmo e potessero acquisire nuove abilità. Alcuni li prenderei subito alla mia Università per aiutarmi nei tanti progetti di didattica indirizzati a costruire servizi migliori per gli studenti.

Era allora alla valutazione del Presidente, mi si diceva nella missiva, vista la “validità e l’attualità del progetto”. Credo lo sia tuttora.

Non siamo soli ad averci pensato. La Professoressa Christina Romer, ottima economista e a capo della struttura del Council of Economic Advisors, al servizio cioè del Presidente Obama nei primi due anni circa del suo primo mandato (e ora tornata ad insegnare) fu l’artefice, allora, del grande piano fiscale del nuovo leader. Oggi afferma come: “… rimpiango disperatamente di non avere saputo costruire un programma di diretta assunzione di tanti lavoratori disoccupati, specialmente dei giovani”.

Evitiamo anche noi rimpianti disperati e diamoci da fare con le uniche soluzioni che garantiscono di prendersi cura efficacemente di un problema di dimensioni enormi, crescenti e urgenti.

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A futura memoria, la sconfitta sull’Ufficio parlamentare di bilancio

La gatta presciolosa ….

Ore 19.24 del 20 dicembre 2012. Senato della Repubblica.

Si arriva dunque all’ultimo minuto per discutere una delle leggi più importanti di questo fine legislatura, le “Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione”, già approvata dalla Camera dei deputati.

In esso l’articolo 16 di cui ci siamo già occupati, fondamentale per cittadini e contribuenti, la creazione di un “Ufficio parlamentare di bilancio” che possa sostenere le Camere, come avviene in tantissimi altri paesi sviluppati, nella sua valutazione, indipendente dai Governi, dell’andamento dei conti pubblici e delle proposte di finanza pubblica. Una istituzione che riduce il monopolio dell’informazione sui conti pubblici, levandone in parte la proprietà impropria alla sola Ragioneria Generale dello Stato.

Ma ovviamente, come sempre, il diavolo si annida nei dettagli.

Avevamo chiesto, e non eravamo certo stati gli unici (la Banca d’Italia in primis si era schierata su di una simile posizione) un organo monocratico con al comando una sola persona piuttosto che una Commissione con più nominati. Perché credevamo e crediamo ancora che una sola persona avrebbe obbligato i partiti a non spartirsi la torta delle nomine ma a convergere su un nome di assoluto prestigio, così come è avvenuto per l’Istat presieduto da Enrico Giovannini. Altrimenti: più  nomi, grande spartizione tra partiti, potenzialmente al ribasso sulla esperienza dei nominati.

Così purtroppo è stato, “abbiamo perso”, malgrado la battaglia di tanti Senatori tra cui il mio maestro universitario, Mario Baldassarri del terzo Polo e Mauro Agostini e Enrico Morando del PD.

Vi lascio alle loro dichiarazioni tratte dal resoconto stenografico, a futura memoria.

Non prima di avervi detto che. Che sì, sembrano cose piccole, lo so, ma tante piccole cose fanno una valanga, una valanga che distrugge foreste, libertà, opportunità per i cittadini. Opportunità in questo caso di vedersi rappresentati dalla forza oggettiva dei numeri, quelli veri. Libertà dall’oppressione di chi i numeri li manipola, nelle stanze, indisturbato, a nostro danno.

*

Mauro Agostini: Noi voteremo convintamente questa legge, perché sappiamo che i tempi sono quelli che sono e che la stagione è quella che è. Non possiamo però non affermare come il meccanismo, come viene individuato dal testo che ci viene dalla Camera, non sia all’altezza dei problemi, e ne spiego il motivo, se mi viene concesso un minuto di tempo.

Stiamo parlando dell’Ufficio parlamentare di bilancio, ossia di un ufficio retto da una governance composta da tre membri, con una sorta di Presidente inter pares, che – a mio giudizio – non corrisponde a quelle che sarebbero le esigenze.

Se noi vogliamo fare un Officio parlamentare di bilancio è bene che quell’ufficio, proprio perché è incardinato, come deve essere, e come vogliamo che sia, nell’istituzione parlamentare, abbia un altissimo standing, e perché ciò sia – questa è una valutazione personale che ho inserito in un disegno di legge che ho presentato su questo argomento – ci sarebbe bisogno di un organo monocratico, di un direttore, molto forte, di grandissimo livello internazionale, e di un vice direttore.

Solo un organo monocratico, come d’altronde è emerso dalle audizioni fatte alla Camera, attraverso i pareri che sono venuti da Banca d’Italia, ISTAT e altri soggetti, può davvero garantire quello standing adeguato.  

Una proposta come quella attuale, che prevede che addirittura le commissioni che si occupano di finanza pubblica avanzino ai Presidenti di Camera e Senato una lista di 10 nomi, tra i quali i Presidenti di Camera e Senato scelgono i tre membri, sembra una soluzione, mi si consenta, qualcuno ha scritto alla portoghese, ma direi invece all’italiana, un’espressione che non vorrei usare perché sono orgoglioso di appartenere a questo Paese. Ad ogni modo, non è all’altezza, e mi sembra piuttosto un’occasione persa, soprattutto in considerazione del fatto che solo se c’è un direttore forte e un comitato scientifico adeguato, un organismo delicato come questo fa venire meno il monopolio dell’informazione sul bilancio (stiamo parlando di bilancio dello Stato ma ci sarebbero tanti titoli su cui ragionare; pensiamo a tutto il grandissimo campo che riguarda i bilanci degli enti locali e delle Regioni), e quindi soprattutto in questa direzione ci sarebbe bisogno di grande trasparenza e di gestione del bilancio.

….

