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Di Monti e di Chilone, dei tecnici (europei) e degli èfori, di Sparta e dell’Europa

Mia figlia Caterina sta studiando Sparta. Primo liceo. Mi chiede di darle una mano e casco sugli èfori, “figure importantissime dell’ordinamento politico spartano, i c.d. sorveglianti … in numero di 5, essi esercitavano il potere esecutivo prima con alcune precise limitazioni, poi in modo sempre più libero e deciso, al punto da imporsi agli stessi re. Così da semplici “sorveglianti” della disciplina dei cittadini, a poco a poco divennero una specie di tribunale supremo cui tutti erano sottoposti, re compresi“.

L’esiguità di numero degli èfori mi ricorda la “dimensione modesta delle amministrazioni europee” citata oggi dal Presidente Monti e da Sylvia Goulard, nel loro articolo (un estratto su Repubblica) sui tecnici (europei) che sono necessari alla politica. Tecnici a cui i due autori sembrano voler riconoscere il mero incarico, come per gli èfori, di “sorvegliare” le amministrazioni dei paesi europei.

L’operazione di sminuire il ruolo della burocrazia europea pare sorprendente alla luce dell’evidente crescente peso della Commissione Europea, che ha di fatto esautorato il Parlamento Europeo e quelli nazionali in termini di potere decisionale.

Pare ce ne fosse uno, tra gli èfori, particolarmente eccezionale: Chilone. Uomo di poche parole, sosteneva di non mai aver commesso nulla di illegale nella sua vita, ma di avere dei dubbi riguardo a un episodio: quando era giudice, per parte sua condannò un amico, applicando la legge, ma convinse gli altri giudici ad assolvere l’imputato. In modo, dice Wikipedia, che fossero salvi sia la legge, sia l’amico.

Ecco, di questi tecnici, di questi savi, forse l’Europa avrebbe bisogno oggi. Di persone capaci di prendere atto che la Grecia ha sfondato ampiamente tante regole, ma che la fratellanza che ci lega a quel popolo ci obbliga ad assolverli, per salvare loro e salvare noi europei, salvare le nostre leggi e la nostra Unione, che per sopravvivere devono essere basate sulla giustizia e non sull’imposizione a priori di norme astratte.

Ma a quanto pare di Chilone ce ne fu uno. Ed uno solo. Degli altri èfori, a cui la storia fa solo un breve cenno, si perdono rapidamente le tracce, assieme al destino della nobile ed oligarchica Sparta, che basò miopicamente tutto il suo avvenire sul potere dei pochi sui tanti.

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L’Italia del futuro e lo stato patrimoniale del Paese

Di solito quando hai un debito hai due modi per ripagarlo: o riduci (vendi) un tuo cespite patrimoniale, o vi dedichi regolarmente parte delle tue risorse annuali, sia con maggiori risorse da ulteriori attività sia riducendo altri costi.

Dopo che hai fatto questa operazione, non stai all’incirca molto meglio o peggio di prima. Conta piuttosto quello che ci hai fatto coi soldi che hai ricevuto a credito. Al limite conta convincere i mercati, per fare futuro debito, che li saprai usare ancora meglio dell’ultima volta che li hai usati (il c. d. buon governo che dovremmo perseguire incessantemente).

Il Paese pare invece fortemente convinto che la riduzione del debito, specie con vendita di cespiti o azioni, sia il toccasana per questo Paese. A senso unico, dovunque ti giri. La recente proposta di italia Futura si allinea sul pensiero dominante quando propone (ad esempio):

gli italiani hanno fatto di tutto e di più, ora è il momento di una patrimoniale sullo Stato per abbattere il debito pubblico con un piano pluriennale di dismissioni del patrimonio mobiliare e immobiliare di Comuni, Province, Regioni e Stato.”

Come se il patrimonio dello Stato non fosse degli italiani. E come se, una volta ridotto il patrimonio, il costo dei nuovi affitti non andrebbe sommato ai benefici dei minori interessi. E come se, una volta vendute le azioni di società detenute, non dobbiamo includere l’impatto dei minori dividendi (per non parlare dell’impatto del minore controllo azionario sulle decisioni dell’azienda per il Paese).

