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Mentre il mondo va, la nostra università sta. Ferma sta.

Oggi, nel silenzio generale di un Paese che ha altre cose a cui pensare, si è chiusa ufficialmente la finestra temporale per tantissimi giovani e meno giovani ricercatori e professori universitari per partecipare al bando di abilitazione nazionale, condizione necessaria per la promozione di carriera.

Stefano mi dice che quando ha chiuso la sua domanda il sito gli ha affibbiato il numero ottantantamila e passa. Se ogni candidato ha fatto in media due domande, su due settori scientifici disciplinari diversi, parliamo di circa quarantamila persone che aspettano con giustificata ansia che si avvii un meccanismo che permetta di aspirare ad un salto di carriera.

Quarantamila persone. Tutte on line a fare domanda, a inserire i loro lavori sul web, scannerizzati. Molti giovani. Moltissima burocrazia. Controlli a tappeto. Se dovessi essere eletto commissario dovrò leggere chissà quanti lavori di giovani bravi e meno bravi, invece di selezionare quello che già so sarebbe utile alla mia università, liberamente, senza concorsi, per poi essere valutato sulla sua qualità e ricevere finanziamenti solo se effettivamente avevo avuto ragione a selezionarlo. Ma no, facciamo i mega concorsi farsa.

E intanto il mondo va. Senza ottantatamila domande sul web.

Mentre il mondo va, la nostra università sta. Ferma sta.

Senza che nessuno parli di come convincere i nostri giovani, così ben preparati da mietere successi all’estero, a rientrare dopo la giusta esperienza all’estero, fatta anche per aprire gli occhi, quando il primo nostro stipendio è di 3 o 4 volte inferiore al primo stipendio che offre lo straniero.

Senza che nessuno al vertice scommetta sull’Italia come volano di export di formazione, in cui i nostri campus universitari si attrezzino con quelle poche noccioline di qualche miliardo di euro ad avere residenze universitarie per accogliere migliaia di studenti stranieri desiderosi di pagare rette da 10.000 euro pur di formarsi da noi. E che invece finiscono in Francia, o in Svizzera. Perché non abbiamo, oltre alle residenze, i programmi in lingua inglese.

Questo Governo non ha fatto nulla per cambiare l’Università, mentre la riforma Gelmini dimostra ogni giorno di più la sua vera natura: una riforma gattopardesca. Senza impatto. Mediocre.

Gli assenteisti a lezione, tra i prof, sono sempre lì. Come sono sempre lì quelli che dovrebbero insegnare 120 ore per contratto e ne fanno la metà, magari a classi con pochi allievi perché non si sporcano le mani con tanti studenti. E quelli che fanno fare lezioni ai loro studenti o ricercatori ma si tengono il nome del corso sono ancora lì, tranquilli.

Nella mia (ex) Facoltà i Dipartimenti – ora nuovi centri che dovevano cambiare in maniera “epocale” il modo in cui si fa ricerca in Italia – si dividono tra loro in risse inutili e ridicole. Un giovane ricercatore ieri al bar mi parla di “noi” e “voi”, manco fossimo Israele e Palestina. Come al solito quando ci sono solo briciole, i poveri si fanno la guerra tra loro.

Nessuno parla di centralizzare gli uffici acquisti degli Atenei per risparmiare ed investire, mentre i programmi di insegnamento migliori non sono premiati, esattamente come i programmi peggiori.

Le statistiche sul nostro tasso di laureati ci relegano al margine del mondo. Mentre sempre meno giovani si immatricolano (288.000 nel 2010, contro i 294.000 nel 2009), manca un piano nazionale che individui i giovani più talentuosi alle medie e li segua nel loro percorso liceale. I più bravi al liceo non sono indirizzati in funzione del loro voto di diploma verso le scelte più prestigiose anche perché non esiste, come in Turchia, un premio per chi ha fatto bene a scuola, tale da poter scegliere per primo a quale università iscriversi.

Se i Viaggiatori in movimento fossero al governo dell’Università farebbero in pochi anni quello che nessun Governo ha voluto fare in tutti questi anni: premiare il talento (che c’è, eccome, e che può essere attratto ancora di più), organizzare le strutture, trovare i fondi nei risparmi realizzati e nei ricavi da espansione verso l’estero, insegnare bene, controllare che si insegni bene, ricercare bene. Senza l’ipocrisia di centinaia di concorsi e controlli finti ma facendo arrivare i soldi a quelli che assumono i più bravi, liberamente, senza concorsi.

Lo dico perché stiamo scrivendo una possibile riforma, da fare in qualche mese, che cambierebbe tutto: la cosa più sconvolgente è quanto sarebbe facile provare a farlo. La pubblicheremo nel programma dei Viaggiatori. Ma il punto non è questo: il punto è la mediocrità assoluta, banale, di chi ci governa senza un filo di idee, di voglia di cambiare, di innovare, di stupire. La stasi.

La mediocrità di questo Governo come dei precedenti, nell’Università, impera. E mentre il mondo va avanti, noi, fermi, arretriamo. Sveglia, si può fare. Non tutto è Gattopardo.

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A Natale Monti per favore tagli i regali

Così commentavo 9 mesi fa sul blog il Codice Etico del Ministero dell’Economia e delle Finanze:

Mi sconvolge un poco invece apprendere dall’esistente Codice Etico, che si possono accettare doni fino a 150 euro: mi pare una cifra enorme e forse farebbe il Governo a ridurla drasticamente. Tra l’altro, mi fa notare qui una collega italiana al convegno di Copenhagen, e se uno facesse 3 regali da 149 euro a distanza di qualche settimana?

Vediamo cosa fanno negli Stati Uniti…:

“Un impiegato può accettare doni, non sollecitandoli, che abbiano un valore di mercato aggregato di 20 dollari o meno per occasione, purché il valore aggregato di mercato dei singoli doni per una persona non superi i 50 dollari per anno solare”. Seguono abbondanti esempi, quali: se ricevi due regali, uno da 18 ed uno da 15 dollari, deve rinunciare ad uno.