Mario Baldassarri: L’ultima qualificazione, signor Presidente, concerne la bozza di Autorità che emerge da questo provvedimento. Cari colleghi, riflettiamo bene. Voteremo il provvedimento, ma attenzione. Condivido da 35 anni ciò che ha detto pochi minuti fa il collega Agostini. Egli ha sollevato un tema di fondo. Questa Autorità, che riferisce al Parlamento mettendo la politica nelle condizioni di conoscere per decidere, come sosteneva Luigi Einaudi, o è un organismo monocratico di alta qualificazione che assume la responsabilità di rispondere delle proprie valutazioni al Parlamento e al Paese oppure stiamo attenti… (Brusìo).

PRESIDENTE. Colleghi, vi prego di abbassare il tono della voce.

BALDASSARRI. Non è un problema, signora Presidente, tanto intervengo solo a futura memoria.

PRESIDENTE. Anche con un po’ più di silenzio la memoria funziona ugualmente, senatore Baldassarri.

BALDASSARRI. Gli stenografi comunque riescono a seguire. Stavo dicendo che l’ultima notazione è la seguente: non si tratta di una tecnicalità, ma di un tema politico. Un’Autorità sui conti pubblici, monocratica, deve dare una garanzia d’indipendenza, ma stiamo attenti che la proposta contenuta in questo provvedimento non la garantisce: le Commissioni parlamentari esprimeranno una rosa di dieci nomi, tra i quali i Presidenti di Camera e Senato selezioneranno i tre che faranno parte di tale Authority. Ora, mi auguro che questo processo selettivo possa portare a scegliere tre persone di altissima qualificazione, che in sinergia tra loro sul piano professionale e su quello della rispettabilità politica, oltre che scientifica, possano migliorare il prodotto.

 Come dice il nostro collega Andreotti, però, a pensar male si fa peccato, ma si indovina: qual è il cattivo pensiero che mi viene in mente e con il quale concludo il mio intervento, signora Presidente? Che l’idea di essere contrari all’organo monocratico per andare ad una rosa di dieci nomi, con una triarchia finale dell’Autorità, nodo importante per i prossimi anni, nasconda sotto banco la ricerca di equilibri pseudoscientifici che ne camuffano di politici.

 Se quella coperta corta, ma elastica, oggi viene tirata da una parte e dall’altra, nell’assoluta insindacabilità e arbitrarietà della Ragioneria generale dello Stato, non vorrei che questo meccanismo proseguisse nell’arbitrarietà di tre esimi signori, che cerchino di combinare le varie esigenze della politica o del suo sottobosco.

MORANDO: Signora Presidente, onorevoli colleghi, vorrei che avessimo chiaro che con questa decisione noi usciamo da un mondo. Quello nel quale siamo stati in tutta la fase repubblicana è il mondo del bilancio come legge meramente formale, che aderisce formalmente alla legislazione di spesa e di entrata vigente. Ora abbandoniamo questo mondo, sia pure progressivamente, nel corso degli anni, e lo faremo definitivamente nel 2016, per entrare nel mondo del bilancio come legge sostanziale, nella quale la legislazione vigente di entrata e di spesa in tanto attua i suoi effetti in quanto il bilancio rechi le risorse necessarie per la sua attuazione. Sono due mondi completamente diversi. Io con convinzione da anni mi batto perché questo passaggio ci sia e saluto questa innovazione con soddisfazione.

 Non pensiamo, però, che siano cose da addetti ai lavori. Approvata questa legge, è chiaro che il lavoro legislativo, parlamentare subirà una modificazione che, anche se avverrà davvero solo nel 2016, sarà radicale. Primo punto.

 Secondo punto. Questa legge – che pure, per questo aspetto essenziale, noi profondamente condividiamo e per la quale voteremo convintamente a favore – dovrebbe essere cambiata in alcuni suoi aspetti non secondari. A mio parere, per esempio, le regole di evoluzione della spesa contenute nell’articolo 5 meriterebbero una modificazione, per renderle più stringenti e soprattutto per renderle applicabili anche ai cosiddetti sottosettori della pubblica amministrazione e non soltanto alla definizione di un obiettivo in termini totali.

 In secondo luogo, questa legge meriterebbe di essere profondamente modificata nella parte che riguarda l’Ufficio parlamentare di bilancio. Infatti, onorevoli colleghi, già a partire da questa sessione di bilancio e via via negli anni che verranno, in tutti gli anni che verranno, tutti gli obiettivi saranno espressi in termini strutturali: pareggio strutturale.

 Ora, il pareggio nominale tutti sanno cos’è, ed è un dato che – mi si lasci dire – esiste in natura: pareggio nominale è quando la somma delle spese è uguale alla somma delle entrate. Il pareggio strutturale non esiste in natura: ci vuole qualcuno che dica quando questo obiettivo è conseguito e quando non è conseguito, in termini di analisi economica, perché il pareggio strutturale è il frutto di un complesso calcolo che, nelle sue procedure, può anche essere, modificabile nel tempo.

 L’Ufficio parlamentare del bilancio è la sede nella quale la verifica analitica sul conseguimento dell’obiettivo trova il suo fondamento tecnico. Voi capite quindi che creare l’Ufficio parlamentare di bilancio con questo ruolo decisivo, di interlocuzione con la Ragioneria generale sul piano tecnico (la responsabilità politica continua a competere per un verso al Governo e per l’altro verso al Parlamento), è un aspetto cruciale. E non abbiamo bisogno – questo è il punto – di avere un organismo che sia nominato con procedure bipartigiane: questo deve essere un organismo non partigiano.