Ma in realtà quello che dico non è esattamente vero. Un dibattito si può creare, di una qualche rilevanza.

Ed è quello se val la pena di ridurre il patrimonio immobiliare e mobiliare pubblico. Ovvero, se è meglio tenercelo o piuttosto dismetterlo per farci qualcosa. E per farci cosa.

Io una proposta ce l’ho. Ma non è mia. Comunque non è certamente quella di ridurci il debito pubblico. E’ del Presidente francese Hollande (qui vedi video in francese). Che propone di usare le risorse della Tobin Tax sulle attività finanziarie per creare un fondo col quale finanziare il sostegno alla disoccupazione giovanile. In Europa.

Ecco, ci siamo.

Mi sarebbe piaciuto vedere che Italia Futura, proprio per il suo nome, ci avesse proposto di usare  i ricavi delle dismissioni per sostenere la creazione di un Fondo per il sostegno temporaneo dell’occupazione pubblica giovanile proposto dal nostro appello al Presidente Mario Monti. La temporaneità del supporto pubblico ai giovani, limitato a questi anni terribili della recessione, spiega il perché proponiamo di finanziare una maggiore spesa pubblica con una cessione di patrimonio e non con maggiori tasse o minori altre spese come apparirebbe più ovvio in tempi normali. Ma non siamo in tempi normali.

Sarebbe stato uno di quei pochi casi in cui la riduzione di un elemento del passivo del bilancio pubblico andrebbe ad aumentare il valore dell’attivo del bilancio del Paese Italia, quello che più dovremmo avere a cuore. Dove, come certamente Italia Futura sa bene, c’è come posta il valore del capitale umano del nostro Paese, che si depaupera inesorabilmente con il trascorrere di queste recessione che leva competenze e aggiunge scoramento e depressione nell’animo dei giovani. Che uccide il nostro Futuro.

Ecco, forse, una volta dibattuta ancora al nostro interno, sarà una delle proposte sul tema “lavoro” de iviaggiatorinmovimento che stiamo ultimando entro il 30 novembre.

Grazie al viaggiatore Stefano Bottaro.

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L’euro o è di tutti o non è di nessuno: 153 – 151 è quasi negativo

E’ forse l’ultima occasione. 153 voti su 151 di maggioranza. Così l’agorà greca, un’agorà murata i cui battenti rimangono ancora chiusi al vociare sempre meno confuso e sempre più convinto di chi dice basta con l’euro perché basta con la stupida austerità.

Al prossimo voto, in assenza di cambiamenti, si andrà sotto quota 151, perché altrimenti i battenti verranno sfondati violentemente. E quando andremo sotto quota 151, l’euro morirà.

Altro che 2015 dello strano binomio Merkel-Squinzi, il 2015 del primo anno della ripresa economica, unica realistica previsione economica offerta al pubblico (altro che false previsioni rosee sempre spostate in avanti) che tuttavia è miope essa stessa, visto che se prima del 2015 l’euro morisse la recessione europea andrà avanti ben più a lungo, con un’economia alle prese con la riscrittura dei contratti  in valuta nazionale (e le cause in tribunale che arricchiranno solo centinaia di team legali) e società e culture alle prese con un reciproco rinfacciarsi colpe ataviche facendo ricorso ai peggiori stereotipi autarchici.

Penso questo mentre ascolto il fluire sapiente e elegante della logica e delle parole di Emiliano Brancaccio che critica con delicata ironia le assurde previsioni di Zingales sul Giappone.

Siamo al Senato a parlare con alcuni parlamentari della crisi economica. Concordo con lui quando dice che differenziare tra lungo e breve periodo in questo momento storico è semplicemente assurdo. Tutto è oggi, tutto è Grecia, mi dico.

