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Debt in Europe? The sky is the limit, thanks to austerity

So the numbers are out (see below). And, guess what. Euro 17 area debt is on its way up. Oops, sorry, I meant debt over GDP is up. Huge difference bewteen the 2 things. This is the best way of summing up the disaster of euro austerity policies: more taxes, less public spending, higher deficits via lower GDP, higher debts. And the ratio goes up and up and up: 2.9% in just 1 year, touching the 90% threshold.

Italy? Oh Italy is there, just like the euro area. With some differences. The dramatic impact of greater than average austerity shows up in a higher debt over GDP by 4.4% (even though we have given 0.8% of our GDP in help to countries with even worse outlooks…).  And who has been the worst offender of the 2? The public debt or GDP? Well, debt has grown less than in the EU. It is the economic growth disastrous performance (0.15% from last quarter to this quarter) that explains our worse performance.

Best way to see it? Imagine Italy had had the higher debt increase of the euro area (+4.8%  instead of 3.8%), maybe because of less restrictive fiscal policies, and as a consequence a higher growth rate of GDP, possibly the same as the euro area one (+1.4% rather than +0.15%): what would happened to debt over GDP?

Got it, it would have been lower: 125,8 rather than 126,1%.

Thank you, austerity.

 

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E la nave va. Senza di noi

Già. Al dibattito sulla politica estera USA nessuno dei due candidati ha parlato di Europa.

Assente, sparita.

Una famiglia rissosa che non guarda fuori dalla finestra ma solo a quello che accade all’interno delle proprie mura perde opportunità. E questa perdita di opportunità genera ancora più tensione, facendo avvitare la famiglia in un caotico garbuglio di reciproche accuse. Qualcuno poi divorzierà, o chissà dove andrà a vivere, lontano, per sempre.

L’avvio delle negoziazioni commerciali Usa-Europa dovrebbe essere una occasione unica di rilancio, l’unico obiettivo da conseguire, a cui dedicare tutti gli sforzi. Ma no, pensiamo al Fiscal Compact, che nessun paese al mondo degno di questo nome si è mai dato. Chiediamo alla Commissione europea qualche altro cambiamento interno da apportare, qualche altra regolazione, qualche altro Trattato, perché no, tanto il resto del mondo ci saluta dall’alto della grande nave americo-asiatica che si stacca da terra per andare verso chissà quali mete, mentre noi salutiamo dalla banchina del grigio porto.

Attenti però, c’è pure quell’altra nave che pare staccarsi dal porto. E’ più piccola dell’altra, ma pare familiare. E robusta. Batte bandiera britannica. La stiamo lasciando andare. E dio sa se della sua visione globale noi europei continentali non avremmo bisogno. Poi magari alla Francia sull’agricoltura non diciamo nulla, ma ai cattivi britannici sui servizi finanziari diciamo di tutto. Sarà utile? A perdere un altro pezzo di noi stessi, certamente. C’è chi dice agli inglesi, ma no, “non vogliamo meno Regno Unito, solo più Regno Unito in più Europa”, per sentirsi immediatamente rinfacciare “please, tell me, what do you mean by more Europe?”.

Già, perché più Europa oggidì è più recessione, più regolazione, più bilanci europei dedicati alle burocrazie e meno bilanci nazionali dedicati alle persone.

E il mondo va. Senza di noi.

L’austerità fa anche questo: ci distrae dal sederci ai tavoli che veramente contano. E a quel tavolo, allora, lo sapete, finiremo nel menu.

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Rilanciamo le quote rosa, anche al governo

Volevo parlare oggi del mega rapporto anti corruzione presentato dal Ministro Patroni Griffi, ma un Twit mi segnala l’uscita di un rapporto annuale importante, il Global Gender Gap Report, coordinato dall’economista di Harvard Ricardo Hausmann, di Berkeley Laura D. Tyson e Saadia Zahidi del World Economic Forum.

Una classifica mondiale dello sviluppo rosa, al femminile, basato su un mix di indicatori. Semplicemente perché è meno basato sulle percezioni ma più sui duri fatti, lo ritengo più attendibile dell’indice di Transparency International sulla corruzione.

Quando sfogli questi rapporti, la prima cosa che fai è guardare come è messo quest’anno il tuo Paese. Inevitabile tentazione.

Male. Anzi peggio.

In realtà la parola “gap” è utilizzata proprio per misurare il ritardo del mondo femminile da quello maschile. Il nostro ritardo, già cronico, peggiora.

Su 135 paesi valutati, siamo ottantesimi. Eravamo 67° nel 2008. Il valore dell’indice ha smesso di crescere da allora.

I paesi scandinavi la fanno ovviamente da padroni occupando i primi posti. Spiccano (oltre al 101° posto del Giappone) l’ottavo posto delle Filippine ed il 13° della Germania. Un altro nostro ritardo competitivo? Sì, specie se notiamo che delle 4 dimensioni del ritardo prese in considerazione (istruzione, salute, opportunità politiche, opportunità economiche) , è quella economica (e in parte quella politica) che spiega la nostra performance disastrosa:  centounesimi, 101°.