 Che aspettiamo ad adeguarci? Mi pare che 150 euro siano troppi.

Ora leggo un affascinante articolo di due economisti tedeschi, una che lavora negli Stati Uniti ed uno a Monaco di Baviera. Sul ruolo che giocano i (piccoli) regali nell’influenzare i comportamenti altrui quando questi sono mirati a convincere un decisore (una stazione appaltante?) a favorire il donatore (un fornitore?) a scapito di qualcun altro (un altro fornitore?), magari più bravo, a danno dell’interessato finale alla bontà della decisione (il contribuente/cittadino?).

Il loro esperimento di laboratorio rivela risultati interessanti.

Come che, rispetto ad una situazione in cui i doni non sono possibili, chi riceve i (piccoli) doni si sente molto più in “dovere” di reciprocare la generosità del donatore anche se questa va a danno di colui per il quale il percettore del regalo lavora (perché sarebbe stato meglio aggiudicare la gara all’altro fornitore) ed anche se non vi sono per lui addizionali premi monetari (tangenti) o se l’interazione non si ripeterà.

L’effetto di questi piccoli doni non è … piccolo, anzi è ben maggiore di quando non vi sia una terza parte interessata ed il percettore del dono compra per sé: in questo caso utilizza il più delle volte il fornitore migliore. Per di più chi riceve il dono sa bene che questo è stato fatto per ottenere un favore che va a danno del proprio utente-referente (cittadino/contribuente), ma contraccambia comunque aggiudicando la gara al fornitore sbagliato, quello che ha fatto il piccolo dono.

Anche il non fare un dono ha effetti nocivi per il (non) donatore che viene spesso punito: anche se si ha il prodotto migliore, non fare il (piccolo) regalo riduce la probabilità di essere selezionati dal 90% a meno del 60%.

Come spiegare questi risultati? Gli autori affermano che un (piccolo) regalo fa scattare un “obbligo” a contraccambiare, un “legame speciale”. Più l’atto è inatteso, maggiore la voglia di contraccambiare.

Come mitigare il problema?

La trasparenza? Non funziona, e cioè non compensa la voglia di contraccambiare che cancella invece ogni tipo di “vergogna”.

Variare la dimensione massima del regalo? Certamente, vietandoli per esempio.

Ma la cosa più interessante è che quando il valore del regalo cresce, il problema diventa meno grave. Il percettore del dono sentirà scattare una molla, o senso di colpa, o sospetto che il regalo sia chiaramente visibile come inteso per motivi di frode/corruzione.

Insomma a Natale, Presidente Monti, vieti i regali, il Paese gliene sarà grato. Modifichi tutti i Codici Etici e vieti tutti i doni.

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Bisin e la fallace austerità

Ho avuto modo di interagire con Alberto Bisin in occasione dell’incontro molto bello e pieno di vis polemica all’università Tor Vergata tra il sottoscritto ed i fermatorideldeclino, gruppo a cui Alberto appartiene.

Quel giorno ho apprezzato la sua moderazione e voglia di dibattere. Resta però scolpita nella mia mente la sua frase di allora: “congiuntura (o ciclo economico)” come fenomeno “relativamente irrilevante”. Irrilevante?

Oggi Alberto si sente obbligato a rispondere a tutti quelli che sostengono che:

politiche di riaggiustamento fiscale, nel mezzo di una recessione, non sono desiderabili perché sono controproducenti in quanto aggravano la recessione stessa.”

E’ interessante che Bisin sia d’accordo con la seconda parte della frase, quella in grassetto:

Ma comunque la si rigiri, …. una politica di austerità fiscale – almeno nel breve periodo – deprime l’attività economica. E deprimere l’attività economica quando essa è già depressa (in una recessione) fa più male.

Quindi,  direi che anche per Bisin tanto “irrilevante” le politiche di austerità non sono. Un passo avanti notevole che raramente si ode dalle parti dei fermatorideldeclino.

E’ tuttavia sulla desiderabilità (il sottolineato sopra) di queste politiche che Bisin non concorda:

Lo scivolone logico sta nell’assumere che l’affermazione che politiche di austerità peggiorino la recessione implichi  che esse non siano desiderabili”.

E dunque in quanto segue nel suo pezzo Bisin considera le varie opzioni alternative a quelle dell’austerità e ne esclude una serie come implausibili.

Fa piacere vedere che quella che ritiene la più fiera avversaria, l’ultima da demolire, sia quella che su questo blog sposiamo da sempre:

Ma concentriamoci solo su quelle tra le altre politiche che siano al contempo sensate e rilevanti riguardo (sic) nostra discussione. I più fieri e seri sostenitori della indesiderabilità di politiche di austerità oggi hanno in mente – generalmente – politiche espansive (o almeno non recessive) oggi associate ad un riaggiustamento fiscale in futuro (quando la recessione sarà terminata). Il buon senso sembra chiaramente a loro favore: se riaggiustare bisogna, meglio quando fa meno male. Ma il buon senso funziona finché funziona.”

Bisin vede “due problemi con questa classe di politiche, espandere (non contrarre) oggi per riaggiustare domani”.

Primo problema. “Aspettare ad intervenire allungherebbe la recessione … l’austerità serve (ai mercati) a convincerli ad allentare la presa”.

Verrebbe da dire a Bisin: ma i mercati non stanno allentando la presa. Ma lui su questo ha la risposta (giavazziana?) pronta: è vero, ma è perché l’austerità la stiamo facendo male, non riducendo la spesa ma aumentando le tasse. Detto che, come abbiamo visto nel post sul pezzo sulla Voce di Giavazzi, i tagli di spesa ci sono eccome (pienamente a casaccio e non a taglio degli sprechi, quindi ampiamente recessivi), Bisin sembra avere in mente un mondo dove spread a 350 punti base (5 miliardi di meri trasferimenti e non di domanda di beni) siano più recessivi di 30 miliardi di minori spese. Siccome in realtà lui stesso riconosce che “una politica di austerità fiscale – almeno nel breve periodo – deprime l’attività economica”, vorremmo capire come sia possibile che si allunghi la recessione alleviando l’austerità. Mai e poi mai i costi dei maggiori spread hanno un potere congiunturale equivalente alla minore di domanda se guardiamo alle dimensioni dei valori in gioco.