Brancaccio ricorda “l’apprezzabile ottimismo di Piga sull’Europa” ma chiede che si pensi anche a come tutelarsi dallo scenario alternativo che la stupida austerità rende ogni giorno più probabile: la fine dell’euro. Ha ragione. Quando qualcuno propone di usare l’oro della banca centrale per abbattere il debito pubblico dice “attenti, l’oro ci potrebbe tornare utile in caso di uscita dall’euro”. Ha ragione, certo che ha ragione.

Quando prendo la parola cerco di trovare nuove ragioni di ottimismo. Certo che ci sono. C’è il crollo del PIL tedesco: 0,8 quest’anno, 0,8 l’anno prossimo, previsto dalla Commissione europea. Numeri magici per capire, anche per i tedeschi, che l’euro o è di tutti o non è di nessuno. C’è la speranza che finite le elezioni, rieletta la Merkel, nel 2013, questa ascolti. Ascolti, ma chi? Ascolti il nuovo governo italiano unito a quello francese, portoghese, spagnolo, greco, irlandese. Uniti per cosa? Per uccidere la stupida austerità.

Manca poco. Non è più possibile giocare col fuoco, la polveriera è troppo vicina.

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I notabili rispondono all’appello

Ernesto Galli della Loggia parlò pochi giorni fa sul Corriere dei notabili attorno al “Centro”. Gli rispose un po’ indignato Michele Salvati.

Ecco cosa gli avrei risposto io.

Chi è “degno di essere conosciuto”, significato etimologico della parola “notabile” di cui scrive mirabilmente Ernesto Galli Della Loggia?

Non, a mio parere, chi è “in vista”, come intende nel corsivo l’autore, alludendo a caratteristiche visibili ed esterne, quanto chi è “invisibile”, nel senso calviniano del termine, ovvero coloro verso chi nessuno guarda, che hanno dettagli che ad altri paiono invisibili, ma così rilevanti.

Come le città invisibili, ci sono tantissime persone che non appaiono e che costituiscono universi di riferimento etico e civico. Come le città invisibili, queste persone difficilmente entrano in contatto le une con le altre.

Perché? Perché non hanno tempo a disposizione. Lavorano indefessamente, oppure studiano chini sui libri e poi vogliono stare in famiglia, con i loro cari, o con gli amici più veri. Hanno tantissime idee su come costruire in Italia dei ponti tra persone di diversa età, provenienza e credo, su come permettere di espandere le opportunità di ognuno senza andare a detrimento di altri, su come proteggere i più deboli senza per questo indurli a vite di dipendenza prive di orgoglio.

In questo periodo, queste persone invisibili stanno cercando rappresentanza. Mentre non la trovano cominciano a fare qualcosa che non hanno mai fatto: si riuniscono e discutono, sacrificando qualcosa del loro tempo libero. Di cosa discutono? Di quello che, sottolinea Galli Della Loggia, dovrebbero fare altri: “avventurarsi a dire come dovrebbe essere affrontato e risolto un problema specifico, uno soltanto dei problemi con cui ci troviamo alle prese … ardire di scoprirsi con una proposta, di compromettersi con una cifra”.

Queste persone si costituiscono in associazioni, come quella che io ho scelto di fondare con altri quaranta, “I viaggiatori in movimento”, e pensano e propongono per il paese un modo nuovo di vedere le cose, di disegnare progetti, di costruire sogni fatti di realtà, basandosi su valori comuni forti che prescindono da credi religiosi o ideologici.

Hanno tutto contro di loro. Come dice Della Loggia, chi ha il potere di tradurre le loro idee in decisioni politiche, non ha interesse ad ascoltarli. Mancano le risorse ed il tempo per girare il Paese e spiegare questi progetti. Non hanno organi di stampa che li sostengono e ne diffondono le idee.

Eppure non mollano. Pensano a costruire un Paese per i loro figli che abbia al centro uno Stato forte ed autorevole, competente e non sprecone, a tutela delle libertà individuali ed a protezione di chi, per le sue caratteristiche peculiari, non può interagire con pari probabilità di vittoria all’interno del contesto sociale in cui opera. Pensano ai giovani, alle giovani imprese ma anche a chi vive nei quartieri controllati dalla criminalità organizzata o chi questa subisce.

