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Altro che Banca d’Italia indipendente, rendete dipendente la BCE

Da Gerontius riceviamo e volentieri pubblichiamo.

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La difesa d’ufficio della BCE contro la proposta del governo italiano di imporre il tetto di 240.000 euro agli stipendi dei manager pubblici e quindi anche dei dipendenti della Banca d’Italia, in primis il governatore Visco che percepisce una remunerazione pari a tre volte quella del presidente della Federal Reserve (ma sembra che la norma potrebbe interessare altri 600 dirigenti dell’Istituto di via Nazionale), apre una serie di interessanti questioni che meritano di essere approfondite.

Il primo punto messo in evidenza dalla BCE nella sua difesa è che l’imposizione del tetto sarebbe un intrusione nell’indipendenza finanziaria della Banca d’Italia in materia di personale. In altri termini, il venir meno dell’autonomia della politica del personale potrebbe “essere incompatibile con la sua capacità di espletare la propria funzione in modo indipendente”. Come questo avverrebbe non viene esplicitato. Si fa altresì presente che l’assemblea dei partecipanti al capitale ha ampie competenze in materia di remunerazioni e quindi sembra che si suggerisca che ad essa dobbiamo far riferimento per questioni che riguardano i compensi dei manager.

Il secondo punto messo in evidenza è che la riduzione dei costi del personale porterebbe ad un aumento dell’utile. Con il trasferimento di questa porzione  dell’utile allo Stato, come prevede la norma del Governo, si distoglierebbero risorse importanti che potrebbero essere utilizzate in “modo indipendente” per perseguire gli obiettivi della BCE e, in più, ciò potrebbe essere equiparato ad un finanziamento monetario allo Stato che è vietato dal Trattato europeo. Di nuovo si invoca  la “lesa indipendenza”  e si allude al sospetto che potremmo ricadere in una fattispecie di finanziamento diretto allo Stato che è espressamente vietato per garantire la stabilità dei prezzi.

Infine, nel terzo punto messo in evidenza, la BCE si appella al principio di indipendenza degli organi decisionali della Banca d’Italia come sancito dall’art. 130 del Trattato che vieta ai governi nazionali di influenzare, nello svolgimento delle proprie attività istituzionali, i membri degli organi decisionali delle banche nazionali centrali. Modificando la remunerazione di questi ultimi si andrebbe secondo la BCE ad impattare sulla “indipendenza personale dei membri dei suoi organi decisionali.”

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Partiamo dal primo punto. Fissare un tetto alla remunerazione dei top manager significa imporre un vincolo alla politica del personale. Non significa però avere un controllo nullo o limitato sul proprio personale come indica la nota della BCE. E’ evidente che con tale vincolo rimangono ampi spazi di autonomia per le politiche del personale.

Invocare poi la natura privatistica della Banca d’Italia a supporto dell’autonomia della politica del personale ci lascia abbastanza freddi. Era in vigore una legge che prevedeva la nazionalizzazione della Banca d’Italia per sistemare una volta per tutte l’anomalia che vede le banche private azioniste della banca centrale. Il governo invece di attuare questa legge ha  optato principalmente per far cassa per un provvedimento che prevede la rivalutazione e la relativa tassazione delle quote azionarie detenute dalle banche. L’attuale assetto di “governance” non è perciò il risultato di un disegno razionale, ma di puro opportunismo politico insieme ad un retaggio storico riconducibile a vicende accadute cento anni fa. Purtroppo facendo così si è cristallizzata una situazione difficilmente modificabile in futuro.

Veniamo al secondo punto. Ricordiamo che una banca centrale ottiene i propri ricavi principalmente grazie alla possibilità di creare base monetaria in condizioni di monopolio. La base monetaria è costituita dalle banconote in circolazione e dalle riserve che le banche devono detenere “obbligatoriamente” presso la banca centrale a tassi “fuori” mercato e in alcuni casi anche a tassi negativi. Il flusso di interessi generato dalle attività in contropartita della base monetaria, chiamato “signoraggio”, viene riversato allo Stato al netto dei costi di gestione ed eventuali accantonamenti. Questo avviene naturalmente anche nell’area dell’euro dove l’emissione delle banconote è assegnata alla BCE. La Banca d’Italia trasferisce ogni anno alla Stato i redditi generati dal signoraggio ripartiti dalla BCE alle banche nazionali. Aggiungere ad essi una piccola quota degli utili derivati dai risparmi generati dal taglio degli stipendi non modifica la natura del trasferimento e quindi non si capisce perché dovrebbe configurarsi come un finanziamento allo Stato e, ovviamente, né tantomeno in che modo ciò possa mettere in pericolo la stabilità dei prezzi.

Per il terzo punto relativo all’indipendenza dei membri degli organi decisionali può essere utile fare un analogia con la magistratura che è anch’essa soggetta al tetto di 240.000 euro. Come è noto la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente come è sancito dall’art. 104 della Costituzione. “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Il giudice è chiamato ad interpretare ed applicare la legge in piena autonomia ed indipendenza. L’imposizione del tetto allo stipendio non è stato ritenuto che possa ledere in qualche misura il principio di indipendenza, imparzialità e terzietà del giudice o del pubblico ministero. Per quale motivo dovrebbe allora impattare sulla indipendenza personale dei membri degli organi decisionali della Banca Centrale?

Ci pare in conclusione che la difesa messa in atto dalla BCE contro il provvedimento del governo non si fondi su argomenti forti, piuttosto tradisce un certo nervosismo che deriva dal fatto che il provvedimento del governo italiano viene visto come un’intrusione negli affari interni della banca centrale e quindi un attacco alla propria indipendenza. E qui si tocca un tasto molto delicato. L’indipendenza della banca centrale è senz’altro una questione importante, ma non può essere interpretata come un “indipendenza da tutto e da tutti”. Se la magistratura risponde solo alla legge, non dobbiamo scordarci che le leggi in un sistema democratico le fa il Parlamento. Così se la BCE deve essere indipendente e autonoma  nello svolgimento del suo mandato, non può essa definire il mandato e deve rispondere a qualcuno dell’efficacia del proprio operato (accountability).

