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Auguri all’Anti Corruzione. Auguri a noi che non ci siamo piu’

Oggi, 9 dicembre, come ogni anno, festeggiamo la giornata ONU dell’Anti Corruzione in tutto il mondo.

Potrete leggere il messaggio del Presidente delle Nazioni Uni qui.

Sullo stesso sito potrete vedere le iniziative che ogni paese svolge per sensibilizzare contro la corruzione.

In special modo emergono le autorità anti corruzione dei vari paesi.

Che tristezza, c’è anche l’Italia.

Dove non appare nessuna Autorità Anti Corruzione. Nessuno del governo italiano si è preoccupato di avvertire l’Onu che esiste un Dipartimento preposto presso il Ministero della Pubblica Amministrazione. Nessuno presso il governo che abbia sentito lo scatto di orgoglio di avvertire che la Civit secondo la nuova legge è la nuova Autorità. Forse perché a nessuno in questo governo interessa. Ribadisco: avete fatto la legge, quante risorse stanziate per la Civit perché possa essere una vera Autorità anti corruzione? O era tutto uno scherzo?

Ma l’incredibile sorpresa non è questa. E’ quella di vedere come l’unico link italiano sull’anti corruzione questo: ” Per una Cultura dell’Integrità nella Pubblica Amministrazione“, Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione (SSPA) http://integrita.sspa.it/ .

L’unico link.

Si dà il caso che ne sappia qualcosa di quel link. E che ne sappia qualcosa il mio amico e insigne giurista Bernardo Mattarella. Siamo stati i coordinatori di quel progetto presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. Abbiamo dato il sangue per quel progetto. Strapagati, abbiamo dato il sangue. 1 anno, indimenticabile. Abbiamo creato un blog sulla corruzione, abbiamo fatto lezioni ai dirigenti pubblici, un sito informativo, seminari, lezioni, convegni, lottato per le statistiche. Abbiamo.

Non Bernardo ed io. Una incredibile squadra di giovani studenti e vecchiotti. Statistici, economisti, giuristi, politologi. E si sono accorti di noi: all’Onu ed altrove.

Il progetto cresceva, così l’entusiasmo dei giovani. Grazie ai fondi stanziati dalla Scuola diretta da Giovanni Tria.

E poi, sul più bello, quando avevamo stabilito una crescente reputazione … è tutto finito. Senza un motivo, né una ragione direbbe Cocciante.

Davamo fastidio al governo Berlusconi che ci pagava? Macché, eravamo una zanzara. E’ il paese, che sa creare e poi dimenticare, che non sa manutenere, curare le sue (piccole) cose preziose.

Sta di fatto che ancora oggi … siamo i soli a essere riconosciuti dall’Onu. Una sorta di medaglia al milite ignoto? No, ignoti non devono rimanere, sono, siamo, stati grandi e vi voglio ricordare i loro nomi:

Stefano Angelucci,  Elisabetta Baldolisani, Cristiano Bellavitis, Federica Bissiri, Simone Borra, Laura Brandimarte, Enrico Calossi, Annalisa Castelli, Raffaella Coppier, Giorgi De Nora, Emiliano Di Carlo, Marta Fana, Giacomo Gabbuti, Alessandro Giovannini, Alessia Guidotti,  Elisabetta Iossa, Claudia Macaluso Samuel Mantin, Veronica Marotta, Bernardo Mattarella, Giorgia Mennuni, Michela Mingione, Elisabetta Morlino, Gianluigi Nico, Lucio Picci, Gustavo Piga, Mario Savino, Giancarlo Spagnolo, Alberto Vannucci.

Though nothing will drive them away. We can beat them, just for one day. We can be Heroes, just for one day. Nothing will keep us together. We can be Heroes, for ever and ever.

Thank you guys. It’s been fun.

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Quella BCE immobile che osserva e commenta la crisi

Continuiamo con i dati della stupida austerità?

E perché no.

Ecco come a distanza di soli 3 mesi la BCE aggiorna le sue previsioni sull’area euro. Ed a soli 3 mesi di distanza … la forchetta del PIL euro 2013 peggiora di minimo 0,5% nella sua stima pessimistica e di … 1,1% in quella ottimistica. Siamo ad un passo dal secondo anno successivo di recessione euro. Un disastro.

Una recessione dovuta alla scellerata austerità che mette a repentaglio la stessa sopravvivenza dell’euro e dell’Europa, e che nulla ha a che vedere con fattori fuori dal nostro controllo.

Lo conferma il miglioramento della previsione sull’inflazione. E’, quella che sperimentiamo, una crisi da domanda aggregata interna che evidentemente stempera gli aumenti dei prezzi.

La BCE lo conferma, come se fosse un tranquillo osservatore sugli spalti e non un giocatore:

l’export all’interno dell’area dell’euro è stimato crescere molto meno dell’export fuori area euro a causa della relativa (!!, NdR) debolezza della domanda interna all’area euro”.

gli investimenti pubblici sono stimati decrescere fino alla fine del 2014 (!! NdR), a causa del consolidamento fiscale in molti paesi dell’area euro“.

Qui non è più solo questione di criticare i Governi dell’area euro né la BCE per le sue previsioni sempre errate. C’è da svegliare la BCE una volta per tutte facendola scendere in campo: cambiando una volta per tutte il mandato della BCE adeguandolo a quello della Fed Usa, con inflazione e disoccupazione i due mali da combattere.

Draghi sostiene da Budapest, commentando l’interessante caso di una banca centrale in Europa (quella ungherese) che non si adegua così facilmente alle visioni di Francoforte, che “un prerequisito chiave di una politica monetaria credibile è l’indipendenza della banca centrale” (in corsivo nel testo del Governatore). Parla al Governo ungherese a muso duro.

Sarebbe bene che anche i Governi cominciassero a parlare alla BCE.

Perché lo possono fare.

Sostiene, il Governatore Draghi, che “l’obiettivo principale della politica monetaria dovrebbe essere la stabilità dei prezzi, e la politica del tasso di cambio dovrebbe essere trattata come materia di interesse comune”.

Giusto sulla stabilità dei prezzi, ma solo perché lo hanno voluto i Governi che hanno firmato i Trattati. Così come hanno firmato questo obiettivo anni addietro possono modificare tale obiettivo e imporne uno diverso alla BCE, appunto come quello che deve perseguire la Fed statunitense. Sarebbe cosa, lo ripeto, ormai essenziale per svegliare dal suo sonno meramente anti-inflazionistico la BCE. Sarebbe a quel punto, per fare un esempio, impossibile dire frasi come quella sugli investimenti pubblici senza tradire il proprio mandato: la stessa politica fiscale diverrebbe più intelligente se la politica monetaria lo diventasse.

Giusto anche sul tasso di cambio come materia d’interesse comune, sempre senza dimenticare che tale questione spetta, esplicitamente secondo il Trattato, al Consiglio Europeo (ed alla Commissione) e non alla BCE.

