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Viaggiate lontano, non fermatevi alla prima fermata: the Special One

Oggi alla Presidenza del Consiglio a parlare di investire nelle competenze per far ripartire il paese grazie agli appalti pubblici. Presentazione del Rapporto Tor Vergata PromoPa su “come acquista la pubblica amministrazione”.

Investimento: sotterrare una mela oggi, convinti che il melo che nasce domani ne porti ben più d’una sui suoi rami.

Investimento: spendere oggi per generare addizionale ricchezza domani.

Chi legge questo blog sa come gli appalti pubblici “competenti” possano generare maggiore ricchezza domani via effetti da domanda (sono bravo, individuo gli sprechi, che spesa non sono, li taglio e ci finanzio l’acquisto di altri beni, servizi, lavori pubblici che occupazione e produzione sono) e via effetti da offerta (sono bravo, individuo gli sprechi, aggiusto la buca sull’autostrada, il TIR italiano non rompe il semi-asse, consegna la merce prima del TIR tedesco ed … oplà l’export è nostro).

Ma la questione che oggi voglio affrontare è l’altra: dove sono i soldi per fare gli investimenti nelle competenze?

“Non ci sono soldi” non è l’unica risposta (molto frequente anch’essa) che risuona sempre alle mie orecchie. L’altra, paradossale, è questa: “non si può spendere per la spending review, basta con gli sprechi!”. Ma come. Se la spending review la facciamo è perché siamo bravi a farla, o no? E dunque siamo anche capaci di spendere bene i soldi per fare bene la spending review! O no? O no? O no?

Ma dove sono i soldi per fare bene la spending review?

Non in Consip, istituzione cardine della spending review, che anche quest’anno si vede a rischio di un taglio profondo nei fondi disponibili. Ma allora che incarichiamo Consip a fare?

Non ci sono risorse per l’Antitrust per combattere i cartelli negli appalti pubblici, appena 1 istruttoria all’anno dalla sua nascita, anno in cui il suo bilancio era ben più ampio di quello oggi. Ma allora come combattiamo i cartelli nella sanità?

Non ci sono risorse forse nemmeno per la nuova Civit incaricata di combattere la corruzione, che con cartelli e incompetenza dei funzionari pubblici gongola. Ma allora che la facciamo a fare un’Autorità Anti Corruzione senza dipendenti?

E gli ispettori per verificare gli appalti? Costano poco, sono quelli dell’ausiliaria delle Forze Armate che mandiamo a casa invece di utilizzare.

Riduciamo le stazioni appaltanti! Sono troppe! Come no, assolutamente. Ma non per spendere di meno: per spendere di più, creano il patentino degli acquirenti pubblici, la carriera come per diplomazia e magistratura, ogni anno, concorso d’ingresso durissimo, progressione legata a performance e bravura negli appalti, stipendi altissimi. Altro che risparmio di spesa sugli stipendi dei funzionari, il risparmio vero lo otteniamo dagli esiti delle gare, fatte bene. Spendi 50.000 euro in più per un funzionario bravo e risparmi 500.000 euro: un bell’investimento, non trovate?

*

Una rivoluzione. Anzi due.

La prima parte con la norma che elimina le norme, che autorizza il sotto soglia senza regole, come nel Regno Unito. Le regole che abbiamo ora sono un modo per molti per dire “abbiamo fatto il nostro lavoro, non ci rompete le scatole”. Eliminiamole alcune di queste regole. E pretendiamo che la discrezionalità ottenuta si leghi alla performance per essere premiata.

La seconda rivoluzione parte anche con tutte queste norme che attanagliano gli appalti. Che, come è sotto gli occhi di tutti, non bastano per ridurre a sufficienza gli sprechi. No, ci vuole leadership a tutti i livelli. Come abbiamo detto pochi giorni fa: se si è fatto a Salerno si fa dappertutto.

Ma se a Salerno il tutto di bello si è arrestato, se al Colonnello Bortoletti, lo “Special One” come alla fine lo chiamavano i suoi dipendenti che con lui lavoravano eccome per un obiettivo – bello -comune, non è stato offerto nessun premio dopo essersi meritato ben di più, allora la leadership solo lì non basta, deve essere dappertutto.

A cominciare dal manico.

Creiamo allora con il nuovo Governo come proporremo come Viaggiatori un nuovo Ministero, il Ministero della Qualità della Spesa Pubblica. Nonc ‘è una lira (oops … euro) in più per farlo? Non è vero. Ma comunque risparmiamo: chiudiamo l’Autorità dei Contratti Pubblici e trasferiamo il suo valente personale presso il nuovo Ministero, assieme a svariati bravissimi dipendenti dell’Antitrust e della Civit, assieme ai migliori dipendenti del Ministero delle Infrastrutture. Diamone la gestione come Ministro al Colonnello Bortoletti.

Ma poi spendiamo anche, e tanto, perché parliamo di investimenti. Per conoscere finalmente quanto e dove spendiamo, creiamo la piattaforma ICT con i dati in tempo reale degli appalti. Costa? Sì ma costa molto meno di quanto ci ridarà.

E poi tanti soldi per l’esercito di funzionari delle 200 stazioni appaltanti, competentissimi, bravissimi. E ispettori a volontà.

Premiamoli, non come oggi (vedi grafico sotto), per quello che valgono.

Così semplice, così a portata di mano. Viaggiate lontano, non fermatevi alla prima fermata.