Secondo problema: “anche se la recessione se ne andasse come una fatina cattiva al sorgere del sole, indipendentemente dai nostri comportamenti durante la notte, attendere per riaggiustare, nel contesto istituzionale italiano, oggi,  significa procrastinare ad libitum: non riaggiustare mai … L’Italia non ha bisogno di riaggiustamento fiscale da oggi, ma da almeno un decennio.  Abbiamo avuto condizioni economiche favorevoli per farlo (bassi tassi di interesse, cortesia dell’Euro) e non abbiamo riaggiustato. Come immaginare che domani sarà diverso, che domani usciti dalla recessione ci butteremo a picco nel riaggiustamento, nelle stesse condizioni in termini di struttura politica ed istituzionale?”

Ecco, questo mi pare problema decisamente più comprensibile. Tra l’altro questo Alberto l’aveva già sollevato al dibattito a Tor Vergata, e mi sento di ripetere quanto detto su questo blog allora:

“Non l’abbiamo fatta prima, la riduzione della spesa, quando potevamo, la dobbiamo fare ora quando fa male. Rimediare ad un errore con un altro errore? No grazie. Certo, esiste un problema di garantire alla cittadinanza che quando l’economia tornerà a crescere la spesa pubblica scenderà. Ed ha ragione Bisin a preoccuparsi di questo perché finora non possiamo dirci rassicurati dai nostri politici (né da quelli francesi o tedeschi che hanno fatto saltare il patto di stabilità un decennio fa). Christina Romer suggerisce che un problema simile lo ha anche la politica economica americana. Ma questo è la politica: eleggere qualcuno che lo sappia fare (ringrazio Alberto per avere detto che se ci fossi io al Governo non dubiterebbe che questo avverebbe ma che non sarò mai eletto e dunque  ….) spetta ai cittadini.”

Anche perché, e qui arriviamo al punto chiave ….

Bisin sostiene che “aspettare significa non riaggiustare e non riaggiustare significa essere costretti a farlo in condizioni ancora peggiori (o finire in default)”.

No Alberto. Tu che parli di politica e di dinamica, dovresti sapere che non c’è tempo, che oggi in Europa breve e lungo periodo sono collassati in un unico periodo, quello brevissimo che ci manca all’uscita della Grecia dall’area dell’euro per la stupida austerità impostale (lo dice persino il conservatore Fondo Monetario Internazionale che la Grecia non regge più i falsi e, questi sì, non credibili dinamicamente piani di rientro ellenici). Se esce la Grecia crolla tutto l’euro e allora auguri a tutti noi. La lotta alla recessione e contro l’austerità non è irrilevante: è l’unica cosa rilevante. E siccome tu riconosci il valore nel breve periodo della politica fiscale sai bene che il costo di non espandere spesa e ridurre entrate in tutta l’area euro può essere mostruosamente alto.

Certo tu ti lamenti e dici che “solo 5 anni fa le voci di chi chiedeva un riaggiustamento erano poche, inascoltate, e provenivano principalmente da coloro che, come noi a nFA, continuano a richiedere il riaggiustamento. Dove stavano quelli che oggi chiedono di aspettare tempi migliori? Cosa facevano quando i tempi erano davvero migliori? Aspettavano tempi peggiori per poter aspettare poi tempi migliori”.

Non io Alberto. Io nel 2001 scrissi che l’uso improprio dei derivati e la finta austerità del 3% del rapporto deficit PIL truccato un giorno ci sarebbero tornati indietro e ci avrebbero fatto molto male, e così è stato. Non ricordo nessuno a mio sostegno allora, ricordo solo tante telefonate quando la frittata era ormai fatta, 8 anni dopo, quando si seppe dei derivati greci con Goldman di cui la BCE ancora oggi non ci dice nulla.

Ma avere medaglie al petto non ci rende necessariamente meritevoli di essere ascoltati di più di altri di fronte ad un problema nuovo. E questa recessione, malgrado causata anche dai problemi che noi denunciammo inascoltati, richiede soluzioni nuove perché nuovo e drammaticamente unico è il contesto in cui si sviluppa, quello di una giovane unione monetaria alle prese con un’austerità che sfilaccia sempre più la voglia di stare insieme sotto un’unica bandiera.

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Bocconi e BCE. Bocconi and ECB.

Why would the ECB finance (150.000 euro over 5 years) a private university (Bocconi in Milan) Chair whose first-year beneficiary would be an ECB’s Chairman former co-author, Alberto Alesina?

Whose money is ECB’s money?

How has this potential conflict of interest being dealt by the ECB board?

Thank you for providing me with some clues.

*

Assegnata il primo anno ad Alberto Alesina   (Il Sole 24 Ore Radiocor) – Milano, 15 nov – L’Universita’  Bocconi di Milano ha lanciato, alla presenza del Presidente  della Bce, Mario Draghi e in concomitanza con la cerimonia  di inaugurazione dell’anno accademico, la Tommaso  Padoa-Schioppa Visiting Professorship che portera’ in  Bocconi, ogni anno, un accademico internazionale di chiara  fama. La Professorship e’ stata finanziata dalla Bce per  ricordare uno dei piu’ illustri alumni della Bocconi, tra i  padri fondatori dell’euro e membro del Comitato esecutivo  della Bce dal 1998 al 2005. La Bce contribuita’ con una  donazione di 30mila euro all’anno per cinque anni. Per  l’anno accademico 2012-2013 la Visiting Professorship e’  stata assegnata ad Alberto Alesina, Nathaniel Ropes  Professor of Political Economics presso la Harvard  University.