Quindi cominciamo a parlarne. Un’alleanza con Hollande al riguardo del prossimo Presidente del Consiglio, e dopo le elezioni tedesche, potrebbe divenire materia che coagula un’alleanza per una politica economica europea meno irresponsabile.

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Il bello che è nell’uomo e nell’economia

Il mio Dipartimento di Impresa Governo Filosofia tira alla grande e organizziamo eventi dopo eventi, per pensare “out of the box”. Per un economista essere esposto alla diversità dei linguaggi e dei pensieri è ossigeno puro. Sono felice.

Oggi a parlare di homo economicus. Egoista, razionale, chiaroveggente? Anche ma non solo. Da tempo lo studio dell’economia ha superato questo quadro semplicistico, fosse anche solo per “stilizzare” il comportamento umano.

Eppure rimane uno iato, tra la microeconomia che si è affinata per aprirsi al dialogo con altre scienze cognitive, la microeconomia i cui soggetti di studio possono essere altruisti, irrazionali, miopi, pieni di rimpianti ed impazienza, e la macroeconomia che resta ben più chiusa come dice Phelps, nella sua torre d’avorio.

Soffre la macroeconomia, di una mancanza di apertura alle nuove scienze ed alle loro scoperte. Come se il “tutto” fosse immune dal comportamento dei singoli, sempre un passo indietro.

Non è una storia nuova.

Lo era con Adam Smith e la sua mano invisibile della Ricchezza delle Nazioni, in cui tanti imprenditori costellano il cielo dell’economia ma non intendendo ”perseguire il pubblico bene, (mirando) soltanto al guadagno proprio; ed in questo … (sono) guidat(i) da una mano invisibile a promuovere un fine, che non rappresentava alcuna parte delle (loro) intenzioni. Né è sempre un danno per la società che quel fine non rientri nelle (loro) intenzioni. Nel perseguire l’interesse proprio, (essi) spesso promuov(ono) quello della società più efficacemente che quando realmente intenda(no) promuoverlo. Non ho mai saputo che sia stato fatto molto bene da coloro i quali affettano di commerciare per il bene pubblico …”.

Insomma una economia meravigliosa costellata di individui gretti ed egoisti.

Ancora più lampante la fallacia di aggregazione nell’opera mirabile della Teoria dei sentimenti morali in cui Smith anni prima addirittura affermava come: “i ricchi non fanno altro che scegliere nella grande quantità quel che è più prezioso e gradevole. Consumano poco più dei poveri, e, a dispetto del loro naturale egoismo e della loro naturale rapacità, nonostante non pensino ad altro che alla propria convenienza, nonostante l’unico fine che si propongono dando lavoro a migliaia di persone sia la soddisfazione dei loro vani e insaziabili desideri, essi condividono con i poveri il prodotto di tutte le loro migliorie. Sono condotti da una mano invisibile a fare quasi la stessa distribuzione delle cose necessarie alla vita che sarebbe stata fatta se la terra fosse stata divisa in parti uguali tra tutti i suoi abitanti, e così, senza volerlo, senza saperlo, fanno progredire l’interesse della società, e offrono mezzi alla moltiplicazione della specie. Quando la Provvidenza divise la terra tra pochi proprietari, non dimenticò né abbandonò quelli che sembravano essere stati lasciati fuori dalla spartizione.”

Ma siamo proprio sicuri che questa mano invisibile non era uno strumento di comodo per rendere invisibile ai più il distacco evidente tra una credenza in una natura umana (gretta) e funzionamento complessivo (mirabile) dell’economia?

Di una simile schizofrenia soffre anche Keynes quando, in “Possibilità economiche per i nostri nipoti”, afferma come l’imprenditore capitalista sia un misero Zio Paperone intento a contare il vile denaro, figura, quella dell’imprenditore, di cui nel tempo ci sbarazzeremo: “l’amore per il denaro in quanto possesso (e non in quanto mezzo finalizzato alle gioie e alle realtà dell’esistenza) sarà riconosciuto per quello che è, una morbosità alquanto disgustosa, una di quelle propensioni semicriminali e semipatologiche da affidare rabbrividendo agli specialisti di malattie mentali. Saremo finalmente liberi di disfarci di tutte quelle usanze e pratiche sociali che oggi determinano la distribuzione della ricchezza e dei premi e castighi economici e che noi manteniamo a tutti i costi, per quanto disgustose e ingiuste in sé, soltanto perché enormemente utili a promuovere l’accumulazione capitalistica.”

Ce ne sbarazzeremo per finire non si sa bene come in uno stato stazionario contemplativo in cui “torneremo ad attribuire maggior valore ai fini che ai mezzi e a privilegiare il bene rispetto all’utile. Onoreremo coloro che insegnano a cogliere l’ora e il giorno virtuosamente e bene, le belle persone che sono capaci di godere delle cose come sono, i gigli del campo che non lavorano e non filano.”

O caro Keynes, genio malgrado pensassi che tale stato contemplativo sarebbe arrivato (e mai arriverà) nel 2030, non è forse la smania di dipingere negativamente l’imprenditore, senza capirne il ruolo positivo, che ti portò a fare previsioni così sbagliate sul futuro dell’umanità? E’ quel che mi chiedo, pensando ai tanti economisti che, nel non capire l’homo economicus “vero”, finiscono per non capire come funziona l’economia attorno a loro.

E’ un peccato che Keynes, nel teorizzare su questi temi abbia ignorato alcuni illuminanti riflessioni del suo maestro Alfred Marshall, il quale affermava che “al chimico o al fisico può capitare di fare soldi grazie alle sue invenzioni, ma raramente questa è la vera motivazione del suo lavoro…gli uomini d’affari sono d’indole molto simile a quella degli scienziati perché hanno la stessa inclinazione naturale alla caccia, e molti di loro hanno la stessa capacità di sentirsi stimolati a sforzi intensi e perfino frenetici da desideri di emulazione che non hanno alcunché di gretto o ignobile. Questa parte della loro natura è stata però fraintesa e messa in ombra dal loro desiderio di fare soldi…E così tutti i migliori businessmen vogliono fare accumulare denaro, ma a molti di essi non interessa il denaro in quanto tale: lo vogliono soprattutto come prova lampante, per se stessi e per gli altri, di aver raggiunto il successo”.

Ecco, che se decidessimo finalmente che il bello è nell’uomo e per questo il mondo è bello, forse capiremmo ben di più quello che ci circonda.

Ma per fare questo noi economisti dovremmo prima parlare con chi il bello lo ha studiato. Così, come dice Phelps, riusciremmo a diventare quello che dovremmo essere veramente, una scienza non della razionalità egoista ma della creatitività che ci circonda e ci illumina. Quel giorno nessuno farà più errori di previsione né scellerate politiche economiche.

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Gangs of New York, China ed Italy

Quanto galoppa la corruzione in Cina, mamma mia. Specie se uno legge i giornali americani, che paiono fissati sulla questione.