Il Trattato in realtà prevede che la BCE sia responsabile per la propria azione davanti al Parlamento Europeo, ma purtroppo il Parlamento Europeo non è dotato degli strumenti per poter esercitare una vera funzione di controllo, per cui di fatto oggi la BCE non risponde a nessuno.

Il Trattato assegna alla Banca Centrale la priorità di assicurare la stabilità dei prezzi senza però definire esattamente in che cosa consista. Nella pratica la BCE si è data come obiettivo quello di non superare la soglia del 2% di inflazione. Questo obiettivo però non è stata il frutto né di un dibattito pubblico, né di un dibattito parlamentare. Il target scelto riflette in realtà quelli che sono i rapporti di forza all’interno dell’eurozona e di conseguenza si è attestato sui “desiderata” dei cosiddetti paesi “forti” dell’eurozona, un livello decisamente basso anche se confrontato con quello di altri paesi sviluppati.

Il recente il dibattito politico che si è concentrato molto sui temi dell’austerity ha solo sfiorato il tema della politica monetaria e del mandato alla BCE. In una situazione eccezionale di prolungata crisi sono necessarie misure eccezionali e non convenzionale nella conduzione della politica monetaria.

Negli Stati Uniti fin dall’inizio della crisi la Fed ha portato i tassi di policy a zero ed ha acquistato titoli governati ed ABS a lungo termine con lo scopo di abbassare i tassi a lungo e far salire i prezzi degli assets. In Inghilterra sin dall’inizio della crisi sono stati fatti da parte della Bank of England acquisti massivi di asset del settore pubblico (Asset Purchase Program) per far salire i prezzi degli asset.

Le misure della BCE sono state invece guidate dai limiti posti dal Trattato di Lisbona che proibisce gli acquisti di titoli di stato che vengono interpretati come un salvataggio pubblico o un finanziamento monetario. Nel 2010 fu introdotto il Securities Market Program poi sostituito dal Outright Monetary Transaction Program per l’acquisto dei titoli pubblici. E’ significativo che il secondo programma non è mai stato attivato e che questi programmi devono essere sterilizzati perché non possono  essere fonte di creazione di base monetaria. Studi recenti hanno mostrato che gli effetti dei programmi non convenzionali messi in atto dalla BCE non hanno avuto effetti permanenti sui tassi, ma soprattutto che il bilancio messo a disposizione dalla BCE su queste operazioni  è stata ben poca cosa se confrontato con quello messo a disposizione dalla Banca d’Inghilterra e dalla FED per i programmi non convenzionali.

Il provvedimento del governo italiano ha urtato la suscettibilità della Banca Centrale in materia di indipendenza, ma ad un esame più attento emerge che la questione dell’indipendenza e della conduzione della politica monetaria è del tutto irrisolta nell’Eurozona. Le vere domande che dobbiamo porci sono: chi definisce gli obiettivi della politica monetaria quando siamo in una situazione di crisi prolungata? A chi risponde per il suo operato la Banca Centrale?

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Adesso scovate e punite chi ha eluso la normativa CONSIP

Dal blog di Carlo Cottarelli, commissario alla spending review:

“... Infine, esistono sette prodotti standard (energia elettrica, gas, carburanti rete, carburanti extra rete, combustibili per riscaldamento, telefonia fissa, telefonia mobile) per cui risulta già ora molto più difficile aggirare la norma che imporne di comprare tramite convenzioni CONSIP o a prezzi inferiori (visto che si tratta di prodotti altamente standardizzati). Per questi prodotti i controlli possono partire subito, senza dover attendere la pubblicazione dei benchmark CONSIP e dei prezzi di riferimento.

Bene, era ora! Da anni affermiamo che le amministrazioni statali, che hanno l’obbligo di comprare certe merceologie in Consip, eludono la norma. Perché hanno sempre un motivo per comprare altrove: “la marca del cellulare è diversa da quella a cui sono abituato”…. E perché NESSUNO ha mai voluto controllare. A cominciare da primi ministri e ministri dell’economia del recente passato, ovviamente. E anche le amministrazioni locali, che possono comprare fuori Consip solo a prezzi più bassi, e che spesso hanno comprato a prezzi più alti.

Bravo Cottarelli: adesso avanti tutta. Come?

Quando scoprirà chi ha  ”barato”, immediatamente forte e chiara presa di posizione: contratto d’acquisto nullo e accertamento delle colpe del responsabile del procedimento con quantificazione del danno erariale.

E’ ovvio che Cottarelli ha bisogno dell’aiuto della Ragioneria Generale dello Stato nello scoprire tali sprechi. Gli sarà dato? Pieno ed incondizionato? Anche se i cellulari o il contratto di telefonia sono stati acquistati da qualche potente di turno dell’amministrazione statale?

Attendiamo fiduciosi, il passo è importante per restituire credibilità al meccanismo degli appalti di beni e servizi ed alla lotta agli sprechi.

Aspettiamo ovviamente che i dati su tali sprechi siano rivelati al pubblico una volta verificati. E’ chiedere troppo?

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Atenei di eccellenza e mille università: tutto langue

Ieri alla Sapienza le 7 università romane (unite ne la “Costellazione”, la cui nascita è stata stimolata dalla Fondazione Manlio Resta)  si sono incontrate per discutere di economia italiana con i loro bravi ricercatori. E’ stata un’occasione utile, di fronte al Presidente Zingaretti che ha promesso la sua attenzione a questa rete romana da allargare a Cassino e Viterbo, per ragionare anche su cosa manca all’università italiana. Tanto, nell’assenza generale della politica nazionale che taglia taglia taglia e non costruisce niente per il futuro dei nostri ragazzi. Ecco le mie riflessioni introduttive, a futura memoria.

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Ci sono molti modi per essere un professore universitario. Alcune condizioni necessarie per esserlo con la P maiuscola.

Il primo è quello più difficile, di compiere il proprio dovere ogni giorno, in aula, con i ragazzi. Per far entrare la forza delle idee nei gangli più vitali della società, i giovani.

