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BCE, Goldman Sachs, Grecia: la sconfitta di Bloomberg è quella europea

Oggi l’Europa è in lutto. Un passo importante verso la sua implosione, se non  fattuale almeno valoriale, si è drammaticamente recitato presso la Corte Generale dell’Unione europea in Lussemburgo con la sentenza sul caso T590-10 emessa oggi.

Il caso? Lo scandalo dei derivati del governo greco, firmati nel 2001 con Goldman Sachs, che hanno fatto saltare i conti greci nel 2010, rivelando solo molto anni dopo la loro sottoscrizione la natura pseudo-fraudolenta dell’operazione volta a truccare i conti ellenici.

La BCE è in possesso di alcuni documenti legati a queste transazioni. L’agenzia stampa Bloomberg, con coraggio, ha chiesto che questi documenti fossero pubblicati. La BCE si è rifiutata, Bloomberg l’ha citata in giudizio, appunto presso la Corte europea.

Oggi la sentenza a favore. Scandalosamente a favore della BCE, condannando la trasparenza e la responsabilità delle istituzioni a mera ipocrisia.

Con il sospetto che si stia nascondendo tantissimo sotto il tappeto, in particolare sul comportamento della BCE di fronte ad una transazione che ha coinvolto una grande banca d’affari americana ed un’altra in cui è coinvolta direttamente la stessa BCE.

Oggi la carta europea è più carta straccia di ieri. Perché se dietro la moneta non ci sono valori, quella moneta diventa solo quello che appare, un mero pezzo di carta, spesso sporco.

*

Vediamo di ricostruire temporalmente i fatti.

26 febbraio 2009. Titlos plc, un SPV, società veicolo, viene creato dalla Banca nazionale di Grecia. Titlos emette un certo ammontare in euro di ABS (obbligazioni garantite da crediti) con scadenza settembre 2039.  L’asset a garanzia è un derivato, uno swap tra la Banca Nazionale greca e la repubblica (governo) della Grecia. L’obbligazione di Titlos, dice la sentenza, “doveva” (“was required”) essere accettabile (“eligible”) come collaterale per le operazioni creditizie dell’eurosistema e  tale accettabilità fu sancita dalla banca centrale di un altro stato membro europeo dopo consultazione con la BCE. Non è chiaro cosa la Corte intenda per “doveva” essere accettabile.

8 gennaio 2010. Eurostat, l’autorità statistica europea, comunica pubblicamente e per la prima volta che la debolezza dei conti pubblici greci è dovuta a fenomeni di incorretto reporting da parte delle autorità elleniche su dati che riguardano debito e deficit.

Il 24 febbraio 2010 Eurostat fa per la prima volta riferimento ad una operazione in derivati (off-market rate swap) nel 2001 dichiarata da parte del Governo greco. Eurostat comunica anche l’intenzione di chiedere maggiori chiarimenti.

Il 2 marzo 2010 il Board della BCE esamina per la prima volta i due documenti in questione citati da Bloomberg nel giudizio. Questi documenti sono stati redatti dallo staff della BCE su informazione disponibile prima della fine di febbraio (forse la stessa a disposizione di Eurostat?). Il giorno dopo, il 3 marzo, questi documenti sono stati mostrati al Consiglio esecutivo della BCE.

Il 22 aprile 2010 Eurostat pubblica i dati del deficit e debito dal 2006 al 2009 per gli stati membri dell’Unione europea con riserva sui dati greci facendo riferimento ad incertezza sul valore di alcuni derivati.

Il 20 agosto 2010, la giornalista Gani Thesing di Bloomberg richiede che i dati sui due documenti siano resi pubblici. Il primo documento, rivela la Corte, contiene assunzioni e opinioni dello staff BCE riguardanti l’impatto dello swap “illegale” sui conti pubblici greci, basati su “dati parziali disponibili a quel tempo quando il documento fu redatto” per dare una fotografia della situazione ai primi di marzo 2010 (ai vertici BCE). Il secondo documento contiene la descrizione della transazione Titlos da parte dello staff della BCE nonché la possibile esistenza di transazioni similari. Secondo la Corte esso contiene anche “diverse conclusioni che riguardano la Grecia e l’eurosistema” basato sulle analisi svolte.

Il 17 settembre 2010 la BCE risponde negando l’accesso ai due documenti.

Il  28 settembre 2010 Bloomberg chiede alla BCE di riconsiderare la sua decisione.

Il 21 ottobre 2010 il Presidente della BCE Trichet ribadisce il diniego.

Il 27 dicembre 2010 Bloomberg fa ricorso presso la Corte di Giustizia.

*

Fin qui i fatti. Ora veniamo al contenzioso in tribunale.

Il Tribunale ha innanzitutto ricordato che la BCE può rifiutare l’accesso a qualsiasi documento la cui divulgazione  minerebbe la protezione dell’interesse pubblico per quanto riguarda la politica finanziaria, monetaria o economica dell’Unione o di uno stato membro.

La prova in carico alla BCE, continua la Corte, è quella di spiegare come la divulgazione dei documenti può specificatamente e effettivamente minare gli interessi protetti. Per di più tale rischio di minare deve essere ragionevolmente prevedibile e non meramente ipotetico.