Sono persone che sanno tanto, possono fare tanto per il paese ed hanno deciso di non andarsene ma di lavorare sempre qui perché amano profondamente la loro terra, con tutte le sue contraddizioni. Cosa vogliono ora? Vogliono diventare notabili nel senso etimologico del termine.

Spetta alla stampa andarli a cercare e dargli visibilità, aiutandoli a crescere ed a spezzare il dominio di chi ha tutto, compresi i notabili che si ammantano di nuovo ma che nuovo non sono, di cui mirabilmente parla Galli Della Loggia.

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Quando il Partito Democratico vince per 30 anni le elezioni (e aiuta l’Europa a non morire)

 

 

 

 

 

 

 

“Today, the task of perfecting our Union moves forward. And it moves forward because of you.”

Obama’s speech, 2 minutes ago, Chicago.

“Oggi il compito di perfezionare la notra Unione fa un passo in avanti. E lo fa grazie a voi.”

Obama, 2 minuti fa, il suo discorso di vittoria a Chicago.

E così il Partito Democratico vinse le elezioni. Le vinse perché il precedente Governo, che aveva gestito la politica economica durante la Grande Depressione, aveva accentuato questa con la stupida austerità. E con la vittoria democratica vennero anni di spesa pubblica a sostegno dell’economia. E questo sostegno intelligente e solidale permise al Partito democratico di rimanere al potere per altri 30 anni.

Così dicono tre ricercatori americani nel loro ultimo lavoro empirico. No non si occupano di Bersani ma di Franklin Delano Roosevelt (FDR), il presidente Usa eletto nel 1932, e la cui politica economica – secondo i tre – di maggiore spesa pubblica di allora ha aumentato il sostegno ai democratici americani del 10% nel lungo periodo.

Ci pensi, il partito democratico nostrano. Ci pensi ora a programmare bene la sua politica economica, il cui potenziale potrebbe andare ben al di là di uno o due mandati elettorali.

Ma in realtà il paragone è imperfetto. Roosevelt regnava su di una unione monetaria di tanti stati fortemente indipendenti. Bersani, se vincesse, regnerebbe su uno solo di questi stati.

In effetti il saggio dei tre ricercatori e la sua verifica empirica ci regalano anche una fondamentale lezione storica per la nostra unione monetaria europea.

Quando Roosevelt nel 1932 dovette decidere cosa fare per uscire dalla crisi ereditata, il peso dello stato federale nell’economia Usa era ancora basso seppure in crescita dai primi anni del Novecento: la spesa federale ammontava a 30% del totale e forte era il potere e l’autonomia degli stati e degli enti locali.

Cosa scelse di fare FDR?

Scelse di fare la cosa giusta economicamente: espansione fiscale dal centro, per aiutare la domanda interna e combattere la disoccupazione.

Scelse di fare la cosa giusta politicamente: espansione fiscale dal centro sì, ma senza rimuovere il potere decisionale di stati e enti locali, utilizzando la leva dei trasferimenti a questi che mantenevano l’autonomia e la discrezionalità sull’allocazione della spesa.

Scelse di fare la cosa giusta elettoralmente: concentrò l’aiuto di spesa in modo tale da modificare per un lunghissimo periodo le preferenze politiche del votante medio Usa a favore del suo partito, appunto quello democratico.

Pochi anni dopo, otto per la precisione (nel 1940), gli Stati Uniti erano una unione monetaria completamente diversa e molto più simile a quella odierna: il totale della spesa federale sulla spesa totale era salito dal 30 al 46%.

E come era stato possibile riuscire a sottrarre così tanto potere ai singoli stati e centralizzare così rapidamente la funzione di governo?

