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Di corvi, articoli 54 e appalti al Ministero degli Interni

« ART. 54-bis. – (Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti). –

1. Fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite, di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia.

2. Nell’ambito del procedimento disciplinare, l’identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l’identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato.

3. L’adozione di misure discriminatorie è segnalata al Dipartimento della funzione pubblica, per i provvedimenti di competenza, dall’interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere.

4. La denuncia è sottratta all’accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni ».

Così la nuova legge anti corruzione approvata in via definitiva alla Camera dei Deputati. E’, l’articolo 54 bis, quello che si occupa di disciplinare il caso dei whistleblower, termine intraducibile che letteralmente significa “coloro che soffiano nel fischietto”. Il testimone di atti di corruzione che riporta il crimine.

Non è un caso che nel nostro dizionario non si abbia una parola per questo concetto, finora mai utilizzato nelle aule dei tribunali. E’, nei paesi ad alta corruzione come il nostro, strumento spuntato perché, si dice, rischia di funzionare poco: nessuno oserà mai utilizzarlo per paura di subire rappresaglie.  Funziona, ecco il suo paradosso, nei paesi che ne abbisognano di meno, come gli Stati Uniti che ne fanno ampio uso, dove il contesto culturale è tale (più intollerante contro la corruzione) da facilitarne la denuncia.

La Commissione ministeriale nel suo rapporto preliminare ne aveva suggerito una visione molto molto più rafforzata di quella approvata dal Parlamento,  in cui si raccomandava che il 20% della mazzetta venisse riservata come premio al testimone. Proposta così ardita per l’Italia che è addirittura sparita dalla versione finale del Rapporto anti corruzione della Commissione recentemente pubblicato.

Sta di fatto che, come vedete da sopra, qualcosa comunque è stato approvato: che non sia punito se si espone (!!) e che sia protetta la sua identità. Robetta che non smuoverebbe nessuno addizionalmente, o meglio che non aumenterebbe la disponibilità a testimoniare più di quanto non si farebbe in assenza di legge: perché questa fa veramente poco per rassicurare chi ha dubbi se rischiare la vita per una denuncia che dimostra eroismo civile.

Giancarlo Spagnolo, un mio collega esperto della materia, ha sempre detto che, quando parla in Italia dei whistleblower, piuttosto che eroi, dalle facce in platea di quelli che lo ascoltano, percepisce una visione negativa di queste persone: è convinto che siano da queste considerati dei delatori, a conferma di una resistenza culturale che svuota di significato qualsiasi normativa così debole come quella appena approvata nella versione dell’art. 54 bis.

Sono tentato dal dargli ragione quando leggo gli ultimi articoli su giornali come Corriere e Repubblica sulla faccenda degli appalti pubblici del Ministero degli Interni e della denuncia anonima di un testimone del Ministero di cui non si è ancora riusciti a determinare l’identità.

Intanto la titolazione: si parla di “corvo” per descrivere la figura di questa persona ancora ignota. Ora, può darsi che effettivamente questa denuncia si rivelerà essere calunniosa, e quindi non entriamo nel merito della stessa, ma chiamare a priori “corvo” chi si espone la dice lunga su come vengono viste queste persone. Il corvo è oggi visto come uccello di malaugurio (non sempre fu così) e per sua sfortuna comunica una immagine negativa. Perché non chiamarlo “falco”? O semplicemente un “potenziale testimone”?

Ma c’è altro che mi urta in tutta questa faccenda.

Il fatto che la denuncia sia partita prima della legge anti corruzione sta a significare che non è certo grazie a questa che questa persona ha deciso di collaborare, è ovvio. O è per calunniare o è per un alto senso morale che travalica le convenienze personali. Non a sufficienza, comunque, da rivelare la propria identità, che rimane ad oggi ancora a  tutti ignota, a conferma che non sono ancora esistenti garanzie tali sull’anonimato da permettere al testimone di emergere almeno verso i vertici apicali (di quale struttura? A chi esattamente deve rivolgersi un testimone per sentirsi tranquillo? Non è dato sapere, nemmeno dalla norma appena approvata). Dubito che la nuova legge abbia modificato le eventuali perplessità di questo testimone anonimo.

C’è infine, se confermata la credibilità della denuncia, uno strano paradosso in questa faccenda del Ministero degli Interni. Nelle rivelazioni del testimone ancora ignoto appare una denuncia ancora più sconvolgente: quella dell’esistenza di un altro potenziale eroe, il vice questore Salvatore Saporito, suicidatosi nel 2011, non per le accuse nell’ambito di un’indagine, ma perché non avrebbe sopportato più il mobbing di alcuni colleghi che non tolleravano il suo opporsi al sistema “appalti”: “gli urlavano contro, stracciavano le sue relazioni e gliele buttavano in faccia. Hanno fatto di tutto per allontanarlo. E proprio quando stava per giungere l’ordine di trasferimento, Saporito decise di togliersi di torno: con un colpo di pistola alla tempia” (testo da Repubblica).