Una cosa sono le ragioni del peggioramento, una cosa sono i ritardi strutturali. Quanto ai primi, il rapporto è chiarissimo: ”l’Italia perde sei posizioni quest’anno. Le più ampie perdite derivano dalla peggiore percezione di eguaglianza salariale, istruzione secondaria e terziaria … ed il numero di donne con posizioni ministeriali.” In effetti ho verificato le percentuali del Rapporto: i nostri ministri donne sono il 17%. Nel peggioramento di eguaglianza salariale può avere giocato un ruolo la recessione con l’accettazione da parte delle donne entrate nella forza lavoro per aiutare la famiglia l’accettazione di lavori poco remunerativi? E’ possibile, ma il rapporto non lo dice.

Quello che dice a chiare lettere è che quanto a eguaglianza salariale percepita dalle imprese siamo in gravissimo ritardo, e non da oggi: 126° su 129. La Francia, molto curiosamente, è ultima.

In realtà, l’Italia è un mix molto articolato con ampie differenze regionali nelle problematiche: ad un Sud dove il gap salariale uomo-donna non è enorme quanto la differenza invece tra i tassi di occupazione, corrisponde un Nord più europeo dove le donne partecipano quasi quanto gli uomini ma con gap salariali notevoli a parità di abilità: malgrado i risultati delle studentesse donne siano migliori, il minor salario è del -4.9% secondo l’Unione europea e del -7.2% secondo il Cnel, e non ottengono le stesse posizioni.

Ecco, le posizioni. Specie quelle apicali. Se le cose vanno male quanto a leadership al femminile oggi, non c’è speranza vera che le cose cambino domani nelle posizioni più basse: perché il pesce puzza dalla testa. Se riuscissimo a scalfire il modello dalla leadership aziendale, a valle se ne vedrebbero presto i risultati.

Nel 2011 solo il 7,2% dei posti nei Consigli di amministrazione era in rosa. In crescita dal 4,1% del 2001, certo …  Ma mi dice Magda Bianco, valente dirigente Banca d’Italia che a questo tema ha dato forte rilevanza (basti leggere il suo articolo con 2 colleghi Consob nell’ultimo volume – curato da Luca Gnan – della Rivista di Politica Economica che dirigo, dove c’è una bellissima casistica di storie di sfide spesso vinte): ”siamo oltre quota 10% quest’anno”.

Bene, ma facciamo di più.

La soluzione? Il modello scandinavo, specie quello norvegese, insiste sulle quote rosa come fattore scatenante. E’ per questo essenziale che non si perda la tensione riformatrice e si proceda senza esitazioni nello spingere “spintaneamente” le aziende ad anticipare l’adozione del modello approvato lo scorso anno dal Parlamento della quota rosa al 33% nei CDA e collegi sindacali a valere dal 2015.

Ovviamente emergeranno scandali, frodi, aggiramenti astuti della norma, come mi segnala Mario Seminerio. Inevitabile. Ma non applichiamo la stupida logica del “c’è Fiorito, allora non si fa più spesa pubblica” tipica di chi fa di tutta l’erba un fascio. Si va avanti, spediti, con l’aiuto di una stampa seria per segnalare e reprimere gli abusi.

Ed il prossimo governo, oltre ad avere il 51% dei ministri al femminile, rafforzerà la legge chiedendo il 50% del Cda al femminile? Quale partito sarà disposto nel suo programma a rilanciare le quota rosa?

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Di nuovo? Un altro studio sul moltiplicatore che mette a nudo la stupida austerità

Come molti altri previsori macroeconomici, abbiamo abbondantemente sovrastimato la forza della crescita dell’economia negli ultimo due anni”.

Comincia così il mea culpa dell’autorità britannica indipendente, l’Ufficio della Responsabilità del Budget, incaricata di indicare le previsioni macroeconomiche da utilizzare per elaborare il piano economico delle scelte di finanza pubblica fatte dal Governo britannico.

Avrebbero dovuto aggiungere: “al contrario di tanti altri previsori macroeconomici ufficiali, lo diciamo esplicitamente, in tempo, formalmente, trasparentemente  e cerchiamo di capire e spiegarvi il perché di questo errore”.

In attesa che il potere di decidere quanto crescerà l’economia italiana ai fini del calcolo dell’andamento dei conti pubblici sia levato a Ragioneria e Tesoro e si crei anche da noi una simile autorità indipendente, così da evitare errori di previsione del 3,6% come è accaduto nel giro di 1 anno per il 2012, andiamo a vedere cosa ci dice il rapporto britannico.

L’errore che si preoccupano di spiegare è quello di avere stimato una crescita del PIL del 5,7 per cento dal primo trimestre 2010 al secondo trimestre 2012, invece dello 0,9%. In poco più di due anni del 5%. Un errore non ampio come il Tesoro italiano, ma ci siamo quasi.

Ebbene, a spiegare una buona parte di questo errore sul PIL, dice il rapporto, c’è la sottostima dell’impatto che queste manovre restrittive hanno avuto sul PIL stesso: il moltiplicatore della spesa e delle tasse, ossia di quanto scende il PIL se facciamo scendere queste dell’1% del PIL, è stato abbondantemente sottostimato.

Era stato previsto pari a 0,3 per le tasse ed 1 per la spesa (diminuisce di 1 euro la spesa pubblica? Diminuisce di 1 euro il PIL), con un effetto a scemare nel tempo. In media, 0,6.