Sono certo che ci sono mille ragioni corrette per quanto sopra. Ma certo a leggerlo così non lascia un bel sapore.

Ricapitoliamo: la Banca Centrale Europea usa parte delle sue risorse (pubbliche? forse sono giuridicamente considerate private? e di chi in questo caso?) per finanziare una università privata italiana.

Questa università italiana privata ha avuto come suo Rettore l’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri, presente alla giornata di lancio della chair.

Al primo anno dal lancio questa Chair ha visto il finanziamento di un Professore italiano che è stato co-autore di ricerca (di qualità) del Presidente della Banca Centrale Europea che ha erogato la borsa.

Come dicevo ieri, l’università pubblica rischia di snaturare la sua missione quando viene finanziata dal settore privato e deve prendere le giuste cautele per gestire questi conflitti d’interessi. Se queste cautele sono prese in maniera accorta e sufficiente data la dimensione del conflitto, la sua missione non ne viene snaturata.

Dicevo anche che la natura delle istituzioni pubbliche rischia di snaturare quella del mercato privato se queste non sono le prime a dare il buon esempio. Ecco un caso pratico ad un solo giorno dal mio post.

Sarebbe utile sapere come la BCE ha analizzato al suo interno il conflitto d’interessi apparente e potenziale in questa situazione e se pensa di avere messo in atto le giuste contromosse per minimizzarne l’impatto. Ad una prima (certamente superficiale) analisi, inserendo la parola Bocconi sul motore di ricerca del sito della BCE non appare nemmeno le notizia di un tale finanziamento che ovviamente deve essere stato deliberato dal Consiglio della Banca.

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Alcune riflessioni su mercato, giustizia e crisi economica

Bellissima occasione di scambio per il convegno “Fede teologale e pensieri umani”, organizzato per l’Apertura delle Settimane Culturali 2012-2013 dal Vicariato di Roma, Ufficio Pastorale Universitaria. Un fisico, un giornalista, un economista (il sottoscritto) tutti timorosi a confrontarsi con temi che non sono certo il loro pane quotidiano assieme ad uomini di Chiesa. Segue un breve sunto delle mie arrischiate riflessioni, stimolato dagli organizzatori a commentare il punto 35 della Caritas in veritate (che vi allego in corsivo qui sotto, con in grassetto i temi di cui ho parlato), in tempi di crisi economica. Alcune delle riflessioni sottostanti mi sono state suggerite dal libro What Money Can’t Buy di Michael Sandel.

*

35. Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri.

Il mercato è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici. Ma la dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l’importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in cui si realizza.

Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave.

È interesse del mercato promuovere emancipazione, ma per farlo veramente non può contare solo su se stesso, perché non è in grado di produrre da sé ciò che va oltre le sue possibilità. Esso deve attingere energie morali da altri soggetti, che sono capaci di generarle.

*

Giustizia distributiva, mercato e crisi

Se il mercato si estende a tutto, cosa avviene alla giustizia distributiva? Non vorrei qui affrontare una questione spesso toccata e che in questo contesto ritengo banale: l’analisi del mercato dello yacht e del condannare il fatto che esso sia accessibile solo a chi ha più denaro. Perché lo yacht vale poco nella vita di una persona.

Mi interessa qui affrontare cosa avviene se il mercato si estende ad altre sfere che comportano un valore alto dello scambio: cosa avviene cioè se il mercato governa lo scambio di influenza politica (corruzione), l’accesso alla salute, l’accesso alle scuole di qualità (… di élite)?

Succede che una medesima distribuzione del reddito diventa capace di essere compatibile con diversi livelli di giustizia distributiva, a seconda di quanto il mercato aggredisca appunto queste altre sfere della vita sociale così importanti.  E succede che una peggiore distribuzione del reddito,  più probabile in tempi di crisi economica, tanto più è ampia l’area “impropria” del mercato, tanto più è grave nei suoi impatti sul benessere degli individui che appartengono alle fasce più povere della popolazione.

Combattere per la giustizia distributiva forse richiede dunque di più o di meglio che meri trasferimenti di reddito: richiede delimitare i confini del mercato là dove questo non ha bisogno di espandersi.

Mercato, coesione sociale, crisi

Sandel afferma che a volte mettere un prezzo, introdurre un mercato là dove non esiste, corrompe la natura del bene prodotto e scambiato. “I mercati lasciano una traccia. Implicitamente  mercificano.”

Lo sappiamo bene, visto che a volte abbiamo chiuso dei mercati perché mercificano: il divieto della schiavitù è solo l’esempio più ovvio, oggigiorno rileva forse maggiormente quello del divieto del lavoro minorile. Immagino che questi divieti siano stati imposti in nome di un qualche tipo di coesione sociale attorno a dei valori condivisi che altrimenti sarebbe stata minacciata.

Ma cosa avviene se apriamo dei mercati a scambi che non si prestano ad essere mercificati facilmente? Si corrompe il bene che vogliamo produrre. Quanto oramai nelle iniziative culturali o scientifiche universitarie ricorriamo a finanziamenti esterni aziendali? E che impatto hanno sulla conoscenza, il prodotto cioè che deve generare l’università, i conflitti d’interesse che noi ricercatori sentiamo chiaramente ogni volta che ricerchiamo, sì, ma finanziati da un’azienda? Negli Usa alcune scuole cominciano a ricevere impianti video gratis in cambio dell’obbligo per i più giovani di assistere a programmi educativi che contengono messaggi pubblicitari: che cultura assorbono i ragazzi?

Siccome la crisi economica restringe gli spazi per il finanziamento di scuole ed università, molte di queste cercano appunto di ricavarsi spazi con l’aiuto del settore privato. Ma così facendo rischiano di compromettere il valore del bene che sono sensate generare.