Insomma un testimone che parla di un testimone. Ucciso(si).

Ecco, se fosse vero, un buon esempio di cosa succede a questi eroi testimoni di corruzione se si espongono. E noi pensiamo che articoli come il 54 bis possano fare qualcosa per aiutare questi eroi?

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Mandato d’arresto per chi uccide le PMI europee

Eccomi a Ravenna, la città col più alto numero di votanti per la repubblica al referendum sulla monarchia. A discutere di guelfi e ghibellini e di come metterli d’accordo per un Paese migliore col Dottor Gabriele, Cicerone inatteso che si materializza dal nulla e che ci scorta in giro per le strade affollate, sfiorando i cancelli di san Vitale al calar del sole. Mia figlia Chiara pazienta e prende foto, ma capisce poco quest’ansia tutta italiana di discutere per strada di un futuro migliore invece che di andare in bicicletta. Dirle che è per lei rafforzerebbe le sue perplessità. Stasera la porto alla Ca’ de Ven per recuperare, e per bere bene (io). Ma quanto è bello questo Paese, questo sì, lo capisce anche lei.

*

Esce il rapporto semestrale della BCE sullo stato delle piccole imprese europee e del loro accesso al credito. Forse una delle informative più rilevanti costruite dai ricercatori della BCE.

Ce ne eravamo occupati 6 mesi fa, ce ne occupiamo ora, perché per noi viaggiatori che vogliamo fare politica economica forse non c’è nulla di così importante come le PMI e come i giovani. Da proteggere, da curare, da sospingere, da lanciare nel mondo quando pronti: come fa per dei giovani figli un buon padre di famiglia.

E, come 6 mesi fa, le cose non vanno bene. Per niente. Peggiorano? Certo. Rispetto al già critico semestre precedente peggiora il fatturato e peggiorano i profitti delle PMI.

Mentre l’accesso al credito continua ad essere un problema notevole per le PMI (ma non tanto per le grandi), si conferma la mia fissazione: il problema peggiore – il nemico numero 1 – per le piccole e per le grandi senza distinzione, non è la condizione del credito ma la MANCANZA DI CLIENTI (“finding customers”). Già, la maledetta domanda interna europea che non c’è.

Per le piccole ….

… e per le grandi:

 

Comunque la novità è che la situazione del credito peggiora: quando alle PMI si chiede del loro successo quando chiedono un prestito, il tasso di quelle con un rifiuto cresce al 15% paragonato al 13% del semestre precedente, la percentuale più alta dal picco del secondo semestre 2009. Il dato è molto alto per le microimprese (1 a 9 occupati) i cui prestiti chiesti e rifiutati dalle banche salgono dal 20 al 24%. Le parole della BCE sono misurate: “ciò potrebbe riflettere la continuazione della cautela delle banche nel concedere prestiti”.

E le cose non vanno meglio se si prova a chiedere alle PMI la loro opinione su scenari futuri ed aspettative, anzi, sono sempre più pessimiste: per il semestre Ottobre 2012-Marzo 2013 si aspettano ancora minore accesso al credito e minori finanziamenti interni a causa del peggioramento dell’attività economica.

E le PMI italiane? Tutti i dati negativi che ho citato sopra sulle PMI europee sono, nell’area euro-Sud, ancora più accentuati. Vero è che mai così tante PMI italiane, nemmeno nel 2009, avevano citato la finanza come problema numero 1 per loro (anche se la mancanza di clienti rimane la preoccupazione principale).

Il questionario BCE non si domanda o non ci dice tuttavia quante PMI tra quelle intervistate per il precedente rapporto non ci sono più perché uccise dalla recessione. Sarebbe bene saperlo, solo per rendere più preciso il mandato d’arresto per il colpevole principale di questo crimine.

La stupida austerità.

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Serve politica economica, dannatamente

Patte Lourde e Piga si sono svegliati stamattina ed hanno avuto due idee separate: di scrivere in autonomia un articolo sulla stupida austerità, poi se lo sono girati via mail. Siccome era identico parola per parola lo pubblichiamo solo una volta.

*

Leggiamo stamane un articolo dal titolo (e dai contenuti) molto interessanti “Self-defeating austerity?” di Dawn Holland e Jonathan Portes, pubblicato il 1^ novembre.