*

Acquirenti pubblici scontenti dell’attuale premialità: Quasi la metà di chi non ritiene efficace il sistema di premialità sostiene motivazioni legate al fatto che nella realtà non si valorizza il merito o il risultato. Quasi un quarto attribuisce l’inefficacia del sistema di premialità alla forte discrezionalità con la quale viene attribuita. Anche la poca chiarezza degli obiettivi è un motivo dell’insoddisfazione. Grazie Annalisa, Simone, Andrea

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L’anti-politica che uccide l’Europa, non votatela

Chiunque vinca in questa cacofonia politica ha bene in mente quale sia la questione più importante da portare a casa una volta ottenuta la agognata vittoria?

Lo spread? L’IMU? La vendita degli immobili? Per favore.

Sentiamo un osservatore di mercato neutrale, ex banchiere centrale alla Bank of England, Buiter oggi capo economista di Citigroup.

Continuiamo ad attenderci che la Grecia lascerà l’area dell’euro nel prossimo anno o due. La probabilità di una uscita della Grecia (Grexit) nel brevissimo termine è scesa, il ché riflette un cambiamento di atteggiamento tra le nazioni creditrici dell’area euro, specie la Germania, che paiono aver deciso che i probabili costi economici ed elettorali di una uscita greca a breve superino i costi pressoché certi di un finanziamento addizionale della Grecia appena sufficiente per rimanere nell’area euro per il momento. Ma non vi è nessun segno che questi creditori intendano ristrutturare il debito greco a sufficienza oppure moderare l’austerità fiscale (che richiederebbe finanziamenti addizionali) a tal punto da permettere all’economia greca un qualche spazio vitale per riprendersi. Il debito pubblico greco sul PIL probabilmente toccherà il 193% nel 2013 nel contesto di un PIL che continua a crollare (collapse è il termine usato, NdR), malgrado il concambio del debito nella primavera del 2012 e l’intensa austerità fiscale. Gli obiettivi del programma greco rimangono irragiungibili per il prossimo futuro. mentre il disagio sociale e la fatica da austerità continuanao a crescere. In assenza di ripresa la Grecia con tutta probabilità uscirà dall’euro anche se non spinta a ciò dai suoi creditori.”

Già. Lo dicono i mercati, mica io.

Quest’analisi fa il paio con l’ottima visione su Vox EU di Jens Nordvig, che parte da dove finisce l’analisi Citigroup:

Dato che i partner dell’eurozona con tutta probabilità non cercheranno di spingere di per loro la Grecia fuori dall’euro, dovremmo concentrarci piuttosto su quali parametri politici domestici in Grecia farebbero scattare l’uscita. Da questo punto di vista possiamo immaginare che la probabilità di una uscita greca sia funzione della probabilità di elezioni anticipate in Grecia e di una sconfitta dei partiti favorevoli alle riforme: Neo Democratia (ND), PASOK e la Sinistra Democratica… Sondaggi di opinione recenti tutti piazzano SYRIZA in vantaggio su ND. Nel frattempo, Alba Dorata, il partito estremista di destra, sta per divenire il terzo partito, distanziando abbondantemente il PASOK. Dato che il partito vincente ottiene un bonus di 50 parlamentari … una vittoria di SYRIZA potrebbe anche bastare per assicurarsi una maggioranza. Stimiamo che la probabilità di vittoria di SYRIZA in una elezione anticipata sia attorno a due terzi … Ed una elezione anticipata potrebbe essere causata da una serie di eventi. Un fallimento dell’attuale governo di approvare future condizioni dalla Troika … nel 2013 …. è una via. Una graduale emorragia di parlamentari via da ND, Pasok e Sinistra Democratica è un’altra strada. E’ difficile stimare i rischi cumulati di elezioni anticipate, ma una stima attorno al 25% sembrerebbe realistica.

Rispetto alla Grecia i sondaggi puntano ad un clima politico altamente instabile. E ciò indica che elezioni anticipate, dovessere essere indette, potrebbero causare un drammatico risorgere dei timori di uscita dall’eurozona. Altrettanto importanti, i rischi politici non sono confinati alla Grecia, così come dimostrato dai recenti sviluppi in Italia“.

Già. L’Italia. Che farà l’Italia dopo le elezioni? Quell’Italia di cui parla Citigroup quando commenta ancora:

E’ nostra opinione che i programmi anti spread con BCE che durerebbero fino a  due anni non restaureranno la sostenibilità fiscale in Spagna ed Italia. Le riduzioni immediate dei costi di finanziamento associate agli aiuti sarebbero utili, ma troppo piccole per influenzare i conti fiscali. Ben più rilevante, gli andamenti dei saldi pubblici (debito e deficit, NdR) continueranno a risultare peggiori delle proiezioni ufficiali a causa di una crescita più debole (in parte dovuta ai moltiplicatori fiscali che si rivelano più grandi di quanto ci si aspetta), una interruzione di austerità addizionale (dovuta alla crescente stanchezza), o ambedue. Per quanto riguarda l’abilità dei programmi delle varie troike di riportare questi Paesi alla sostenibilità fiscale, la situazione è simile a quella di Irlanda e Portogallo (per la quale si prevede … insostenibilità, NdR).”

Grecia, Italia, Europa. Ecco per cosa si vota a febbraio. Altro che spread, IMU, immobili.