 Ora, la procedura definita alla Camera è perfetta se si vuole nominare un organismo bipartigiano: io devo votare a favore di quello che mi proponi tu, altro da me, perché devo essere in grado di acquisire il tuo consenso su quello che propongo io, e per questa ragione, nominando più persone, siamo obbligati a convergere. Ma a convergere su che cosa? Sul fatto che tu voti il mio e io voto il tuo. Ma così si forma un perfetto organismo bipartigiano, non un organismo non partigiano. Per avere l’organismo non partigiano bisogna andare a una nomina monocratica: una sola persona votata con un quorum molto elevato e poi nominata dai Presidenti di Camera e Senato.

 In Italia abbiamo visto che questo meccanismo funziona con una nomina al massimo livello nel panorama internazionale: con la nomina recente del Presidente dell’ISTAT. Perché abbiamo potuto arrivare a quello standing? Per la ragione ovvia che dovevamo nominare una sola persona con meccanismo non partigiano.

 Ecco perché andrebbe cambiata questa norma nella direzione indicata. Ma non lo possiamo fare, e noi non lo vogliamo fare. Votiamo convintamente a favore del testo della Camera perché, se si obbedisse all’impegno di cambiarlo almeno per questa parte, dovrebbe avere un’altra lettura alla Camera e forse la legge non verrebbe approvata. E se non venisse approvata questa legge, colleghi, ciò avrebbe conseguenze molto più gravi di quelle che si sarebbero determinate se non avessimo approvato la legge di stabilità. Vorrei che fosse chiaro questo punto.

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Perché la nostra classe politica non aiuta i giovani (e le PMI)

Man mano che si riduce il costo del debito pubblico e si eliminano spese inutili, possiamo creare nuovi spazi per investimenti nell’istruzione. La priorità dei prossimi cinque anni è fare un piano di investimenti in capitale umano. In materia di ricerca, occorre proseguire e affinare il progetto avviato dall’ANVUR per il censimento e la valutazione sistematica dei prodotti di ricerca. Bisogna inoltre rilevare per ogni facoltà in modo sistematico la coerenza degli esiti occupazionali a sei mesi e tre anni dal conseguimento della laurea, rendendo pubblici i risultati. E’ prioritario accrescere gli investimenti nella ricerca e  nell’innovazione, incentivando in particolare gli investimenti del settore privato, anche mediante agevolazioni fiscali e rafforzando il dialogo tra imprese e università. Bisogna rendere le università e i centri di ricerca italiani più capaci di competere con successo per i fondi di ricerca europei, sulla scorta del lavoro avviato nei mesi passati.

Agenda Monti

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Queste sono le 12 righe nel documento dell’Agenda Monti riservati all’università. Sì, che siano 12 righe mi sconvolge. Ma non è solo quello: è l’assenza di un senso di emergenza ed urgenza (man mano …), è il riferimento all’Anvur che nessun cittadino capisce, è il riferimento alle “facoltà” che, tecnicamente, non esistono più per legge, è la banalità degli ultimi due passaggi.

E’ soprattutto il chiedersi perché manca questo senso di emergenza, una voglia di costruire una università che raddoppi il numero di laureati, elimini i fuori corso, sappia attrarre i giovani ricercatori di valore che oggi non tornano, permetta un salto di eccellenza nella ricerca presso alcuni atenei di eccellenza che andranno creati con fior fior di finanziamenti, sostenga il miglioramento continuo nella didattica, senza assenze, senza baroni che delegano lezioni ai loro sottoposti.

Certo le 12 righe cresceranno man mano col tempo, ma l’imprinting è chiaro, si dice che il “buongiorno di vede dal mattino”. D’altronde 1 anno di Governo Monti non ha dato nulla all’università, né in bene né in male. Il che significa che abbiamo perso un anno di giovani da formare meglio e 1 anno di rientro di cervelli potenti.

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Il mio collega a Tor Vergata Lorenzo Carbonari mi ha scritto una mail rimandandomi ad un suo recente lavoro scientifico con un altro mio collega Vincenzo Atella (lavoro in attesa di pubblicazione). Ecco cosa dicono su gerontocrazia della classe politica e crescita economica (mia traduzione):

“Mostriamo nel nostro lavoro che le responsabilità delle élite non derivano esclusivamente dalla loro tendenza a mantenere lo status quo. Sono anche dovute alla loro incapacità di afferrare le opportunità che le nuove tecnologie ci danno, così (non) permettendo che (man mano … ) siano effettuate le migliori scelte per l’economia … Nel nostro modello  mostriamo come una classe politica “anziana”, il cui interesse personale potrebbe essere meno portato verso investimenti con un ritorno solo di lungo periodo, potrebbe finire per affievolire il processo di accumulazione di capitale umano a causa di riforme per l’istruzione pubblica inadeguate e di cattive scelte quanto a spesa pubblica sull’innovazione tecnologica”.

Insomma, se la classe politica è vecchia, se cresce la gerontocrazia nel Parlamento, il Paese smette di crescere perché non sa o non vuole fare le riforme che aiutano istruzione e innovazione.

Guardando a 7 paesi (Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Olanda e Regno Unito) e 71 industrie, argomentano come la gerontocrazia (età media dei parlamentari), che tra l’altro aumenta nel tempo nei paesi considerati, genera, via cattivi investimenti pubblici, una decrescita  sensibile e significativa della produttività delle imprese. Minore crescita economica.

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Non è, lo ripeto, questione di rottamare o di giovani contro vecchi, o di grandi imprese vero PMi innovative.

I vecchi che io incontro (alcuni sono miei coetanei!!) mi parlano di una sola preoccupazione (oltre la giusta questione delle pensioni): dei giovani, dei loro figli e nipoti, del futuro incerto per questi. Il che significa che politiche, riforme, per i giovani e per l’innovazione sono volute da tutti.

E allora perché i politici non le fanno o non le propongono?