C’è poi quello altrettanto nobile e sfidante di lasciare una traccia con la ricerca. Spesso con ricadute importanti nel mondo delle imprese e sulla vitalità del tessuto economico.

C’è poi quello che sul sito di Manlio Resta fa riferimento al suo periodo dal 1959-66 in cui si “è cimentato in questioni di economista applicato nell’intento di ricercare un riscontro fra teoria e realtà empirica, scendendo a livelli inferiori di astrazione nei suoi studi di economia”; in particolare il Prof. Resta si dedicò ad alcuni incarichi di programmazione economica come consulente economico dapprima per l’Organizzazione delle Nazioni Unite, e poi come esperto di programmazione regionale per le aree del veronese. Per far entrare la forza delle idee nelle istituzioni.

Vi è infine l’impegno politico, per chi ritiene di coinvolgervisi, così essenziale per creare dibattito intelligente all’interno della società civile: nel 1985 Federico Caffè – che qui insegnava – aderisce al referendum promosso dalla CGIL sull’abrogazione della norma che comporta un taglio dei punti della scala mobile; collocandosi così su un fronte opposto al suo allievo Ezio Tarantelli, che quella riforma aveva vivacemente sostenuto. Ambedue Professori con la P maiuscola, anche per questo.

L’iniziativa della Costellazione della Fondazione Resta ha uno scopo ulteriore. Essa unisce per la prima volta 7 facoltà o ex facoltà di economia in un dialogo comune. Intendiamo rifarlo, speriamo con una cadenza più frequente di quella annuale, per parlare al nostro territorio, con il nostro territorio, anche del territorio.

Vi è anche a mio avviso una piccola speranza ulteriore, che andrà coltivata. Quella di avviare qualcosa che assomigli all’inizio di un’aggregazione di eccellenze.

Nelle nostre riforme mancate dell’università italiana spesso indichiamo gli atenei di eccellenza come una necessità. Ci sono negli Stati Uniti, accanto a tantissime università con ottima didattica, e si reggono endogenamente sulla loro reputazione. Ci sono in Europa. Spesso nascono con afflato dirigistico da decisioni governative, come in Francia, o da schemi complessi e perfettibili ma efficaci come quello britannico, fatto di valutazione e riconoscimento economico e di carriera ai più bravi.

In Italia non ci sono. Forse ci saranno.

Auspicare atenei di eccellenza non significa chiedere meno università, anzi.

E non vuol dire essere a favore di pochi atenei. Va condiviso quanto diceva Luigi Einaudi: “Poiché in Italia gli studenti universitari dagli attuali 150 mila circa dovranno in qualche decennio giungere al milione, sarà d’uopo, senza gonfiamento di quelli esistenti, crescere gradualmente il numero degli istituti universitari dai 20 o 30 attuali a 50 e poi a 70 e poi a cento e più. Né, con un milione di studenti e con cento istituti universitari crescerà la disoccupazione falsamente detta intellettuale; anzi diminuirà, perché non si è mai visto che il possesso del sapere – cosa ben diversa dal possesso del pezzo di carta – cresca la difficoltà di trovar lavoro.”

Guardare i numeri dell’università, che parlano di crescente declino di immatricolazioni nelle università italiane, genera dentro di me rabbia e un po’ di sgomento. Perché vi è la schizofrenia di chi ci governa, che da un lato, quello europeo, ci chiede di arrivare entro il 2020 al 40% di studenti laureati tra la popolazione di giovani tra i 30 e 35 anni, e noi che oggi, a causa di politiche universitarie stanche e poco ambiziose e di politiche economiche di tagli lineari, siamo al terz’ultimo posto nell’Unione con un tasso inferiore al 25%.

In attesa che arrivino gli atenei di eccellenza (vicino a tantissime altre università che formano per il lavoro con una grande didattica), in attesa che si rispetti davvero Europa 2020, ci si deve ricordare del perché in tutto il mondo si cerca di concentrare i migliori cervelli in un solo luogo anziché disperderli: perché parlano tra loro, magari a pranzo, e parlando, ricercano e inventano.

In attesa che arrivino, la Fondazione Resta ha voluto riunire le diverse scuole romane per far entrare aria di diversità, ma soprattutto di confronto tra eccellenze in ognuna delle nostre Facoltà o Macroaree, a tutto vantaggio della ricerca, dei giovani, delle istituzioni, del territorio, del dibattito economico, della crescita culturale di ognuno di noi e dei cittadini. Nel fare ciò la Fondazione pensa di avere contribuito nel suo piccolo all’avvio di una grande opportunità. La disponibilità della Regione e del suo Presidente rappresentano uno stimolo ulteriore importante. I prossimi passi che compiremo saranno decisivi per capire se abbiamo avuto ragione.

Rimanendo in scorata attesa che il Governo e l’Europa si sveglino e ridiano all’Università il ruolo centrale che dovrà avere se veramente vogliamo ricostruire questo Paese e questo continente.

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ANAC+AVCP(+AGCM): due rondini fanno primavera?

Da tempo come Viaggiatori in Movimento (vedi nostro Programma lungo) chiedevamo che l’Autorità dei Contratti pubblici fosse dissolta ed i suoi dipendenti assegnati in un Ministero della Qualità della Spesa.

Le ragioni della nostra richiesta erano molteplici: la poca efficacia storica dell’AVCP nel vigilare concretamente la qualità degli appalti pubblici (malgrado la presenza in essa di validi professionisti) e la dubbia rilevanza di argomentazioni a favore di una indipendenza dalla politica che non era in alcun modo garantita erano due argomenti rilevanti. Vi era poi l’esigenza di ricondurre la lotta per la qualità della spesa ad un unico organo politico, un Ministero appunto, che avesse tutte le carte in mano per coordinare appropriatamente il tutto.