La BCE argomenta come l’informazione contenuta nei documenti era divenuta “antiquata” (“outdated”) al momento della richiesta di Bloomberg (quasi  5 mesi dopo). La divulgazione di tale informazione avrebbe avuto tuttavia il rischio sostanziale e acuto di ingannare fortemente il pubblico e i mercati finanziari. In un mercato molto vulnerabile (come viene definito dalla BCE nella sua lettera di ottobre) tale divulgazione influenzerebbe il funzionamento corretto dei mercati finanziari. E dunque il rifiuto a Bloomberg. Non solo, aggiunge la BCE nella sua difesa, i documenti in questione erano negli stessi giorni sotto la lente della Commissione europea e gli esiti di tale esame sarebbero stati pubblicati nei “giusti tempi” (due time).

La Corte pare dare ragione  alla BCE sul fatto che i mercati erano allora molto vulnerabili, specie per le condizioni della Grecia e le perdite su titoli greci e “in un tale contesto, è chiaro che i mercati utilizzano l’informazione divulgata dalle banche centrali e che le loro analisi e decisioni sono considerate particolarmente importanti ed affidabili come fonte per valutare le attuali e future condizioni dei mercati finanziari.”

La Corte riconosce che al momento dell’ultimo rifiuto (ottobre 2010) le informazioni contenute nel documento non contenevano nuove informazioni rispetto a quanto divulgato da Eurostat sull’impatto dei derivati. Eppure la Corte sostiene che se il documento fosse stato divulgato non è detto che il mercato avrebbe reagito considerando come “antiquata” tale informazione:

“malgrado ciò, il fatto che, il 21 Ottobre 2010, i dati contenuti nel primo documento erano “antiquati” e davano solo una “fotografia” della situazione fattuale al tempo in cui il documento è stato scritto non permette di concludere che, se il documento fosse stato divulgato, i partecipanti di mercato avrebbero anche loro considerato antiquato e di poco valore le assunzioni e opinioni dello staff della BCE sull’impatto dei derivati sui deficit e debiti greci”.

Da tutto ciò emerge come:

a)    la BCE parrebbe avere accettato come collaterale un titolo (Titlos) basato su swap “illegali” sulla base di un parere di una banca centrale nazionale e della BCE;

b)    la Corte dice che la BCE doveva spiegare come la divulgazione dei documenti può specificatamente e effettivamente minare gli interessi da questa protetti. Per di più tale rischio di minare doveva essere ragionevolmente prevedibile e non meramente ipotetico. Alla luce di quanto letto rimaniamo basiti nelle valutazione sull’esistenza di un rischio per i mercati successivo alla divulgazione dei documenti. Il mercato vulnerabile? A settembre ed ottobre del 2010 lo spread BTP Bund è contenuto attorno ai 150 punti base, meno della metà di oggi. Se il mercato era vulnerabile allora come dovremmo chiamarlo oggi? Anzi, ci viene da dire alla Corte, il peggioramento dei mercati occorso da allora non è in parte dovuto all’incertezza sulla trasparenza dei conti pubblici e del loro monitoraggio in Europa a causa della gestione scandalosa dell’informazione su questi documenti?

c)     La BCE dice che le analisi sarebbero state pubblicate dalla Commissione Europea successivamente. Non abbiamo notizia, a distanza di due anni, di tale pubblicazione.

d)     La Corte sostiene che, anche se i documenti fossero stati pubblicati e privi di contenuto informativo (cosa probabile visto che erano documenti datati di 7 mesi e più), questa divulgazione avrebbe comunque fatto male ai mercati perché comunque si sarebbe interpretate (scorrettamente) le opinioni della BCE. Insomma non si pubblicano i documenti perché i mercati reagirebbero male comunque, anche se non ci fosse motivo per cui reagire male. Una bella dimostrazione di rischio “ragionevolmente prevedibile e non meramente ipotetico”.

Segavano i rami sui quali erano seduti e si scambiavano a gran voce la loro esperienza di come segare più in fretta, e precipitarono con uno schianto, e quelli che li videro scossero la testa segando e continuarono a segare. Bertolt Brecht

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Quale Ocse per l’Italia?

Se pensate che l’interesse per il World Economic Outlook dell’Ocse uscito ieri si limitasse alla tragedia sempre ieri documentata su questo blog delle politiche economiche italiane ed europee che fanno saltare i conti pubblici uccidendo l’economia, beh vi sbagliate.

La parte più succosa dell’Outlook è al contempo testimonianza della ipocrisia politica europea che viene a permeare qualsiasi documento elaborato da istituzioni sovranazionali e della chiara conoscenza da parte di queste dei meccanismi che invece governano l’economia, conoscenza che viene però censurata dall’ipocrisia di cui sopra.

Complesso? Mica tanto.

E’ semplicemente un cervellotico e schizofrenico andazzo, quello che ritroviamo nell’Outlook. Alle pagine pdf rispettivamente 98, 99, 100 e 101 sull’Italia (sullo stampato risultano essere le pagine da 96 a 99) da un lato e alle pagine pdf 66 e 67 sull’area euro (sullo stampato pagine 64 e 65) dall’altro.

Uno si aspetterebbe una qualche coerenza interna a questi documenti, ma chiaramente gli estensori di queste due parti sono diversi e non si sono parlati tra loro. Oppure, forse vien quasi da sperare, la parte sull’Italia è stata scritta dai politici italiani e dalla burocrazia dell’euro e la parte sull’euro da una manina invisibile piena di attenzione alla sostanza vera dell’impatto delle politiche economiche.

Ma analizziamo con calma.