Due ordini di motivi se consideriamo politici “anziani”: o si ritiene che riforme di questo tipo non diano “ritorni elettorali” in tempi consoni alla loro età o sono talmente anziani che non conoscono quali sono le riforme giuste da fare, queste ultime richiedendo un sapere, quello innovativo, che per natura marcia più velocemente di loro.

Personalmente, mi sentirei di scartare il primo motivo: ripeto che una riforma a favore dei giovani riscuoterebbe un enorme successo elettorale, anche tra gli anziani, perché non sono altro che i genitori o i nonni di questi giovani. Converrebbe anche ai politici farla.

Mi sembra più probabile il secondo motivo: politici anziani hanno in mente che una università moderna sia una università simile a quella che conobbero venti-trenta anni fa e che l’innovazione (per esempio rilanciando il business della rete internet) sia simile quella prevalente negli anni novanta piuttosto che quella aggressiva e dinamica prevalente negli Stati Uniti oggi. Il problema è acuito dalla globalizzazione che rende il ritmo dell’innovazione un fattore decisivo di crescita in tempi anche brevi.

Non trattasi di rivoluzione, trattasi di discriminazione. Richiede “quote lattanti” in politica: persone che sappiano parlare il linguaggio delle imprese di oggi e che conoscano il mondo dei giovani di oggi. Persone ben più giovani di me. Magari noi possiamo guidarli con sapienza (se l’abbiamo) e aiutarli grazie alla nostra maggiore capacità di negoziare con le controparti politiche europee e mondiali nella prima fase della loro gestione del potere. Ma di loro al potere, dei loro errori naturali che faranno perché innovano, abbiamo un bisogno mostruoso. Mostruoso.

Diamoci da fare.

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Lettera aperta al Prof. Monti

Caro Presidente Monti, le scrivo da anziano cinquantenne, desideroso di spiegarle la mia Agenda, se fossi uomo di un Centro, un Centro che ancora non c’è. Come me la immagino questa forza di Centro? Una forza di Centro, che si caratterizza per la sua capacità di conciliare esigenze moderate liberiste da un lato e esigenze sociali progressiste dall’altro, portandone il meglio a fattore comune, come dovrebbe porsi di fronte alla cosiddetta Agenda Monti, con che prospettiva la dovrebbe valutare?

Semplice, con spirito einaudiano, ovvero liberale e protezionista allo stesso tempo. Non liberista ma liberale, attento sì alle libertà di scelta ma in un contesto in cui il libero scambio non sia il frutto di posizioni contrattuali sproporzionate a tal punto da far apparire come costretta la volontà di alcune delle parti. Non progressista, ma protezionista, capace cioè di individuare quelle figure sociali in questo momento particolarmente bisognose di sostegno attivo, e volto a proteggerle: così come un buon padre di famiglia protegge i suoi figli e al contempo sostiene la loro libera volontà di esprimersi, così deve fare un buon governo di Centro.

C’è dunque da rallegrarsi, per esempio, che l’Agenda Monti parli di quote rosa, strumento utilissimo per venire incontro alle tante discriminazioni di genere che ancora affliggono il nostro Paese, riducendone il potenziale di sviluppo. Eppure rimaniamo basiti di fronte all’indifferenza che il programma pone sulle altre due grandi discriminazioni che un Centro forte e volenteroso dovrebbe porre … al Centro della sua agenda: giovani e piccole imprese. Sono due “ceti sociali” che tra l’altro, malgrado le buone intenzioni, sono state sradicati di fronte alla tempesta dell’austerità, come giovani piante le cui radici avrebbero dovuto, appunto, essere salvaguardate da un buon giardiniere, al fine del loro irrobustimento e crescita. Mi consenta di spiegarmi.

Il programma su scuola e università, una magra paginetta su 25, non tiene conto che la sfida globale dovrà essere raccolta dai nostri giovani, ma solo se aiutati: grazie a strutture non più fatiscenti dove studiare (come mai il suo Governo non ha mai fornito al pubblico, malgrado l’enfasi dell’Agenda sulla “trasparenza assoluta della pubblica amministrazione”, i dati sullo stato degli edifici scolastici e le necessarie spese per riportarlo a norma di minimale sicurezza, efficienza ed efficacia?), a meccanismi credibili per permettere a ultimi e penultimi di talento di essere rapidamente identificati e protetti e sostenuti (malgrado l’inutile dannarsi del suo sottosegretario Rossi Doria, cosa ha il suo Governo da appuntarsi al petto come medaglia su ciò?), a meccanismi virtuosi per premiare e proteggere i nostri talenti ricercatori per farli rientrare (sono 12, 12!, le righe sull’università nel suo programma, righe totalmente prive di progettualità forte) riorganizzando le università attorno ad atenei di ricerca e insegnamento avanzati, da premiare con una quota parte rilevante dei fondi disponibili, come si fa dappertutto in Europa.

Ma i giovani non devono rimanere sui banchi per tutta la loro vita: vogliamo le loro energie a disposizione del Paese appena possibile, compatibilmente con la piena espressione del loro talento. Di fronte ad una disoccupazione giovanile così alta che questa austerità recessiva ha “dovuto” generare, che risposta diamo a migliaia e migliaia di giovani che poca responsabilità hanno di questa mancanza di dinamismo imprenditoriale e progettuale in cui si trovano gettati? Perché non rispondere alla sfida, come in Francia, con un servizio civile temporaneo e non ripetibile, che dia loro coraggio e competenze rispetto allo stato di buio attuale in cui versano? Su questo un Centro che si rispetti chiede all’Agenda Monti di abbandonare la timidezza che lo attanaglia e di discutere piuttosto dove trovare le risorse per evitare questo Grande Spreco.