Notate che comunque era stato previsto correttamente che meno spesa pubblica implica meno PIL, sconfessando, se ancora ce n’era bisogno, le analisi di coloro che dicono che meno spesa pubblica fa bene al PIL ed all’occupazione. E dice anche, vi prego di notare, che tagliare la spesa pubblica – in questa acuta recessione – fa più male all’economia che aumentare le tasse.

Cosa trovano i valenti funzionari dell’Autorità britannica? Che il vero moltiplicatore è stato più del doppio dello 0,6 previsto: 1,3. Quando hanno cioè ridotto la spesa pubblica o aumentato le tasse di 1 euro il PIL è sceso di 1,3 euro, altro che 0,6. Di più, scende il PIL, se il carico dell’aggiustamento si concentra solo su tagli di spesa.

E poi vi chiedete perché quando tagliate la spesa pubblica i conti pubblici peggiorano? Pfui.

Rovesciate ora l’analisi e chiedetevi cosa sarebbe successo se avessero aumentato la spesa pubblica: crescita economica e conti pubblici a posto.

Speriamo che il fatto che siano indipendenti li porti a suggerire un nuovo approccio alla politica fiscale: se la rivoluzione comincia nel Regno Unito, chissà, forse potrebbe portare a auspicabili ripensamenti sulla stupida austerità dell’Europa e dell’Italia.

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Choose where to Start Serious Labor Reform

Grazie Ale.

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I rimpianti Usa della Romer sono, 100 volte maggiori, quelli europei

Tutti nella vita abbiamo dei rimpianti. Occasioni perse, mancate, mal gestite. Spesso non abbiamo avuto maggiore coraggio, “perché si vive una volta sola” e spesso non ci è data un’altra occasione.

Penso questo leggendo l’articolo sul New York Times della Professoressa Christina Romer, ottima economista e soprattutto, per quanto rileva in quest’articolo, a capo della struttura del Council of Economic Advisors, al servizio del Presidente Obama, nei primi due anni circa del suo mandato, ora tornata ad insegnare. Fu lei l’artefice del piano fiscale del nuovo leader, e probabilmente se ne andò (anche se non lo dirà mai) per diversità di vedute rispetto al gruppo di consiglieri, che la spuntò, che preferì usare le risorse dei contribuenti Usa per sostenere il sistema bancario piuttosto che l’economia reale.

Ha tre rimpianti, Christina Romer. Li ordino in ordine di crescente importanza politica, per come la vedo io.

Il primo: “un diverso mix di aumenti di spesa e di tagli di tasse avrebbe potuto essere congegnato … Tante famiglie non si sono nemmeno rese conto  di aver ricevuto un taglio della tassazione, e questo può avere ridotto l’impatto del programma.” Lo diciamo spesso: in una recessione di questa gravità le famiglie le diminuzioni di tasse le risparmiano, non le consumano. Meglio usare i soldi dei contribuenti per fare programmi di spesa pubblica con appalti pubblici che fanno lavorare imprenditori e lavoratori e generano reddito e produzione.

In Italia, anche se Monti non avesse compensato la diminuzione Irpef con l’aumento Iva, quella diminuzione sarebbe stata irrilevante per le sorti dell’economia italiana, che di ben altra potenza di fuoco espansiva ha bisogno per rilanciare PIL e abbattere il debito pubblico sul PIL.

Il secondo: “i politici – me compresa – avrebbero dovuto impegnarsi più duramente per ottenere il consenso del pubblico sulla manovra espansiva… E’ più di una mera questione di pubbliche relazioni. Le misure volte a restaurare la ripresa funzionano meglio quando ridanno fiducia – come ben capì Franklin D. Roosevelt nel New Deal degli anni trenta. Le sue trasmissioni radiofoniche alla nazione davanti al caminetto (fireside chats) ed il suo discorso d’investitura, dove proclamò che avrebbe combattuto la Grande Depressione con la stessa determinazione che avrebbe adottato per sconfiggere un nemico invasore, miravano a rassicurare gli americani. Ricerca economica recente suggerisce come i programmi del New Deal di fatto potrebbero avere avuto il loro maggiore impatto sull’economia influenzando le aspettative dei consumatori e delle imprese sul futuro corso della crescita e dell’inflazione … e a causa anche del nostro imperfetto modo di comunicare il Recovery Act obamiano ha generato solo una minima ripresa di fiducia. Di conseguenza non ha avuto quell’extra spinta (“kick”) rooseveltiana”.

Non si preoccupi Christina Romer. I nostri politici e burocrati europei hanno fatto ben di peggio. Hanno depresso le aspettative e l’ottimismo di tantissime famiglie, lavoratori, imprese, predicando la bontà dell’austerità. Il cielo europeo è diventato cielo cupo di nuvole nere all’orizzonte che ha fatto incartare l’economia europea, trascinando con essa anche, in parte,  quella mondiale. Altro che rimpianto.

E poi. E poi.

E poi c’è il terzo rimpianto della Romer. Quello che mi dà più fastidio dentro, perché è al 100% anche il mio, quello per cui non c’è da rimpiangere nulla se non l’ottusa incapacità dei governanti di ascoltare la voce delle persone che soffrono.