Per votare per salvare l’Europa e con essa l’Italia dovete votare contro tutto quello che ha reso la Grecia un paese triste, stanco, stremato. Tutti i politici che hanno voluto l’austerità senza capire che questa distrugge le fibre dell’entusiasmo europeo debbono essere mandati a casa se vogliamo che l’Europa si salvi. Tutto il resto che ascoltate non è politica, è l’anti-politica. E  a noi l’anti-politica non è mai piaciuta.

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Agende vuote e cambiamento

La cosa più interessante a cui ho assistito questa settimana, ad un convegno su appalti e controlli, è stata la testimonianza di un ufficiale dei carabinieri. E’ un Colonnello, si chiama Maurizio Bortoletti, ed è stato fino a poco tempo commissario straordinario dell’ASL di Salerno (8000 dipendenti circa), incarico che ha concluso nel luglio del 2012, dopo 1 anno e mezzo di attività.

Alcuni di voi lo conoscono già. Se cliccate su you tube il suo nome troverete abbondanti video su di lui.

Perché? Perché ha esibito, nei mesi del suo mandato, un attivismo determinato a rimettere contabilmente in piedi una ASL i cui conti pubblici erano assolutamente fuori controllo. Ereditava un risultato di esercizio annuale in rosso di circa 250 milioni di euro (a fronte di previsioni ovviamente più rosee, circa … 3 volte più rosee) ed un debito di circa 1,7 miliardi di euro.

Recitano le sue slides: “Nel 2010 il Collegio Sindacale ha mosso 625 rilievi o osservazioni, con 155 pareri negativi e decine di atti trasmessi alla Corte dei Conti, a decine dei quali non era mai stata data risposta;  contro la sola ex ASL SA2 di Salerno, una delle tre unificate, al 31 marzo 2011 erano pendenti  518 ricorsi del personale sulle circa  8 mila unità presenti, uno ogni 18 dipendenti, per un controvalore stimato in 9 milioni di euro. Dati spaventevoli, cui si aggiungevano 802 ricorsi dai fornitori dell’Azienda, 237 citazioni per danni, 327 altre cause a vario titolo e 40 liti pendenti davanti al TAR per un controvalore stimato di sola quota capitaria di 207 milioni di euro.”

Sta di fatto che nel 2012, i risultati sono tornati in nero e, aggiunge in maiuscolo, tutto ciò:

“SENZA RISORSE AGGIUNTIVE, A LEGISLAZIONE INVARIATA, SENZA TAGLI LINEARI, SENZA CHIUDERE NULLA (tranne un Presidio riconvertito dopo un sequestro del NAS di piastra operatoria e farmacia), SENZA TOGLIERE NULLA AI CITTADINI.”

In realtà mentre il futuro è stato rimesso in carreggiata, il passato (ed i relativi debiti pregressi) sono stati messi un po’ più in secondo piano, causando, mi dicono, grandi difficoltà ad alcune aziende.

Detto ciò, i risultati sono impressionanti. Come impressionante (in ben altro senso) è stata la volontà della Regione Campania di non rinnovare il mandato al Commissario (oggi la ASL di Salerno è tornata in gestione ordinaria) e soprattutto di non utilizzare questa esperienza maturata per affrontare il nodo delle ASL napoletane delegandogli analoghi potere.

La stampa contro, il non rinnovo del mandato. Il Colonnello si chiede, o ci chiede di chiederci, alla fine, con un qualche scetticismo se “fare, conviene?”.

Ma non è di questo che vi voglio parlare.

Il Colonnello si è alzato per andare a sedersi in platea. Gli chiedo di restare ancora un attimo. C’è qualcosa che non mi torna e gli chiedo di spiegarmi.

“Come ha potuto generare il cambiamento, senza cambiare gli uomini?”.

Una domanda semplice. Una risposta semplice.

“Hanno visto che facevamo sul serio. Le riunioni, ogni mattina, la tracciatura delle attività, il cronoprogramma, la rialfabetizzazione di tutti. I pagamenti regolari. Ci hanno creduto. Si sono impegnati. Anche quelli di cui tutti mi parlavano male.”

Le stesse persone. Hanno visto la leadership, hanno visto che non erano le solite parole, hanno visto l’impegno. La leadership, può risolvere tutto. Se questa è vera, pervade gli spiriti ed infonde coraggio e nulla è impossibile. Mi rammenta tutto ciò un grandissimo film con Robert Redford, Brubaker, ve lo consiglio.

Mentre parla penso al Governo Monti, alla sfilata di tanti ministri a Pompei, alle tante parole. E nessuno che sia rimasto lì a Pompei a presidiare, mentre i muri continuano a crollare, in attesa che arrivino i fondi europei. I fondi europei. Come se dovessimo aspettare i fondi europei per Pompei.

Come se la Camorra non se la stia ridendo oggi, di fronte a tutta quella parata di ministri che sono passati e non sono più tornati. Come se la Camorra non sarebbe stata sconfitta se fossimo rimasti. Rimasti, come il Colonnello, fino a quando ha potuto. Se solo avessimo voluto. Se solo volessimo restare, ogni volta, a curare il Paese là dove ha bisogno di essere curato. Là dove vi è bisogno di combattere per restituirgli dignità.

Fino a quando non resteremo, fino a quando non combatteremo per la gente, il loro benessere e la loro dignità, fino a quando parleremo di riforme senza interessarci a curare il male, qualsiasi Agenda, anche la migliore, è vuota. Anzi, è peggio di vuota: genera disperazione, scetticismo, abbandono.

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Quale contratto sociale per l’Europa?