In realtà è noto che quando un Paese si avvia verso un percorso di industrializzazione la corruzione cresce. Con la successiva crescita economica e lo sviluppo il Paese ottiene risorse e cultura per combattere la corruzione che declina inesorabilmente. Insomma una relazione ad “U” rovesciata: nelle prime fasi di sviluppo più corruzione e poi minore.

Questa è perlomeno la storia degli Stati Uniti.

Vi ricordate le incredibili gangs of New York del grande Scorsese? Così corrotta l’America del 1860. Quella del: “Remember the first rule of politics. The ballots don’t make the results, the counters make the results. The counters. Keep counting.” (“ricordati la prima regola della politica: le urne non determinano i risultati, gli scrutatori determinano i risultati. Gli scrutatori. Continua a contare i voti“).

Ma quanto era corrotta quell’America? Più o meno della Cina odierna?

Ecco questa è una domanda che val la pena porsi. E’ l’unica domanda valida. Non certo valido è il paragone tra Cina e Stati Uniti odierni, come paragonare mele e banane. Bisogna paragonare due paesi a parità di ricchezza, ce lo hanno insegnato bene Simone Borra ed Annalisa Castelli nel loro lavoro sulla corruzione: quando un Paese è più ricco è ovviamente più capace di combattere e sconfiggere la corruzione.

Se la è posta, questa domanda, Carlos Ramirez di George Mason University. Che ha notato, basandosi sul numero di menzioni sui giornali dei casi di corruzione, come la Cina di oggi è più corrotta di quella del 1996. Ma.

Ma nel 1996 la Cina era ricca come gli Stati Uniti di Scorsese, e cioè quelli del 1870. Banane con banane. E scopre, Ramirez, che il numero di crimini di corruzione negli Usa, riportati sui quotidiani americani di allora (1870), era 8 volte maggiore di quello della Cina del 1996.

Non solo.

Ma che la Cina di oggi, più ricca e ricca come gli Usa del 1928 (eh, si, quello che la Cina ha fatto in 15 anni gli Usa fecero solo in 50 …) appaiono parimenti corrotti.

Ecco il grafico affascinante proposto dall’autore (in rosso la Cina dal 1996 al 2009, in nero gli Usa dal 1870 al 1928, sull’asse delle ascisse il reddito reale pro-capite in dollari per Cina ed Usa).

 

Quindi calma e gesso. Non c’è molto di anomalo nella corruzione cinese in crescita. E’ probabile che nel tempo cali, come ha fatto negli Usa.

PS: ah scusate. Borra e Castelli hanno rifatto le classifiche della corruzione tenendo conto del livello di ricchezza. Senza tenerne conto, della ricchezza raggiunta, l’Italia è classificata 72° come capacità di essere percepita come poco corrotta. Pensate sia un cattivo risultato? Aspettate e ascoltate. Se tenessimo conto che l’Italia fa parte della fascia alta dei paesi quanto a ricchezza, allora in classifica siamo messi ben peggio. Ben peggio. Ma proprio messi male. E se il lavoro di Ramirez indica la crescita come meccanismo decisivo per trovare le risorse per sconfiggere la corruzione, allora stiamo freschi, il nostro Paese non solo non combatte la corruzione, ma non combatte nemmeno il nemico numero uno dell’antidoto contro la corruzione: la recessione. Goodnight Italy.

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Istruzioni sull’istruzione, da parte di chi Monti ammira come nessun altro

Buongiorno Principessa! direbbe qualcuno che conosco.

Mi sveglio e mi ritrovo sulla mail due cari colleghi che mi chiedono di leggere questo articolo sul web del Sole 24 Ore.

Lo dedico a Mario Monti che, come ricorderete, ha chiesto pochi giorni fa che il 2013 diventasse l’anno del capitale umano, dell’istruzione.

L’articolo parla di due piccoli Paesi, Finlandia e Corea del Sud, che non nel 2013 ma da almeno un decennio hanno rivoluzionato il loro modo di fare istruzione.

Prendete la Corea del Sud per esempio. L’articolo contiene un errore, credo: che la Corea del Sud spenda il 15% del suo PIL in istruzione, in realtà 15% è l’ammontare di spesa pubblica per istruzione sul totale della spesa pubblica, comunque abbondantemente superiore alla media del 13% dell’Ocse. A ciò va tuttavia poi aggiunto l’incredibile 40% di spesa privata sul totale di spesa per l’istruzione.

Ebbene la Corea, che nel 1997 aveva il 38% di popolazione tra i 25 e 64 anni senza diploma, al 2010 aveva ridotto questa percentuale al 20%. Allo stesso tempo che la quota dei laureati tra 30-35enni, oggi al 20% in Italia, è del 60% in Corea.

Già i laureati. Cresciuti in maniera esponenziale. In Corea. Cosa ci vuole per far crescere il numero di laureati? Qualità e quantità. Risorse e … già, lo so che lo sapete.

Tanti tanti atenei. Molti di più di quelli di oggi. Come chiederemo nel programma dei Viaggiatori in Movimento. Come abbiamo scritto da tempo su questo blog.

Senza sapere, fino ad oggi, che qualcun altro l’aveva detto prima di noi. Incredibile. Un qualcuno che Monti ha confessato considerare “l’italiano che ha ammirato più di tutti”. Un qualcuno spesso citato da tanti (compreso il sottoscritto) per nobilitare il proprio pensiero. Nientepopodimenoche. Leggete. Legga Monti. E si dia per favore da fare per il 2013. Almeno per il 2013. La lasci, una traccia, una traccia, Presidente, che resti.

Poiché in Italia gli studenti universitari dagli attuali 150 mila circa dovranno in qualche decennio giungere al milione, sarà d’uopo, senza gonfiamento di quelli esistenti, crescere gradualmente il numero degli istituti universitari dai 20 o 30 attuali a 50 e poi a 70 e poi a cento e più. Né, con un milione di studenti e con cento istituti universitari crescerà la disoccupazione falsamente detta intellettuale; anzi diminuirà, perché non si è mai visto che il possesso del sapere – cosa ben diversa dal possesso del pezzo di carta – cresca la difficoltà di trovar lavoro.”

Luigi Einaudi

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Finalmente, l’organismo parlamentare di bilancio. Ora esprimetevi. Pretendete. Vociferate.

Ci siamo così tanto occupati in questi ultimi giorni di informazione nascosta al pubblico, fosse essa tramite lo scandaloso verdetto sui derivati della Grecia che la BCE non vuole rivelare, le contraddizioni dell’OCSE nelle sue raccomanaazioni, i conflitti d’interesse dei previsori.

Non l’ho fatto apposta, ma siccome nulla mai succede per caso, eccomi, a causa di una novità, a chiudere il ragionamento in maniera circolare.

Voi avrete forse letto in questi giorni su alcuni quotidiani di una imminente riforma: quella della creazione di un ”Organismo indipendente per l’analisi e la verifica degli andamenti di finanza pubblica e per la valutazione dell’osservanza delle regole di bilancio“, un organismo indipendente per l’analisi e la verifica degli andamenti di finanza pubblica e per la valutazione dell’osservanza delle regole di bilancio.