Semplice. Nel modo opposto che sta seguendo attualmente l’unione monetaria europea, che si trova in condizioni di (quasi) pari difficoltà economica: ottenendo la fiducia dei singoli stati membri, specie quelli più in difficoltà, ideando maggiori e massicci trasferimenti ed aiuti dal centro. Pochi anni dopo, grazie a questa generosità, nessuno stato si oppose di fatto a cedere maggiori poteri di spesa al centro.

Pochi anni dopo era cambiato anche il tipo di spesa pubblica Usa: se dal 1932 al 1936 dominarono i trasferimenti dal centro, dal 1936 al 1940 la spesa fu fatta direttamente dal centro. Era nata l’unione monetaria federale basata su spesa pubblica dal centro e trasferimenti dagli stati più ricchi agli stati più poveri tramite un bilancio unico.

Noi europei oggi facciamo l’opposto: parliamo di unione fiscale negando aiuti ai paesi membri più in difficoltà. La mancanza di solidarietà verso questi, se stupidamente e cocciutamente perseguita, otterrà il risultato opposto a quello ottenuto dalla leadership intelligente di FDR: la morte non solo di qualsiasi tentativo di unione fiscale ma anche di qualsiasi residua speranza di sopravvivenza per l’unione monetaria.

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Obama and Europe did not study FDR well enough

The election of 1932 was a turning point in the fortunes of the Democrats and Republicans. Democrats had won just three of the previous ten presidential elections and had held a majority in both the House and the Senate in only four of the previous 20 sessions of Congress. After the “critical election” of 1932, Democrats won seven of the ten presidential elections from 1932 to 1968 and majorities in both the House and the  Senate in all but two of the 19 Congressional elections. The New Deal, of course, was not foreshadowed in Roosevelt’s 1932 campaign, and could not be the cause of the 1932 election results. Hoover and the Republicans lost that election more than the Democrats won it. But there was nothing inevitable about the Democrats’ becoming the majority party for the next fifty years, they could have squandered the opportunity handed to them by the nation’s deepest depression, but they did not.

No they did not. What Roosevelt (FDR) did in his first four years, according to Shawn Kantor, University of California, Price V. Fishback, University of Arizona and John Joseph Wallis, University of Maryland, was to use fiscal expenditure programs critically based on aid to state and local governments (who often received non refundable grants which they themselves administered) to obtain a (long-term) shift of allegiance from the GOP to what is today’s Obama’s party.

Our instrumental variables estimates indicate that increasing a county’s per capita New Deal relief and public works spending from nothing to the sample mean ($277) would have increased the long-run support for the Democratic party by 10 percentage points… While the voters the Democrats gained in the 1932 election reflected Hoover’s failure and indeed could have been ephemeral, the votes gained in the 1936 and 1940 elections reflected the political benefits of the New Deal and those effects persisted well into the 1960s.

There are lessons for today’s politics to be learned.

Obama might never be like FDR: his shy expansive fiscal policy, reneged after the midterm, will likely leave no equally long-lasting prize for the Democratic party, whether he will win or lose tomorrow.

But there are lessons for today’s Europe too.

In the midst of a dramatic recession, FDR managed to obtain another significant and momentous change that would last even longer, till today: the shift to a Federal structure dominated by Washington. “As a share of government expenditures at all levels, the New Deal raised the proportion of federal spending from 30 percent in 1932 to 46 percent by 1940”.

How could such a shift – toward federal government away from the states – impossible in today’s Europe, occur?

Smart FDR in his first mandate centralized fiscal policy but left autonomy of using the (very large and unprecedented) grants to local and state power. In his second mandate centralization was stronger and “significantly less likely to be influenced by political factors”.

But by then the main effect had already taken place: Roosevelt had – at the end of his first term in 1936 – already captured power for decades to come for his party and had obtained, by showing smart solidarity and by pouring money where it was needed during the Great Depression, the authorization to do so with gratitude.

Oh, if only Europe could have understood this.