Ecco cosa dice la Romer. Lo lascio prima in inglese e poi lo traduco. “And I desperately wish we’d been able to design a public employment program that could have directly hired many unemployed workers, especially young people.”

E rimpiango disperatamente (sì dice proprio così) di non avere saputo costruire un programma di diretta assunzione di tanti lavoratori disoccupati, specialmente di giovani”.

Già. Come il nostro appello per l’assunzione diretta e temporanea di un milione di giovani nei gangli dove servivano della Pubblica Amministrazione, ignorato dalla burocrazia dei tecnici che non hanno tempo che di pensare ai saldi delle manovre.

Un giorno, ne sono certo, oltre al mio sarà il loro più grande rimpianto.

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Liberismo e liberalismo protezionista: i valori contano

Al confronto scontro tra viaggiatori e fermatorideldeclino l’altro giorno in facoltà a Tor Vergata, molto bello, alcuni studenti si sono lamentati che si è parlato troppo di politica e poco di economia. Un altro studente mi ha detto, “se siete d’accordo sul 70% delle cose, perché non vi alleate per il bene del Paese e mettete da parte le vostre differenze” (che sono molto minori, diceva sempre lui, di quelle che vi separano da altri?).

Ho pensato molto a queste frasi. Se devo generalizzare, ritengo i fermatorideldeclino dei liberisti. Nei viaggiatori invece ci sono una marea di posizioni, e trovo sia un bene fecondo. La mia tuttavia è quella di un liberale “protezionista”, molto diversa da quella di un liberista. Mi spiego qui sotto su questa differenza di posizioni e sulla domanda su politica e economia.

*

E’ possibile rispondere no alla domanda “la concorrenza fa bene?”. Luigi Einaudi sosteneva la liceità della domanda. Ne “Ipotesi astratte ed ipotesi storiche e dei giudizi di valore nelle scienze economiche” nel 1943 così si pronunciava:

“Il diritto di limitare i propri studii all’investigazione delle leggi del prezzo in regime di concorrenza piena … non implica dunque l’affermazione, ben diversa, che la scienza finisca a quel punto e che gli sforzi altrui intesi ad investigare se l’attuazione della concorrenza piena … sia o non sia conforme ad un certo ideale di vita cadano fuori dal territorio scientifico.”

Che nello stesso saggio continuava: “Se le premesse ed i ragionamenti degli economisti furono fecondi di grandi risultamenti scientifici, grazie debbono essere rese anche ai loro ideali di vita. Consapevolmente o non, essi possedevano e posseggono un certo ideale; ed in relazione ad esso ancor oggi pensano e ragionano.” Naturalmente Einaudi non si esime dal manifestare quali fossero i suoi ideali: “Chi, al par dello scrivente, aborre dall’ideale comunistico o plutocratico-protezionistico non può fare a meno di palesarsi fautore dell’ideale liberale”.  E qui, e chiudo con le citazioni, vi è un rimando ad una nota meritevole di essere ricordata: “Liberale e non liberistico ché liberismo è concetto assai più ristretto sebbene abbastanza frequentemente compatibile col liberalismo; ed ha un contenuto concreto di applicazione, in particolare a certi problemi soprattutto commerciali e doganali. Il liberalismo implica un ideale di vita e vien fuori da imperativi morali assoluti (la cui condizione fondamentale è quella della libera scelta da parte degli uomini dei proprii fini e quindi anche dei propri consumi)”.

Come vedete, l’economista Einaudi aveva ben chiaro che per porre un problema economico bisognava esprimere dei giudizi di valore politici. L’economia nel vacuo dell’ideale è nulla perché non rimanda a dei valori.

Quindi per Einaudi il liberismo (la concorrenza) non è né condizione sufficiente né necessaria per perseguire l’ideale del liberalismo. Tema d’attualità, visto che si ha spesso l’impressione di vivere in un’area geografica, l’Unione Europea, che ha fatto del liberismo economico, della concorrenza, un’ideale di vita. Non uno strumento, come lo intendeva Einaudi, funzionale, quando può (e spesso può), all’ideale del liberalismo, quello di rimuovere le barriere alla libertà di scelta degli individui. E questo è un male. Gli esempi non abbondano, ma non sono nemmeno pochi. Ne cito alcuni, cercando di provocarvi un po’.

Primo, la concorrenza nel mercato del lavoro. Sia Smith che Einaudi hanno sempre messo in guardia da riforme che introducessero eccessiva concorrenza nel mercato del lavoro. Smith si preoccupava dell’eccessivo potere delle imprese rispetto ai lavoratori; Einaudi raccomandava la nascita di grandi gruppi confederali da un lato e l’altro del mercato: “l’organizzazione perfetta delle leghe padronali e delle leghe operaie allontana il pericolo degli scioperi e dei conflitti violenti”. Entrambi temevano, anche se per motivi diversi, un’asimmetria di potere contrattuale tra le parti, così estrema, da essere portati a giustificare la nascita di associazioni volontarie dei lavoratori ed imprenditori volte a confrontarsi. Associazioni volontarie che invece, come ben sappiamo, sono vietate tra imprenditori dalle leggi Antitrust quando si tratta di decisioni sul quanto produrre ed a che prezzo, proprio per non generare un eccessivo potere contrattuale a scapito dei consumatori. Un’asimmetria tale, e torno al mercato del lavoro, una tale debolezza di una delle parti rispetto all’altra, da svuotare il concetto di libertà di scelta da parte dei lavoratori, e quindi intollerabile per un liberale.