Una riforma epocale? Direi di sì. Significa abbattere il monopolio del controllo dei dati della Ragioneria Generale dello Stato, una battaglia che Mario Baldassarri per anni ha combattuto solitario in Parlamento. Significa consegnare all’opposizione l’arma per verificare meglio potenziali trucchi di bilancio, la veridicità delle ipotesi, la credibilità delle assunzioni.

Ce lo impone l’Europa, non ci siamo svegliati migliori. L’Europa serve eccome. L’Europa ci lasciava aperta la possibilità di scegliere se fare un’agenzia indipendente all’inglese o un organismo all’interno del Parlamento come il Congressional Budget Office americano. In maniera intelligente abbiamo scelto la seconda: non perché il modello britannico non abbia vantaggi, ma in Italia sarebbe stato immediatamente catturato o bloccato dal Governo (mi vengono in mente i tanti bravi colleghi all’Isae ora chiuso e le battaglie che dovevano fare per dire che la crescita era dello 0,1% inferiore a quella prevista dal Governo).

Ci sono oggi tre proposte che giacciono in Parlamento. I tempi sono stretti e speriamo che non accelerino: la fretta può giocare brutti scherzi ed è bene che questa riforma così essenziale non sia sbagliata. Tornare indietro come sappiamo è pressoché impossibile e dunque sbagliare generebbe danni incalcolabili per il Paese. In gioco è la credibilità dei conti pubblici e dunque, come ha dimostrato anche la storia greca (recente), la natura della democrazia.

I punti chiave? La faccio rapida: sono solo due e vanno affrontati congiuntamente per una buona legge.

1) La questione del vertice dell’Organismo;

2) la questione della nomina del vertice.

Il disegno di legge “Azzollini” (Senato) AS 3579 prevede l’organismo sia “costituito da un consiglio di cinque membri di cui uno con funzioni di presidente, nominati con determinazione adottata d’intesa dai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, tra persone di riconosciuta indipendenza e comprovata competenza ed esperienza in materia di economia e di finanza pubblica.”

Il disegno di legge “Agostini” (Senato) AS 3578 prevede esso sia: “La responsabilità dell’Ufficio è affidata ad un Direttore, nominato con deliberazione dei Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, su proposta delle Commissioni parlamentari competenti in materia di finanza pubblica adottata a maggioranza dei due terzi dei componenti. Il Direttore è scelto tra persone di riconosciuta indipendenza e comprovata competenza ed esperienza in materia di economia e di finanza pubblica a livello nazionale e internazionale.”

La proposta della Camera dei Deputati “Giorgetti” AC 5603, prevede esso sia “costituito da un Consiglio di tre membri, di cui uno con funzioni di presidente, nominati con determinazione adottata d’intesa dai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, nell’ambito di un elenco di dieci soggetti indicati dalle Commissioni delle due Camere competenti in materia di finanza pubblica a maggioranza dei due terzi dei rispettivi componenti. I membri del Consiglio sono scelti tra persone di riconosciuta indipendenza e comprovata competenza ed esperienza in materia di economia e di finanza pubblica da individuare tra magistrati della Corte dei Conti conti, professori universitari ordinari di università italiane o estere, consiglieri parlamentari della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, dirigenti della Banca d’Italia, dirigenti generali delle amministrazioni pubbliche statali, dirigenti di enti pubblici di ricerca e funzionari titolari di incarichi di direzione di organizzazioni internazionali e delle istituzioni europee.”

A parte la tristezza di vedere che per la Camera anche una funzione così tecnica come questa potrebbe essere affidata a un magistrato della Corte dei Conti e non a un economista (perché la prossima volta non nominiamo Governatore della Banca d’Italia un cortecontino?), vedete bene dove sono le differenze.

Chi nominiamo? Un solo Presidente o un collegio di componenti con un Presidente? A prima vista sembrerebbe ovvio: più membri così più garanzia di democraticità. Eppure non sarebbe così. Il processo di nomina vedrebbe un compromesso al ribasso di 3 o 5 membri scelti sulla base di accordi politici. Troppe volte lo abbiamo visto, con le autorità c.d. “indipendenti”. Riaccadrebbe.

Abbiamo anche visto cosa accade quando si è costretti a scegliere uno solo. Lo abbiamo visto quando abbiamo dovuto eleggere con le nuove regole il Presidente dell’Istat: l’accordo è stato al rialzo e non politico. Abbiamo eletto Enrico Giovannini (di cui sono collega di Università e franco ammiratore e dunque avverto il lettore che inq uesto caso sono in pieno conflitto d’interessi), e a mio avviso è stata una splendida scelta per il nostro Paese. Competente, brillante, internazionale. Un solo candidato aumenta la probabilità che i partiti abbandonino la lottizzazione e scelgano tra i veramente migliori e più indipendenti.

Sempre che ….

Sempre che siano effettivamente i partiti a scegliere. Se questa scelta fosse lasciata a maggioranze semplici o a singoli individui come i Presidenti del Senato e della Camera, i rischi che anche una sola persona venga a caratterizzarsi come politicizzata e/o poco competente diverrebbero altissimi nuovamente. E’ già successo.

Ecco perché mi schiero senza se e senza ma per la proposta Agostini. Dovreste farlo anche voi. Ne va del futuro del nostro Paese. Un’occasione che non possiamo perdere. Esprimetevi. Vociferate. Pretendete. Noi lo faremo.

Grazie C.

 

 

 

 

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Il dilemma dell’economista raccontato alla regina Elisabetta

Nuovamente una bellissima giornata, grazie all’amico Viaggiatore Pietro Terna (il coordinatore della proposta sul lavoro, bravissimi!) e a Fabio Paglieri, al CNR a parlare di scienza cognitiva e della crisi “delle menti” (compresa la mia, sans doute, ;-) ). Se qualcosa di bello sta accadendo attorno a me in questi mesi, è quella di assistere a, e condividere, questo crescente desiderio di persone di settori scientifici e culturali diversi di volersi incontrare ed avviare un dialogo per colmare barriere prima di tutto linguistiche e poi di conoscenza reciproca.

Molti di noi oggi sono partiti dalla famosa frase della Regina d’Inghilterra dopo la prima crisi del 2008, “how come everyone missed it?“, “come mai nessuno l’ha vista arrivare?”. Anche alla luce degli incredibili nuovi svarioni di previsione dei vari governi europei sulla crescita 2012-2014, compreso il Governo Monti ovviamente.

Avendo la fortuna di ascoltare prima gli altri bellissimi interventi mi è venuto il sospetto che la domanda di Sua Maestà fosse incompleta e che ad essa andasse aggiunto un “o nessuno l’ha voluta vedere?”.

Perché ogni volta che si parla di informazione e conoscenza non si può negare che si debbano inserire queste nella società con cui esse interagiscono. E siccome informazione e conoscenza da sempre sono potere, non è ovvio che il fato delle prime non sia alla mercé del secondo.