Le PMI, il nostro tesoro che altro non è che la leva per la crescita che sostiene tutto il resto, come possono pensare di sopravvivere in un ambiente come quello che il 2012 ha solo reso più soffocante? Come non pensare che la priorità debba divenire l’immediato pagamento dei ritardati pagamenti delle Pubbliche Amministrazioni senza “se” e senza “ma”? Come non dirle, Presidente, quando esclama che “per contare nell’Unione europea non serve battere i pugni sul tavolo” che no, non è così, che se li avesse battuti un po’, ma solo un po’, la Dott.ssa Merkel avrebbe immediatamente consentito a che il livello del debito pubblico italiano valido ai fini statistici fosse valutato al netto del nuovo debito emesso per ottenere la liquidità per ripagare i debiti commerciali dovuti dallo Stato alle imprese italiane?

E come non rimanere basiti davanti l’assenza di un qualsiasi riferimento ad una immediata attuazione della bellissima legge dello “Statuto per le imprese” che richiede di effettuare una regolazione non costosa, specie per le piccole? Un Governo che non è riuscito nemmeno a rispettare i termini per la presentazione della nuova “legge annuale per la tutela e lo sviluppo delle micro, piccole e medie imprese volto a definire gli interventi in materia per l’anno successivo” (scaduti a giugno), non dovrebbe sentire il desiderio di recuperare su questo tema i suoi ritardi? E che dire del fatto che nessuna menzione è fatta del ruolo che si potrebbe riservare alle piccole imprese nel mondo degli appalti pubblici, come da 60 anni fanno gli Stati Uniti?

Ma lei è proprio certo, sempre per parlare di protezione, che il nostro patrimonio debba essere venduto piuttosto che utilizzato per far fronte a quella scandalosa violazione dei diritti umani che ogni giorno avviene nelle nostre carceri disumanamente sovraffollate? E perché come nel Regno Unito non riservare questi immobili alle giovani imprese per abbattere i loro costi di avviamento dell’attività? Non meritano protezione? Secondo un Centro moderno, certo.

Chi tiene alla protezione dei più deboli non può rimanere soddisfatto dall’Agenda Monti così come elaborata. Ma altrettante perplessità le suscita a chi, liberale, chiede che sia data piena spinta propulsiva alla crescita economica.

Certo, l’enfasi sullo spostamento del carico fiscale sulle imprese è condivisibile ed opportuno, così come va apprezzata l’attenzione ad una tassazione sui consumi che non danneggi i ceti più deboli. Ma un Centro liberale rifiuta l’equazione da lei menzionata, Presidente, che “la crescita si può costruire solo su finanze pubbliche sane” e piuttosto afferma forte e convinto che “conti pubblici sani si possono costruire solo sulla crescita”. Non siamo noi a dirlo, sono i numeri di quest’anno inutilmente austero e recessivo che ha fatto saltare i conti pubblici tanto da portare per il 2014, la stima debito PIL secondo l’Ocse, per la prima volta dagli anni trenta, a posizionarsi sopra il 130%. Se l’economia muore per austerità crollano le entrate fiscali e salgono deficit e debito, come sta avvenendo. Certo poi si può sempre reagire a crescenti cali delle entrate con maggiori imposizioni, facendo sembrare tutto uguale a prima, ma con un carico fiscale che sfugge di mano, ammazzando per sempre chi ricchezza per il paese dovrebbe generare.

L’austerità nutre le aspettative e con essa i piani per il futuro, specie gli investimenti. Ora che tutti danno per probabile l’estensione della recessione fino al 2014, che tipo di speranza vogliamo dare al Paese per il 2015? Non quella dell’Agenda Monti, ci perdoni Presidente, quando ci sconvolge con la seguente affermazione: “ridurre a partire dal 2015 lo stock del debito pubblico in misura pari a un ventesimo ogni anno, fino al raggiungimento dell’obiettivo del 60% del PIL”. Caro Presidente, lei è un esperto di Europa e sa bene che il Fiscal Compact, altro tema su cui certamente un po’ di più i pugni sul tavolo avrebbe potuto batterli, non chiede la riduzione dello stock del debito pubblico ma del suo rapporto con il PIL. Il che significa che a priori hanno stessa rilevanza i fattori che riducono il debito (compresa la crescita!) e quelli che aumentano la crescita. La sua ansia di comunicare una ulteriore austerità cozza contro i Trattati e contro l’esigenza di dare una speranza “spirituale” e “programmatica” alle tante imprese e famiglie che oggi stanno decidendo quando effettuare i loro investimenti o come e se risparmiare. Come pensare che li facciano, gli investimenti le imprese, se dal 2015 mettono in conto un 5% di PIL annuale (80 miliardi) di maggiori tasse e minori spese che generano ulteriore recessione? Le chiederemmo, come liberali di un partito di centro, di usare il Fiscal Compact come strumento di crescita e non di austerità come innegabilmente fatto sinora con esiti disastrosi.

Non possiamo che congratularci, da liberali, per la sua richiesta di una spending review che funzioni. Ma se spending review come dice lei non “vuol dire solo meno spesa ma migliore spesa”, allora Presidente, come giustifica i tagli lineari di quest’anno che così tanta recessione, così tanta disoccupazione, così pochi servizi sociali, hanno generato? E che metodologie vuole mettere in piedi per individuare tali sprechi, che ammontano a circa il 3% di PIL? E cosa vorrà fare Presidente di questo 3%? Ridurci di una briciola il debito o piuttosto avviare un nuovo Rinascimento delle Infrastrutture del Paese per sostenere la competitività delle nostre imprese come avviene negli altri grandi Paesi del mondo, senza un soldo in più di deficit pubblico: scuole, territorio, patrimonio artistico (Presidente la nostra Pompei è insanguinata dal disinteresse di tanti governi che si sono succeduti, lo sa?), carceri, ospedali? Utilizzarli per rendere possibile come in Francia di ottenere crediti d’imposta per spese in ricerca e sviluppo o solo per mostrare saldi finanziari in miglioramento che ogni anno non vengono raggiunti per il danno che hanno sull’economia?