Vi riportiamo subito la loro conclusione: “i governi dell’Unione europea hanno individualmente abbracciato severi programmi di austerità, sforzandosi di evitare di diventare il prossimo Portogallo. In questo articolo presentiamo i risultati del modello econometrico globale del National Institute che suggerisce come politiche individualmente razionali ci stanno conducendo alla follia collettiva. Il paradosso del risparmio di Keynes viaggia a tutto vapore dato che gli stati membri dell’Unione europea continuano a comportarsi come piccole economie aperte mentre di fatto sono una grande economi chiusa“.

In sintesi, Holland e Portes sostengono che in “tempi normali” il consolidamento della posizione fiscale di un Paese porta alla riduzione del rapporto debito/PIL, ma nella situazione attuale ha l’effetto opposto. Ma va.

Si avete intuito bene: l’austerità a tutti i costi (oltretutto contemporaneamente adottata da tutti i Paesi UE), ci porta verso un aumento del rapporto debito / PIL, perché l’austerità ha impatto sulla crescita. Ma dai.

Ecco i numeri del loro modello econometrico:

In nero il debito-PIL di un programma di austerità fatto in condizioni non eccezionali e recessive come quelle odierne. In blu lo stesso rapporto con lo stesso programma fatto in condizioni come quelle odierne.

Lo sappiamo, non ci credete, sono astrusi modelli di astrusi economisti.

Come siete cocciuti.

OK. Vediamo se vi convincete con i duri dati della realtà quotidiana. Dei cittadini greci. Pubblicati ieri sera dal Financial Times.

Il debito greco su PIL, che nei programmi della troika doveva avere un massimo l’anno prossimo al 167% del PIL, toccherà invece il 189% e nel 2014 ora è stimato al 192%.

E guardateli questi grafici (a sx debito-PIL, al centro deficit su PIL, a dx crescita PIL): in arancione i sogni di chi non sa fare politica economica, in blu la realtà dei fatti. Il debito su PIL sale a causa dell’austerità: sarebbe sceso se avessimo promosso politiche fiscali espansive (comandate dalla Troika, se volete, così da assicurare la qualità della maggiore spesa pubblica).

Un fallimento totale. Totale. Totale. Di questa gestione dell’euro e dunque dell’Europa senza solidarietà e senza la minima comprensione né dell’economia né di come economia e politica si mischiano rafforzandosi nelle dinamiche virtuose o viziose.

Dietro quei numeri ci sono persone e c’è la minaccia incombente della fine dell’euro e cioè del progetto europeo. Ma c’è anche lo sciogliersi al sole delle speranze dei mercati finanziari.

Perché alla crescita economica guarda anche il creditore; egli ha interesse a conoscere la capacità del debitore di  produrre reddito e conseguentemente pagare il conto. In altre parole è interessato alla qualità della spesa e a quanto reddito è in grado di produrre in prospettiva per far fronte al suo debito (i.e. quanto cresce il Paese!)

E se per crescere serve una buona spesa pubblica, allora ben venga la buona spesa pubblica! Una richiesta al Parlamento: che la Spending review serva a ridurre la spesa improduttiva per finanziare quella produttiva!

Vero dirà qualcuno, ma come scegliere la buona spesa?

Servono scelte, serve dibattito, serve la politica economica!

Patte Lourde e Gustavo Piga

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Della fiducia che non c’è, dei medici che mettono paura e di Pierino e il lupo

Oggi è la giornata della FIDUCIA. Non pare un caso, celebriamo la giornata mondiale del Risparmio. Il Governatore di Banca d’Italia ricorda come il risparmio “rende le famiglie meno vulnerabili alle congiunture sfavorevoli, consentendo loro di guardare al futuro con fiducia“.

Fiducia. Quanta enfasi sulla fiducia oggi nel dibattito economico.

1) Lo dice il Governatore della Banca d’Italia versione “in rosa”: “In Italia le manovre di consolidamento dei conti pubblici varate a partire dalla seconda metà dello scorso anno e il vasto piano di riforme strutturali in corso hanno contribuito ad arrestare la perdita di fiducia nella nostra economia.”

Davvero? Non secondo il Governatore della Banca d’Italia versione “dark”: “Vi è il rischio di un circolo vizioso: l’economia cresce poco, si riduce la capacità di risparmio, le famiglie si sentono più incerte e sfiduciate, la crescita frena ulteriormente. La caduta della fiducia di famiglie e imprese si è aggiunta nell’ultimo anno agli effetti diretti dell’aumento del rischio sovrano e delle conseguenti tensioni sul mercato del credito, degli interventi correttivi dei conti pubblici e del rallentamento della domanda mondiale.

Sarà importante decidersi, tra realtà cupe e analisi che raccontano di un futuro che pare esserci  solo nei sogni di chi insistentemente raccomanda le soluzioni sbagliate di fronte alla giusta diagnosi. Ma di medici parleremo tra poco.