Fondere l’Autorità Nazionale Anti Corruzione (ANAC) con l’Autorità della Vigilanza dei Contratti Pubblici non è di per sé un’idea sbagliata. Ha il vantaggio di rimediare alla nostra prima critica “storica” all’ANAC così come è stata creata: la scarsità di dipendenti e di poteri di ispezione. Ora da 12-20 dipendenti che fossero l’ANAC avrà i 330 dipendenti in più che gli porta in dote l’AVCP e unità dedicate della Guardia di Finanza dedicati. Non è poco, anche se non sarà facile far ripartire l’entusiasmo di tanti funzionari dell’AVCP e riorientare le loro sensibilità a una maggiore operatività di quella in cui hanno operato in questi anni. Non aiuterà certo il taglio degli stipendi e dei posti che pare sia previsto con l’operazione di fusione tra le due Autorità.

Ma la lotta alla corruzione, che è fenomeno incrostato nella cultura e nei gangli sociali di ogni Paese, richiede ben altro e non mi pare che questo sia chiaro al nostro Premier né mi pare, al Presidente Cantone . Il momento è propizio per segnalargli i prossimi passi. Li menziono in ordine di crescente importanza.

1. Una legislazione serie per stimolare il pentitismo contro la corruzione. Matteo Renzi esclama “chi ha notizie di reato di corruzione salga le scale di un tribunale e denunci”. Sorry, Presidente, ma non ci siamo. I testimoni di corruzione, in tutti i Paesi al mondo che lottano seriamente la corruzione, vengono incentivati ad uscir fuori e protetti. Negli Usa ricevono fino al 30% delle somme recuperate. Da noi l’attuale legge gli garantisce  pressoché nulla né in termini di protezione che di incentivi.

2. Un rafforzamento enorme dei poteri e delle risorse dell’Antitrust (AGCM) sugli appalti pubblici e un coordinamento vero, e non formale come è stato sinora, con la nuova Autorità (ANAC+AVCP)presieduta da Cantone. Perché se c’è una cosa che sappiamo, sulle poche sappiamo sulla corruzione, è che cartelli e corruzione si rafforzano a vicenda: combattere i cartelli, pervasivi negli appalti, è probabilmente il modo più efficace per combattere la corruzione negli appalti, Expo e Mose insegnano, a quanto pare. Ma l’Antitrust ha svolto sinora solo 22 istruttorie in 22 anni: segno di indifferenza totale della politica a investire su disponibilità di dati (essenziali per dirci dove ispezionare) e di persone (essenziali per ispezionare).

E già che ci siamo, che fare con le competenze accumulate dalla DIA in tema di Antimafia? Perché un’altra cosa che sappiamo è che mafia, cartelli e corruzione vanno ancora meglio a passeggio assieme.

E già che ci siamo che fare dei dati sui reati di corruzione che giacciono negli scantinati di Istat e Ministero della Giustizia?

3. Ma l’ultimo pezzo del puzzle è forse quello più importante: incompetenza e corruzione vanno a braccetto. Là dove c’è incompetenza presso la stazione appaltante è più facile che la corruzione si infili senza ostacoli. Là dove vi è corruzione imperante non si sente il bisogno di investire sulle competenze. Rovesciando il giocattolo, si scoprono tuttavia altre cose interessanti: là dove c’è competenza, ben remunerata e ben organizzata, cessa l’ossigeno per la corruzione. Ridurre ad un numero realistico le decine di migliaia di punti ordinanti della Pubblica Amministrazione, lasciandone poco più di un migliaio (così da non centralizzare troppo gli appalti, cosa che uccide le PMI sul territorio e facilita i cartelli di grandi imprese) e assumendo in questi i migliori e più competenti dei “buyer” (la parola inglese che va di moda oggi per dire acquirente) remunerandoli (immensamente) a performance e obbligandoli a investire nelle competenze … e il gioco è fatto.

La corruzione, se siamo seri nel cercare di ostacolarla, va combattuta fin nei minimi dettagli. L’approssimazione non è consentita.

Sveglia, è l’ora giusta per la vera spending review.

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Questa BCE ha fallito, miseramente. Mandate a casa chi le ordina di fare tutto sbagliato

Torno sul dibattito sulla politica monetaria nell’area euro in tempi di sindrome giapponese a casa nostra: deflazione, ormai quasi sfuggita di mano, e stagnazione ventennale come paventa Stiglitz, con effetti duraturi sulle generazioni più giovani e sulle PMI.

Difficile fare politica monetaria in tempi di trappola della liquidità, dove i tassi d’interesse non scendono più: come stimolare allora l’economia da Francoforte?

Una possibilità è quella di prendere il telefono, chiamare le banche ed obbligarle a prestare denaro alle imprese. Si faceva quando ero ragazzino, a Via Nazionale. Altri tempi, le banche erano pubbliche e in America c’era John Kennedy.

Keenedy. Che tempi erano quelli.

Oggi purtroppo vale il motto “non chiedere cosa la tua banca può fare per il paese, chiedi cosa il paese può fare per la tua banca” . Lo dico ancora sconvolto per l’arroganza della lettera che la BCE ha indirizzato al nostro Governo sul tetto agli stipendi del Governatore. Lo dico pensando che nel silenzio assoluto si sta preparando una mega emissione di titoli di più di 10 miliardi per ricapitalizzare con i soldi del contribuente le maggiori banche italiane per far fronte alle richieste europee, quella stessa Europa che ha vietato di emettere titoli per avere la liquidità necessaria per rimborsare i crediti che le imprese, specie le piccole, hanno con la Pubblica Amministrazione.

Ma anche se la BCE volesse fare moral suasion, e la facesse, siamo sicuri che le cose migliorerebbero? Purtroppo no, bisogna anche che le imprese domandino credito. E qui, come detto nell’ultimo post, la BCE

Non basta: chi chiede credito? Solo chi spera nel futuro, solo chi si è convinto di vivere in una economia vibrante, dove la domanda è stimolata. E qui casca l’asino: solo dove le aspettative di crescita sono stimolate. Il comunicato della BCE riportato nell’ultimo post, dove la BCE chiede ancora più austerità fiscale creando recessione oggi per una ripresa “quando saremo già tutti morti” la dice lunga sul modello di riferimento che ha la BCE per determinare le politiche ottimali per l’area euro.

E’ tra l’altro la ripetizione dell’assurdo errore che Draghi compì con Monti (per una volta da difendere) quando quest’ultimo rifiutò il commissariamento della Troika in cambio di sostegno monetario da parte della BCE. Quando mai lo capirà la BCE che una politica monetaria espansiva in trappola di liquidità con politica fiscale restrittiva condanna l’economia europea alla sindrome giapponese di deflazione e stagnazione?