Corradino Mineo, al margine del programma Rai News ieri sera, dopo avermi sentito critico sull’Unione Bancaria, mi ha fatto presente che secondo lui invece è un passo importante per l’Europa.

Stimo molto Mineo. Detto che non sono contrario all’Unione bancaria europea ma ad averne accentrato i poteri presso la BCE, mi sono ascoltato rispondergli che se il primo passo post-crisi di unità è basato sull’unità finanziaria, qualcosa non torna. Mi sono ascoltato dire un po’ farfugliando che il primo passo di unità deve essere sociale e non finanziario.

*

Qual è il contratto sociale che stiamo firmando per l’Europa dei nostri figli? Me lo sono chiesto di nuovo stamattina leggendo un interessante resoconto scientifico di come il Brasile negli ultimi 30 anni, dalla fine della dittatura, ha riscritto il suo di contratto sociale.

Leggo lì che “un lavoro di Alesina, Glaser e Sacerdote mostra come esista, nei paesi OCSE, una forte correlazione tra la spesa sociale e l’anno della più recente adozione della costituzione“. Così per esempio per il Brasile dove la spesa sociale nel 1988 quasi raddoppia sulla spinta dell’approvazione di una Costituzione molto progressista.

Una “nuova” comunità vuole un nuovo contratto sociale. Quel contratto sociale deve riflettere le esigenze della “nuova” comunità.

L’Europa vuole un nuovo contratto sociale? Questo contratto sociale che stiamo costruendo riflette le esigenze degli europei?

Risponderei di sì alla prima domanda e di no alla seconda.

Lo vuole, lo vogliamo, questo nuovo contratto, per dare una risposta alle nuove sfide ed ai nuovi dilemmi che pone un mondo nuovo. Scusate la banalità. Ma è così.

Ma il problema è che non lo stiamo scrivendo, questo nuovo contratto sociale. E se pensiamo di farlo con l’Unione bancaria scordiamocelo: stiamo parlando di “società” non di “mercato”.

Cosa è avvenuto al contratto sociale europeo? Se guardiamo a cosa è avvenuto in questi ultimi 30 anni in Europa, è interessante notare come, al contrario del Brasile, solo alcuni Paesi (Grecia, Spagna, Portogallo ed Irlanda) hanno visto il livello di ineguaglianza ridursi assieme all’aumento sostanziale della spesa sociale (in Francia il grande aumento di spesa sociale ha lasciata immutata la disuguaglianza). Negli altri Paesi, Italia compresa, l’aumento di spesa sociale non ha frenato la crescita delle disuguaglianze. L’interpretazione che se ne può dare è duplice e diametralmente opposta: o in questi Paesi l’aumento di spesa sociale è stato sprecato o non è stato sufficiente a arrestare l’inevitabile aumento delle disuguaglianze dovuto alla globalizzazione (riforme liberiste comprese). O un po’ di tutti e due. Sta di fatto che la Francia, l’unico paese europeo “ricco” che ha bloccato la crescita della disuguaglianza dal 1980 al 2007, ha dovuto spendere in più molto più degli altri. E ciò mostra come o è diventato più difficile fare la politica sociale “giusta” o come le forze che spingono verso la crescita naturale della disuglianza siano fortemente al lavoro.

Al di là di ciò è tuttavia necessario chiedersi verso quale contratto sociale europeo viaggiare per i prossimi trent’anni, se abbiamo in mente, come ce l’ho io, di tenere unita l’Europa all’interno di un mondo più aperto, che mette sempre più a rischio i tenori di vita europei basati su una disuguaglianza contenuta.

L’esempio che viene dal Brasile è un esempio interessante. Perché ha sviluppato un nuovo modo, forse meno costoso e più efficace, per tenere assieme un popolo. Un contratto sociale che sia al contempo più (o altrettanto) solidale e meno costoso.

Parlano, gli autori, di “dissipazione inclusiva”. E cioè di un contratto che tenti di includere tramite maggiore accesso alla politica ed alla economia dei più esclusi. La dissipazione è legata oltre alle maggiori spese e maggiori tasse per finanziarle, ai costi che un simile cambiamento può comportare, di resistenza, lobby, corruzione.

Il Brasile ha trasformato la sua società con una partecipazione più elementare per certi versi della nostra: il diritto di voto ad una massa enorme di analfabeti malgrado la resistenza di alcune fasce ricche della popolazione, un aumento notevole del salario minimo. Redistribuzione per la partecipazione, ma redistribuzione costosa. Che i nostri bilanci pubblici così carichi forse non possono più contenere.

Ma per certi versi il Brasile ha mostrato coraggio a sfruttare le innovazioni tecnologiche a suo favore (come per la trasparenza incredibile negli appalti via web) e non ha temuto di di aprire i mercati alle piccole imprese, vietandoli a volte alle grandi già affermate. Tipi di redistribuzione meno costosi ma capaci di solidificare, anche loro, il contratto sociale.

Ecco, l’Europa che io voglio è un’Europa che si sforzi di aprire alla partecipazione. Non a parole, ma nei fatti. Per fare vera redistribuzione senza spendere tanto di più e forse anche meno. No, non con la meritocrazia (che permette ai ricchi di arricchirsi perché sono meglio posizionati) ma con lotta alle discriminazioni pervasive che caratterizzano il nostro Continente: sordo alle PMI, ai giovani, alla lotta contro la corruzione.

Un contratto sociale per cui dobbiamo combattere, smettendola di fare inutili vertici finanziari che nulla lasciano nel cuore degli uomini e delle donne d’Europa.