La parte sull’Italia, ripresa anche dai giornali si esprime così (mia traduzione):

“… una delle maggiori fonti d’incertezza proviene dall’impegno della coalizione post-elezioni 2013 a mantenere la barra dritta sul consolidamento fiscale e le riforme pro crescita. Tirarsi indietro vorrebbe dire minare la fiducia dei mercati e la crescita. Un altro rischio è che i saldi fiscali 2012 migliorino meno di quanto previsto, malgrado le misure introdotte nella seconda parte del 2012. Per di più una intensificazione dello stress finanziario e di un deleveraging bancario troppo rapido potrebbero accentuare la restrizione creditizia ed ulteriormente deprimere la crescita. Sul fronte positivo, un migliore orientamento delle riforme strutturali può aiutare a far crescere la fiducia e l’investimento e a migliorare l’andamento del mercato del lavoro prima di quanto previsto“.

Un bel paragrafo scritto a quattro mani con il Governo italiano, non c’è dubbio. Avanti, barra dritta, austerità!

Peccato che 30 pagine prima, un’altra manina, affermava sull’Europa quanto segue (grassetto mio):

Nell’area dell’euro la politica fiscale è strutturata per essere molto restrittiva negli anni a venire in quei paesi sotto pressione dei mercati… I piani di consolidamento fiscale sono stati resi più stringenti con nuove misure, per lo più dal lato delle spese, in alcuni dei paesi per raggiungere gli obiettivi di deficit a fronte di una minore crescita. Queste misure genereranno ulteriori difficoltà nel breve termine. Queste polititiche fiscali pro-cicliche (cioè austerità in recessione NdR) sono in linea di principio indesirabili, ma ogni paese ha, di suo, poco spazio di manovra …

In questo ambiente sarebbe appropriato per le economie dell’euro area continuare il consolidamento fiscale secondo quanto previsto nei programmi di aggiustamento attuali, senza assumere azioni ulteriori per compensare i vuoti di bilancio provocati da un indebolimento dell’attività economica superiore a quanto previsto. Questo scostamento dagli attuali programmi di rientro dovrebbe essere concordato a livello di Unione europea per tutti i paesi interessati; una serie di annunci separati, da parte delle singole autorità nazionali, scatenerebbe con maggiore probabilità reazioni avverse da parte dei mercati. In un numero di Paesi, compresi Spagna e Portogallo, gli obiettivi di consolidamento in termini nominali sono già stati rivisti in accordo con la Commissione europea, nel quadro della profonda recessione delle due economie e di una caduta delle entrate fiscali. Le opportunità per avviare le riforme devono essere sfruttate …

Nel caso in cui rischi consistenti di deterioramento si manisestino nell’euro area, i Paesi con una posizione fiscale relativamente più solida dovrebbero fornire uno stimolo fiscale, di natura temporanea e discrezionale, alla domanda, il che comporterebbe o un declino negli avanzi di bilancio sottostanti (comprese Germania e Finlandia) o un rallentamento nel programma di riduzione dei deficit  (compresi Francia e Belgio), mentre altri Paesi dell’euro area (compresi Italia, Spagna e i Paesi che rientrano nel programma Ue/FMI) sarebbero solamente in grado di lasciar operare gli stabilizzatori automatici.”

Ricapitoliamo. L’Ocse non influenzato dalla politica dice basta all’austerità perché distrugge crescita e conti pubblici. Addirittura ci segue al 100% quando chiede che quest’approccio non sia adottato dai singoli Paesi ma deliberato a livello europeo e ci segue nuovamente al 100% quando chiede uno sforzo maggiore di politiche fiscali espansive al Nord e un po’ meno al Sud, ma sempre meno austere.

Comunque è chiaro: nessuna ulteriore manovra va varata.

Povero Ocse, tra incudine della verità e martello della politica. Ma la colpa non è della Politica: la colpa è di questa politica, ribadiamo. Contrariamente a quanto affermato nella parte del rapporto sull’Italia riportato sopra, noi avremmo scritto:

“… una delle maggiori fonti d’incertezza proviene dall’impegno della coalizione post-elezioni 2013 a mantenere la barra dritta sulla lotta alla stupida austerità così da poter anche avviare le vere riforme pro crescita. Tirarsi indietro vorrebbe dire minare la fiducia dei mercati e la crescita. Un altro rischio è che la crescita 2012 peggiori di più quanto previsto, a causa delle misure introdotte nella seconda parte del 2012. Per di più una intensificazione dello stress finanziario e di un deleveraging bancario troppo rapido potrebbero accentuare la restrizione creditizia ed ulteriormente deprimere la crescita. Sul fronte positivo, un migliore orientamento delle riforme strutturali, specie nella spending review che non dovrebbe essere fatta a casaccio e tagli lineari ma con professionalità e competenza, può aiutare a far crescere la fiducia, l’investimento e a migliorare l’andamento del mercato del lavoro prima di quanto previsto“.

Povero Ocse, se solo avessero fatto scrivere i due capitoli alla stessa persona, competente, che ha illustrato la ricetta per l’euro, avremmo oggi bella e pronta la soluzione per la rinascita di questo Paese.

Grazie Ale.

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Il fallimento di un’Agenda, il fallimento di un Nixon che non è andato in Cina

L’OCSE è un’organizzazione dove la politica impera. A volte si intrufola la verità, ma mai in maniera chiara.