L’ha capito Abe, lo capirà chi comanda la BCE? E’ ormai chiaro che la salvezza dell’Europa passa, come condizione necessaria anche se non sufficiente, per un approccio giapponese alla politica monetaria: rinnovo totale di tutti i vertici e cambiamento del mandato.

Questa BCE ha fallito, miseramente. Ma per mandarla a casa bisogna prima cambiare la testa di chi fa politica in Europa e ordina a Draghi di commettere errori su errori.

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C’è molta molta BCE dietro questa disastrosa gestione della crisi europea.

Avete letto le proiezioni della BCE uscite il 5 giugno sull’area euro?

Interessanti. Dalle ultime proiezioni di marzo 2014, gli economisti della Banca centrale europea rivedono al ribasso la crescita 2014 stessa: dal +1,2% al 1%, attribuendo il cambiamento ad una revisione al ribasso sugli investimenti privati dal +2,1% al +1,7% . Sembra proprio che la BCE non riesca a comprendere quanto siano feriti gli animal spirits imprenditoriali in questa crisi. Ma feriti da cosa? Cosa fa abbandonare progetti di lungo periodo alle imprese?

In parte la BCE stessa, con le sue analisi.

Sono proiezioni, quelle della BCE,  che includono, nelle parole stesse dei tecnici dell’istituto di Francoforte, solo “tutte quelle misure fiscali approvate dai Parlamenti nazionali, o quelle che sono state definite con sufficiente dettaglio dai Governi, e che hanno grande probabilità di essere approvate“. Misure che, sempre secondo la BCE, per la maggior parte dei Paesi non risultano sufficienti a soddisfare quanto richiesto dal patto di Stabilità e dal Fiscal Compact.

E dunque non è solo necessario ma anche probabile che ulteriori misure di restrizione fiscale dovranno essere adottate prima del 2016.”

Peggiorando ulteriormente l’andamento futuro dell’economia?

Assolutamente sì, come specifica la stessa BCE. Il consolidamento fiscale, fatto di minori spese e maggiori tasse, sarà di 0,7% punti di PIL nell’area euro, spalmato sui prossimi 3 anni. La BCE stima una ulteriore minore crescita di PIL di 0,5% da aggiungere ai suoi già tristanzuoli scenari 2015 e 2016.

Ma è la chiusura del Box 3 dove è contenuta questa analisi che merita di essere tradotto per inchiodare la BCE alle sue responsabilità:

“Dobbiamo ribadire che questa nostra analisi di impatto fiscale si concentra solo sugli aspetti di breve periodo di queste probabili misure fiscali ulteriori. Benché anche misure fiscali ben disegnate hanno spesso effetti di breve periodo negativi sul tasso di crescita del PIL, vi sono effetti positivi di lungo periodo sull’attività economica che non appaiono evidenti lungo l’orizzonte temporale della nostra analisi (2014-2016).  Dunque i risultati della nostra analisi non devono essere interpretati come motivo per dubitare della necessità di ulteriori sforzi di consolidamento fiscale  nel periodo di riferimento (2014-1016). Anzi, ulteriori sforzi di consolidamento sono necessari per restaurare finanze pubbliche sane nell’area euro. Senza questi consolidamenti, vi è il rischio che gli spread possano peggiorare. Inoltre, gli effetti sulla fiducia potrebbero essere negativi, tarpando le ali alla ripresa.”

Eccola qua la BCE per voi: mi raccomando, fate scendere il PIL oggi, perché … dopo il 2016, magari crescerà.

Bel modo di influenzare le aspettative per il prossimo triennio.

E ora mettetevi nei panni di un imprenditore che legge queste parole e che dunque sa che la BCE si batterà per forzare la Commissione europea a forzare i Paesi a fare ancora più recessione e a togliere a queste imprese  domanda di beni e servizi. A voi verrebbe la voglia di investire in un Paese come questo?

A me no.

C’è molta molta BCE dietro questa disastrosa gestione della crisi europea.

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Così rinasce, moralmente e fisicamente, un Paese.

Fa impressione vedere in prima pagina del Corriere della Sera un errore su dati disponibili pubblicamente, addirittura di fonte Banca d’Italia, addirittura da parte di due economisti del calibro di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi. Certamente il Corriere farà la rettifica.

“mentre la spesa delle pubbliche amministrazioni, al netto degli interessi sul debito e degli investimenti, è salita rispetto al 2007 di oltre 4 punti, dal 44,1 al 48,5% del Prodotto interno lordo (Pil)”. Ohibò, i dati non mi tornano. Prendo la relazione del Governatore e trovo la tabella incriminata:

è la 13.5 di pagina 156.

Dove si legge che effettivamente un aumento dal 44,1 al 48,5 c’è stato ma è del totale della spesa corrente, compresa però la spesa per interessi. La riga sotto è quella al netto della spesa per interessi che volevano calcolare forse Alberto e Francesco e passa da 39,1 a 43,2 percento del PIL. Un aumento leggermente minore, ma, soprattutto dei valori più bassi, nel 2007 o 2013, della spesa pubblica di riferimento.

Perché so bene cosa ha tradito Alberto e Francesco: è l’ansia che ha ognuno di noi di trovare il dato più gradito per sostenere la propria tesi. E siccome da sempre la loro fissazione è che lo “Stato è enorme, abbattiamolo”, hanno saltato un riga, così. Succede. Anche se dovremmo sempre controllare i nostri più elementari impulsi.

Mi interessa molto di più entrare nel merito del loro argomentare e confutare pezzo per pezzo il loro ragionamento. Che si basa sull’opinione che: a) mentre i consumi privati non recuperano le spese pubbliche aumentano e b)  che per salvare l’economia non ci vuole più domanda pubblica, nemmeno nella sua forma più nobile degli investimenti pubblici, ma sostegno ai consumi con minori tassazione.