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Come rendere efficiente la spesa pubblica

Da Patte Lourde riceviamo e volentieri pubblichiamo

Parlare di produttività della spesa pubblica significa anche parlare della produttività del sistema economico, quindi di crescita. Quando si parla di produttività di solito ci riferisce al settore privato, ovvero a circa metà dell’economia; per l’altra metà, il settore pubblico, si parla di sprechi o di malcostume, senza portare il tema sul vero punto: serve una nuova organizzazione del settore pubblico, delle sue strutture e del suo bilancio per migliorare la spesa pubblica!

Anche chi dibatte sul livello ottimale della spesa, dovrebbe essere interessato ad un  confronto su come spendere, poco, ma in modo efficiente.

Sul tema di riorganizzare le strutture per spendere meglio non mi dispiacerebbe vedere un ministro della funzione pubblica che spendesse per reclutare un consulente (un società di consulenza) per avere un piano strategico e operativo per efficientare la struttura dell’amministrazione pubblica. Un consulente, perché occorre riconoscere che queste cose l’amministrazione non può (e forse non deve) farle da sola e, sopratutto, non è detto abbia al suo interno tutte le competenze necessarie. Ma poi, non fanno così le migliori imprese?

Sul tema del bilancio, la questione passa per una netta semplificazione normativa che consenta di avere due livelli di decisione: il Parlamento, che distribuisce le risorse tra impieghi alternativi e l’Amministrazione (con la A maiuscola) che impiega le risorse al meglio garantendo efficienza ed efficacia. Non quindi sulla base di articoli e commi, ma alla ricerca di come spendere bene le risorse assegnate, per le finalità previste dal Parlamento. Con uno slogan: meno burocratese e più iniziativa.

Serve poi modificare la funzione di controllo, oggi di legittimità ex ante e sanzionatoria ex post, ad una di efficacia ed efficienza per reindirizzare l’azione della Pubblica Amministrazione e perseguire una sana ed efficiente spesa pubblica. Analisi periodiche (Spending review) dovrebbero accompagnare i processi di spesa delle Amministrazioni.

Per un efficace controllo da parte del Parlamento e del cittadino dovremmo poi dire addio ai capitoli di bilancio. Ad ogni ministero deve essere assegnato un budget, diviso in:

A. Spese per stipendi (a sua volta diviso in retribuzione netta, oneri, straordinari e incentivi)

B. Erogazioni a favore dell’economia (diviso per finalità)

C. Spese per acquisto di beni e servizi

Ne vedremo delle belle!

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La protezione che c’è per le PMI, solo sulla carta

Mi chiedono se cambierà qualcosa con la partenza della norma che obbliga le pubbliche amministrazioni a pagare in 30/60 giorni i fornitori.

Qui non trattasi tanto dei crediti già maturati, i famosi 60 miliardi che hanno ritardo medio di quasi  un anno, di cui tanto si dibatte e su cui pochissimo si fa per ignavia.

Si parla dei contratti futuri.

Sono scettico, perché altre volte abbiamo avuto vincoli esterni, europei, che ci obbligavano a fare ciò e impunemente abbiamo continuato a fare altrimenti, con un impatto devastante su tutta la catena di fornitura, comprese le scadenze di pagamento tra privati, ovviamente: se una P.A. non mi paga, io non pago il mio fornitore ecc…

Supponiamo ora, invece, che le singole amministrazioni pubbliche si adeguino a tale obbligo perché si sentono “minacciate dal centro” ad adeguarsi alla nuova norma. Che succederà?

Dipende da come al centro, al Tesoro, adegueranno la liquidità alla spesa prevista in competenza. In assenza di liquidità proveniente nei giusti tempi dal “centro”, dal Tesoro, semplicemente non si firmeranno più i contratti con i fornitori (prima li firmavano e pagavano in ritardo). Con il che succederà un’altra cosa altrettanto semplice: i servizi pubblici rischiano di bloccarsi perché i contratti e dunque le prestazioni non partiranno.

Un massacro. Specie per le PMI e per il territorio, già massacrati dalla stupida recessione.