Solo 6 mesi fa, nel suo precedente Economic Outlook sull’Italia il deficit su PIL italiano per il 2013 era previsto al -0,6%, pienamente coerente con il -0,5% del Governo Monti. Se facciamo poca fatica a capire perché un Governo possa dimostrarsi incredibilmente ottimista senza avere nessuna ragione concreta per esserlo, da una organizzazione di alto livello ci aspetteremmo ben altro. Ma così va il mondo. 6 mesi dopo, solo 6 mesi dopo, l’Ocse prevede per l’Italia un deficit-PIL al -3%. Scandaloso? Chissà.

Vorrei comunque salvare l’OCSE perché nella sua incoerenza lancia comunque un messaggio che più pighiano non si può, ma ne parliamo in un post successivo. Magari domani.

Più scandalose sono le cifre di questo Governo. Vorrei farvele leggere in tutta la loro chiarezza, paragonando le cifre prodotte nel 2012 nei 2 documenti di questo Governo, alla luce delle nuove stime OCSE uscite oggi. Se qualcuno vi dice che questo Governo ha salvato i conti pubblici fategli vedere questa tabella.

Leggiamoli insieme. A parte la prima colonna sul PIL di quest’anno (su cui l’Ocse è più ottimista del Governo), per il 2013 (l’unico anno chiave per giudicare ora le stime di questo Governo), le stime Ocse odierne prevedono -1,5% di decrescita aggiuntiva rispetto alle stime governative di primavera nel Primo Documento di Economia e Finanza (DEF1).  Ancora forse più grave è che la metà di questo scostamento (0,8% di recessione in più) spunta fuori negli ultimi due mesi rispetto alla correzione di stime contenute nella Relazione di aggiornamento del settembre 2012.

Le stime sul 2014 essendo numeri al lotto nemmeno li guardiamo? Beh forse per la speranza che danno dovremmo guardarli. Scopriremmo così che nel giro di soli 6 mesi il Governo ha corretto la sua stima per la disoccupazione 2014 da 8,9 a 11,3% e che nel giro di altri due mesi con l’Ocse siamo arrivati a 11,8%, 3 punti percentuali in più in 6 mesi. 3 punti percentuali. Altro che speranza. Negli Stati Uniti se un governo pubblicasse questi numeri sarebbe sconfitto 90 a 10 alle elezioni.

Ovviamente le cifre più clamorose riguardano la finanza pubblica che questo Governo ha messo al centro della sua azione su suggerimento europeo. Ebbene sempre per il 2014 questo Governo e questa Europa stimavano per il rapporto debito-PIL (deficit-PIL) un valore di 118,2% (-0,1%). Oggi le stime OCSE dicono che sarà 132,2% (-3,4%).

132,2%.

132,2%.

Guardo questo numero incredibile nella storia della Repubblica italiana e mi chiedo chi possa mai dire che questo Governo e questa Europa siano a favore della stabilità dei conti pubblici. Un disastro basato sulla contabilistica illusione che i Governi prendono atto delle dinamiche sociali ed economiche e che non sono invece l’attore predominante di queste con le appropriate politiche economiche per la crescita.

Ci sono numeri nascosti nei dati Ocse che forse devono preoccupare ancora di più: il fatto che la disoccupazione salga malgrado l’occupazione tenga significa una sola cosa, che cresce il numero di persone che cercano lavoro, spesso perché il capo famiglia ha perso l’occupazione a tempo indeterminato, e il/la consorte scende in campo a supporto. La crescita della disoccupazione si mischia dunque a crescita dell’occupazione precaria, un fenomeno che può essere più facilmente tollerato in espansione, ma non quando i numeri sono così recessivi.

Sia come sia, il messaggio finale è uno solo: l’austerità, l’aumento della tasse e la diminuzione della spesa pubblica in recessione è una follia che nessuno studente del primo anno di economia suggerirebbe, specie quando si finisce per flirtare con così grande spensieratezza con la fine dell’euro.

E pensare che proprio la reputazione internazionale di Monti avrebbe potuto credibilmente far digerire ai mercati l’unica cosa che attendevano con ansia dall’Europa: la certezza che, una volta superata la tempesta perfetta della recessione con maggiore spesa pubblica, i governi europei avrebbero credibilmente riportato la spesa al livello originario o addirittura l’avrebbero ulteriormente qualificata. Un po’ come quando diciamo “it takes a Nixon to go to China” per dire che solo i forti anti-comunisti repubblicani potevano credibilmente aprire le porte ai rapporti con la Cina rossa.

Ma tant’è.

La nostra Cina, la recessione, c’è e rimane perché il nostro Nixon ha avuto paura di confrontarcisi.

Si chiude un capitolo di Agende sbagliate, profondamente sbagliate. Speriamo presto ne ripartano di nuove, capaci di generare conti pubblici in ordine, crescita economica, ottimismo, speranza, opportunità, fratellanza europea.

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A venti dollari e con tre minuti si compra un futuro

E’ bello trovare conferme.

Nel programma dei Viaggiatori sulla Scuola cercheremo di modificare in maniera clamorosa la quantità di informazione a disposizione dei ragazzi al momento della scelta chiave del liceo (per sapere come dovrete aspettare l’uscita del Programma, pazientate).

Perché, come abbiamo detto tante volte su questo blog, le pari opportunità passano in maniera decisiva per un aumento dell’informazione a disposizione del giovane studente al momento delle scelte scolastiche chiave, specie per lo studente proveniente da situazioni economiche più difficili e con genitori che non hanno fatto studi simili a quelli a cui pare essere naturalmente predisposto.