E allora, perché mi aiuta a semplificare pensieri complessi, poco prima di prendere la parola mi sono fatto la mia solita semplicista bi-matrice che cerca di dividere il mondo in semplicistiche categorie. In questo caso mi sono detto che devono esistere 4 tipi di economisti, a seconda di come sono stati capaci di approfondire e capire i fenomeni economici e sociali prima e durante la crisi e di come sono capaci di gestire tale conoscenza nel reame della condivisione di tale sapere con il pubblico.

Ci sono – cella in alto a sinistra in verde – quelli che conoscono (conoscevano) la verità dei dati ( parte di essa) e l’hanno comunicata. Tipicamente sono economisti complottisti, e/o poco noti e certamente con pochi sbocchi sulla stampa, e a volte con una qualche dose di coraggio. Raramente vivono di consulenze con il settore privato di tale portata da sentirsi vincolati a non analizzare criticamente i dati e la realtà che li circonda, cosa che sanno fare con una qualche bravura, a volte monomaniacale e ripetitiva.

Poi ci sono – cella in basso a destra in verde - quelli che non conoscono la verità dei dati e non l’hanno comunicata. Sono svariati. Tra di loro molti economisti che credono che non ci sia nulla prevedere e tutte le novità siano incertezza non prevedibile ex-ante (mi pare che anche Michele Boldrin si sia inserito in questa categoria). In parte hanno un bel po’ di ragione da vendere: una parte dei disastrosi errori di previsione del Governo Monti sull’economia già discussi su questo blog non possono essergli addebitati e sono errori che hanno fatto tante amministrazioni pubbliche e tanti economisti per altri paesi. Ma in questa categoria ci sono anche quelli che hanno cercato di prevedere ed hanno sbagliato perché in buona fede usano il modello sbagliato dell’economia. Oltre ai tanti colleghi a cui fa giustamente riferimento il Nobel Ned Phelps quando dice che “… una vera economia moderna è tutta fatta di uomini ed idee. La scienza economica ha contribuito ad allontanarci da questi principi riducendo le economia a ‘modelli stocastici di stato stazionario’ nei quali i prezzi sono l’unica cosa che interessa …  (ma mentre) essa avrà (e dovrebbe avere) un lato scientifico, deve ricordare che nessuna evidenza è mai sufficiente se presa in isolamento e dobbiamo comprendere che il nostro oggetto di studio è la creatività umana“,  ci sono poi gli analisti di banche e Tesori che usano modelli sbagliati perché ancora faticano ad incorporare variabili che solo filosofi, scienziati, sociologi, politologi, storici potrebbero aiutarci ad inserire, felici invece di usare modelli che vanno bene quando non ci sono grandi sorprese, ma disastrosi per quegli eventi di grande portata in cui più di tutti conterebbe una reazione rapida ed incisiva della politica economica.

Mi piacciono di più queste due categorie, ecco perché le ho messe in verde. Le trovo Ok, umanamente deboli, ma Ok.

Mi piacciono meno quelle categorie in rosso che suppongo debba esistere in tutto il mondo. Strapiene di conflitti d’interessi mal gestiti.

Ci sono quelli che conoscevano ma non hanno detto. Se non erano dei codardi, erano dei personaggi sul grigio andante, ma spesso erano e sono consulenti o amici di grandi banche (private o centrali) o di governi che non volevano si rivelasse la verità (sui dati). Sono quei membri di Governo che modificano i dati o che non ne raccontano l’evoluzione appena ne sono a conoscenza.

Ci sono infine quelli che non conoscevano ma che hanno detto. Detto cosa? Qualcosa, quello che gli è stato detto di dire, quello che hanno pensato valesse la pena di dire per far contento qualcuno dei propri capi o del proprio gruppo di pensiero di riferimento. O che hanno detto perché pagati da un’azienda senza capire perché l’hanno detto. O qualche funzionario di governo che non sapendo se tutto sarebbe andato bene ha preferito dire che tutto andava bene.

Umanità varia,certo. Ma per fortuna i “rossi” son pochi ed i “verdi” tanti. Pochi e potenti? Poco importa. Son pochi. Ed è stato bellissimo stasera contarci e capire che c’è un’Italia che vuole scommettere sul sapere, su di un settore pubblico su cui si investa con serietà e rigore a sostegno di un settore privato vibrante. Tutto è a portata di mano. Basta avere conocenza e saperla usare bene.

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Incontri ravvicinati di un qualche tipo

Ieri ero a Verona. La bellissima Verona. Ho assistito per la prima volta, in diretta ed in presenza, ad un discorso di Monti.

L’occasione era ghiotta per ascoltare un collega che era diventato così importante per i destini contingenti e forse duraturi del mio Paese.

E’ piaciuto molto alla platea, specie ai molti giovani presenti, un elemento che mi ha stimolato ed incuriosito ancora di più a cercare di comprendere.

E’ piaciuto il suo discorso o la sua persona? Direi più la seconda. In fondo gli applausi sono venuti più all’inizio, alla fine e quando si arrestava e con leggiadria elegante, spontanea, ironica, interagiva con la platea. Durante il discorso e le sue risposte alle domande la platea era piuttosto annoiata o distratta.

Io non ero distratto. Ero attentissimo. Pendevo dalle sue labbra. Cercavo di capire il modo di ragionare, le enfasi retoriche, la comunicazione, il modello economico che sosteneva il suo pensiero. Ovviamente non è vero, come diranno alcuni miei lettori, che non c’è un modello economico o addirittura che c’è il modello economico dello sfruttamento “funzionale all’espansione del regime germanico”. Anzi, lui stesso ridicolizza tale visione in un passaggio specifico, rivendicando le sue origine nordiste ed il suo spasmodico interesse per i destini delle imprese del Nord.

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C’è una visione dell’Europa cauta. Attenzione. E’ cauto nel comunicare, non so invece quanto sia cauto nel progetto che ha in mente. Parla di una graduale, coordinata e condivisa cessione di sovranità, ma soprattutto gli sfugge, ma è solo un secondo: un “più la si sbandiera, meno la si riesce a fare”. Ecco una divisione fondamentale con il mio modo di vedere. In effetti questa Europa in questo anno è stata costruita nel segreto. Ma non per complotto, credo, per timore della democrazia. Un fallimento che genera altri fallimenti, a catena.

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Lo hanno ripreso i giornali, l’opinione di Monti è che i numeri di recessione e disoccupazione avrebbero potuto essere più bassi, ma solo al costo di “ripresentarsi successivamente, peggiori”. Quindi un Monti che è conscio che le sue politiche sono recessive ma che nel lungo periodo l’economia se ne gioverà.