Le nostre aziende migliori muoiono con la corruzione. L’enfasi sulla corruzione è dunque apprezzabile, tanto quanto quella delle lotte alle Mafie, e non va abbandonata. Per questo sarebbe opportuno rafforzare, spendendo maggiormente tramite il taglio degli sprechi, per le nostre forze investigative, a cominciare dall’Autorità Anti Corruzione lasciata senza una lira per avviare la sua attività. Ma c’è di più. Pensare che le nostre stazioni appaltanti siano dominate da individui corrotti è fare ingiustizia alla natura umana. Le nostre pubbliche amministrazioni sprecano molto di più per incompetenza che per corruttela, così ci dicono studi internazionali di grande valore. I grandi Paesi a cui amiamo paragonarci investono ampiamente sulle competenze del settore pubblico, selezionando i migliori, riservandogli stipendi più alti, specie se in ruoli strategici come quelli degli acquisti pubblici che occupano più del 12% del prodotto interno lordo. Attendiamo dal suo programma un segnale che investire nella lotta agli sprechi fa bene, una lotta fatta con ben altri strumenti di quelli usati sinora. E’ più facile che combattere la corruzione, la lotta per le competenze? E allora investiamo e così facendo sconfiggeremo anche la corruzione: ad oggi Presidente non sappiamo ancora chi compra cosa quando, basterebbe una piccola spesa, spesa che il suo Governo non ha mai autorizzato, per acquistare e costruire una piattaforma unica dove far passare i dati degli appalti. Senza questa spesa non è possibile bloccare oggi chi spende più di un altro per comprare lo stesso bene. L’avremmo potuto fare in due secondi, non è stato fatto. Nella Sanità pervasa da collusioni, un Centro liberale non si limiterebbe a ricordare l’esistenza dell’Antitrust, ma si impegnerebbe a finanziarla affinché possa avere il personale necessario per individuare e sanzionare i cartelli e così facendo deprimerli ed ottenere significativi risparmi. Ma se non scommettiamo sulle nostre istituzioni, se non le rafforziamo nel loro prestigio e credibilità, e ciò avviene solo spendendo qualche briciola per esse, nulla può avvenire.

Le nostre istituzioni per la crescita partono dall’università, a cui la sua agenda, lo ripetiamo, dedica 12 righe. Un liberale come Einaudi che un Centro che si rispetti vorrebbe oggi aver a capo della coalizione troverebbe fondi per l’Università. Perché, come disse Einaudi:

Poiché in Italia gli studenti universitari dagli attuali 150 mila circa dovranno in qualche decennio giungere al milione, sarà d’uopo, senza gonfiamento di quelli esistenti, crescere gradualmente il numero degli istituti universitari dai 20 o 30 attuali a 50 e poi a 70 e poi a cento e più. Né, con un milione di studenti e con cento istituti universitari crescerà la disoccupazione falsamente detta intellettuale; anzi diminuirà, perché non si è mai visto che il possesso del sapere – cosa ben diversa dal possesso del pezzo di carta – cresca la difficoltà di trovar lavoro.

Ecco, Presidente, io un Centro me lo immagino così: che scommetta sulla speranza, sulla solidarietà, sull’impresa, specie piccola, sui giovani, sul buongoverno. A queste condizioni, che noi che ci ritroviamo in queste parole poniamo a lei, saremmo desiderosi di sapere se verrebbe con noi. Altrimenti, Presidente, grazie, ma preferiamo altro.

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Quote lattanti per la politica italiana

Io adoro Raffaella Carrà. Davvero. Ma ricordo il mio spavento qualche estate fa di fronte ad un Sanremo dell’Europa in cui ogni Paese portava un suo cantante, una sorta di Eurofestival (Eurovision Song Festival), ed un conduttore televisivo in collegamento. Assistetti ad un monotono ripetersi di presentatori di ogni Paese con età media inferiore ai 25 anni. Meno che per noi, rappresentati, benissimo, appunto, da Raffaella. Mi dissi che eravamo messi male. Che non avessimo scelto qualcuno, meno bravo di Raffaella ma dell’età media dei conduttori degli altri Paesi. Qualcosa non andava per il verso giusto.

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Mi fa notare Stefano qualcosa che forse sappiamo ma che non fa mai male ricordare. Qui sotto vedete l’età dei Primi Ministri dell’Europa a 27. Per l’Italia abbiamo calcolato l’età media basata sugli unici tre potenziali candidati, Berlusconi, Bersani e Monti (incluso, anche se forse ha abbandonato perché è plausibilissimo come candidato, senza di lui saremo sempre primi a 68,5). Primi. I più vecchi.

E’ ingiusto verso Bersani che ha 61 anni, ma guardate bene, a 61 anni saremmo comunque secondi dietro i 66 anni di Cipro.

Non è questione di rottamare, né di credere che un giovane farebbe meglio. E’ questione di discriminazione, di pensare a “quote lattanti” applicate alla politica. E’ questione di obbligarci a riservare i posti di potere anche a chi il potere sa gestire peggio ma che nell’apprendere a gestirlo finirebbe per innovare di più. Come per i posti per entrare all’università negli Stati Uniti per gli afro-americani fino a pochi anni fa (dove oggi la percezione della discriminazione essendo scemata il dibattito sulle quote vede sempre più resistenza ad esse, giustamente) o come per i posti nei Consigli di Amministrazione per le donne.