In effetti, a guardare i dati, esiste pochissima evidenza empirica che là dove i mercati del lavoro divengono più concorrenziali (flessibili diremmo noi) indebolendo le protezioni per i lavoratori le prestazioni dell’economia migliorano. Il Premio Nobel Robert Solow si spinge addirittura a dire che anche se tali miglioramenti avvengono non sarebbero desiderabili se generano troppa insicurezza sul posto del lavoro per il lavoratore.

Eppure non è questa l’enfasi che proviene da Bruxelles, specialmente dalla Commissione Europea, che si spinge fortemente in avanti sul tema invece della flessibilità.

Esempio numero due. Gli appalti pubblici. Negli Stati Uniti, dal 1953, Amministrazione Eisenhower, la partecipazione alle gare d’appalto delle piccolo imprese è  protetta da un notissimo Atto, lo Small Business Act, che riserva un minimo di 23% degli acquisti pubblici alle Piccole imprese  (fatturato inferiore a 750.000 dollari annui). Val la pena citare le apparentemente contradditorie parole di apertura dell’Act: “L’essenza del sistema economico privato americano è la libera concorrenza. Preservare ed espandere tale concorrenza è basilare non solo per il benessere ma anche per la sicurezza della Nazione. Tale sicurezza e benessere non possono essere realizzati a meno che l’attuale e potenziale forza delle piccole imprese non sia incoraggiata e sviluppata.”

Al di là dell’accostamento tra sicurezza e benessere economico (la nazione ricca è una nazione forte e dunque sicura) su cui tornerò tra poco, merita qui notare che viene accordata alle piccole una protezione che impedisce alle grandi imprese di liberamente partecipare ad alcune gare d’appalto. Tale protezione è, di nuovo, basata sul rimuovere una chiara  asimmetria di potere contrattuale, questa volta tra piccole e grandi imprese che hanno capacità diverse in partenza per partecipare a gare d’appalto, e ciò è confermato dal fatto che tale protezione è estesa ad imprenditori appartenenti a minoranza etniche.

E in Europa? Oggigiorno la Direttiva Europea sugli appalti (anche l’ultima di prossima approvazione) esclude la possibilità di prevedere che una quota degli appalti pubblici sia riservata e destinata esclusivamente alle piccole e medie imprese. Il problema appare gravissimo nei nuovi Paesi membri dell’Unione Europea che hanno appena aperto completamente il loro mercato delle commesse pubbliche alle grandi imprese estere multinazionali.

Siamo di fronte ad un apparente paradosso: una politica liberale, quella degli Stati Uniti, che restringe la concorrenza; da paragonare ad una politica puramente liberista europea.

Questi due esempi sintetizzano efficacemente le ragioni dello scetticismo che circonda da qualche tempo la costruzione europea, apparentemente slegata da un qualche ideale e votata a raggiungere testardamente un mero risultato tecnico-economico spesso slegato da un’analisi piena del suo impatto ultimo.

Le quote rose al femminile e la quota lattanti da me proposta ieri fanno parte di queste tutele necessarie per ridurre l’asimmetria del contratto sociale all’interno del Paese in cui viviamo, in cui la discriminazione verso donne e giovani è evidente.

Vi è infine la questione della contendibilità di alcuni settori considerati strategici rispetto all’interesse economico di controparti estere e dunque della concorrenza non tanto tra imprese ma riguardante la proprietà delle imprese. Dobbiamo per forza aprire le nostre imprese del settore della difesa, le nostre imprese energetiche, telefoniche, bancarie ad acquisizioni da parte di stranieri? Rispondere no a questa domanda significa evidentemente non essere considerati come liberisti.

E’ giusto allora parlare di limitare la concorrenza proprietaria verso l’estero?

Mi sembra che si possa tranquillamente dire sì nel caso del settore della difesa e dell’energia senza tradire il credo liberale. E anche qui per non generare eccessiva asimmetria nelle posizioni contrattuali, in questo caso dei nostri cittadini rispetto a quelli di altri Stati. Nella difesa, cedere un’azienda chiave in mani estere significa cedere significative porzioni di informazioni strategiche, che generalmente si vogliono mantenere segrete e quindi indebolirsi come Paese in termini di protezioni dei confini nazionali. Così come ci si indebolisce nel momento in cui le priorità energetiche del Paese vengono sacrificate alle priorità di altri Paesi a cui l’azienda in mano estera è più sensibile.

Indipendenza energetica. Se e nei limiti in cui il concetto di libertà dei cittadini di un Paese è messo in pericolo dal possesso straniero di tali aziende non vedo perché un liberale non debba opporsi alla contendibilità di tale imprese.

Se così è, estenderei – anche se con meno passione e convinzione – questi ragionamenti al settore delle telecomunicazioni e al settore bancario.