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Semplici verità sulla BCE che supervisiona le banche

L’Autorità di vigilanza bancaria europea per le grandi banche europee?

Ottimo.

La crisi del 2007 deriva senza dubbio dalla sproporzione tra i regolati e i regolatori di allora: troppo grandi i primi, così grandi da dettare le regole ai piccoli regolatori nazionali catturati, e troppo grandi, sempre i primi, da potere essere sorvegliati da chi aveva solo la visibilità del territorio nazionale.

Bene anche la decisione, imposta dai tedeschi, di lasciare in pace le piccole banche. Così eviteremo che una vigilanza  lontana dal territorio imponga costi addizionali poco giustificati alle banche (ed in ultima analisi alle PMI) locali.

Eppure.

Eppure non sono tranquillo, per niente.

L’Autorità di vigilanza bancaria europea nella BCE e non in un’agenzia indipendente?

Pessimo. Per 3 ragioni.

Perché le regole del gioco, a cui dovrà sottoporsi la BCE, se l’è scritte la BCE, con la Commissione Europea. Conflitto d’interessi immenso per risolvere un problema nato appunto dagli enormi conflitti d’interesse tra regolatori e regolati.

Perché non si è ancora parlato nemmeno un poco di a chi risponderà questa BCE dei suoi errori. Al Parlamento europeo? Magari. Ma come? Poco è dato sapere. E, visti gli scarsi successi dell’Autorità che abbiamo costruito appena pochi anni fa, la EBA, e che già abbiamo bocciato, la domanda è dovuta: come verificare la qualità dell’operato di questa Autorità? La responsabilità (accountability), avrei pensato, avrebbe dovuto essere il punto chiave della governance della nuova autorità bancaria sovranazionale. Ma niente.

Ma il punto fondamentale è un altro e per farlo userò le parole del grande (o poco grande secondo alcuni) Paul Samuelson. Un Samuelson giovane. L’annata è di quella delle grandi vendemmie: il 1945 bellico. Ma è vino ancora buono per i nostri pensieri e dunque ve lo ripropongo, come uscì allora dalle cantine della prestigiosissima American Economic Review:

Traduciamo: “le verità più semplici abbisognano di essere costantemente ripetute. L’attuale dibattito in America suggerisce essere saggio asserire le seguenti due proposizioni:

1. Il sistema bancario nel suo complesso in realtà non è danneggiato da un generale aumento della struttura dei tassi d’interesse. E’, piuttosto, tremendamente aiutato da un simile cambiamento.

2. Una tipica banca singola, presa a sé stante, in realtà non è danneggiata da un generale aumento della struttura dei tassi d’interesse. E’, piuttosto, aiutata da un simile cambiamento.

L’autore di questo articolo vuole rimarcare come egli non creda che aumenti dei tassi d’interesse siano né probabili né desiderabili”.

Così un giovane Paul Samuelson, costretto a ripetere semplici verità.

Che c’entra tutto ciò con la BCE a capo della supervisione bancaria?

C’entra. C’entra perché la BCE avrà due mandati, il controllo dei prezzi (che la rende già intollerabilmente poco attenta alla disoccupazione) e l’attenzione ai bilanci delle banche perché non si crei instabilità finanziaria.

Ma siccome i bilanci delle banche vanno bene quando i tassi d’interesse crescono (come ricorda Samuelson), ecco che magicamente avremo aggiunto un altro motivo affinché la BCE si opponga ad abbassamenti dei tassi per aiutare la disoccupazione ciclica, oltre all’attenzione maniacale alla lotta contro l’inflazione. Una BCE ancora più conservatrice di oggi. Non male eh?

Certo che se ci fosse una gara tra continenti su chi non sa pensare alla felicità degli infelici, beh, sembra che l’Europa di questo scorcio di secolo se la batta alla grande per il primato mondiale.

Grazie Lo.

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Uova e galline europee

I’d like to give you this quote of Professor Zygmunt Bauman, a Polish  sociologist who has become best known for his analyses of postmodernity and  consumerism. It has to do with the fact that you don’t lose sovereignty when you  share it, but you actually regain it.

Mario Draghi, Financial Times Person of the Year 2012.

Le vorrei citare il Professore Zygmunt Bauman, un sociologo polacco che è assurto a notorietà specie per le sue analisi sulla post-modernità ed il consumismo. Ha a che vedere con il fatto che non perdi sovranità quando la condividi, ma anzi la recuperi“.

*

“Dire che un quadro politico non può affermarsi se manca un organismo etnico-culturale vitale non è né più né meno convincente di dire che un organismo etnico-culturale non può diventare e restare praticabile senza un quadro politico funzionante ed attuabile. E’ il più classico esempio del dilemma dell’uovo e della gallina”.

Così Bauman (L’etica in un mondo di consumatori) sull’Europa che dovrà nascere. Europa nazione per creare uno Stato o Europa Stato per creare una nazione? Io mi schiero con la prima opzione, dalla parte dell’uovo, forse.

Ma. Al di là di ciò. Lasciamo parlare ancora Bauman che non concorda con me, sempre che  prevalgano determinate condizioni di democraticità europea:

“Una nazionalità condivisa non è una condizione necessaria di legittimità dell’autorità dello Stato, se lo Stato è un organismo autenticamente democratico.”