Quando negli Usa dalla comprensibile assicurazione sulla vita degli amministratori delegati, necessaria all’azienda per cautelarsi da un evento particolarmente unico e dannoso, si è creato il mercato dell’assicurazione sulla vita dei dipendenti, non si è forse ridotto il valore della vita umana dei propri dipendenti e l’incentivo a tutelarne la salute sul posto di lavoro?

Insomma, usando le parole di Sandel, il rischio, che non dobbiamo dimenticare, è quello di transitare dall’ “avere un’economia di mercato” all’”essere una società di mercato”.

Giustizia commutativa, mercato e crisi

La giustizia commutativa regola i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici. Essa è fondamentalmente correttiva: mira pareggiare i vantaggi e gli svantaggi tra i due contraenti quando questi soggetti non risultano partire da situazioni paritetiche.

La giustizia commutativa presiede ai contratti. I quali possono essere volontari o involontari.  Cosa sono i contratti involontari? Quelli fraudolenti, certo, come il furto, il tradimento, la falsa testimonianza, le percosse, l’uccisione, la rapina, l’ingiuria, ecc.

Ma siamo sicuri che i contratti “involontari” si fermino a questi? Un giovane bambino indiano povero che entra volontariamente in un contratto con una ricca famiglia di un paese benestante per lo scambio di un rene in cambio di denaro, è veramente in una situazione paritetica?

Mentre mi pare ovvio dire che in molti casi la giustizia commutativa induce giustizia distributiva dando maggiore potere contrattuale alle parti deboli, credo che l’esempio del rene ci mostri come anche una maggiore giustizia distributiva, che libera il giovane indiano dall’indigenza, induce giustizia commutativa evitando che sia volontariamente costretto a cedere il suo rene per … sopravvivere.

E non c’è dubbio alcuno che la crisi esaspera i problemi di ingiustizia commutativa. Lo fa mettendo maggiormente in difficoltà le parti solitamente deboli nei contratti: giovani e piccole imprese.

Ecco perché quando la Caritas in veritate suggerisce che il mercato debba attingere ad altre energie morali per sopravvivere, io continuo a chiedermi da tempo se lo Stato possa essere uno dei fornitori principali di questa energia, se lo Stato rientra tra quegli “altri soggetti” che essa indica.

E nel rispondere mi pare di potere dire che lo Stato debba sapere generare giustizia distributiva e commutativa nel senso sopra detto se vuole dimostrarsi all’altezza della sfida essenziale di rafforzare il mercato, dandogli vita vera.

Per fare ciò lo Stato non deve sprecare. E dunque deve basarsi sulla competenza e la conoscenza. Ma non basta, deve anche lottare contro la sua stessa corruzione, diversa da quella più sottile ma altrettanto e forse più pervasiva dei mercati, descritta sopra. Deve basare la propria azione su dei valori fondanti della comunità che governa.

Perché uno Stato corrotto corrompe i mercati che deve regolare. Lo so io che ho scritto un libro sui derivati usati impropriamente dai Governi, dove indicavo come uno dei rischi maggiore la dissoluzione morale che ne sarebbe conseguita per i mercati privati dei derivati nel momento in cui lo stesso regolatore pubblico, per fini propri legati a logiche di corruzione o frode, mostrava di non essere interessato a tutelare la correttezza dello scambio quando lui stesso vi era coinvolto (Grecia e Goldman Sachs sono solo uno dei tanti esempi).

Se oggi la logica del mercato esteso a tutto ha un suo clan di tifosi così ampio è anche perché non abbiamo saputo intingere a sufficienza nella competenza e nel rispetto dei valori storici fondanti l’azione del governo della cosa pubblica.

Il che indica al contempo la retta via: maggiore competenza e rettitudine pubblica giustifica il retrocedere dei mercati all’interno della nicchia dove svolgono il loro ruolo fondamentale, quello di supporto alla crescita non drogata dell’economia di mercato e alla conseguente espansione delle opportunità nel rispetto della dignità degli uomini.

Se la crisi economica pare dunque farci correre il rischio di divenire ancor più società di mercato, la presenza (ma solo se) virtuosa dello Stato nell’economia in tempi di crisi può ridare linfa vitale all’economia di mercato, e non solo in un senso keynesiano.

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La vita delle persone resiste di piu’ alla prova dei fatti delle assunzioni degli economisti

La lettura del post sulla Voce di Giavazzi è tanto breve quanto piena di sorprese. Così tante che sono obbligato a tornarci sopra. E smantellare spero per l’ultima volta argomenti gravemente carenti che impediscono all’Europa di liberarsi della sua assurda austerità.

In corsivo troverete il suo testo.

Negli ultimi mesi del Governo Berlusconi e nel primo anno del Governo Monti sono state varate nuove imposte (centrali e locali) per un ammontare pari a circa 4 punti di Pil (stima del vice-direttore della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, in una recente audizione parlamentare).

Si presume, anche se non lo dice, che Giavazzi si riferisca alla tabella 7 di questo testo di Rossi.

Ma le 45 miliardi di entrate nuove tra 2011 e 2012 che vi si leggono ammontano a molto meno del 4% del PIL. In realtà, è tuttavia plausibile che al 2015 l’impatto delle nuove entrate deliberate nel 2011-2012 ammontino circa al 4% del PIL.

Sembrerebbe dunque che Giavazzi abbia ragione?

Oh no.

Già. Chissà perché si scorda di ricordare che, sempre al 2015, la spesa pubblica sarà stata ridotta, dagli stessi provvedimenti in questione, di circa il 3% del PIL.

Procediamo dunque con questa preziosa informazione.

Per valutare l’effetto di questo shock fiscale sull’economia italiana è necessario usare un “moltiplicatore”, cioè una misura dell’effetto (probabilmente recessivo) di un inasprimento fiscale. Vi è un ampio dibattito sul valore del moltiplicatore delle tasse.

E della spesa no?

Christina e David Romer, dell’università di Berkeley, in un articolo pubblicato due anni fa sull’American Economic Review, e che ha fortemente influenzato la ricerca in questo campo, stimano per gli Stati Uniti, un moltiplicatore che raggiunge il valore di -3 dopo tre anni. In altre parole, un inasprimento fiscale pari a un punto di Pil ne riduce il livello, su quell’arco temporale, di 3 punti.