Ci sono due modi di razionalizzare questa visione del Presidente.

a) “L’isteresi non esiste”: gli effetti di breve non hanno ripercussioni di lungo periodo. Non siamo d’accordo, ovviamente. Questa disoccupazione giovanile, tanto più si protrae, tanto più espellerà giovani dalla forza lavoro, per sempre. Senza il minimo dubbio. Questa crisi, tanto più si protrae, tanto più probabile renderà l’uscita dall’euro. Senza il minimo dubbio, a maggior ragione vista la tentazione di “non sbandierare” quali siano i piani futuri dell’Unione.

b) “Io sono come la Thatcher e Reagan”.  Ovvero crisi oggi per espansione domani. Qui c’è una confusione drammatica. Quello per cui Monti si accomuna ai due leader degli anni ottanta immagino siano le politiche economiche restrittive sulla domanda: ma quelle furono fatte per ridurre le aspettative prima, e il valore attuale poi, dell’inflazione. Ed ebbero successo. Monti nel tagliare la domanda ha come obiettivo quello di stabilizzare il rapporto debito-PIL, e, al contrario di Maggie e Ronnie, sta fallendo pienamente in ciò. Monti potrebbe interrompermi e dirmi, no, in realtà io intendo fare le riforme, agire sull’offerta, come fecero Thatcher e Reagan,  combattendo i sindacati nella pubblica amministrazione, riducendo le tasse, abbattendo i costi per le imprese. Appunto, neanche in questo il paragone tiene, nemmeno un po’: imparagonabile. E, attenzione, quando mi si dice che “lui ha avuto un solo anno”, ricordo che le cose più importanti di Thatcher e Reagan avvennero appunto il primo anno. Sì, non era un anno di elezioni, ma nemmeno per il tecnico Monti.

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C’è poi l’incredibile contraddizione, stridente, dei tanti giovani seduti accanto a lui, sorridenti, intenti a costruirsi un futuro che appare credibile, in fondo tanti di loro sono giovani brillanti laureati. Una parte del Paese è qui, mi dico, un’altra non è rappresentata.

E’ sempre così: quando si parla ad una platea spesso vi è un gruppo che ascolta, molto omogeneo. Se non è un discorso partitico, la bravura del relatore è quella di aprire spazi, far entrare nella sala la diversità, l’esigenza di comprendere ed accettare “gli altri”.

I giovani disoccupati, i giovani perplessi, dubbiosi, timorosi, sconfortati, arrabbiati, non sono entrati nella sala. No, non per i carabinieri che bloccavano l’ingresso ai più estremi che protestavano con bandiere, no, non sono entrati nel discorso di Monti.

Perché?

Forse quei giovani non ci sono perché il Presidente non crede nell’isteresi (e dunque non risponde al nostro appello).

Ma soprattutto non ci sono perché a sorpresa, nel 2013, totalmente inatteso e non dovuto, il Presidente Monti annuncia con squillo di trombe non ripreso dalla stampa: “il 2013 sia l’anno dell’investimento in capitale umano”. Va avanti esaltando l’importanza dell’istruzione e criticando quella parte più corporativa dei maestri. Ma rimango basito.

Come intende rendere il 2013 l’anno dell’investimento in capitale umano? In che modo? Con che politiche? Scuola? Università? Riforme? E quando avrebbe intenzione di avviare le politiche per quella che è probabilmente la più importante delle riforme del settore pubblico?

Incredibile. La verità è che quando una riforma la si annuncia senza crederci e senza renderla credibile, diventa automaticamente non credibile. Il che significa che ieri Monti ha ufficialmente chiuso le porte del 2013 all’investimento in capitale umano. Così, ufficialmente, distrattamente, con garbo ed eleganza.

Post Format

Ecco cosa pensano i mercati, ecco il nostro debito-Market thoughts on euro’s fate

Volete sapere “cosa pensano i mercati finanziari”? Leggete

This is what financial markets think of the euro.

Report Citigroup – Rapporto Citigroup

Italy will slide slowly into the abyss, with further contraction in 2013 (-1.2) and again in 2014 (-1.5), and near zero growth from then on.

L’Italia scivolerà nell’abisso, con una ulteriore contrazione nel 2013 del -1,2% e ancora nel 2014 con -1,5% e vicino a zero da lì in poi.

So there you have it, the “flawed EMU structures” have doomed Europe to a generation of depression. The euro itself has become a force of economic destruction.

Eccola dunque per voi, le “strutture bislacche dell’Unione monetaria”  hanno condannato una generazione alla depressione. L’euro stesso è divenuto una forza di distruzione economica.

Europe’s debt is more intractable because the contradictory effects of austerity overkill are spilling over onto private balance sheets. Brussels obsesses over public debt only. That is crass. It has badly misjudged – if it ever understood – the toxic displacement effect.

Il debito europeoè più intrattabile a causa degli effetti contradditori della sadica austerità si stanno espandendo ai saldi finanziari privati. Bruxelles è ossessionata solo dal debito pubblico. Ciò è grossolano. Bruxelles ha mal giudicato, se ha mai compreso, l’effetto tossico del contagio.

Il mio collega Ugo Arrigo ha aggiornato il grafico del rapporto debito-PIL italiano degli ultimi 150 anni. Il bello è che qualcuno:

a) ancora pensa che questo è la giustificazione per ulteriore austerità;

b) ancora pensa che questo Governo ha generato stabilità nei conti pubblici.

Post Format

Il valore dell’esempio

Come siamo stati felici ieri. A inaugurare il nostro nuovo Dipartimento interdisciplinare di Studi d’impresa governo filosofia a Tor Vergata. Filosofi, aziendalisti, economisti, giuristi, statistici. Nati dalla crisi per capire meglio che risposte dare e darci. Pochi come noi hanno rischiato in Italia nel ricostruire il loro Dipartimento. Solo il tempo dirà se abbiamo visto giusto. Intanto mi tengo stretto il  nostro primo convegno su Istruzione come antidoto contro la corruzione.

E’ stato un bellissimo evento, interdisciplinare eppure coerente, serio eppure gioioso, rigoroso eppure divulgativo, universitario eppure aperto mondo del lavoro e a quello delle associazioni, laico e religioso. Molti giovani erano presenti. Molti giovani sono rimasti seduti per ore sulle poltrone. Molti giovani vogliono continuare a contribuire al dibattito. Ce l’hanno detto, dopo.

Abbiamo cominciato col parlare di istruzione come antidoto alla corruzione, per scoprire che in fondo l’antidoto deve essere ancorato sull’istruzione ed andare al di là di essa.

Bellissimi tutti i discorsi, davvero. Profondi ed emozionanti. Dal “corvo” per noi invece “eroe” Raphael Rossi che ha raccontato la sua storia di testimone di corruzione al Cardinale Cottier, già teologo di papa Giovanni Paolo II.

Io però volevo condividere con voi un estratto del discorso di Francesco Sperandini, direttore Area Reti di Acea S.p.A. Perché raramente sento parlare un uomo di azienda così, ed era bello ascoltarne il fluire dei pensieri. 