Per un Governo che deve garantire la sicurezza interna con controlli e spionaggio anti-crimine e/o anti-terroristismo, anche via rete telefonica, è pensabile che ci si possa preoccupare di mantenere perlomeno un carrier nazionale.

E che dire del settore bancario? Esiste abbastanza evidenza empirica che dopo le fusioni tra banche di diverse nazionalità il mercato dei servizi non diventa più concorrenziale di prima dato che gli stranieri si adattano alle pratiche del mercato interno. In assenza di benefici evidenti per i consumatori, come non preoccuparsi di una proprietà straniera che – o per motivi politici o per motivi di asimmetria informativa – presterà meno alle nostre piccole imprese con il nostro risparmio? Se, come sostengono gli americani, benessere economico comporta sicurezza, come non preoccuparsi di una proprietà che ovviamente non è neutrale nelle sue scelte e che sbilancia il potere contrattuale a favore delle imprese estere e contro le nostre (specialmente piccole) imprese? E non si pensi che tale atteggiamento sia da denunciare come provinciale: a parte il Regno Unito (che basa il suo sviluppo economico sul divenire la piazza finanziaria mondiale) gli altri Paesi sviluppati, inclusi quelli dell’Unione Europea, non sono più esterofili di noi quando si tratta di aprire la proprietà delle banche.

Si dirà che siamo in Europa e che quindi dobbiamo ragionare così solo verso i paesi fuori dall’Unione Europea. Può darsi. Allora a questo punto ricorderei che tali acquisizioni vanno legate strettissimamente al concetto di reciprocità.

Se così non fosse,  finché alla cultura dello sviluppo europeo non si affianchi lo sviluppo della cultura europea che porti ad un Governo politico europeo, bene facciamo a proteggere le nostre libertà coltivando campioni nazionali non contendibili.

Più di ciò non riesco immaginare contro la concorrenza: da qui in poi ha inizio il territorio vasto e fertile in cui liberismo e liberalismo vanno a braccetto ed in cui va tenuta, alta e bene in vista, la bandiera della concorrenza.

Ma, come potete ben capire, non è facile ridurre queste differenze e sedersi al tavolo di una visione di programma comune.

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Quote lattanti per l’Italia

Negli Stati Uniti da tempo viene utilizzato lo strumento dell’ “affirmative action“, “quote” tese a  tutelare specifiche classi sociali o gruppi etnici da fenomeni di discriminazione.

Nella valutazione delle barriere all’entrata spesso dalle corti di giustizia americane è stata anche considerata – come fattore di blocco – l’esistenza di network “old-boys” volti ad aiutarsi a vicenda impedendo l’apertura del mercato (lo ricorda Ted Kennedy, senatore, in suo famoso discorso al riguardo nel 2005).

Negli Usa sono protetti esplicitamente gli individui che “sono stati soggetti a pregiudizio razziale o etnico oppure a svantaggio culturale all’interno della società americana a causa delle loro identità come membri di un gruppo, senza riguardo per le loro qualità individuali. Tale svantaggio sociale deve derivare da circostanze fuori dal loro controllo”.

Allo stesso tempo, con un fenomeno spesso guidato dalle proteste dei gruppi non specificatamente protetti, su tali legislazioni e protezioni pendono ricorsi presso i tribunali o la Corte Costituzionale. Per esempio di recente, sempre negli Stati Uniti dove dal 1953 lo Small Business Act riserva quote di appalti per le imprese detenute da minoranze etniche, la Corte del Distretto di Columbia ha sancito le ragioni di una impresa contro il Ministero della Difesa su gare di appalto di simulatori militari riservata a imprese appartenenenti a minoranze etniche.*

E’ probabile che l’inesorabile anche se lento inserimento di successo delle minoranze etniche nei gangli decisionali della società americana farà pian piano declinare l’urgenza di queste tutele specifiche.

Un dibattito in bilico tra tutela dalla discriminazione e ingiusto favoreggiamento avviene di questi tempi in Europa sulle quote rosa. So che molte persone (in particolare donne) si oppongono a questa tutela, chiedendo di “farcela da sole”. Il problema è che senza di ciò è praticamente impossibile, come riconoscono le corti americane forti di centinaia di studi empirici: da soli si perde.

Forse per questo nella nostra associazione dei viaggiatorinmovimento.it abbiamo riservato nel consiglio direttivo il 50% dei posti al femminile ed il 20% agli under 30.

Ecco. Gli under 30 in nessuna parte al mondo trovano quote a loro favore. Ma forse in Italia è tempo che cominciamo a pensarci. Alle “quote lattanti”.

Dopo avere scritto del mio disagio a vedere l’Italia rappresentata da un Ministro molto senior (anche se competente e signorile)  e la Gran Bretagna da un ministro assai junior, sul blog mi hanno scritto che c’è poco da fare stereotipi su noi anziani e che anche tra i giovani c’è tanto che non va.

Bene, è nello spirito di questo blog e dei viaggiatori non fare di tutta l’erba un fascio, e so bene che in ambedue i gruppi anagrafici ci sono forze positive mostruose.

Ma.