2) Sogni che porta avanti anche il nostro Ministro dell’Economia Grilli, che parla, a suo modo, di avere fiducia: “la crescita riprenderà nel secondo trimestre 2013“. Sarà, ma il documento DEF da lui approvato non dice il contrario, visto che prevede crescita 2013 negativa, anche se rimane ottimista rispetto alle previsioni delle più grandi banche d’affari internazionali? E non sarà che forse forse a forza di gridare, come un Pierino in positivo, “al (non) lupo, al (non) lupo”, la gente si stancherà di (non) vedere una crescita che non c’è mai quando annunciata, anche quando magari ci sarebbe davvero, deprimendo una possibile ripresa da investimenti basata su uno scatto di “vera” fiducia”?

3) Ancora Grilli: ”Quando sei gravemente malato, del dottore o del chirurgo hai paura e non una grande simpatia” ma resta la consapevolezza ”che bisogna fare”. Non c’è dubbio. Tutto sta ad avere fiducia, e questa l’abbiamo solo se il chirurgo è capace.

4) E capace non pare. Il comunicato oggi Istat racconta una storia nella storia quando esamina la crescente disoccupazione dovuta al chirurgo che non sa operare. Peggiorano i dati dell’occupazione maschile, migliorano, o peggiorano meno, i dati dell’occupazione femminile. Confermando l’intuizione di Prometeia di qualche mese orsono, che i capi famiglia perdono lavori a tempo indeterminato e le donne sono obbligate a entrare nella forza lavoro per supplire alle difficoltà familiari, ovviamente trovando lavoro predominantemente a tempo determinato e lasciando dunque la famiglia nel suo complesso ancora più preda del timore e dell’angoscia, e poca poca fiducia nel futuro.

Non ho nulla da aggiungere se non che, come sempre, è tutto nelle nostre mani: le giuste politiche, la giusta politica. Giuste quanto basta per ridare fiducia e far riavvare il circolo virtuoso del rilancio italiano.

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Perché i blog sono meglio del DEF: dall’IVA alle elezioni

Quante volte questi giorni mi è stato chiesto di valutare se la manovra delle legge di stabilità fosse effettivamente restrittiva.

Siccome rispondere richiede di misurare al contempo i nuovi tagli di spesa, i tagli di Irpef e gli aumenti di Iva non è roba facile. Certo i tagli di spesa sono recessivi, e certo complessivamente la manovra diminuisce il saldo netto da finanziare, tutti indici di un impatto negativo sul PIL.

Ad aumentare la preoccupazione è il fatto che l’inflazione che tende a permanere non abbia aiutato, in maniera strisciante facendo salire l’aliquota marginale di alcuni contribuenti a parità di loro reddito reale. E anche che mentre è noto che le variazioni IVA si vedono subito e quindi la gente si adegua immediatamente al loro impatto, le variazioni di tassazione sui redditi sono spesso complicate e variano da famiglia a famiglia e quindi la gente si adegua più lentamente a queste.

Il governo pare dire che l’effetto sul PIL di tutta la manovra sia nullo, visto che non ha rivisto la sua stima di crescita. Ottimismo? In fin dei conti, molto dipende dall’esser capaci di stimare l’impatto sul PIL dell’incremento delle aliquote IVA. Grande o piccolo?

Parrebbe proprio grande, a giudicare dall’ultimo lavoro pubblicato ieri sera sulla prestigiosa collana dei quaderni dell’NBER di Boston di tre economisti che lavorano negli Usa ma che hanno esaminato i dati proprio di tanti paesi europei che hanno fatto incrementare le aliquote per aiutare il miglioramento dei conti pubblici.

Misurare l’impatto dei moltiplicatori delle imposte (impatto sul PIL di 1 euro in più di tasse) non è facile, anche perché spesso viene misurato guardando a come sono variate le entrate e non a come sono variate le aliquote (e non va bene: le entrate risentono dell’impatto delle variazioni del ciclo) e in più i cambiamenti di aliquote sono (spesso) scelte di policy legate a cambiamenti nel ciclo (se le cose vanno male spesso – ma non pare questo Governo – si riducono le aliquote per aiutare l’economia), tutti effetti da depurare se vogliamo capire l’impatto diretto del cambiamento di aliquote sul ciclo e sul PIL.

Il fatto che questi studiosi abbiano guardato SOLO a quei cambiamenti delle aliquote al fine di migliorare i conti pubblici aiuta loro a capire in maniera corretta l’effetto di queste variazioni di aliquote (non guardano dunque a cambiamenti dovuti ad una reazione tesa ad avversare il ciclo) e aiuta noi a capire meglio l’impatto della manovra Monti sull’IVA, fatta appunto per migliorare i conti pubblici e non certo per aiutare l’economia.