Oggi leggo l’articolo di due economisti dell’Università di Toronto che hanno esposto un ampio gruppo di studenti liceali canadesi nelle scuole più povere ad un esperimento: metà di questi hanno assistito ad un video di 3 minuti su internet che chiariva loro i vantaggi economici e i costi effettivi di proseguire l’istruzione dopo la scuola (tutta informazione ottenibile comunque sul web).  L’altra metà no.

I risultati sono clamorosi: gli studenti esposti al breve video, tre settimane dopo, rispetto a quanti non esposti al video, rivelano aspettative maggiori sui vantaggi dell’andare all’università, credono di più di poter ottenere borse di studio, credono di meno che la ragione per gli studenti di non andare all’università è quella dei costi delle rette, sono più disposti a sostenere che aspirano a completare un corso universitario. L’effetto è maggiore per quelli inizialmente più insicuri sulle loro decisioni future.

E non basta: il fatto che questa informazione c’è on line ma gli studenti appaiono più informati dopo aver partecipato all’esperimento significa che i giovani poco abbienti, se non spinti, non acquisiscono facilmente informazione rilevante.

Ci sono voluti 20 dollari a testa per farli partecipare all’esperimento per rischiare di cambiare per sempre e per il meglio il loro futuro. E con il loro, il nostro.

Insomma, a venti dollari e con tre minuti si compra un futuro per i giovani meno abbienti. Mamma mia, quante cose si potrebbero fare a governare bene.

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Discriminazioni di genere

Quando emergono testimonianze crescenti di reati nel nostro Paese non dobbiamo necessariamente deprimerci. Quando i giornali sono pieni di notizie sulla corruzione e gli abusi di politici ed ufficiali pubblici dobbiamo anche rallegrarcene. Vuol dire che il Paese sta crescendo, che il suo DNA diventa meno tollerante verso questi crimini e invece che accettarli supinamente si ribella e li denuncia.

Così per la violenza contro le donne.

E’ una giornata importante e ce la teniamo stretta questa crescente sensibilità del Paese su questo tema così decisivo.

E’ la migliore difesa, il migliore attacco per sconfiggere idioti violenti, criminali violenti.

Poi c’è anche l’economia, meno importante.

*

Ricorderete il post sul rapporto Prometeia e sul fenomeno del cambiamento dell’occupazione indotto dalla stupida austerità. In esso riportavamo come:

“… Dopo 4 anni di riduzione del loro reddito disponibile le famiglie tornano sul mercato del lavoro: spesso per integrare il reddito del lavoratore a tempo pieno o per rimediare al licenziamento o alla perdita di lavoro per lo stesso. Non a caso mentre l’occupazione non cala calano le ore lavorate: questi nuovi lavori sono spesso part-time.”

Spesso sono le consorti che cercano di integrare il reddito del capofamiglia, maschile, che ha perso il lavoro a tempo indeterminato, ma ottenendo un lavoro solo a tempo determinato.

Una delle tante asimmetrie di genere o semplicemente un indicatore di come le maggiori incertezze sul futuro che introduce una recessione si ripercuotono sulle offerte di lavoro delle imprese?

E’ noto dalla letteratura economica che parte della ben documentata differenza del trattamento contrattuale femminile  nel mercato del lavoro è dovuto a diversa volontà/capacità delle donne a negoziare il loro salario.

Un lavoro di due economisti (uno di Chicago ed uno australiano) cerca di verificare se questa tendenza è presente anche con le nuove modalità di ricerca di un lavoro, sempre più basate via offerte postate su internet dai datori di lavoro e con contrattazione preliminare tra le parti con lo stesso mezzo.

Tramite una serie di esprimenti mostrano come effettivamente, in assenza di specifica menzione nell’offerta di lavoro postata su internet che questa è negoziabile, gli uomini 1) partecipano di più e 2) successivamente negoziano di più delle donne che non quando le offerte postate menzionano in maniera specifica che l’offerta salariale è negoziabile.

Là dove le offerte di lavoro sono dunque descritte con qualche ambiguità, si crea uno spazio che gli uomini sono più capaci/desiderosi di sfruttare, negoziando. Ma se le possibilità di negoziazione sono specificate, la mera specifica rende le donne altrettanto desiderose di negoziare.

Di fatto, se c’è lavoro presso un’azienda, a seconda delle regole che descrivono lo stesso quando pubblicizzato, è maggiore o minore il surplus che viene lasciato al genere femminile rispetto a quello maschile.

Se la recessione è dunque quel momento in cui le aziende per recuperare ossigeno o passano in nero o cercano di offrire condizioni meno vantaggiose per i lavoratori, non è detto che regole che rendano più chiare per tutti le modalità di contrattazione siano necessariamente da interdersi come maggiore rigidità che riduce il lavoro disponibile, ma come maggiore tutela di pari opportunità che migliora il lavoro.

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La stampa ed i giovani

“Solo slogan nei 4 cortei della Capitale”, così oggi a pagina 18 del Corriere della Sera. Che potrebbe volere dire due cose:

a) che noia, solo slogan e nessun contenuto da questi giovani che manifestano;

b) è andata bene, non sono stati violenti questi giovani che manifestano.

Ieri Beppe Severgnini e oggi Antonio Polito parlano del punto b): la loro enfasi è sulla mancata o sui pericoli della violenza nei cortei.