I Viaggiatori riservano il 50% dei posti nel loro Consiglio Direttivo alle donne e 2 posti su 9 ad under 30 non a caso. E non caso nel nostro motto metteremo, se lo approviamo, PMI, Giovani e Buongoverno: quelli che riteniamo i 3 fari che dovrebbero guidare l’azione della politica oggi in Italia (non sono “valori”, né “assoluti”, sono emergenze per l’Italia).

Tanto mi sentivo dirvi di fronte alle prossime elezioni.

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Adamo ed Eva, il diritto all’infelicità e la sfida del XXI° secolo. The true 21st century challenge

Circa 15 anni fa questa persona che state per ascoltare , Alessandro Acquisti, era mio studente (in realtà era studente di Mario Baldassarri ma lavorando con lui ne seguivo le prime prodezze; si laureò con una tesi su crescita economica ed intelligenza artificiale). Ricevette e rifiutò una lautissima borsa di studio dal prestigiosissimo MIT di Boston e decise invece di fare il suo dottorato (Ph. D.) presso una ancora poco conosciuta scuola a Berkeley, la School of Information Management and Systems, andando a studiare, con Hal Varian, oggi capo economista di Google, l’economia di internet e della privacy. Cercai di dissuaderlo in tutti in modi, che non si rifiutava un’offerta così lauta del MIT per qualcosa di così incerto. Per fortuna non mi ascoltò. Oggi è probabilmente l’economista italiano under 40 più famoso degli Stati Uniti.

Ascoltate questo suo intervento video di 15 minuti sul notissimo sito TED, che colleziona “discorsi affascinanti da parte di persone rimarchevoli, gratis”. Parte dalla sua ricerca sulla privacy e come quest’ultima può essere sempre più facilmente violabile tramite le nuove tecnologie ICT. E finisce per ricordarci che più di Orwell, il XXI° secolo dovrà temere la lezione di Huxley. O meglio, dovrà prepararsi ad una incredibile battaglia per preservare l’unico diritto per cui da sempre, ma proprio da sempre, ci siamo battuti: il diritto all’infelicità.

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Once upon a time, this Italian guy on video was my student. Then he became my colleague. Now Alessandro Acquisti is a superstar at Carnegie Mellon University, Professor of Economics and worldwide-known for his studies on privacy. He had the honor to speak 15 minutes at the TED, “riveting talks by remarkable people, free to the world”. Take a look, actually listen to him!

You will learn how modern ICT technologies increasingly threaten our right to privacy. More than that you will learn that more than George Orwell’s lesson, the XXIst century will have to fear Huxleys’ one. And that to win the battle we will have to fight for the only right we have always fought for, the right to unhappiness.


 

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Giudici milanesi, giudici europei. The derivatives scandal of Europe and the example of Milan.

E così abbiamo condannato qualche banchiere per una storia di derivati impropri venduti da banche al Comune di Milano. Il PM Robledo ha affermato che trattasi di un giudizio storico, essendo la prima volta che la mancanza di trasparenza da parte delle banche nel rapportarsi a entità governative viene considerato un crimine. In attesa dell’appello.

In attesa dell’appello apprendiamo da Bloomberg News che questi derivati sono con tutta probabilità andati contro le regole di gestione del debito perché in parte destinati a ottenere liquidità, così almeno disse un testimone al processo nel maggio di quest’anno.  Gli swap in questione non erano dunque fatti per immunizzare dal rischio d’interesse come invece dovevano essere.

Viene da chiedersi cosa succederebbe alla Goldman Sachs se si dimostrasse una qualche analogia di comportamento con i suoi swap con il Governo greco che tanto dolore hanno causato alla popolazione ellenica. Ma purtroppo non possiamo saperlo: la BCE è riuscita ad ottenere e proteggere la mancanza di trasparenza di tali operazioni riugiandosi dietro la gonnella dei giudici europei.

Ora abbiamo un motivo in più per dire alla BCE che è tempo che riveli i dettagli di quella transazione per eliminare definitivamente anche solo il benché minimo sospetto che essa possa coprire qualche operazione tra due controparti considerata, a Milano, criminale.

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Now we know that swaps used by the city of Milan likely breached rules on how municipalities use derivatives to manage their debt, partly because they were used to raise funds, a judicially appointed witness said at the trial in May.The swaps were far from being hedges on the municipality’s interest-rate risk after being restructured multiple times, he said.

“It’s a historic judgment,” Robledo said. It’s the first time “that the lack of transparency by banks in dealing with government entities is a crime.”

Banks were were convicted by a Milan judge for their role in overseeing fraud by their bankers in the sale of derivatives to the city of Milan.

An appeal is likely to be pending. While we await for the appeal, please ask the ECB why it still purports to deny transparency to the Goldman Sachs vs. Greek government transaction in derivatives used for funding by the latter and that so much pain it generated on Greek families. The Italian sentencing leaves open the issue as to whether the ECB is not revealing a transaction between two counterparts that a judge in Milan would consider a criminal offense. It is in the best interest of the ECB to deny this fact by publishing the transaction once and for all.

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Grandiose battaglie di potere tra Cina ed Usa. E l’Europa?

Molti … considerano che la ragione per cui negli ultimi anni le preoccupazioni sulla stabilità del sistema finanziario internazionale presso il Fondo Monetario Internazionale (FMI) si siano incentrate sull’eccessiva accumulazione di riserve valutarie ha a che vedere con le opinioni di azionisti influenti del Fondo che quest’ultimo non fosse stato in grado di influenzare la politica del cambio cinese nell’ultimo decennio.”

Chi ha scritto questa frase così critica degli Stati Uniti, azionista influente e di maggioranza relativa del FMI? Forse un francese? Forse un cinese? Forse un anti-imperialista?