E cosa scovano? Che i moltiplicatori delle aliquote IVA variate all’insù sono terribilmente recessivi: un euro di entrate da aumento aliquote riduce in un trimestre il PIL, la produzione di ricchezza, di 1,02 euro ed addirittura dopo 3 trimestri di 2,76 euro. Anche perché l’impatto è tutto via consumi, con effetto nullo su export (e effetto negativo su import).

Insomma, le stime invariate del PIL italiano 2013 incluse nel DEF aggiornato del Ministero dell’Economia rischiano di essere nuovamente incredibili. Nel senso che sono abbondantemente non credibili.

L’elettore ad aprile saprà tutto ciò? Potrà giudicare credibilmente l’offerta programmatica dei partiti sulla base di una comprensione chiara degli effetti delle politiche economiche proposte ed anche di quelle effettuate?

Se continuiamo a leggere i DEF no. Se continuiamo a leggere i blog, forse sì.

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Benvenuti in trincea

Benevenuti in trincea.

Ecco 3 grafici sull’area euro che spero vi facciano riflettere sulla bontà della stupida austerità.

Grafico 1: il peso della disoccupazione di lungo periodo in area euro e Usa

Notate l’enorme e anomala crescita recente negli Stati Uniti del peso della disoccupazione di lungo periodo, anche dovuta all’estensione dei sussidi alla disoccupazione oltre i 6 mesi.

Malgrado ciò, l’area euro fa sempre peggio storicamente degli Usa. E, dopo la crisi 2007 che ha inizialmente aumentato il peso della disoccupazione di breve termine, il protrarsi di questa crisi ha riportato il peso della disoccupazione di lungo periodo (la più aleniante) ai consueti livelli.

Con un distinguo tuttavia. Che la disoccupazione negli ultimi 30 anni NON E’ MAI STATA COSI’ ALTA IN OCCIDENTE COME LO E’ OGGI NELL’AREA DELL’EURO.

Guardate qui.

Grafico 2: il peso della disoccupazione nell’era dell’euro nell’area euro (istogramma, freccia rossa all’11,3%)

Mai così male da quando abbiamo l’euro. Ma aspettate, non è finita.

Grafico 3: il peso della disoccupazione negli ultimi 30 anni nelle 2 unioni monetarie

Incredibile. Mai dal 1980, né negli Usa né in quella che è divenuta l’area dell’euro, la disoccupazione aveva mai toccato i livelli odierni (riga viola) dell’11,3%.

Tutti questi dati sono su di un rapporto recente della BCE. Peccato che la BCE non menzioni MAI come la scarsa domanda aggregata sia il responsabile numero 1 di questo incredibile stato delle cose. E rinvia a deflazionistiche flessibilità salariali sul mercato del lavoro che in Grecia hanno già mietuto disastri, appunto, occupazionali. Una ipocrisia senza fine.

E un rischio infinito nel giocare così testardamente col fuoco.

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Il viaggio dell’Italia continua, ma verso dove puntare?

Quando avremo un nuovo governo dopo le elezioni si porrà la questione di quale politica macroeconomica adottare. Saranno tre le questioni chiave:

a) quanto essere espansivi per sconfiggere la pericolosa congiuntura (decisione da effettuare congiuntamente con gli altri leader europei) per evitare l’uscita dall’euro della Grecia e, a cascata, di Portogallo, Catalogna, Spagna e … la fine dell’euro. Su questo conoscete bene la mia posizione su espansione differenziata tra euro Nord (minori tasse in deficit) e euro Sud (più spesa pubblica finanziata da minori sprechi e dalle tasse già aumentate);

b) come ricomporre l’allocazione in spesa pubblica e la provenienza dei 750 miliardi di entrate fiscali che ogni anno il Tesoro italiano ha a disposizione (tantissimi soldi!). La nostra proposta la conoscete e la trovate qui sul blog.

c) come intervenire nell’economia per rilanciare la produzione (ormai arenata da un decennio) del settore privato nel lungo periodo.

Su quest’ultimo punto partiamo dalle piccole riforme del governo Monti per cercare di fare meglio. Come riferimento abbiamo 1) la riforma Fornero sul mercato del lavoro con più ammortizzatori e più difficoltà di libertà di contratti e 2) la lotta all’evasione ed al settore informale tramite maggiori controlli e penalità.

Il miglior riferimento che mi è stato suggerito su questi temi (grazie Marta) è un articolo pubblicato sul Journal of Development Economics (appunto, una rivista scientifica che si occupa di crescita di lungo periodo) di un economista brasiliano, Gabriel Ulyssea.