Ma non dovrebbe stupire più di tanto. Le PMI non sono molto in agenda di questo governo. Un solo, macroscopico, esempio. Con la nuova legge dello statuto delle imprese, entro il 30 giugno di ogni anno il Governo, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, presenta alle Camere un disegno di legge annuale per la tutela e lo sviluppo delle micro, piccole e medie imprese volto a definire gli interventi in materia per l’anno successivo.

Sono passati 4 mesi dal 30 giugno. E nessun disegno di legge annuale è uscito. Un operatore esperto della materia mi dice che:

L’adempimento diciamo che è stato osservato in parte, ma non nelle forme e con i tempi prescritti dallo Statuto. Il Ministero dello sviluppo economico ha cercato per quest’anno di porre fede all’impegno con il cd. Decreto Crescita (DL n. 179/2012), che contiene alcune misure per la tutela e lo sviluppo delle PMI ed ha lavorato insieme alla Funzione Pubblica alle disposizione contenute nel DDL semplificazione approvato dal Governo il 4 ottobre, le cui misure, se dovessero essere approvate con il DDL in questione o trasposte in un altro provvedimento dall’iter più veloce, contribuirebbero a delineare un quadro normativo più orientato alle PMI.”

In parte. Non nelle forme. Non con i tempi. Ha cercato.  Se dovessero essere approvate. Contribuirebbero.

Ditemi voi come si possano “tutelare” e “sviluppare” con queste parole in neretto le nostre PMI. Ditemi voi.

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Euro sì, euro no: va bene, parliamone, ma per favore gli interessi no

Circolano dibattiti sulla rete sui risparmi d’interessi ottenuti grazie all’euro duranta la sua breve storia. In ballo? Mi pare nientepopodimenoche l’assoluzione o condanna della valuta unica europea.

Se cioè si dimostrasse che l’euro ha portato a molti risparmi, allora viva l’euro, non l’abbandoniamo. Se invece dimostrassimo come esigua tale cifra allora che ci stiamo a fare?

Parte di questa polemica la trovate riassunta sul sito dei fermatorideldeclino (magari faccio ingiustizia all’altro campo dei goofyeconomists di Alberto Bagnai che avranno argomentazioni più complesse).

Vi dico la mia. Prima sui fermatorideldeclino.

1) Calcolano cosa sarebbe successo senza l’euro basandosi sulla differenza dei tassi nominali tra Italia e Germania (circa 4%) del 1996, e trasportandola a tutti gli anni successivi dal 1996 a oggi. Ma la differenza di inflazione in quell’anno base (prendo  i deflatori) era di circa il 4%. Siccome ovviamente i raffronti vanno fatti con i tassi reali e non nominali perché quel che conta è il costo reale del debito, siamo a giocare con ipotesi assurde. Se ifermatorideldeclino faranno così le finanziarie addio speranze.

2) Se l’Italia non fosse entrata nell’euro avrebbe svalutato? Chissà, forse l’orgoglio ferito ci avrebbe spinto a far meglio dell’euro. Comunque, anche se la liretta si fosse svalutata i tassi nominali sarebbero saliti verso l’alto così come l’inflazione, quindi non è chiaro cosa sarebbe successo ai tassi reali. Anzi, tenendoci una banca centrale tutta nostra come Gran Bretagna, Svezia ecc., magari i tassi non avrebbero sofferto per il pericolo di default, leggermente prezzato nei primi anni dell’euro anche all’Italia (30-40 punti base).

Poi su tutti e due i contendenti:

3) Ma se anche i tassi fossero scesi (saliti) grazie all’euro e generato meno (più) spesa per interessi perché dovremmo dire che stiamo meglio (peggio)? In fondo se i tassi scendono (salgono) le famiglie che detengono titoli di stato stanno peggio (meglio) mentre i contribuenti stanno meglio (peggio). Dunque dire che il paese sta meglio o peggio non ha senso, a meno che non si sposi la causa di detentori di titoli o dei contribuenti. E tutto questo per una semplicissima ragione: che gli interessi sono un mero trasferimento tra cittadini, con poco impatto sulla crescita di un paese.