Non trovo da nessuna parte sul Corriere quali sono i problemi, chi sono questi ragazzi. Non leggo della questione istruzione e del povero sottosegretario Rossi Doria lasciato solo da un Governo che non si è preoccupato di colmare il nostro deficit europeo di spesa nell’istruzione documentata dall’Ocse. Altro che deficit pubblico.

Non ho mai trovato da nessuna parte sul Corriere – ed è passato 1 anno! – una discussione che è una sulla proposta al Presidente Monti contenuta nel nostro (ignorato) appello per una occupazione temporanea e non ripetibile dei giovani nei gangli della Pubblica Amministrazione per non perdere fiducia e competenze durante questa stupida austerità che genera recessione e disillusione.

L’ha ripresa Vendola, mi dice un lettore su Twitter. Non mi sorprende che Vendola la pensi come il consigliere economico di Obama, Christina Romer: in questo Continente europeo chi ha una posizione anti recessiva come quella che negli Usa ha il Partito Democratico passa per “vetero comunista”.

Bene, ne sono felice. Ma in questo post parlo di INFORMAZIONE non di politica economica. Chi sono questi giovani?

Allora mi rifugio sul Fatto Quotidiano e sul video che la dice lunga su chi sono questi giovani e cosa meritano. Altro che lezioni sulla violenza.

 


 

Grazie M.
 

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L’Unione Fiscale sarà austera, dunque inutile

Purtroppo c’è chi insiste, anche di fronte all’evidenza più smaccata, a parlare di Europa senza ancorarla nella concretezza di cui ha bisogno oggi.

Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini ieri su Repubblica sfidano la storia ed i suoi insegnamenti chiedendo un’Europa federata, prima di tutto nel debito e poi nelle istituzioni:

federare il debito dei paesi dell’Unione Monetaria, come avvenne alla fine del 1700 negli Stati Uniti dopo la guerra con l’Inghilterra. Così gli stati in difficoltà verrebbero sottratti alla morsa della speculazione finanziaria poiché farebbero parte di un’entità sovranazionale molto più forte sul piano economico e su quello politico. Inoltre, verrebbe meno la concorrenza distruttiva all’interno dell’Europa che avvantaggia le economie più competitive a danno di quelle più deboli ripristinando in tal modo il funzionamento della politica monetaria“.

Per spiegare la necessità di un debito unico partono da quello che loro considerano un dato di fatto:

Oggi il problema più grande dell’Unione Monetaria Europea è quello dei diversi rapporti tra debito e Pil nei vari paesi, un’asimmetria che sta bloccando la trasmissione delle decisioni di politica monetaria. Il tasso di sconto fissato dalla Banca Centrale Europea non si riflette sull’economia e l’interesse sui prestiti bancari è condizionato dal tasso di interesse sui titoli pubblici, cioè dal costo del finanziamento degli stati su cui la Banca Centrale non riesce minimamente ad influire.”

A guardare bene la c.d. “diversità del debito” (prendo per comodità i Paesi storici dell’euro, inclusa la Grecia) uno si accorge che la dispersione dei valori del rapporto debito su PIL è andata crescendo dal 1995 (0,44 il coefficiente di variazione) al 2007 anno della crisi (0,52 il picco). Da allora i debiti su PIL si assomigliano sempre di più ed oggi la dispersione è uguale a quella del 1995 (0,44).

Per capirlo in un altro modo: la Germania è salita dal 55% di debito PIL all’80%, mentre l’Italia ha, oggi (2011), esattamente lo stesso livello di allora, 120,5%.

La differenza non sta tanto dunque nelle differenze tra paesi dell’area dell’euro ma del livello medio di debito su PIL: nel 1995 era del 72% oggi è dell’87%. Ed il debito europeo sale perché un fenomeno pressoché comune colpisce l’Europa di questi ultimi anni: l’incapacità di debellare una volta per tutte questa recessione.

Gli spread diversi tra Paesi che colpiscono l’Europa e che mettono in difficoltà la politica monetaria non sono dovuti dunque ai diversi debiti, né ovviamente ai crescenti debiti che caratterizzano tutti i paesi, quanto all’incapacità di segnalare credibilmente ai mercati che si sappia usare la politica economica per ripagarli. E ciò preoccupa i mercati non tanto perché temono un default di un Paese periferico, come la Grecia, cosa gestibilissima (di fatto il Fondo Monetario lo sta da settimane chiedendo in un qualche tipo di forma), quanto perché temono della Grecia un’uscita dall’area dell’euro. Evento questo, ben meno gestibile sul piano simbolico e dalle capacità di rapidamente contagiare il resto dei Paesi in difficoltà.

Gli spread, lo ripetiamo per la centesima volta e da sempre, sono il compenso richiesto per una possibile svalutazione del Paese sovrano. Italia compresa. Dopo che ha svalutato la Grecia.

Cosa fermerà questa crisi è dunque ciò che renderà la Grecia un Paese disposto a rimanere nell’area dell’euro.  Oggi lo è sempre meno a causa del dolore e della sofferenza che l’Europa le impone. In maniera interessante dovrei dire “l’enfasi sul dolore e sulla sofferenza che l’Europa le impone”. Perché se è vero che l’austerità imposta c’è, è anche vero che mese dopo mese i i traguardi greci vengono allontanati nel tempo nel silenzio generale ed ipocrita degli altri governi europei, timorosi di apparire solidali ma un po’ solidali lo stesso.