I consumi privati crollano? Dalla crisi, ci dice la Relazione (e qui il dato citato da A&G è esatto) in termini reali di circa il 7%. E’ evidente: i redditi crollano perché si produce ed occupa di meno, la gente consuma di meno. Avessimo saputo come combattere questa crisi economica anche il dato sui consumi sarebbe stato migliore.

E la spesa? Alesina e Giavazzi, al di là del loro lapsus freudiano che li ha indotti all’errore, puntano il dito sull’aumento delle spese pubbliche. Strano modo di argomentare, il paragonare crolli dei valori assoluti reali di una variabile (i consumi privati reali) con l’aumento di una variabile in percentuale del PIL (la spesa pubblica al netto di investimenti e interessi): come paragonare mele e banane. Tanto più che siccome è il PIL ad essere crollato, se la spesa sul PIL sale non è perché la spesa è salita ma, come vedremo, perché quest’ultima è scesa, ma meno del PIL: e per fortuna, sennò staremmo qui a contare ulteriori diminuzioni del prodotto e dell’occupazione.

Ma procediamo lentamente. Anche guardando alla spesa in percentuale del PIL, a cosa è dovuta la salita da 39,1 a 43,2%? Non agli stipendi pubblici: sono scesi, addirittura anche in percentuale del PIL. La domanda pubblica di beni (farmaci, computer, ausili per disabili, benzina per le macchine della polizia ecc.) è salita dello 0,5% di PIL: il che ovviamente significa una riduzione in valori assoluti reali. E allora? Cosa è che spiega l’aumento della spesa pubblica in termini di PIL? Semplice. Le pensioni che sono cresciute dal 17% al 20,5%. Malgrado la riforma. Qualcosa di inevitabile.

Giavazzi ed Alesina giustamente non considerano nella spesa pubblica gli interessi: perché non generano ricchezza, sono un mero trasferimento (che non entra nel PIL), pressoché obbligatorio, dal cittadino contribuente al cittadino percettore. Esattamente come per le pensioni. Quello che conta per capire il cambiamento del peso, durante questa crisi, della presenza “attiva” dello Stato è la spesa pubblica per stipendi, beni, servizi ed investimenti. Che, badate bene, in una recessione dovrebbe aumentare per sostenere l’economia quando il settore privato va male. E cosa è successo dal 2007 a questo valore? In percentuale del PIL è sceso, dal 26,1% del PIL (includo anche le spese in conto capitale che non sono investimenti) al 25,5% del PIL.

Ovviamente in termini reali, e qui è il dato che Alesina e Giavazzi avrebbero dovuto utilizzare per fare un paragone quantomeno tra mele golden e mele annurche con i consumi delle famiglie, la spesa pubblica è calata molto di più. Qualche esempio? Gli stipendi pubblici dal 2007 al 2013 sono rimasti costanti in valore nominale, da 164,067 a 164,062 miliardi di euro. Gli investimenti pubblici sono calati da 36,139 a 27,166. I consumi intermedi sono saliti, da 79,94 miliardi a 86,86 miliardi, di circa il 10%. Ma il costo della vita in questi anni, a spanne, è aumentato del 14%: se facciamo il paragone dunque giusto, visto che Alesina e Giavazzi hanno correttamente depurato le cifre sui consumi delle famiglie dall’impatto dell’inflazione, significa che gli stipendi pubblici sono crollati del 14% circa in questi anni in termini reali, che addirittura anche di beni intermedi ne abbiamo comprati di meno, per non parlare del crollo reale degli investimenti pubblici.

Tutto ciò per fare chiarezza sui dati e per ricordare a tutti che questa crisi ce la dobbiamo tenere non solo perché abbiamo speso male ma anche molto ma molto poco per le risorse pubbliche che avrebbero potuto sostenere l’economia, come per gli appalti o per gli stipendi dati a chi li meritava ed ad alta produttività.

Se poi mi chiedete cosa penso del dibattito “i soldi trovati come li spendiamo, per meno tasse o più investimenti pubblici”, vi dico: primo, dove troviamo i soldi? Cottarelli è sparito, è in una cella sotterranea del Ministero di Via XX Settembre. Chiediamo dunque in primis a Renzi e Padoan come intendono trovare le risorse promesse se non con micidiali tagli lineari. Secondo: se avessimo le risorse da spendere, io sono certo che gli investimenti pubblici in questo momento farebbero meglio che  la diminuzione delle tasse, perché le seconde non vengono spese quando la gente vive in un ambiente così intriso di pessimismo.

Ma cosa sono gli investimenti pubblici? Secondo Alesina e Giavazzi sono “le 78 opere rimaste incompiute (per le quali) servirebbe oltre mezzo miliardo di euro. Certo, vi sono infrastrutture che potrebbero essere finanziate dalla Banca europea per gli investimenti, alcune certamente utili, come il potenziamento della banda larga, o la creazione di una rete energetica europea.” Macché. Chiedete a qualsiasi piccolo imprenditore, a qualsiasi amministratore locale: l’economia in questo momento ha bisogno di piccoli investimenti che aiutano le PMI, i giovani, il territorio, la manodopera meno qualificata che è quella su cui pesa maggiormente l’ombra terribile della disoccupazione. Ci vogliono manutentori:

-        in tutte le nostre scuole, per gli interni, gli esterni, la sicurezza.

-        in tutte le nostre università, per fare aule consone per competere con le altre università europee per attrarre studenti che portano risorse e per dare stipendi a ricercatori bravissimi (anche questo è un investimento pubblico);

-        in tutte le nostre Pompei, per sorvegliare che lo scempio e i furti finiscano, le Camorre siano allontanate, i servizi culturali garantiti ai turisti;

-        in tutti i nostri ambienti naturali, per mettere un argine alla devastazione idrogeologica;

-        assumendo carabinieri e poliziotti, finanzieri e guardia costieri e dandogli risorse e mezzi per tutelarci dal crimine e dalle ingiustizie, così favorendo la creazione di imprese.

Eccetera eccetera eccetera.

Ecco cosa sono gli investimenti pubblici , Alberto e Francesco. Altro che Mose. Per quello ci vuole un solo, ultimo, investimento pubblico: quello di un’Autorità Anti Corruzione vera e non di facciata, con una spesa notevole per risorse umani e mezzi. Così rinasce, moralmente e fisicamente, un Paese.