Toh. Ma perché già che ci siamo non prendiamo i dati della Romer più credibili di tutti, quelli che lei stessa ha usato per la manovra che ha messo su per il suo Presidente Obama nel 2009 (pagina 11 di 12)? Che stima come moltiplicatore 1,5 per la (maggiore e minore) spesa e 1 per la minore o maggiore) tassazione?

Lo stesso Giavazzi ci dice che:

… In una ricerca che applica una metodologia simile a un campione di quindici paesi Ocse, Alberto Alesina, Carlo Favero ed io stimiamo, per l’Italia, un moltiplicatore che è pari a poco meno di – 1.0 a un anno di distanza dallo shock fiscale e che poi sale fino a circa – 2.0 dopo due-tre anni.

ma toh! Di nuovo nessuna menzione dei dati sul moltiplicatore della spesa pubblica.

I conti tornano: a meno di un anno di distanza dallo shock fiscale, il Pil italiano è sceso di due punti e mezzo, con un moltiplicatore pari a – 0,65.

Eh no, i conti non tornano. Cancellare ideologicamente il moltiplicatore della spesa pubblica non lo fa sparire dalla vita vera delle persone. E questa vita delle persone resiste ben di più alla dura prova dei fatti delle assunzioni degli economisti. Per fortuna.

Se presumiamo dunque, come dice la Romer, che il moltiplicatore della spesa pubblica sia 1,5 volte quello delle tasse, come suppone la Romer, abbiamo un semplice problema di matematica da risolvere per trovare il moltiplicatore della (minore) spesa pubblica 2012 (3% di PIL), chiamato X, e il moltiplicatore delle (maggiori) tasse (4% di PIL), Y, che è uguale a 2/3 di X, moltiplicatori che insieme spiegano la maledetta decrescita del PIL 2012 del 2,5%:

-2,5 = – (X * 3 + Y * 4) = – (3 X + 8/3 X) = -17/3 X

X = moltiplicatore della spesa pubblica = 0,5 circa e

Y = moltiplicatore della tassazione = 0,3 circa

Ulla. Ma allora … la spesa pubblica conta!

Se crediamo alle stime del moltiplicatore citate sopra — e pur escludendo i valori “estremi” stimati dai Romer — nei prossimi due anni l’economia, in assenza di variazioni nella politica fiscale, si contrarrà di altri due punti-due punto e mezzo.

Alla luce di questi conti, mi chiedo che cosa possa indurre all’ottimismo sulla crescita e che cosa giustifichi l’annuncio che “si inizia a vedere un po’ di luce in fondo al tunnel”.

Ecco, su questo caro Francesco siamo d’accordo. Ma che sia chiaro: i tagli a casaccio della spesa pubblica sono ancor più responsabili di questa crisi dei (maggiori) aumenti di tasse.

Il che significa una sola cosa: che per uscire da questa dannata crisi dovremo far conto sull’unico vero strumento che stimola l’economia in maniera convincente in queste recessioni da domanda aggregata: appalti, appalti, appalti pubblici.

Tutto il resto è ideologia.

Grazie ad L. ed a M. ed ai loro amici.

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E mail di una rappresentante di classe di seconda elementare

Mi trasmettono (in formato anonimo) la mail che una rappresentante di classe di 2° elementare di una scuola pubblica italiana ha girato ai genitori degli alunni. Grazie A.

Buongiorno a tutti. Ho delle comunicazioni da darvi da parte delle insegnanti.

Nota dolente: sembrerebbe che da gennaio 2013 taglino i fondi statali alle scuole e quindi sarebbero annullate sia le gite che il progetto di recupero. Per le gite la scuola ha deciso di farle comunque. Le maestre infatti hanno rinunciato al loro compenso e accompagneranno ugualmente i bambini. Il progetto di recupero invece, le impegnerebbe per più di due mesi ed è decisamente troppo oneroso senza neanche il minimo rimborsi spese. Così hanno detto che, nell’eventualità venisse annullato, lo faranno in classe ritagliando le ore dalle materie meno ricche di programma.

La gita a …… per Scienze è stata spostata a scuola. Andare ci sarebbe costato troppo. Invece siccome si può organizzare a scuola facendo venire gli astrofisici risparmiamo un bel po’. Il progetto cambia nome in “Il cielo in una scuola”.

Per il regalo di Natale alle maestre (e quindi alla classe), mi avrebbero chiesto uno stereo portatile perché quello che adesso hanno le sta abbandonando. Quindi mi orienterò sullo stereo.Oggi pomeriggio andrò a prendere il materiale che mi hanno chiesto di comprare le maestre e appena verificato se possiamo comprare anche lo stereo vi mando il prospetto delle spese sostenute con il fondo cassa.

C’è un mondo là fuori, pieno di dignità e voglia di resistere che non va dileggiato né umiliato con frasi qualunquiste sugli sperperi  pubblici e l’assenteismo. C’è un mondo che va aiutato. Aiutato a resistere. Aiutato a migliorarsi. Aiutato a continuare nella sua fondamentale missione. Ci vogliono risorse, risparmi dove possibile e non a casaccio, formazione, controlli, e soprattutto presenza attiva. Per monitorare, incoraggiare, premiare. Tutto questo (e molto altro ancora ( ;-) ) ) vogliono iviaggiatorinmovimento nel loro programma prossimo ad uscire sulla scuola.

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Ma, nel frattempo, motori a tutta forza, via dall’iceberg

Ma che meraviglia.

Il prof. Giavazzi è diventato keynesiano.

Sono felice di questo, molto felice. Alla fine altro che goccia che scava la pietra, qui la goccia ha scavato la montagna.