Ma i giovani hanno delle cose speciali che noi anziani non abbiamo, come è vero il viceversa. Hanno, in media, più energia, più conoscenza del nuovo, più speranza di noi. E hanno meno accesso al network di relazioni, gli “old boys” a cui pensava Ted Kennedy (network che includono i sindacati quando trattasi di proteggere la forza lavoro anziana a scapito di quella giovane). Questa media maggiore e questo minore accesso si combinano in Italia nel generare (in media) uno sfruttamento decisamente minore del loro potenziale che non di quello degli anziani. Detto in altri termini la somma delle energie che perdiamo con la nostra struttura sociale sono a maggioranza energie giovanili.

Per recuperare queste energie mi convinco ogni giorno di più come sia necessario mettere “quote lattanti” nei posti decisivi per le decisioni: nelle università, nella politica, nei posti da dirigente per la sanità o nei ministeri, negli appalti pubblici per le imprese detenute dai giovani, nelle assunzioni da parte delle imprese, bisogna introdurre quote quando necessario e preferenze/aiuti quando sufficiente.

Le statistiche sulla gioventù (disoccupazione, NEET, laureati, emigrati all’estero) mostrano che questo è l’unico paese al mondo dove i giovani sono una risorsa a cui è chiesto di “aspettare, perché, appunto, troppo giovani”. Non scorderò mai la battuta gelida di Abete, Presidente BNL e ex Presidente Confindustria, quando disse ad una platea ideale di giovani che chiedevano ricambio: “io andarmene? certo, basta che riuscite a spodestarmi”.

Ecco, siccome spodestarlo è impossibile, bisogna che ci si assuma la responsabilità di far cessare questa evidente discriminazione per il bene del Paese, con norme appropriate. Quote rose, sì, quote lattanti pure.

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*L’azienda che non ha potuto partecipare alla gara a causa delle quote riservate si è vista riconosciuta l’inadeguatezza della decisione della stazione appaltante a causa dell’assenza di prove di discriminazione nello specifico settore di appalto, i simulatori per la difesa. Da ora in poi le stazioni appaltanti dovranno dimostrare con più cura la specifica presenza di discriminazione nel settore prima di procedere a proteggere/tutelare le aziende “potenzialmente discriminate”.

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La Cina e l’aragosta europea al tavolo con gli americani

Il piano cinese per trasformare la sua moneta, il renminbi, in una valuta rivale al dollaro, avrà successo? 

….

… dilemma per la Cina (per rispondere positivamente alal domanda di cui sopra, NdR): il sistema politico cinese è un ostacolo all’internazionalizzazione del renminbi?

Un motivo per il quale la democrazia potrà essere decisiva al fine di avere una moneta con status di riserva internazionale è che governi democraticamente eletti sono nella posizione migliore per prendere impegni credibili per sviluppare mercati liquidi e di ampie dimensioni. Possono impegnarsi a non espropriare i creditori, visto che altrimenti questi li cacceranno al momento delle elezioni.  E lo stesso rispetto per i diritti dei creditori che rassicura gli investitori nazionali rassicura quelli esteri, sia ufficiali che privati…

Dall’inizio del XIX° secolo le valute internazionali di riserva sono state quelle di paesi con sistemi politici democratici, dove l’azione arbitraria ufficiale è vincolata ed i creditori hanno diritto di rappresentanza.

Stimolante il problema posto dallo storico economico Barry Eichengreen che descrive come le autorità cinesi stiano aggressivamente perseguendo l’obiettivo di ottenere lo status di valuta internazionale per la loro moneta e si chiede se vi riusciranno.

E secondo Eichengreen per dare una risposta bisogna interrogarsi sul legame tra democrazia e forza di una moneta. Esiste un legame?

Beh la forza di una moneta è nella forza del sovrano, no?

La credibilità del sovrano, la sua capacità di mantenere intatta la reputazione del valore intrinseco di quanto viene battuto dal conio, è risultanza diretta della forza del sovrano, del suo potere sulla società sulla quale esercita la sua volontà. Un potere che può derivare da un mandato espresso da voto democratico, ma non è detto che debba essere così. Piuttosto deriva dalla soddisfazione del suo popolo, e dunque anche dalla crescita che riesce a garantire con le sue scelte. E, va ricordato, il legame causale che va dalla democrazia alla crescita economica è secondo molti studi assai tenue. Benjamin Friedman si spinge a ricordare come più forte possa invece essere il legame inverso che dalla crescita economica spinge ad affermarsi la democrazia.

Uno stato forte non è dunque necessariamente uno stato (fortemente) democratico. Non lo era nel passato, forse non lo è oggi, chissà se lo sarà tra 100 anni. Forse tra 100 anni sarà il modello autoritario “à la cinese” a dominare le società del mondo e dunque l’assunto di Eichengreen avrà mostrato la sua fallibilità.

Ma chi sarà seduto sul trono del mondo tra 100 anni? Quale modello politico s’imporrà così da imporre il suo conio?

Molto dipende da cosa scaturirà da questo nostro decennio. Non a caso la Cina si sta dando da fare, come mostra Eichengreen, per sedersi al tavolo decisionale del mondo con gli Stati Uniti. “Se non ti siedi al tavolo sei sul menù“, queste parole del mio collega catalano a Creta risuonano sempre nella mia testa.