4) Certo, se i pagamenti degli interessi vanno (come sono andati in parte) all’estero la cosa ha una qualche rilevanza, che va affrontata con un qualche rigore (vedi post su Krugman di qualche settimana fa). Ma non in questo ambito conflittuale: chi sono io per dire se la quota detenuta dagli investitori esteri sarebbe cresciuta o diminuita fuori dall’euro?

5) Certo è anche vero che la maggiore spesa per interessi genera maggiori tasse (o minori spese) e così facendo genera maggiori distorsioni nell’economia. Ma, ripeto, non mi sento proprio di dire che il differenziale reale tra tassi d’interessi sarebbe stato maggiore fuori dall’euro o così drammaticamente più alto come indicato dai fermatorideldeclino, quindi penso che la dimensione di queste distorsioni da un’eventuale uscita dall’euro potrebbe essere molto vicina allo zero.

Il che ovviamente se distrugge l’argomento dei fermatorideldeclino non risulta essere un punto a favore degli anti-euro goofyisti. Semplicemente perché, appunto, la spesa per interessi conta poco per giudicare la bontà dell’euro.

Ma tutto ciò non rappresenta nulla di nuovo. E il povero euro se la deve ridere. Di nuovo.

L’euro si è sempre fatto le beffe degli economisti. Ai tempi degli anni 90, una schiera di economisti fece fior fiori di quattrini con consulenze tese a dimostrare l’enormità e l’importanza dei guadagni derivanti dall’abolizione dei costi di cambio valute. Quando leggevo quei lavori sorridevo sempre pensando a Mitterand e Kohl che ridevano a loro volta sotto i baffi (che non avevano), loro che avevano voluto l’euro per rafforzare l’Europa delle nazioni in una stretta politica sempre più forte, come ricorda Thomas Mayer nella sua bella lezione alla LSE. Altro che commissioni valutarie.

Così oggi mi viene da sorridere a pensare ai 700 o zero miliardi di interessi. Noccioline.

L’euro è un meccanismo per forzarci a decidere se rimanere uniti al tavolo geopolitico o no per i prossimi 100 anni. E sta facendo bene il suo mestiere, mettendoci davanti alle nostre contraddizioni, le nostre diversità e le nostre essenziali peculiarità nazionali senza mitragliatrici o bombe. Sta a noi ora decidere se uscirne o rilanciare. Sapete poi bene come la penso su cosa farei io sul restare o uscire, ma questa è un’altra storia ancora.

Insomma, bravo euro, ma per ben altre ragioni che l’illusoria riduzione delle spese per interessi. E se vogliamo far fuori l’euro, per favore basta con la storia che non ci ha permesso di risparmiare un granché di interessi.

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Auguri a te Mr. Blog

1 anno di blog. Va festeggiato? Non so.

So solo che vorrei dire grazie, specie a coloro che più attivamente hanno partecipato commentando (non faccio nomi sennò me ne scordo uno e sono guai, sono tipi appassionati ed appassionanti) ma anche alla maggioranza silenziosa (sono 64.000 visitatori in un anno!) che seguendo il blog mi hanno dato la forza di continuare ogni giorno, a cercare di dire qualcosa di rilevante senza dire troppe castronerie (i blog ha questo di bello: che hanno memoria. E dunque a qualsiasi cosa che scrivi può essere rinfacciata, 3 anni dopo, la sua stupidità, come quando dissi che il Governo Rajoy era ben meglio del governo Monti visto lo spread basso in quel momento della Spagna rispetto all’Italia, (ahi ahi). Ah, a proposito: rimpianti? 1, grande. Di non trovare il tempo di scrivere di più in inglese.

Il più grande grazie va a lui, a Mr. Blog.

Questo blog mi ha ridato le energie: di leggere, di ascoltare, di pensare, di coinvolgermi, di unirmi ad altri.

Grazie Mr. Blog. E auguri.