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Caro Renzi, ascolti il nostro appello, qui proprio non ci siamo

Partiamo da qui, dai dati del Rapporto Istat sull’occupazione giovanile:

Come vedete, drammatico crollo di occupabilità durante questa recessione dei più giovani (l’Italia è in verde) all’uscita dal periodo di formazione.

Che effetti avrà questa recessione sui tanti giovani che hanno la sfortuna di uscire sul mercato del lavoro con il loro titolo proprio durante una crisi di questo genere?

Chiedetelo ad un economista di rango come David Cutler della Harvard University che ha appena terminato la sua ultima fatica con due suoi colleghi, Huang e Lleras-Muney . Dove si chiedono quanto vale istruirsi se poi quando si esce non si trova lavoro.

La risposta è quanto mai chiara: poco, specie per i livelli più bassi di istruzione.

Ma come viene misurato per diplomati e laureati questo peggioramento dovuto alle recessioni? In termini di effetti permanenti: salute e status nel corso dell’arco di una vita. Per coloro che escono sul mercato del lavoro con 9 anni di istruzione, un aumento del tasso di disoccupazione del 5% genera meno felicità nella vita, 5% più probabilità di fumare, 12% di probabilità in più di bere alcoolici quotidianamente, maggiore obesità. Valori in aumento decisamente minore per coloro con 15 anni di istruzione, che hanno spesso più difese a disposizione.

Cosa fare allora? Nei periodi di recessione, vanno effettuate – suggeriscono gli autori – politiche specificatamente indirizzate ai giovani al momento dell’uscita dal primo periodo di formazione, specie per coloro con minori anni di studio alle spalle. Politiche con ampi rendimenti futuri derivanti da minori disparità economiche e di salute.

Come …

Come il nostro servizio civile per i giovani che Renzi – come Letta e Monti – non è interessato ad attuare. Altro che 80 euro di minori tasse: avessimo utilizzato quei soldi per le minori tasse per assumere giovani per un anno nel settore pubblico  avremmo avuto un risparmio di lungo periodo enorme.

Continuiamo a non capire come combattere questa crisi, malgrado abbiamo tutta l’evidenza empirica a indicarci la cosa giusta da fare. Una rivoluzione liberale è quella che ci vuole: quella che si mette al servizio di chi in questa recessione non ha più scelta ovvero, come spesso accade in una recessione, dei più deboli, che sono anche i germogli di una società, i giovani.

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Dateci irresponsabilità, come con FDR, dateci un leader

Più anti-Bundesbank di così Draghi non poteva essere:

“… vediamo un aumento dell’inflazione insufficiente nei paesi dell’area euro non sotto stress a riportare l’inflazione media al 2%. (Così) l’aggiustamento verso il basso dell’inflazione dei paesi sotto stress diventa probabilmente più duro e certamente di più lunga durata, soprattutto se le rigidità nominali implicano che prezzi e costi non si aggiustano rapidamente.”

Poi ci racconta come sono l’apprezzamento del cambio dell’euro e la contrazione del credito a legarsi in maniera viziosa, così da contribuire a peggiorare le aspettative sui prezzi, avvicinandoci sempre più al momento chiave in cui questi cominceranno a decrescere: la deflazione. Credito, cambio, aspettative: tre variabili tutte nelle mani di Draghi e della BCE. Ma il suo discorso è tutto responsabilità ed inazione (“l’obiettivo del 2% d’inflazione va raggiunto nel medio termine”: wow, così sì che influenziamo le aspettative degli operatori sulla lotta alla deflazione!).

Ci fu un tempo. In cui un altro leader, Franklin Delano Roosevelt, FDR, si legò le mani, in maniera irresponsabile, a generare più inflazione per far ripartire l’ottimismo, la domanda di beni, l’occupazione, la crescita, la coesione sociale.

Altri tempi, altri leader: ma è colpa di Draghi se i leader si sono in questa nostra epoca eclissati?

FDR trasformò in una notte il debito indicizzato all’oro in debito in dollari, e diede contemporaneamente il segnale che non avrebbe accettato il disastroso aumento del costo reale del debito pubblico che sarebbe avvenuto con la deflazione con titoli in dollari che pagavano tassi d’interessi vicino allo zero ma pur sempre positivi (vicini allo zero come oggi…).  Anzi, che l’avrebbe in parte fatto scomparire, il debito pubblico, inflazionando subito l’economia (altro che obiettivo di medio termine…).

E così fece: la deflazione e l’attesa di essa sparirono (inflazione dal -26% al +13%!) e con essa i tassi reali a breve si abbassarono, facendo ripartire l’economia.

Chi dice a Draghi ed alla Bundesbank che stanno camminando sull’orlo del burrone? Dove è la politica che si riappropria della gestione del tasso di cambio deprezzandolo, chiedendo a Draghi di portare a logica conclusione le sue analisi, comunicando a tutti i mercati che l’obiettivo è riportare ora e subito il tasso d’inflazione medio al 2% “whatever it takes”?

Questa BCE è dipendente, dipendente e schiava di una Politica responsabile, così responsabile da distruggere l’Europa.

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Il Fiscal Compact in Italia funziona così: noi intanto sogniamo un altro viaggio

Sono cresciuto figlio di una generazione che dedicava il 4 per cento circa del suo reddito in media a costruire ponti: soldi di mio nonno e di mio padre che venivano dedicati a infrastrutture, opere che loro finanziavano senza poterle utilizzare, un regalo a me ed alle future generazioni, un regalo che ha rinsaldato il legame tra di esse.

Oggi gli ultimi tre Documenti di Economia e Finanza, scritti in Europa e scolpiti dal Fiscal Compact, portano al minimo storico questo dono intergenerazionale: all’1,6% nel 2018 con Letta, all’1,4% nel documento presentato da Padoan.