Cosa sostiene Ulyssea?

Una cosa semplice ed intuitiva. Che combattere l’irregolarità (ed il sommerso) nel mercato del lavoro e dei beni si fa meglio riducendo i costi d’entrata nel settore regolare piuttosto che combattendo il settore informale o proteggendo i disoccupati con indennità di disoccupazione.

I risultati del suo modello applicato all’economia brasiliana indicano come la riduzione dei contributi e l’aumento dei sussidi alla disoccupazione non hanno grande impatto su occupazione, disoccupazione, produzione e benessere. Al contrario, l’abbassare i costi di entrata nel settore formale impatta in maniera sostanziale: rendere i costi di entrata nel settore formale simili a quello informale aumenterebbe del quasi 31% l’occupazione regolare e ridurrebbe la disoccupazione del 36%.

I suoi risultati mostrano anche come aumentare il livello di rispetto delle attuali regolazioni sul mercato del lavoro funziona molto bene per ridurre la dimensione del settore informale, ma aumenta anche significativamente la disoccupazione portando a perdite di benessere. L’aumento del contrasto all’irregolarità diminuisce la dimensione del 14,3% del settore informale ma aumenta del 6,6% la disoccupazione e del 15% riduce il benessere. Sono risultati che dipendono dalla difficoltà d’ingresso nel settore formale.

Dobbiamo dunque abbandonare i controlli pur di tollerare l’unico settore, quello informale, che riduce la disoccupazione? No. Di fatto un trade-off (dilemma) tra meno settore irregolare e più disoccupazione può essere aggirato con politiche che riducono il costo “della regolarità”, invece che con politiche repressive e di controllo: riducendo i costi d’ingresso nel mercato “regolare” si ottengono meno settore informale e più (e migliore) occupazione.

Questa settimana è uscito il consueto rapporto della Banca Mondiale sulle classifiche tra Paesi per la facilità di fare impresa.

Le nostre riforme menzionate nel 2011-12? Sono 2: l’Acea che ha reso più semplice e meno costoso ottenere l’elettricità, e l’adozione da parte dell’associazione dei notai di un sistema informatizzato che digitalizza le mappe catastali e le rende visibili sul web ai notai stessi.

Troppo poco. Tanto che siamo sempre lì, attorno al 72° posto: 84° per l’avvio d’impresa, 103° per l’ottenimento di un permesso di costruzione, 107° per quanto attiene all’ottenimento dell’elettricità, 104° per quanto riguarda l’ottenimento del credito, 131° per il pagamento delle imposte, 160° per la tutela in giudizio dei contratti.

Il prossimo governo dovrebbe mettere le migliori menti a risolvere questi problemi: un Ministero per la semplificazione ma non generico, semplificazione di fare impresa. Sarebbe la migliore risposta alle inutili annuali diatribe sull’art. 18.

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Aux armes citoyens, aux armes!

Ma guarda un po’. Che strano. Sono usciti i dati del PIL degli Stati Uniti per il terzo trimestre, e sono buoni.

Un bel +2% su base annua, contro l’1,3% del precedente trimestre. Ci si aspettava un +1,8, non un +2. E questo malgrado l’export sia in calo dell’1,6% contro un aumento del 5,3% nel secondo trimestre (grazie Europa?).

Il comunicato del governo Obama è chiarissimo sulle ragioni di questo piccolo, utilissimo, “exploit”: “la spesa pubblica federale reale in consumi e investimenti è aumentata nel terzo trimestre del 9,6% (in contrasto con un -0,2% del precedente). La spesa militare nazionale è cresciuta del +13% (-0,2% prima) mentre la spesa pubblica non militare è salita del +3% (-0,4% precedente).”

La spesa militare di fatto spiega 0,64 punti percentuali dell’aumento del 2% del PIL, quasi un terzo dunque.

Non farò il malizioso sul timing dell’aumento discrezionale di spesa pubblica a pochi mesi dalle elezioni. Ma su una cosa lo sarò, malizioso: alla Casa Bianca pare conoscano molto bene cosa sia il moltiplicatore della spesa pubblica e il suo impatto positivo sul PIL, anche se non si dilettano a scrivere sulle prime pagine del Corriere della Sera.

Ma giustamente, molti dei miei lettori diranno, questo aumento di PIL non fa la felicità! Ricordiamole le parole nel 1968 di Robert Kennedy, così le lasciamo anche impresse su questo blog:

Troppo e per troppo a lungo sembriamo avere rinunciato all’eccellenza personale ed ai valori della comunità per ricercare l’accumulazione di ricchezza materiale … Il nostro Prodotto Nazionale Lordo è oggi più di 800 miliardi, ma quel PNL, …. cresce con la produzione di napalm, testate nucleari, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte nelle nostre città. […]Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei nostri matrimoni, l’intelligenza del nostro dibattere o l’integrità dei nostri pubblici dipendenti. Non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese… Il PNL misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non perché siamo orgogliosi di essere americani.