Vorrei parlare con un filosofo o uno psicologo se, a parità di generosità, un individuo si sente meglio se questa generosità è esplicita o implicita. Ho la quasi certezza che non basti essere generosi, bisogna esserlo esplicitamente e convintamente, per ottenere gratitudine e senso di fratellanza.

Per questo capisco che Ruffolo e Sylos Labini chiedano una Unione federale fiscale. Perché secondo loro è un gesto esplicito di solidarietà.

Ma non è vero. L’Unione fiscale che oggi l’Europa può creare è solo la somma di quanto possono dare i singoli Paesi all’Altro. E questo è poco, come le recenti trattative sul budget europeo mostrano. La loro proposta si rivelerebbe fallimentare perché basata su alchimie istituzionali senza basarsi sulla volontà dei popoli. Sarebbe una Unione fiscale austera. Inutile.

Dobbiamo regalare in funzione della nostra capacità di regalare. E questa è ancora piccola, come lo era negli Stati Uniti durante il primo secolo di vita, quando gli egoismi degli Stati, comprensibili perché erano anche ancorati in saldi valori comuni non conciliabili con quelli degli stati confinanti, hanno a lungo frenato lo sviluppo in senso di Unione fiscale. Il debito federale di Madison di cui parlano i nostri articolisti fu una temporanea eccezione effettuata per non inimicarsi i mercati finanziari di fronte ad un rischio di invasione inglese e/o spagnola. In pochi anni, e fino al 1930, tutte le statistiche sul peso del governo centrale statunitense si avvicinarono invece allo zero.

E la nostra capacità di regalare, così scarsa ma così essenziale per sopravvivere, può solo basarsi sul “regalare” ai paesi in difficoltà una crescita economica che uccida la congiuntura negativa. Non dunque le riforme, ma la domanda aggregata del Nord e del Sud, lasciate libere in maniera credibile (di più al Nord, meno al Sud ma pur sempre libera), è l’unico regalo che, salvando la Grecia, salverà l’Europa. E lo possiamo fare, questo regalo alla Grecia, perché beneficia anche noi. In attesa di divenire più europei, cosa che non diverremo mai senza questo piccolo regalo oggi.

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La rapidità sulla qualità. Brucia l’Europa

“Non è importante la rapidità della decisione ma la qualità. Si tratta di una decisione all’altezza delle sfide che l’Unione deve fronteggiare nei prossimi anni”. Mario Monti, oggi, dopo il fallimento della trattativa sul budget europeo. Analogamente così il Presidente Draghi sulla questione della vigilanza bancaria europea.

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Abbiamo due incendi in Europa. Pericolosi perché si possono rapidamente estendere. Si chiamano Grecia nell’area dell’euro e Regno Unito nell’Unione europea. Pronti a mollare gli ormeggi alla ricerca di nuovi attracchi.

Dobbiamo spegnerli rapidamente questi incendi.

Il bilancio UE è in questo senso questione ben meno scottante e pressante. Ma è simbolo, indicatore, della capacità del governo europeo di muoversi tempestivamente. Altro che qualità più importante che la rapidità, sorry guys. La rapidità è tutto, poi se c’è la qualità bene, ma conta meno. Non c’è tempo.

E allora l’incapacità decisionale odierna del governo europeo lancia un pesantissimo messaggio su tutto il resto, compresa la nostra bravura di pompieri. E’ un’Europa sempre più malata. E quando si è malati si è lenti. E si combina poco.

Come uscirne?

Beh, un’altra risposta per fortuna ce l’abbiamo: scordatevi l’Unione fiscale. Spero che anche i più cocciuti, come i grandi radicali, se ne convincano. Qui altro che unione fiscale, altro che solidarietà interegionale. Altro che 100.000 miliardi da ripartire tra paesi dell’Unione, qui si litiga per briciole, 1000 miliardi.

Attenti a capirmi bene: è giusto, giustissimo, che si litighi per 1000 miliardi. Sono in ballo le essenziali prerogative nazionali, con le loro culture e le loro storie che fanno da sostegno. Negli Stati Uniti l’Unione fiscale tra Stati è arrivata a 140 anni dall’unione monetaria, quando ci si è sentiti cittadini di una stessa speranza. Ci si è arrivati con pazienza, superando migliaia di difficoltà, i centomila tranelli della Storia.

Il primo tranello che incontra l’Europa unita da una moneta è quello della recessione. A cui non si può rispondere  con la fantascientifica Unione fiscale.

Che ha comunque questo di essenziale, l’unione fiscale: genera solidarietà nelle difficoltà. Negli Usa, ora, funziona alla grande.

Ed allora la questione è una sola: come generare solidarietà tra europei senza poter fare una Unione fiscale? Facile. Con l’unico metodo che tutti i paesi potrebbero sottoscrivere perché compatibile con l’interesse di ogni nazione (sì certo, Germania compresa): politiche fiscali espansive, in tutta Europa. Appalti, appalti, appalti. Finanziati in deficit al Nord, con meno austerià al Sud. E tutti riprenderanno a crescere.

Rapidi, rapidi, al lavoro.

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Come è profondo (e pulito) il mare degli appalti oggi

Sono a Padova. Tra poco sto per prendere la parola. Mischiato nell’auletta con tanti responsabili di stazioni appaltanti venete.

Il tema? Spending review e centralizzazione degli acquisti.