Poi ci sono gli stipendi pubblici. Al 2018 raggiungeranno il loro livello minimo, storico ed in Europa. Questo risultato sarà ottenuto con l’aggravante del “taglio lineare” del no al turnover che fa uscire persone anziane e non entrare persone giovani, rendendo la nostra Pubblica Amministrazione la più vecchia d’Europa. Qualcuno potrebbe dire, bene, sono stipendi per burocrati, vanno tagliati. Magari fosse così semplice. Sono stipendi per maestri, medici, poliziotti e carabinieri, giudici e professori, diplomatici e … Insomma per tutte quelle funzioni che in qualsiasi paese del mondo garantiscono, se ben organizzati, la produttività del settore privato e il benessere delle famiglie: non conosco nessun Paese al mondo dove i suoi imprenditori non siano dinamici ed intraprendenti senza avere alle spalle un settore pubblico scintillante.

Sappiamo tutti che il problema non è la quantità della spesa ma la sua qualità. Che il problema dell’università non è quanto si spende ma come si spende. In Italia gli stipendi degli universitari funzionano così: bassissimi all’ingresso, altissimi vicini al pensionamento. E con una probabilità minima di essere cacciati in caso di mancato impegno in aula o di ricerca. Là dove si crede nel valore della ricerca, gli stipendi all’ingresso per i giovani sono alti perché sono nella loro fase di maggiore creatività e capacità di innovazione (così alti che i nostri ricercatori non rientrano più), e quelli degli anzianotti come me non aumentano più di tanto. E state certi che se qualcuno non insegna bene o non fa ricerca bene il posto non lo tiene: ce ne sono così tanti che possono fare meglio di costui. Dobbiamo spendere a sufficienza, ma bene, non poco e male.

Mi direte che questi tagli di spesa sono funzionali ad una minore pressione fiscale? Falso. Basta leggersi il DEF per notare che questa al 2018 è pressoché identica a quella odierna. Meno spesa, stesse tasse, tanta domanda in meno nel sistema per le imprese.

E allora dove vanno a finire le risorse derivanti dal taglio di spesa? Semplice, nella riduzione del debito, e cioè nel non rinnovare titoli in scadenza. Quei soldi che restituiamo agli investitori saranno portati fuori dal Paese se l’investitore è estero. E se l’investitore è invece italiano? Perché non pensare che li spenderà per consumi? Perché i tempi bui, grigi e pessimisti fanno pensare altrimenti: verranno risparmiati, magari messi in un conto corrente bancario. Ma se verranno risparmiati non saranno dunque prestati dalle banche alle imprese, stimolando la domanda interna? In questi tempi bui, grigi e pessimisti la gente non domanda credito e se lo fa gli viene rifiutato da banche timorose di perderlo.

Ecco dunque che appare chiaro a tutti il senso del Viaggio fuori dal tempo, all’indietro, che stiamo percorrendo: fatto di declino e distruzione di posti di lavoro, specie per i giovani, e di sparizione di piccole imprese. La domanda non c’è, il PIL cala, le entrate tributarie calano, il deficit peggiora, il governo dell’Europa chiede più tasse per ritrovare l’equilibrio di bilancio, ma il PIL allora si contrae ulteriormente e … così via, fino a portare il debito pubblico sul PIL al livello più alto dal 1928, l’indicatore più evidente del palese fallimento della via dell’austerità che ogni Governo sinora si è mediocremente inchinato supino a perseguire.

Dovremmo aumentare gli investimenti pubblici e mantenere costante la spesa per stipendi, riprendendo il turnover ed immettendo in tutti i ranghi della Pubblica Amministrazione personale giovane, è ovvio. Chiedendo una pausa sulle manovre restrittive, una moratoria rispetto alla follia che è il Fiscal Compact. Il che richiede maggiore debito di quello odierno?  Maggiore spesa pubblica di quella odierna?

No.

Semplicemente una immensa riqualificazione della spesa pubblica, aggredendo la galassia degli sprechi veri, non quelli mediaticamente comodi: tutte le Expo della penisola, non le province; la struttura delle carriere universitarie, non il taglio ai giovani ricercatori sia di stipendi che di ingressi.

Dall’identificazione di tali sprechi si trovano le risorse per le spese in investimenti pubblici e stipendi di cui vi parlavo sopra: sono decine e decine di miliardi di euro. Senza un’oncia di debito in più. Anzi generando quella crescita che abbatte il rapporto debito su PIL davvero e non per finta. E non si dica che non si può spendere di più perché si spende male: chi sa trovare gli sprechi sa spendere bene.

Ma sappiamo trovare gli sprechi? Tutto dipende dalle risorse che mettiamo a disposizione di chi deve trovare tali sprechi e dall’empowerment, del potere decisionale e operativo, che si da ai capi responsabili di identificarli.

E qui i nodi vengono al pettine rapidamente. Carlo Cottarelli, capo della spending review, sta conducendo questa battaglia? Provate a chiedere quanti dipendenti ha a sua disposizione per l’incarico più importante che c’è in questo momento per la nostra battaglia: cinque. Chiedetegli anche se poi alla fine è andato a lavorare effettivamente alla Presidenza del Consiglio come si era detto o se è rimasto solo soletto al Ministero dell’Economia. Il Presidente dell’Anti Corruzione Cantone è fortunato: ne ha più del doppio, quasi venti, tutti giovani dottorati o segretari amministrativi. Il suo collega di Hong Kong ha 1200 dipendenti di cui 600 armati. Chiedete a Cantone come mai gli è stato chiesto di sorvegliare Expo quando lui deve sorvegliare l’Italia tutta: forse perché non c’è nessun altro da mandare?

Una sfida impari, diremmo: non pare che possano vincerla con gli strumenti messi a loro disposizione. Ma si vuole veramente vincere?

Una cosa è certa: vincerla si può. A quel punto comincia un nuovo viaggio, avanti, verso la ripresa civile e morale, ancora prima che economica che seguirà, del nostro Paese. Dove la libertà di intraprendere, crescere, inventare, affermarsi sarà finalmente garantita; sarà una battaglia liberale a protezione dei germogli – più vibranti e rappresentativi ma anche più fragili- della nostra società di cui il Paese ha immensamente bisogno e per la quale cerca da tempo, disperatamente, adeguata rappresentanza.