E’ così. Ma ciò non toglie che anche noi in Europa siamo in guerra. E che anche noi possiamo usare la spesa pubblica per vincerla.

E’ la guerra contro la recessione che mette a repentaglio l’Europa e che uccide piccole imprese e deprime e aliena i giovani. E che i nostri governi ed i fermatorideldeclino irridono.

C’è solo un modo per vincere questa guerra. Fare più spesa pubblica. Usare tonnellate di tritolo per abbattere i corridoi decadenti di quegli ospedali ancora pieni di topi, per fare spazio alle fondamenta su cui ricostruire una Pompei in cui siano vietate la Camorra e la disorganizzazione, le fondamenta su cui garantire la sicurezza delle nostre scuole. Le munizioni per aiutare i nostri poliziotti a combattere ad armi pari la Mafia. Le trincee per non fare nuovamente esondare le acque nelle nostre meravigliose 5 Terre, oggi di nuovo a rischio perché non vogliamo spendere.

Aux armes citoyens. Aux armes.

Grazie Paolo.

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Istruzione e corruzione

Istruzione e corruzione che legame c’è? Lo discuteremo il 29 novembre a Tor Vergata con degli ospiti di eccezione, ma per ora è tutto segreto, in un convegno organizzato dal mio (nuovissimo) Dipartimento di studi d’impresa governo filosofia.

Ma qualcosa fatemela dire.

1) La corruzione uccide l’istruzione.

Ferraz Finan e Moreira, due ricercatori brasiliani, studiando il caso delle scuole locali brasiliane e dei fondi allocati alla scuola trovano che là dove la corruzione è più alta, minore è la bontà dei risultati scolastici dei ragazzi (15% in meno nel punteggio) e la loro capacità di terminare gli studi (3% minore il tasso di coloro che si diplomano). Scoprono anche che nei comuni più corrotti in media l’11% in meno dei maestri riceve formazione pedagogica. La corruzione trasforma spesa pubblica in trasferimenti pubblici a privati (spesso i sindaci e le loro famiglie): mentre la prima farebbe tanto bene, i secondi sono veleno per un Paese.

Il grafico mostra i risultati (voti) in matematica e portoghese nelle municipalità corrotte (rosso) e in quelle no (blu). Gran parte di queste scoperte sono avvenute dopo che il Governo ha deciso di porre fine a comportamenti radicati avviando una serie di ispezioni nelle scuole.

2) L’istruzione uccide la corruzione

Guardate cosa fa il Brasile nelle scuole, sin dal primo giorno dell’infanzia scolastica: come diceva Lenin (anche se lui lo diceva per ben peggiori fini): “datemi 4 anni per insegnare ai bambini e i semi che avrò sparso non saranno mai sradicati”.

Ebbene sì. Ecco dove parte la corruzione della corruzione. Insegnamola, la lotta, a loro.

3) La ricerca uccide la corruzione

Sono stato così felice di vedere che il rapporto anti corruzione della Commissione ministeriale preposta ha dato credito al lavoro (di grande livello) sull’indice di corruzione fatto da due amici carissimi e eccellenti ricercatori pervasi di spirito civile: Simone Borra e Annalisa Castelli. Che hanno lavorato (c’ero anche io!) in un progetto bellissimo chiamato “Per una cultura dell’integrità della Pubblica Amministrazione” finanziato abbondantemente dalla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione nel 2011, un sacco di soldi del contribuente, quasi 400.000 euro, che permisero di riunire alcune tra le migliori menti giovani del paese per discutere e analizzare il fenomeno (ricordo solo alcuni nomi di spicco: Bernardo Mattarella, Alberto Vannucci, Lucio Picci, Emiliano Di Carlo, Marta Fana e tanti altri) e insegnare come cercare di prevenirla.

Quei soldi sono finiti e il progetto è morto prematuramente (perché? non lo so) ma alcune delle sue storie le trovate nell’Atlante della corruzione di Alberto Vannucci, libro bellissimo appena uscito.

Tra cui l’indice di cui sopra, che si sono inventati Annalisa e Simone. Che, non  contenti delle classifiche tradizionali sulla “corruzione percepita” creata da Transparency International (in giallo e rosso con più rosso più corrotto) che non tenevano conto di come fosse impossibile paragonare la lotta contro la corruzione per paesi con ricchezza diversa (la ricchezza fornisce più strumenti per combatterla!) hanno inventato un nuovo indice (in blu e viola) che paragonava i paesi solo a parità di ricchezza. E faceva emergere come l’Italia non era 60° nella lotta contro la corruzione, ma ULTIMA (o penultima) al mondo.