Think again. E’ l’IEO, Independent Evaluation Office, organo indipendente del FMI, costituito pochi anni fa per identificare i fallimenti interni all’istituzione e suggerire eventuali modifiche di politiche alla notissima struttura sovranazionale.  Il Fondo dunque critica se stesso e la cosa non deve essere stata facile, a giudicare dalle (un po’) piccate risposte della Presidente del Fondo, Christine Lagarde (foto), e le ben più piccate risposte dello stesso staff del Fondo sottoposto a critica.

Ridetta meglio poche pagine dopo: “un punto di vista diffuso tra coloro che abbiamo intervistato per questo rapporto era che i recenti tentativi del FMI di sottolineare come l’eccessiva accumulazione di riserve (di valuta) fosse un rischio per il sistema monetario internazionale riflettesse l’interesse di alcuni azionisti del FMI che volevano così assicurarsi maggiore flessibilità nel tasso di cambio di alcune rilevanti economie asiatiche”.

Ci vuole un po’ di coraggio, quindi complimenti ai colleghi dell’IEO per quello che sono riusciti a dire. A dire che gli Usa usano il FMI per ottenere politiche in altri Paesi a loro gradite e che ciò non è bene.

A dire che fino a poco tempo fa nessuno scienziato economico aveva mai menzionato l’”eccesso di riserve valutarie” di un paese come un problema economico per il mondo. A dire che le variazioni delle riserve valutarie sono nulla quanto a dimensione rispetto ai flussi finanziari privati e che forse il Fondo deve, prima di pensare a regolare le prime, capire come sono gestiti dai manager delle banche questi ultimi. A quasi quasi dire che, in fondo, dietro ai tecnici di qualsiasi istituzione sovranazionale, c’è la Signora Politica, che comanda e ordina ai tecnici di allinearsi. A sottointendere che l’utilizzo di indicatori sempliciotti ma facili da capire e comunicare (il Fondo aveva inventato in questi ultimi anni “l’indicatore di adeguatezza delle riserve valutarie”) – e proprio per questo criticati dall’IEO – non siano stati altro che un rozzo ma efficace strumento per gli Usa per tentare di manipolare le politiche economiche della Cina a suo favore.

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Sì, un po’ come il 60% del debito-PIL europeo. Trovato il numeretto, ecco giustificata magicamente la bontà dell’obiettivo. Obiettivo ovviamente idiotico. Ma purtroppo in Europa siamo ancora in attesa di un IEO tutto nostro che sappia dire in faccia a tutte le istituzioni (BCE, Commissione Europea, Consiglio europeo) che debito su PIL al 60%, deficit su PIL al 3%, bilancio strutturale in pareggio – tutti indicatori e numeri imposti dalle politiche europee - sono numeri al lotto che per un economista non hanno il benché minimo senso economico, obiettivi e numeri che non sono degni di un Continente che voglia affermarsi a livello mondiale come potenza geopolitica. Che ci distraggono dalla nostra missione principale.

Che tristezza. Perché, come ci ha spiegato l’IEO, Cina e Stati Uniti i numeretti li pongono sì, ma l’uno all’altro, in maniera tattica per combattersi una battaglia di potere, quella sì,  grandiosa, mentre noi i numeretti ce li poniamo a noi stessi, come dei piccoli tristi masochisti che vanno avanti senza aver capito che invece solo dando peso a crescita, idee ed occupazione, solo pretendendo numeri rilevanti solo per rilevanti ambizioni, si gioca alla pari con gli altri.

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Chi ha paura della BCE?

La fiducia nella BCE (blu scuro) crolla – come crolla quella nelle altre istituzioni europee – e questa si interroga giustamente sul perché.

Il lavoro scientifico di 3 ricercatori della BCE (uno dei quali italiano) identifica 3 motivi: la crisi economica, la diffidenza verso le banche in generale e verso l’Europa. Non necessariamente verso l’euro, che resta ancora con quasi due terzi del supporto nei paesi dell’area dell’euro, benché la sua popolarità sia in calo.

Insomma, se la BCE quando partì godeva di una tendenza alla fiducia dei cittadini del 50% circa, oggi chi si fida e chi non si si fida si eguagliano circa, al 40%.

Malgrado le persone intervistate cambino nel corso dei sondaggi, il risultato più interessante del lavoro è a mio avviso la “figura tipo” di chi è che tende a fidarsi di più della BCE: sono uomini, sposati, con istruzione universitaria e di orientamento conservatore (centro destra), e dichiarano  una maggiore soddisfazione nella vita degli altri. Molti indicatori dunque che indicano che abbiamo a che fare con individui dal maggiore benessere economico.

Tra le variabili esaminate dai ricercatori non c’è la variabile “ricchezza detenuta in titoli esposti al rischio d’inflazione” (come i BTP) ma è probabile che tanto maggiore sia questa, tanto più le persone si dichiarerebbero fiduciose e soddisfatte del lavoro, anti-inflazionistico, sinora svolto dalla BCE.

Gli autori non si soffermano però su come mai la crisi economica abbia ridotto la fiducia nella BCE. A me pare che sia ovvio: se questa BCE, per la sua ben nota lotta alla sola inflazione e non tanto alla disoccupazione, viene gradita come pare da chi è più ricco come reddito e da chi detiene più ricchezza, beh allora la BCE (e le istituzioni europee tutte) sta perdendo la fiducia della gente non perché è lei ad essere cambiata, ma perché è la gente che è cambiata. E’ più povera di redditi, ha usato i risparmi e la ricchezza per fronteggiare tale calo dei redditi e si sente meno protetta rispetto alla sua più impellente preoccupazione di questi anni: la disoccupazione.

La stupida austerità, la percezione che per la BCE conti solo la stabilità dei prezzi quando invece alla gente interessa tutt’altro, ecco spiegato perché la stupida austerità fa male alla fiducia nella BCE.

Stupida austerità. Stupida stupida stupida austerità. Un veleno nei polmoni europei.