Potrebbe anche essere. Ma purtroppo così non è oggi in Europa, confermando a mio avviso la necessità di avviarci prima verso un lento processo che porti ad una nazionalità europea condivisa, grazie alla cultura, ai ponti ed al viaggio, e solo poi verso uno Stato europeo con le sue strutture politiche. Ma vediamo ancora Bauman, interessante, anche perché trovo le mie conferme nelle sue parole:

“Si potrebbe affermare che il nazionalismo colmi il vuoto di legittimazione lasciato (o non riempito in primo luogo) dalla partecipazione democratica dei cittadini. Quando questa è assente, allo Stato non resta che evocare e alimentare i sentimenti nazionalistici.”

Bauman pensa all’Italia ed alla Germania? Probabilmente, ma non resisto a leggere la sua frase sotto una luce europea: chi parla di Europa nazione oggi lo fa per colmare il vuoto di partecipazione democratica europea.

“Lo Stato è costretto a invocare il destino comune della nazione, costruendo la propria autorità sulle disponibilità dei suoi sudditi a morire per il loro paese, se e soltanto se i governati rivestono importanza per i governanti unicamente in virtù della loro disponibilità a sacrificare la propria vita, mentre non è giudicato importante, o addirittura viene rifiutato, il loro contributo alla gestione quotidiana del paese”.

Ecco leggete ora questa frase e pensate allo “Stato” come lo Stato europeo ed al “paese” come all’Europa.

Non è questo che fanno oggi a Bruxelles? Invocare in vuoti discorsi un destino comune di Europa nazione? Costruendo la loro autorità sui “sacrifici” dei governati (quante volte in questi giorni avrete sentito parlare dei “sacrifici fatti”, da non gettare dalla  finestra, grazie alla stupida austerità?) senza permettergli di contribuire alla gestione quotidiana del paese?

Io di Bauman preferisco quei rari passi in cui si perde nella contraddizione di un’Europa che non può che ripartire dalla sua storia e dal suo localismo, quell’Europa, quando cita George Steiner, che “morirà se non combatte per difendere le sue lingue, le sue tradizioni locali, le sue autonomie sociali. Perirà se dimentica che Dio si trova nei dettagli“.

Perire per i sacrifici dell’austerità o perire perdendo il senso della nostra tradizione. Oppure combattere la stupida austerità e combattere per difendere la nostra storia nazionale. Ecco la differenza tra chi chiede uno Stato europeo austero oggi senza nazione e chi come me chiede uno Stato europeo solo dopo che si sia, lentamente, diventati una Nazione unica tramite la solidarietà (sharing) del soccorso a chi al di là del confine nazionale soffre.

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Uomini e contabili

Il 27 giugno 2012 Confindustria prevedeva per il 2013 una crescita del PIL del -0,3%. Citigroup allora prevedeva il -2%.

Oggi Confindustria, a soli 6 mesi di distanza, ha aggiornato la sua stima del PIL 2013 al -1,1%. Citigroup converge anch’essa, stimando il -1,2%.

Sembrerebbe dunque che dobbiamo fare una media delle previsioni delle due istituzioni, una più ottimista e l’altra più pessimista, per arrivare alla stima più corretta? Se così fosse, guardiamo al 2014.

Confindustria prevede per il 2014 un bel +0,6% (sembra quasi un bel numero in questo clima plumbeo). Citigroup il -1,5%. Dunque, se tanto mi dà tanto, la media fa un bel -0,5%. E cioè la recessione che continua, per un terzo anno consecutivo.

La stupida austerità continuerà a mietere vittime peggiorando peraltro i conti pubblici. Monti sostiene che il suo governo va misurato sulle riforme, non sulla recessione da domanda. Non siamo d’accordo, ma comunque verifichiamo. Le riforme come hanno arrestato il declino di competitività? Guardiamo al differeziale del costo del lavoro per unità di prodotto tanto caro ai riformisti.

Oops. Un piccolo disastro.

La vera notizia di oggi è però, ovviamente, la rivoluzione monetaria della Fed statunitense che manterrà i tassi al loro livello minimo fino a quando la disoccupazione non sarà scesa sotto il 6,5% dal 7,8% attuale.

Rivoluzione tecnica, perché mai prima di ora l’obiettivo di policy della Fed era stato legato al tasso di disoccupazione.

Rivoluzione politica, perché mai prima d’ora la disoccupazione era assurta a obiettivo esplicitamente principale della Fed.

Rivoluzione filosofica, perché mai prima d’ora la sofferenza delle persone era entrata nei palazzi della banca centrale dalla porta principale.

La nostra BCE arranca dietro, con la sua stupida fissazione sull’inflazione che non c’è, quando la disoccupazione euro supera l’ 11%, più di 3 punti in più degli Usa. Aspettiamoci un bell’apprezzamento dell’euro che riduce il nostro export, benzina sul fuoco.

Ma non è colpa della BCE, la colpa è della politica europea piccina picciò, che teme la sua ombra, dominata da contabili certificatori di bilancio in perdita invece che da coraggiosi leader.

 

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I cancelli del cielo universitario: apriteli

Andrea Ichino e Daniele Terlizzese da tempo si battono per l’introduzione di una tassazione universitaria più giusta verso le fasce più povere.

Hanno ragione da vendere quando affermano che “le famiglie più povere ricevono perciò, sotto forma di istruzione, un quarto di quanto lo Stato spende per gli atenei: circa 2,2 miliardi. La differenza tra quanto pagano e quanto ricevono (2,7 mld) è un regalo alle famiglie più abbienti …  È un trasferimento inaccettabile, che si perpetua solo perché i più ignorano come stanno realmente le cose. Che possa essere maggiore in Paesi dove l’università è del tutto gratuita non lo rende meno odioso e paradossale”.