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… Il comportamento, quello corretto, quello aderente alle attese dell’organizzazione, quello auspicato non può essere frutto del contesto, indotto dall’ambiente, promulgato o stimolato dai tanti conclamati e reclamizzati Codici Etici.

No, nel mio tipo di impresa neanche questi funzionano.

Vedete, è un elenco forse datato ma se aggiornato andrebbe integrato e non ridotto. La mia Società, forse anche perché quotata, forse anche perché fortemente impegnata sul versante della Corporate Social Responsibility, ha:

1)      il Collegio Sindacale

2)      la Società di Revisione

3)      i Consiglieri di Amministrazione Indipendenti

4)      i programmi di autovalutazione del Consiglio (board review)

5)      il Comitato di Controllo Interno

6)      il Preposto al Sistema di Controllo Interno

7)      il Comitato per la Remunerazione (Compensation Committee)

8)      la Carta dei Valori

9)      l’Internal Audit

10)  il Codice di Autodisciplina

11)  il Codice di comportamento in materia di Internal Dealing

12)  il Codice Etico

13)  il Garante del Codice Etico

14)  Il Team di promozione del Codice Etico

15)  il Comitato Etico

16)  il Regolamento per la Gestione dell’Informazione Societaria

17)  il Risk Management

18)  il Dirigente Preposto ex L. 262/05

19)  il Modello Organizzativo ex L. 231/01

20)  l’Organismo di Vigilanza

21)  il Responsabile della Sicurezza Integrata

22)  il Regolamento per la gestione e registro delle informazioni privilegiate

23)  il Gestore Indipendente

24)  ecc ecc

e aspettiamo il Responsabile della Prevenzione della Corruzione

Ma non viene in mente Tacito con il suo corruptissima republica, plurimae leges?

Ma non viene in mente Cartesio con la moltitudine delle leggi che fornisce spesso delle scuse ai vizi?

Quello descritto è, a mio avviso, il frutto di una delle modalità di approccio al comportamento corretto, quello che lo vuole figlio della “attrazione” (pull), dell’adattamento della persona al contesto, concentrandosi quindi sulla responsabilità dell’impresa, come contesto in cui il manager è chiamato ad operare.

Per l’approccio della “attrazione”, il comportamento etico, il comportamento corretto, è estratto, tirato fuori, trainato, indotto dal contesto, dalle regole, dalle istituzioni, dall’ordinamento (non solo giuridico ma anche deontologico).

Questo paradigma privilegia quindi l’attenzione per le procedure e per gli strumenti, dai bilanci sociali ai codici etici, da una struttura di regole più ampia di quanto offerto dall’ordinamento giuridico ai diversi Comitati composti da membri indipendenti esterni od interni all’Impresa.

Minore attenzione, a mio parere, è dedicata alla responsabilità del manager, quale attore morale, e quindi rinunciando ad adottare l’altro versante di analisi delle motivazioni alla base del comportamento corretto, quello della “spinta” (push), emergente dall’interno, sospinto dalla struttura dei valori della persona.

Il comportamento corretto non è solo ATTRATTO, non è solo pull ma è anche SPINTO, è anche push.

Non ricordo in quale libro l’immagine evoca più la porta girevole di un hotel piuttosto che un concetto etico. Ma tant’è.

Per l’approccio della “spinta”, il comportamento corretto, è indotto dalla struttura valoriale della persona: viene dal di dentro, non è indotto dall’esterno.

E mentre per l’approccio pull occorre lavorare sulle regole, sulle istituzioni, sull’ordinamento per l’approccio push occorre lavorare sulla persona ed il lavoro sulla persona si chiama formazione, educazione, ISTRUZIONE.

Se si deve sviluppare la Persona, dobbiamo riscoprire nei programmi di formazione quello che da sempre, o almeno da Aristotele, sono state codificate come le vie della Persona di migliorare se stessa: “le virtù”.

Ed allora prorompe con tutta la sua forza come Istruzione ed Integrità sono due facce della stessa medaglia, un aspetto condizionato dall’altro.

Il manager, proprio per la posizione di responsabilità che riveste nella amministrazione della sua organizzazione, è continuamente chiamato a fare delle scelte, a doversi schierare, ad orientarsi verso posizioni che salvaguardino l’azienda e ne favoriscano lo sviluppo, a volte con il rischio che si creino fratture con la propria deontologia professionale o le proprie convinzioni etiche.

In tutto questo, il manager è “visto”, è “guardato”: l’integrità della condotta manageriale costituisce l’esempio che all’interno dell’organizzazione forma e conforma il comportamento dei suoi attori.

E’ dal manager quindi, e non dal codice Etico, che dobbiamo aspettarci il contributo primo per lo sviluppo di una Integrità d’impresa.

Ritengo che qualche esempio, meglio qualche invito che io offro a me stesso, affinché possa acquisire sostanza un giudizio di valore che altrimenti rischia di restare ambiguo.

Alcuni esempi

Più che di esempi parlerei di provocazioni, sollecitazioni sulle quali spendersi personalmente e nell’immediato.

Si tratta in particolare delle seguenti iniziative:

1)      eliminare le penali contrattuali

2)      rendere trasparenti i processi affidati

3)      eliminare la raccolta delle segnalazioni di disservizio dei call center

4)      rispettare gli impegni presi

Si tratta, ripeto, di azioni simboliche, necessarie per evidenziare, annunciare il cambio di mentalità. Per favorire i cambi di mentalità sono necessarie misure in parte reali in parte simboliche

Eliminare le penali contrattuali.

La penale è un’autorizzazione anticipata all’inadempimento: nel momento in cui si disciplina, con la penale, l’inadempimento, si consacra il fatto che lo stesso è possibile e, come tale, praticabile, il contraente sa che può rendersi inadempiente ad un certo costo, ad un certo prezzo.

E’ chiaro ed evidente che in un mercato lasciato al libero operare dei comportamenti utilitaristici piuttosto che ai comportamenti responsabili, il fatto di prequantificare il costo di un inadempimento espone a valutazioni di convenienza tipo: “il costo della penale è più basso del costo dell’adempimento, per cui conviene non adempiere”.

Troppe volte si ascoltano frasi del tipo “il costo della penale è più basso del costo dell’adempimento previsto dal contratto, per cui mi conviene venir meno all’impegno preso e non adempiere”.

Avranno limitata fortuna i paradigmi decisionali che mettano a raffronto il valore della penale contrattuale con il costo da sostenere per evitarla, al fine, qualora il primo risulti inferiore al secondo, di non adempiere ed esporsi all’applicazione della penale.

In questo settore, anzi, è bene affidarsi a contratti che le penali non le abbiano, affinché non vi siano licenze all’inadempimento, preautorizzazioni al mancato rispetto dell’impegno assunto con la prequantificazione del danno da ristorare.

Occorrono contratti che, una volta firmati, devono vedere il firmatario impegnato in modo maniacale, ossessivo all’adempimento. Ci si deve obbligare a considerare attentamente l’impegno che si va ad assumere per il solo fatto di assumerlo, non come controvalore monetario.