Ebbene sì, secondo Francesco: 1) esiste qualcosa chiamato “moltiplicatore” della politica fiscale, 2) addirittura spiega tutta la recessione nella quale ci troviamo e 3) questa recessione è tutta dovuta alle manovre adottate dal Governo Monti e dagli ultimi mesi del Governo Berlusconi.

Potete immaginare la mia gioia nell’apprendere che secondo Giavazzi, al contrario di quanto pensa Michele Boldrin, esiste qualcosa chiamato ciclo economico (congiuntura?) che spiegano l’attuale andamento dell’economia italiana. Altro che riforme che non ci sono e che non arrivano. Le riforme secondo Giavazzi non spiegano nulla del PIL 2012 e probabilmente di quello 2013.

Non solo, ma apprendiamo che questi valori del PIL, questa terribile recessione, non ci cascano in testa dalla crisi internazionale ma lo hanno deliberato gli ultimi due Governi, prendendosene la piena responsabilità politica. Senza, aggiungiamo, aver portato a casa il minimo miglioramento del così chiave rapporto debito pubblico-PIL, ma anzi un suo peggioramento.

A conferma di questa sua splendida trasformazione, e delle sue affermazioni, il Giavazzi keynesiano cita la più “keynesiana” degli economisti del governo Obama, Christina Romer, il cui nome ha spesso trovato spazio su questo blog.

Peccato però.

Peccato che Giavazzi si perda per strada un piccolo dettaglio.

Che fare i keynesiani è roba pericolosa. Richiede coerenza. Per esempio che, se come lui argomenta, esiste un moltiplicatore che deprime la domanda ed il PIL se aumenti le tasse, esiste dunque anche un moltiplicatore che deprime la domanda ed il PIL se riduci la spesa pubblica come questo Governo intende fare nel 2013.

Peggio ancora, se usi il moltiplicatore come metodo investigativo, lo puoi anche usare come strumento di politica economica: e dunque se ammetti che meno tasse aiutano il PIL, ma anche che più spesa pubblica aiuta il PIL, sai cosa fare: o più spesa o meno tasse. Per uscire da questa crisi autoimposta, come dice Giavazzi.

Ma più spesa pubblica o meno tasse? Cosa è meglio?

Ora Giavazzi non parla della spesa pubblica perché sembra soffrire di allergia nei suoi confronti. Allergia ideologica. Ma un economista non si fa guidare dall’ideologia, ma dai numeri. Freddi e puri.

E allora vediamo cosa dicono i numeri. Potremmo prendere migliaia di studi sul moltiplicatore, ma fidiamoci di Giavazzi, prendiamo la sua economista keynesiana preferita, Christina Romer. Che su questo tema meno di un mese fa ha scritto sul New York Times le seguenti cose (da me tradotte, non ideologicamente), sulla manovra fiscale dei primi anni Obama:

malgrado il Recovery Act di Obama pare avere avuto molti benefici sull’economia Usa, avrebbe potuto essere più efficace … Un mix diverso di maggiori spese e minori tasse sarebbe stato desiderabile. I soldi dati agli stati e ai comuni per migliorare i loro problemi di bilancio pare essere stato particolarmente efficace a creare posti di lavoro nel breve termine. D’altro canto, molte famiglie non hanno nemmeno compreso di avere ricevuto tagli d’imposte, e ciò può avere avuto un impatto minore di quanto inizialmente immaginato. E rimpiango disperatamente  di non essere stati capaci di creare un programma di occupazione pubblica che avrebbe potuto direttamente assumere molti disoccupati, specialmente giovani“.

Le minori tasse funzionano molto peggio della maggiore spesa pubblica nel generare ripresa. Vanno bene tutte e due, ma è bene saperlo, chi funziona meglio.

Già Francesco, funziona così l’essere keynesiano. E’ magico, perché è coerente, finché deve durare. Fino a quando questo Governo e questa Europa ci forzeranno con le loro stupide e scellerate politiche a rimanere lontani della piena occupazione ed a rischiare la fine dell’euro, essere keynesiani vuol dire spingere tutti i motori della nave, specie quelli più potenti, per spingerci lontano dall’iceberg prima che sia troppo tardi.

Quando finalmente saremo fuori pericolo, quando finalmente con un uso sapiente e solidale delle politiche economiche avremo convinto il settore privato a riprendere con coraggio il cammino, quel giorno sarò felice di mettere in soffitta i miei bellissimi (e un po’ consunti dal tempo che passa) vestiti londinesi anni 30 da keynesiano e avviarmi con un fantascientifico completo da far invidia alla City, verso un luminoso futuro da liberale che desidera lasciare quanto più spazio possibile alla libera iniziativa privata.

Ma, nel frattempo, motori a tutta forza, via dall’iceberg.

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23 anni di dolce far niente

Parlare di sprechi negli appalti è essenziale. Così diventa essenziale parlare di collusione negli appalti e di come questa viene combattuta, visto che la restrizione della concorrenza in gara da parte dei potenziali fornitori della Pubblica Amministrazione porta il più delle volte a prezzi d’acquisto più alti o, meno frequentemente, a minore qualità rispetto a quanto desiderato.

Ma i dati son pochi. A meno che uno non capiti a un convegno con un dirigente dell’antitrust, Pierluigi Sabatini, che ti sciorina una serie di dati impressionanti sul tema. In realtà su quanto poco il tema è stato al centro dell’agenda di politica economica ed industriale del Paese.

Leggere per credere. Numero di istruttorie su collusione in appalti pubblici aperte da nascita Antitrust (23 anni) =  22. Meno di una l’anno.

Incredibile.

In 21 dei 22 casi l’Antitrust accerta la colpevolezza delle aziende. 2 soli ricorsi delle aziende sono stati accolti in secondo grado.

4 istruttorie sono state aperte per boicottaggio orchestrato fuori dalla gara: in alcuni casi perché le aziende si sono rifiutate di partecipare ad una gara, in altri casi hanno partecipato praticando lo stesso prezzo, in un caso praticando prezzi alti.