Poi continuano: “una volta che questi fatti siano riconosciuti da tutti (da me compreso, NdR), possiamo discutere di come venirne fuori. E qui le prospettive, legittimamente, possono essere diverse. Una, a cui forse aspira Meloni, potrebbe essere che tutti i giovani frequentino l’università, così come già frequentano la scuola dell’obbligo. In questo modo tutti ne fruirebbero in modo uguale ma i ricchi pagherebbero di più per via del prelievo fiscale progressivo, e il paradosso scomparirebbe.”

Mmm. Interessante la proposta Meloni. Provocatoria, ma interessante. Vediamo cosa ne pensano i due economisti:  “si tratta di una prospettiva realistica, o desiderabile? Certamente vanno rimossi tutti gli ostacoli che scoraggiano i ragazzi poveri e di talento dall’acquisire un’istruzione superiore. La qualificazione «di talento» non è però un inciso retorico, va presa sul serio. Il sistema universitario è la modalità con cui la società trasmette la frontiera più avanzata della conoscenza a chi è meglio in grado di riceverla ed estenderla. È un sistema intrinsecamente elitario, perché si fonda su un’ineliminabile disuguaglianza nelle capacità delle persone. È una disuguaglianza che non deve dipendere dalla ricchezza della famiglia d’origine, e bisogna fare ogni sforzo per rompere questo legame; ma così come non è possibile che tutti vadano alle Olimpiadi, è inevitabile che alcuni siano più di altri in grado di prendere il testimone della conoscenza. Ciò non è in contrasto con la nostra Costituzione (art. 34), dove stabilisce il diritto di «raggiungere i gradi più alti degli studi» per i «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi». Anche questa è una qualificazione importante e spesso trascurata: non per tutti, solo per i capaci e meritevoli.  La scuola è e deve essere per tutti: è lì che si devono davvero creare le pari opportunità. L’università è altra cosa.”

Ecco, rimango basito. Per la differenza di visione, per l’abisso che mi separa dalla loro visione.

Il sistema universitario è il sistema che trasmette la frontiera più avanzata della conoscenza? Ma scherziamo? Io al primo anno non insegno la frontiera più avanzata della conoscenza di economia politica ai miei 300 ragazzi (1000 in tutto che mi divido con altri 2 colleghi). Insegno  loro saperi che tramandiamo da decenni,  io e tutti i miei colleghi. In Italia come negli Stati Uniti, insegno sempre le stesse cose. Essenziali. Cerco di insegnarle bene mettendo qua e là riferimenti alla realtà odierna.  Le insegno perché sono essenziali non per scoprire la nuova formula per la felicità eterna o il razzo spaziale che in 30 secondi ci porti sulla luna ma perché servono per imparare meglio come funziona il mondo dove dopo tre o cinque anni (alla fine della laurea) dovranno gettarsi con coraggio leonino.

Quello di cui parlano Ichino e Terlizzese va trasmesso più avanti a quei pochi che decidono di essere interessati alla ricerca pura, a livello di dottorato. E lì non c’è pietà per nessuno: il programma deve essere durissimo. Per  6-7 studenti ogni anno. Così è stato il dottorato che ho avuto l’onore di dirigere e così sono i programmi di dottorato che stimo e che alcuni docenti (non tutti) in Italia si fanno in quattro per mandare avanti malgrado lo scarso riconoscimento per la qualità conseguita.

Parlano di un sistema elitario e mi vien da ridere: la laurea triennale a 1000 studenti  di economia a Tor Vergata elitaria? Ineliminabile disuguaglianza delle capacità? Ma scherziamo? Se sapessero quanti studenti  raggiungono alti livelli partendo da diplomi scolastici di non altissimo punteggio solo perché si sono appassionati ad una qualche materia universitaria e l’hanno abbracciata con tutte le loro forze intellettuali? Tutto sta a far trovare a quei giovani dei docenti che sappiano stimolarli e la scintilla si accende.

Ecco però purtroppo capisco perché ad oggi l’università italiana è ancora troppo elitaria e laurea solo il 20% dei 30-35nni, 24° su 27 nell’Europa che viaggia verso il 40%. Ecco perché non vogliamo altri 50 atenei ma diciamo che ce ne sono troppi: perché c’è chi pensa che l’università debba rimanere “chiusa”, illiberalmente, riservata ai pochi. Così alcuni miei colleghi non si sforzano di insegnare al triennio ma solo ai dottorati, così alcuni i miei colleghi preferiscono bocciare che non dare un 20 o un 22 e far continuare gli studi al giovane senza bloccarlo e poi farlo abbandonare.

Parlo di illiberale non a caso e (ri)cito dunque di nuovo Luigi Einaudi:

Poiché in Italia gli studenti universitari dagli attuali 150 mila circa dovranno in qualche decennio giungere al milione, sarà d’uopo, senza gonfiamento di quelli esistenti, crescere gradualmente il numero degli istituti universitari dai 20 o 30 attuali a 50 e poi a 70 e poi a cento e più. Né, con un milione di studenti e con cento istituti universitari crescerà la disoccupazione falsamente detta intellettuale; anzi diminuirà, perché non si è mai visto che il possesso del sapere – cosa ben diversa dal possesso del pezzo di carta – cresca la difficoltà di trovar lavoro.”