E dunque molto dipende da cosa succederà all’euro. Se questo salterà, saremo sul menù cino-americano. Assisteremo alla vera balcanizzazione dell’Europa, indifferenti alle sorti di ognuno dei nostri vicini, tutti felici di sfidarci a suon di svalutazioni competitive, come tante stupide aragoste nell’acquario che salgono le une sulle altre per sconfiggersi o (pensare di) sopravvivere, con le chele bloccate dall’elastico e pronte ad essere bollite.

E un mondo senza l’Europa al tavolo decisionale sarà un mondo meno democratico e più pronto a divenire autoritario. Perché tre è meglio di due. Perché nella vene dell’Europa scorre il sangue pulito della democrazia.

Ma. C’è un ma.

Ma d’altro canto, mi dico, non è un caso che questo euro sia in crisi, ed in questo devo dare ragione a Eichengreen: forse è in crisi perché oggi è in crisi la democrazia europea. Che non ascolta il suo popolo nelle strade che protesta, perché tanto  - come dicono quelli di “fermare il declino” - la congiuntura è “irrilevante”, conta solo il lungo periodo e non le vittime che si mietono nel frattempo con la stupida recessione, indebolendo la democrazia.

Se l’Europa getta a mare la sua solidarietà getta a mare la sua democrazia. E nel fare questo diventa aragosta da bollire sul menù del prossimo secolo. Perché se è vero che la democrazia non garantisce sempre una moneta forte, è anche vero che l’Europa non può diventare forte nel mondo che essendo democratica. Nel suo DNA c’è questo, e nessuna Troika potrà mai avere potere al tavolo con Stati Uniti e Cina, perché sarà ogni giorno distratta e indebolita dalla rabbia quotidiana di un popolo che solo di democrazia sa ed ha imparato a nutrirsi.

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Non ci resta che piangere

Oggi bella riunione all’Ambasciata britannica, dove si parlava di spending review comparata. Viaggiavamo con la macchina del tempo, a intermittenza.

Saltando di 20 anni ogni 20 minuti a seconda che il relatore appartenesse al governo italiano o al governo britannico.

Hanno aperto il Ministro Giarda ed il Vice-Ministro dell’Economia UK, Alexander. Bella persona Giarda. Di altri tempi, un signore. Eppure a nessuno è sfuggita nelle biografie distribuite dall’Ambasciata la differenza di età anagrafica tra i due. Viaggio temporale. Ad un certo punto Giarda ha raccontato un grazioso aneddoto della sua vita di giovane diciottenne in Inghilterra. Alexander sarebbe nato una ventina d’anni dopo.

“Siamo un paese che non dà occasioni ai giovani” era un pensiero nella testa di tutti, l’ho verificato a pranzo. Tutti avevano notato le biografie. E non che Giarda fosse meno valente di Alexander, no. Era un simbolo, tutto qua, di un Paese che tiene più porte sbarrate di quante non ne apra.

Ma la macchina del tempo vera e propria era ben altra. Era la spending review italiana che ha una biografia così vecchia da deprimere anche il più ottimista degli ottimisti.

Ad un certo punto la valente dirigente britannica (una bella donna di origini afro-americane, Sharon White, Direttore Generale della Spesa Pubblica presso il Tesoro: anche qui il confronto anagrafico, ma non solo, con Bondi metteva ansia) ci ha ricordato come nel 1998, 15 anni fa, sua Maestà la Regina ha ritenuto vetusto il modello di gestione della spesa pubblica centralizzato dall’alto dal Tesoro in cui si facevano accordi triennali di stanziamenti con i Dipartimenti con potere di spesa, le cui somme stanziate erano poi in realtà rivedibili ogni anno e ….

E noi ci siamo guardati, ben consci che il modello organizzativo che 15 anni fa il Regno Unito ha ritenuto vestuto è quello che abbiamo noi. Oggi.

Sì, quello stesso modello che fa sì che:

a) “la spending review in Italia non è come nel Regno Unito dove trattasi di decidere come allocare i soldi a disposizione (di più a sanità e istruzione di meno a tutti gli altri), ma è semplicemente taglio della spesa”. Questo me l’ha detto lo sconsolato il Consigliere A.

b) “loro hanno l’informazione sui dati degli appalti e su chi compra cosa quando, ci credo che ne discutono ogni mese col Primo Ministro, hanno qualcosa di cui discutere!”. Il Direttore Generale B mi dice aggressivo.

c) “e noi che tagliamo a casaccio perché altro non possiamo fare”, mi dice il Presidente C, come se fosse ovvio che sia così.

Eh già. Mentre esco, devo andare all’università, sta per arrivare un’altra donna, anche lei dirigente dell’amministrazione britannica. Indovinate cosa dirige. Ebbene sì bravi, lo sapevo che lo sapevate.

Io invece sono rimasto basito, come un Leonardo da Vinci a cui Troisi insegna la scopa o il funzionamento del termometro: “Director of Talent Management”. Direttore dell’ufficio “Gestione dei Talenti”. Mostra nella sua presentazione come vengono gestite le carriere pubbliche, comprese quelle nella funzione acquisti, in base a meriti e competenze.

Ecco, per gestire il talento, non c’è bisogno di Giarda-Leonardo. C’è bisogno di #giovaniTroisi-appassionati-#vicini-al-loro-tempo.