18 istruttorie aperte riguardano collusione in gara: 1/3 con offerte fasulle dei (finti) perdenti, 1/3 con partecipazione selettiva di alcune aziende e non di altre ed 1/3 con partecipazione in ATI (raggruppamenti temporanei d’impresa).

22 istruttorie in 23 anni sono bruscolini. Uno vero e proprio scandalo. Perché non vengono segnalati casi di collusione negli appalti pubblici all’Antitrust?

Sabatini indica due possibili motivi, tutti e due altamente credibili:

a) poche segnalazioni da parte delle stazioni appaltanti.

A sua volta per 3 possibili ragioni:

a1) incompetenza. Le stazioni appaltanti non sanno individuare se l’esito della loro gara è “macchiato” di collusione. Non hanno le competenza sufficienti per farlo. Probabilità che Piga assegna a questo evento: alta. Soluzione? Quella che proponiamo da tempo su questo blog: ridurre drasticamente il numero di stazioni appaltanti, concentrarvi le migliori competenze del Paese, adeguatamente remunerate.

a2) esigenza di assegnare la fornitura. Le stazioni appaltanti, non disoneste, temono che denunciando all’Antitrust una possibile (ma non certa) collusione, la gara debba essere interrotta e si debba abbondantemente ritardare la consegna dei beni pubblici domandati. Probabilità che Piga assegna a questo evento: medio/alta. Soluzione? Rimuovere l’incertezza nella testa (mia e delle stazioni appaltanti) che denunciando una possibile collusione non si possa al contempo continuare con l’aggiudicazione della gara fino a sentenza definitiva. Le punizioni al cartello potranno essere adottate a valle di tale sentenza, anche, se possibile, per recuperare i danni dei prezzi alti per i contribuenti.

a3) corruzione. Le stazioni appaltanti non denunciano la collusione perché esse stesse coinvolte.  Probabilità che Piga assegna a questo evento: media. Soluzioni? Poche. A meno che … non parliamo del secondo motivo:

b) poche autodenunce per via dell’inapplicabilità programmi di clemenza. Già. Avrete notato che solo due istruttorie (in 23 anni!!!) sono state aperte per denuncia di ex (?) dipendenti pubblici. Ed 1 istruttoria da membri del cartello pentitisi. Nulla.

Perché, dice l’Antitrust nella sua recente segnalazione al Parlamento ignorata alla grande, non pensare a programmi espliciti di clemenza per quei membri del cartello che denunciano il cartello stesso?

E, soprattutto, che ne direste di aiutare, proteggere, premiare quegli eroi che una stampa idiota chiama “corvi”, e che in America vengono chiamati “whistleblower”, suonatori del fischietto che fischiando, con il loro coraggio, denunciano atti di collusione e corruzione negli appalti?

Altro che la pietosa norma attuale della legge anti corruzione appena approvata che recita (art. 1 comma 51):

(Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti). — 1. Fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia.

Non può essere sanzionato? Non può essere licenziato? Non può essere sottoposto a misura discriminatoria? Ma che razza di battaglia volete che si possa fare in questo Paese se non si decide di rivoluzionare la lotta negli appalti alla collusione, che va a braccetto spesso con la maledetta corruzione, proteggendo e premiando questi eroi che denunciano i malfattori?

C’è un’autostrada davanti a noi: è libera e vi possiamo far scorrere lungo di essa tantissime decisioni di politica economica ed industriale che riducono sprechi, aumentano la effettiva libertà delle imprese e la loro partecipazione alla vita economica, danno servizi pubblici di qualità alla cittadinanza. Dopo 23 anni di inazione assoluta, è tempo delle decisioni vere, quelle che servono al futuro ed al rilancio del nostro Paese.

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Lo spread, vent’anni dopo

Il grafico dei differenziali di tasso reale fatto da Thomas Manfredi, Tommaso Nannicini e Riccardo Puglisi, è bello e interessante, c’è un bel po’ di storia d’Italia e d’Europa dietro.

Contrariamente a quanto dicono alcuni, il secondo picco di differenziale con la Germania – dopo quello dovuto alla prossima svalutazione ed alla inutile difesa del cambio via alti tassi (1992, freccia rossa) da parte della Banca d’Italia – nel 1993 e 1994 (freccia verde) ed il successivo crollo ha poco a che vedere con l’Unione monetaria e molto a che vedere con la riforma che Alberto Giovannini, allora capo del debito estero al Tesoro, su spinta di Mario Draghi, allora direttore del Tesoro, orchestrò per eliminare gli ampi ritardi amministrativi del rimborso agli investitori esteri delle ritenute fiscali sulle cedole dei titoli di Stato che spettava loro.

Nei primi anni dell’euro i differenziali di tassi nominali tra Italia e Germania (che comprendono l’inflazione attesa) sono inferiori ai differenziali d’inflazione (freccia gialla): probabilmente sono le aspettative di minore inflazione in Italia che contano per gli investitori, in un processo di convergenza attesa che pare riflettere l’entusiasmo di allora per l’euro.

Oggi (freccia viola) lo spread reale è tornato a livelli alti, malgrado la nostra inflazione sia più alta di quella tedesca. E qui sta la crisi odierna, che nulla ha a che vedere con il debito pubblico ma con l’aspettativa da parte dei mercati del rischio di svalutazione con il crollo dell’euro, un po’ come prima della crisi del 1992.

Ma una differenza c’è con 20 anni fa. Questo spread è europeo e non più italiano. Se questa svalutazione avverrà, se l’euro morirà non sarà per un errore di politica economica italiana ma per un errore politico europeo. Sarà solo perché in Grecia, con mancanza di lungimiranza politica e di solidarietà sociale, avremo avuto talmente tanta stupida austerità e recessione che il popolo greco dirà basta e uscirà, scatenando un effetto domino.

L’unico antidoto per far crollare questo spread europeo è scommettere sulla crescita economica. Subito. Quella che viene da maggiore domanda interna in tutto il Continente guidato da programmi di spesa pubblica di appalti e minore tassazione.