La Società che preferisce pagare le penali piuttosto che adempiere il contratto, adducendo che l’adempimento è più oneroso della penale, farà poca strada.

Il capitale reputazionale di quella Società sul mercato ne risentirà, il suo cliente ne terrà conto nei successivi atti decisionali (nella gestione del contratto od in occasione di futuri affidamenti), ma non solo.

All’interno di quella Società, tra il personale od anche nella classe dirigente, si attiveranno modelli emulativi e si adotteranno comportamenti opportunistici, in quanto l’esempio che calerà dall’alto sarà non quello dell’obbligo, dell’impegno e della RESPONSABILITA’ ma quello della convenienza, che assurgerà a logica di comportamento in tutti gli atti aziendali: al comportamento responsabile si sostituirà il comportamento utilitaristico.

Rendere trasparenti i processi affidati

Il manager deve fare in modo che i processi affidati alla sua responsabilità siano pienamente visibili, ci sia sugli stessi piena trasparenza, a favore di tutti, i clienti, i collaboratori, i fornitori, le Istituzioni.

Così come è apprezzato il ristorante che abbia la cucina a vista, dietro un cristallo, ugualmente ci si deve comportare sui processi, sui sistemi, sulle modalità di erogazione del servizio, affinché ci sia la piena visibilità da parte di chiunque.

Bisogna agevolare e consolidare tale processo di trasparenza. Il tentativo da perseguire con assiduità, perseveranza e determinazione, è quello di semplificare i processi affidati alla propria responsabilità e di fare in modo che si svolgano come se collocati:

a)      all’interno di una teca di vetro

b)      sotto un fascio di luce illuminante

c)      con la vista amplificata da una immensa lente di ingrandimento.

Sono due gli effetti positivi che se ne ottengono.

Il primo è quello di ridurre, per il laico l’occasione che fa l’uomo ladro, per il credente l’induzione in tentazione, in quanto tutti noi evitiamo di metterci le dita nel naso allorché non sfuggiamo alla vista di altri.

I comportamenti di cui vergognarsi sono abilitati dall’opacità. Si sterilizza quindi l’induzione in tentazione.

Il secondo è connesso all’esempio della cucina del ristorante. La trasparenza determina, consolida ed amplifica la fiducia, l’elemento fluidificante per antonomasia dell’economia di mercato. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Occorre arrivare a soluzioni in cui ci si autodenuncia nel caso si incorra in un inadempimento contrattuale.

Dobbiamo provare ad autodenunciarci ad un Cliente, comunicando l’applicazione di una penale per un inadempimento di cui il Cliente stesso non aveva traccia. La reazione sarà estremamente positiva, estremamente conveniente.

L’autodenuncia e l’autodeterminazione della penale ha due esiti formidabili: l’incremento della fiducia da parte del Cliente e la creazione di un contesto di rigore all’interno della propria organizzazione, i cui addetti non potranno più trovare conforto alle loro manchevolezze in atteggiamenti opachi della Società.

Eliminare la raccolta delle segnalazioni di disservizio dei call center

Troppo spesso si ha occasione di sentirsi rispondere alla contestazione di un disservizio il fatto che lo stesso non era stato segnalato.

Troppo spesso ci si sente rispondere “Sui nostri sistemi informativi non risultano pervenute segnalazioni in merito”.

E’ un esempio di deresponsabilizzazione massima del gestore, che la schiva per allocarla addirittura sul Cliente.

Ed ormai siamo talmente presi da questo approccio che – ad esempio – tutte le Società che gestiscono impianti di illuminazione pubblica hanno trovato naturale chiedere ausilio al cliente/cittadino per segnalare il disservizio etichettando ogni singolo palo, numerandolo ed indicando “in caso di lampada spenta o non funzionante chiamare il numero _____”. La consapevolezza del disservizio compete al responsabile del processo, non al cliente. Il “non ho ricevuto segnalazioni!” non può giustificare la presenza di un disservizio. Invece deresponsabilizza.

Rispettare gli impegni presi (caso dei tempi di pagamento delle fatture).

Pratica ormai estesa anche alle Società, purtroppo, come la mia, è quella di veder sacrificato sull’altare della posizione finanziaria netta in bilancio, a favore delle operazioni di window dressing (che un tempo almeno si facevano una volta l’anno; ora con le trimestrali si sono moltiplicate per quattro), l’impegno di rispettare le condizioni di pagamento nei confronti dei fornitori.

Quanto scritto nei contratti circa i termini di pagamento vale la carta su cui sono scritti.

Non è purtroppo un problema di ampiezza dei tempi di pagamento stessi.

Il fornitore ha prima di tutto interesse alla certezza della data del pagamento e poi all’ampiezza della dilazione.

Prima del problema di “quanti giorni”, c’è un problema di “rispetto dell’impegno assunto”.

Se invece, qualsiasi sia la data contrattuale posta come termine di pagamento, il comportamento adottato è quello di non rispettare detto termine e posticipare, il comportamento stesso non è più espressione di una volontà di pagare ad una data per salvaguardare la Posizione Finanziaria Netta, ma quella di esercitare un privilegio, nei fatti un’arroganza, di ribadire di aver diritto a non rispettare gli accordi.

A fronte di un beneficio miope si ha un danno sistemico enorme, con effetto boomerang che torna sull’artefice. I fornitori anticipano il comportamento scorretto del Cliente, inglobano nella quotazione l’alea di rischio di veder non rispettata la clausola dei termini di pagamento, ne amplificano la portata adottando azioni di neutralizzazione del rischio massimo.

Il valore della firma, dell’impegno, è alla base della fiducia, il bene pubblico per eccellenza, indispensabile per far funzionare qualsiasi tipo di sistema economico.

Voi avete idea di quanta competitività perdiamo nel confronto internazionale per il fatto che ogni dieci operativi ci devono essere tre amministrativi che vengono impiegati unicamente per andarsi a far pagare le fatture? E se invece di andare a sollecitare i pagamenti questi arrivassero in automatico al momento debito e le tre persone le mettessimo a lavorare sul processo operativo? Quanta produttività recupereremmo? Quanta competitività guadagneremmo?

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Vorrei chiudere il mio intervento con un articolo di Ermanno Bencivenga tratto dal Domenicale de Il Sole 24 Ore del 4 novembre 2012 “Viva l’impresa aristotelica” come recensione al libro di Leandro Herrero “Homo imitans; the art of social infection”:

Siamo animali sociali;esprimiamo il meglio ed il peggio di noi stessi fra i nostri simili; e a fare la differenza tra quel meglio e quel peggio sono l’esempio e l’ispirazione che reciprocamente ci diamo. Un esempio che vale di più, nel farci agire in un modo o nell’altro, di qualunque prezzo si paghi per i nostri servizi o di qualunque potere ci venga conferito, e che nella fattispecie può fare della nostra azienda un’autentica comunità, e anche mantenere tale sua INTEGRITA’  attraverso il cambiamento.