Perché con tutta la nostra ricchezza, con tutti i mezzi potenziali per combatterla, il livello di corruzione tollerato è veramente troppo.

E senza Annalisa e Simone e la loro ricerca rigorosa, avremmo avuto una ragione in meno per indignarci. E si sa, più ci si indigna e più si lotta. E più si lotta e più si cambia. Viva il coraggio di chi ricerca per aiutare il Paese in silenzio, mentre altri gli sputano addosso in TV.

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Come difendere la causa della spesa pubblica: istruzioni per l’uso

Marco Fortis finalmente sul Sole 24 ore arriva alle nostre conclusioni (di 1 anno di blog): l’Italia schiava del totem debito-PIL.

Analizza i dati debito-PIL come abbiamo fatto ieri sera in inglese. Il debito italiano cresce meno di quello dell’area euro e la maggiore crescita del rapporto debito-PIL è da legare alla nostra pessima performance di crescita economica del PIL. Applicassimo ai dati italiani la maggiore crescita del debito europeo e la maggiore crescita economica europea, il nostro debito su PIL calerebbe rispetto a quello odierno. Invece sale, sale sale. A causa dell’austerità.

E’ ancora timido Fortis, parla di “sforzi fiscali eccessivi” a cui non dovremmo essere costretti, invece di dire apertamente che è necessario essere fiscalmente espansivi, anche per ottenere conti pubblici migliori. E’ timidissimo Fortis a non avventurarsi a proporre aumenti di spesa pubblica ma mere diminuzioni di tasse, che come ormai ben sappiamo hanno un potenziale molto minore di far riprendere il PIL che non quelli che ha, a parità di sforzo di bilancio, la spesa via appalti.

Quanta timidezza sulla spesa pubblica in questo Paese.

C’è chi dice che tutta questa enfasi sulla spesa pubblica mi fa uno statalista. Strana definizione per uno che fino a 3 anni fa era considerato uno strenuo liberista di destra dai suoi colleghi ora strenui liberisti. ;-)

Se pare difficile giustificare l’essere statalisti per gestire il ciclo economico, ancora più complesso appare difendere la causa della spesa pubblica nel lungo periodo. Allora proverò a farlo.

Ecco la mia visione. Il bilancio dello stato è ricchissimo di risorse, 800 miliardi circa da una parte e dall’altra.

A sinistra, lato spese, ci sono gli usi dei soldi dei cittadini a favore di altri cittadini e delle imprese. Tutti i paesi hanno molti soldi da questo lato del bilancio. L’Italia ne ha molti su interessi e pensioni, molto meno sul resto. Quel resto impatta sul PIL in maniera diversissima a seconda della qualità della spesa. Un 80-100 miliardi sono sprecati. Vanno identificati. Ciò richiede competenze ed istituzioni all’altezza (altro che la spending review di questo Governo): e cioè investimento in risorse. Fatto ciò, ed è possibile farlo malgrado i corvi ed i pessimisti, si pone la questione di cosa fare con quei miliardi risparmiati. Ridurre le tasse? No. Dobbiamo spenderli, con le competenze acquisite, per rifare la nostra scuola. La nostra università. Proteggere e esaltare il nostro patrimonio culturale. Combattere la mafia. Migliorare le cure dei nostri ospedali. Senza queste spese il nostro settore privato non sarà mai competitivo con le imprese di altri Paesi che tutte questi “beni pubblici” a supporto hanno.

Poi c’è il lato destro. Le entrate, che uccidono tanti e tanti altri non toccano. Se la spesa deve rimanere intatta, lo scopo di una riforma da questo lato del bilancio deve preoccuparsi, mantenendo la somma totale costante, di ripartirla equamente. Come? Permettendo la deduzione delle spese effettuate, e cioè senza bisogno di ulteriori giganteschi controlli ispettivi che mai permetterebbero l’ottenimento di cifre pari a quelle recuperabili. Una riforma epocale, non a caso mai permessa dai passati Parlamenti, il carico fiscale sui tartassati crollerebbe. Anche qui corvi e pessimisti vi diranno che non è possibile. Chissà perché.

E il debito? Ah già, il debito. Irrilevante, come direbbe Bisin (lui in realtà lo diceva della disoccupazione di questa congiuntura drammatica) di fermareildeclino.

Perché irrilevante? Perché uno Stato migliore ed una pressione fiscale abbattuta genererebbero tanto di quel PIL da renderlo invisibile.

Ecco il mio progetto statalista. Al servizio delle imprese e del Paese.