Parlare di università come di Olimpiadi significa non avere capito bene cosa è l’istruzione. Non è una gara, né una competizione, con altri. E’ una meravigliosa esperienza di crescita personale, una gara sì ma solo con se stessi, fatta di apprendimento e conoscenza.

Nulla mi rende più fiero di laureare un  giovane fiero del suo 80 su 110. Perché vedo dietro di lui, che ha gli occhi che ridono, suo padre, con gli occhi pieni di orgogliose lacrime trattenute. Perché a quel padre che non è mai andato all’università, l’università del figlio è il significato di una vita riuscita. Ed ha ragione, perché già pensa a suo nipote, che forse non vedrà nemmeno laurearsi, con il 110 e lode, trent’anni dopo.

Io sto con la Meloni su questo. E con Luigi Einaudi. E con tutti quelli che credono che l’Università non è altra cosa, è la cosa di tutti quelli che “la vogliono”. Di chi ha più da dare e chi ha meno, di chi vuole imparare di più, ognuno col suo bicchiere, piccolino o grande che sia.

Perché i meritevoli della Costituzione sono questi qui: non quelli del 30 o 30 lode, ma quelli che se lo meritano perché desiderano ardentemente imparare e conoscere.

Aprite i cancelli delle università. Ora.

Post Format

Appalti è bello (e innovativo)

Oggi all’università Roma 3 ad ascoltare di politica industriale in tempi di crisi fiscale. Il bel rapporto MET presentato da Raffaele Brancati stimola la curiosità, grazie al grande numero di imprese intercettate dall’indagine.

Ovviamente il mio occhio casca sul tema degli appalti pubblici.

In particolare sul tipo di imprese che partecipano alle gare della Pubblica Amministrazione:

occorre capire se le imprese che partecipano a bandi di gara, e, come abbiamo visto, spesso li vincono, sono più o meno dinamiche in senso strategico rispetto alle altre. A questo proposito è utile osservare che fra le imprese (sia dell’Industria che dei Servizi) che hanno partecipato alle gare di appalto nel 2011 il tasso di investimenti in R&S era notevolmente superiore rispetto a quello relativo alle imprese che, al contrario, non vi hanno partecipato (vedi figura sotto). Questo fatto sembrerebbe suggerire che le gare d’appalto possono aver in qualche modo attratto le imprese più dinamiche”.

 

Ecco. Quando sento chi dice che “gli appalti pubblici vanno buttati dalla finestra (per non dire di peggio)”, mi chiedo se sappiano queste persone quanto è fondamentale per la competitività delle nostre imprese la domanda pubblica. Migliorabile certo, ma essenziale.

Post Format

Se vince la piccola, vince il Paese.

Quale coalizione governerà sarà ovviamente meno importante di quello che saprà fare. Ovviamente.

Per esempio sulle piccole e medie imprese.

Avrà il coraggio di buttare dalla finestra le vecchie usanze negli appalti pubblici a favore delle grandi imprese e riservare invece una buona parte del sotto soglia (le gare d’appalto non troppo grandi) esclusivamente alle piccole imprese, come negli Stati Uniti fanno da 60 anni ed in Brasile da 6?

Come! Non si può fare (sì, si può, se solo lo si vuole).

Come! Ridurre la concorrenza?

Ma quale concorrenza. Quando sono presenti le grandi, le piccole rinunciano. Troppo impari la lotta.

E chi se ne frega! L’importante è pagare e spendere poco, non è far vincere le piccole.

Pensa che negli Stati Uniti non la pensano così. Pensano che un piccolo maggiore costo oggi si ripaga con una piccola impresa con più probabilità di sopravvivere domani, garantendo gare più competitive in futuro e un tessuto industriale più sano e competitivo capace di affermarsi con più facilità nel mondo.

E poi … chi l’ha detto che se vietiamo le gare pubbliche alle grandi, il prezzo di aggiudicazione debba per forza salire? Non abbiamo detto che parteciperebbero più piccole se le grandi rinunciano o meglio se sono obbligate a rinunciare?

In effetti… la questione è problematica: quale dei due effetti prevale: la minore partecipazione delle grandi o la maggiore delle piccole? E effettivamente partecipano più piccole?

Arriva un nuovo importante studio di 3 ricercatori della London School of Economics sul tema. Analizzano le gare del governo brasiliano sotto la soglia di 80.000 reali brasiliani (30.000 euro circa) là dove sono state vietate alle grandi imprese e là dove sono invece rimaste a queste aperte.

Scoprendo che …

Che aumenta la partecipazione delle piccole quando alle grandi non è permesso partecipare. E che il costo complessivo sulla singola gara (quello rilevante oggi per il contribuente) rimane immutato. Ma domani, domani … Quelle piccole che hanno vinto e non avrebbero vinto con la grande in gara, chissà quali cose meravigliose faranno che non avrebbero fatto altrimenti, dall’avere imparato un mestiere (fare impresa) grazie alla domanda pubblica. Chissà …

Ecco, dopo un Governo che per la PMI ha fatto poco e niente, ci auguriamo un Governo che dalla mattina alla sera pensi che piccolo è bello e soprattutto che crescere è meraviglioso. Vale per la piccola impresa come vale per un piccolo grande Paese oggi in difficoltà. Che ha voglia di tornare giovane e scommettere su un futuro di crescita e successi in giro per il mondo.

Se vince la piccola, vince il Paese.

Grazie Marta.