Ma ora ascolto. E’ un manager che parla, RB, mi dicono che si è laureato con Monti. Si collega ad Internet al sito dell’azienda di sua proprietà. Una sorta di lampada di Aladino. Sfrega i tasti e esce fuori il genio della spending review. Basta fare clic e si apre una schermata. Ogni clic si scende a profondità più ampie. Ora siamo a 10 metri, ora a 20. Mi ricorda Maiorca, chissà se tra i miei giovani lettori tutti sanno chi era Maiorca.

Al primo clic entriamo nel mondo (vero) della Sanità di una Regione X con cui RB lavora come consulente. Al secondo clic posso scegliere tra, per esempio, protesi, farmaci, guanti, filo per sutura. Clic. Sono nella profondità scura e buia dei guanti.

Luce. Vedo ogni ASL. Quantità, prezzi, ditta, fornitore, numero seriale. Ma aspetta, un altro clic e correggo per la diversa taglia e misura dei guanti. Quanti prezzi diversi, quanti risparmi potenziali.

Clic. Clic. Sono abbagliato. Ora posso raggruppare tutti gli acquisti per merceologia e vedere come si collocano le aziende produttrici. Toh. Nelle ASL dove vende l’azienda A, B non c’è. In tutte le altre ASL c’è B ma non A. Evidenza di un cartello?

In tutta questa luce mi brillano gli occhi non so se dalla gioia o dalla commozione dal vedere che, ovviamente,  come ho sempre detto, SI PUO’ FARE. Gli sprechi, le zozzerie, l’incompetenza, rimuovere tutto, vincere.

Ora però rido. Insomma con tutta questa luce a questa profondità non mi sono accorto che il magistrato della Corte dei Conti, che mi sedeva accanto, è sparito. Ingoiato dagli abissi?

No, si è avvicinato alla luce. Si è alzato e diretto verso la prima fila, stregato dal genio e dalla sua lampada. Tutti ridono, tutti capiscono perché l’ha fatto: vede il suo lavoro di tanti anni – così ripetitivo forse? – cambiare in tempo reale, le verifiche ispettive ed i controlli finalmente bene indirizzati, i numeri che inchiodano gli sprechi. Le competenze pubbliche che possono finalmente venire esaltate e premiate.

La luce scema, stiamo tornando in superficie, la presentazione è finita. Guardo il Magistrato e gli dico, “stia tranquillo, anche se il suo lavoro ormai è inutile”. “Come inutile? Con questi dati così bene analizzati, beccherò tutti gli sprechi!”. Ma no, gli rispondo, non ce ne sara più bisogno, dei controlli, di fronte all’evidenza tutti si adegueranno verso i migliori, chi prima chi dopo, con un ulteriore investimento in competenze per i più deboli e con i migliori ampiamente premiati. Combatterete forse solo le patologie di qualche folle che non ha ancora capito che l’ossigeno non c’è più, è finita la bombola e per quelli che non sanno nuotare coi propri mezzi la vita si fa dura.

Usciamo all’aria fresca. La realtà della terra ferma è diversa di quella della profondità del mare. Ma ci torneremo. Con un nuovo Governo, scommetteremo su una spending review che dia risorse al Paese dal taglio degli sprechi. Con un nuovo Governo scommetteremo sul talento delle persone negli appalti e sulla loro capacità di dare servizi al Paese che siano al livello delle richieste di cittadini e di imprese. Basterà fare tutte quelle piccole grandi cose negli appalti che questo Governo non ha voluto fare malgrado avesse avuto la capacità tecnica e il sostegno politico per farlo, al contrario del Governo che l’aveva preceduto.

La rotta è tracciata. Il mare è profondo, ma abbiamo la lanterna magica. Grazie RB.

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Elezioni recessive

Ieri sera a una cena con investitori, regolatori, diplomatici e giornalisti esteri, la domanda era una sola: chi vincerà le elezioni in Italia? Diciamo che ho cercato di cambiare discorso, sia perché non avevo risposte molto originali sia perché volevo fargli capire invece che non c’era tempo da perdere e che bisognava parlare di economia e di come questa può essere (ben meglio) governata, in Italia ed in Europa. Comunque tutti brancolavano nel buio sul futuro politico italiano.

In effetti, ho pensato poi, l’incertezza su queste elezioni non è da poco.

E che succede quando impera l’incertezza politica? Beh basta leggersi l’ultimo lavoro appena uscito di Candance Jens dell’Università di Rochester che studia l’andamento degli investimenti fisici in quegli Stati Usa che nel trimestre successivo affrontano una elezione per un nuovo Governatore.

Ebbene gli investimenti calano in media del 4,5% rispetto agli stati senza elezioni. L’effetto dell’incertezza politica è più forte per le piccole imprese (15% in meno), per le aziende più “sensibili alla politica”, ovvero quelle più regolate, e quando le elezioni sono, appunto, più incerte nel loro esito finale.

Certo dopo le elezioni gli investimenti riprendono, di più negli stati dove non ci sono state le elezioni.

Ma, mi dico, cosa avverrà in Italia se le elezioni non daranno una maggioranza chiara e l’incertezza politica si protraesse? E con essa il calo degli investimenti e del PIL?

Continuiamo a giocare col fuoco. Una recessione protratta vuol dire maggiore instabilità sociale e dunque maggiore rischio di morte dell’euro. Quando ciò avverrà i becchini saranno i professori dell’”io l’avevo detto”. Ma che l’avessero detto o meno sarà irrilevante: conterà solo l’avere distrutto per miopia politica, nelle sue varie e idiotiche sfaccettature, l’Europa dei nostri figli.