THIS SITE HAS BEEN ARCHIVED, AND IS NO LONGER UPDATED. CLICK HERE TO RETURN TO THE CURRENT SITE
Post Format

Il crocevia europeo di Expo

Oggi su Panorama.

Expo 2015, Milano, Italia. E’ da qui che occorre per capire in fondo la sfida che ci pongono le prossime elezioni europee. Perché? Ci segua il lettore e troverà una riposta convincente. Se è vero che il prossimo Parlamento europeo dovrà presiedere alla più complessa operazione di messa in sicurezza dell’architettura istituzionale del Continente, attaccato da populismi opportunistici ma anche da critiche fondatissime, non c’è dubbio che sarà proprio dai Paesi più in sofferenza, e dai suoi rappresentanti, che dovrà venire il contributo maggiore al riequilibrio dello strapotere tedesco nell’agenda politica. Spagna, Portogallo, Grecia certamente, ma soprattutto Francia ed Italia, membri fondatori dell’Europa del dopoguerra e paesi “pesanti” sia quanto a popolazione che a volume di produzione, sono chiamati a far ripartire il loro motore dello sviluppo nazionale, pena la disillusione definitiva dei loro elettori e la perdita di credibilità dei meccanismi democratici e del disegno europeo.

E’ chiaro a tutti cosa va chiesto da questi Paesi. Primo, una modifica del mandato della Banca Centrale europea, oggi fissato sulla stabilità dei prezzi (2% di inflazione) e non sulla lotta contestuale alla disoccupazione come negli Stati Uniti d’America. Il mono mandato sta generando i suoi perversi frutti: la BCE, insensibile all’andamento depresso dell’economia, si sta facendo sfuggire il controllo delle dinamiche dei prezzi, flirtando pericolosissimamente con la deflazione che vuol dire discesa dei prezzi, rinvio dei consumi, aumento del costo del denaro in termini reali, aumento del costo reale del lavoro per le imprese. Insomma il ritorno alla recessione. Da evitare, con molta più liquidità immessa nel sistema economico di quella che vi è oggi grazie ad una nuova BCE. Va anche chiesto la fine dell’idiozia del Fiscal Compact, invenzione bizantina che nessun politico americano o giapponese comprenderebbe, e che richiederà all’Italia – se non arrestato – manovre fiscali aggiuntive ogni anno, fatte di aumenti di tasse devastanti per l’economia italiana. Una ricetta disastrosa, una dieta imposta ad un malato che abbisogna invece di nutrirsi per riabilitarsi. E’ necessario piuttosto trovare risorse per fare investimenti pubblici che sono domanda diretta alle imprese in tempi in cui di domanda private non ce n’è.

Rivoltando la clessidra, eliminata l’ottusa austerità, riparte il tempo necessario per poi fare quelle riforme che servono al paese, ma che si possono fare solo in condizioni non emergenziali. Un tempo guadagnato grazie all’avere rimesso in moto l’economia italiana, assieme a quella tedesca, in un gioco di squadra virtuoso dove ogni Pese alimenta la domanda per i prodotti altrui. Ricette che vanno suggerite al cuoco di Bruxelles, se soltanto si fidasse dei nostri suggerimenti. Ma come convincerlo che l’Italia fa sul serio? Che l’Italia chiede respiro oggi per fare le riforme domani? Dobbiamo dare un segnale credibile e forte che stavolta facciamo sul serio. Che la nostra spesa per maggiori investimenti pubblici non sia l’ennesimo spreco di soldi buttati via. Per farlo, l’unico modo è mostrare chiaramente che si sanno individuare ed eliminare gli sprechi nella spesa pubblica per appalti, perché solo un Paese che sa farlo sa spendere bene, perché solo un Paese che sa farlo ha le risorse per spendere in investimenti senza creare ulteriore debito.

Ecco perché Expo è un crocevia. Expo è la prova di dove si annidano i veri sprechi: altro che auto blu e province, molto maggiori sono nel nostro Paese le risorse in gioco afflitte da sprechi per corruzione. Expo 2015 e come lo gestiremo da ora in poi è il segnale che tutti attendono che si vuole veramente una cesura tra lo ieri e le sue cattive pratiche e l’oggi. Ma non è facile e molto rischia di assomigliare a provvedimenti per placare l’opinione pubblica più che rimedi veri e seri. Mandare il Presidente Anti Corruzione a capo della task force di Milano non è certo il segnale giusto: lui si deve occupare di tutta le Pubbliche Amministrazioni non di una sola, per quanto rilevante; chi si occuperà del resto? Non certo i 12 dipendenti che per ora Renzi ha affidato al nuovo Presidente, contro i 1200 di cui è dotato il suo collega di Hong Kong. Renzi dovrà avere il coraggio di affrontare la grande malattia della corruzione una volta per tutte: sarebbe il segnale che aspettiamo per poter andare credibilmente in Europa a negoziare la nostra salvezza e, con essa, quella dell’Europa tutta. Lottando contro la corruzione ci sarebbe concessa infatti la fine dell’ottusa austerità e potrebbe partire un segnale di unificante solidarietà europea che ci permetterà, a tutti noi abitanti del Vecchio Continente, di sedere, finalmente, al tavolo delle decisioni globali con Cina e Stati Uniti e non rimanere prigionieri del nostro litigio condominiale. Niente di meno è in gioco.

Post Format

No, non è tutto molto triste. Buon primo maggio

Buon 1mo maggio.

Ho trovato sul blog di Krugman un post recente dove, in alcune slide, riprende un passaggio di Obama del 2010, sull’esigenza di tagliare la spesa per stipendi Usa. Significativo il commento del premio Nobel sopra: “it’s all very sad” , è tutto molto triste.

Sembra di leggere un passaggio del DEF Grilli-Saccomanni-Padoan-Monti-Letta-Renzi: un incredibile taglio alla spesa pubblica per stipendi, ripetuto da ogni Governo sinora presentatosi alle Camere per approvare il DEF, che rinnova il blocco di 1 anno di Renato Brunetta. Dico incredibile come lo dice la Corte dei Conti, preoccupata come non mai perché è incredibile immaginare che la spesa per stipendi passi dal 10,5% al 9,1% nel giro di 4 anni, sotto la media europea al 10,7%. Un settore pubblico dove scuole e università, polizia e carabinieri, cultura e sanità, tribunali e sorveglianza e sostegno nelle carceri invecchiano e si rimpiccioliscono, invece di ringiovanirsi e acquisire competenze.

Invece di rottamare, pensiamo ad investire, sennò rottamiamo l’Italia. Non c’è economia privata senza accanto un settore pubblico scintillante, giovane, motivato, in cui si investe in competenze e in cambio si pretende e si ottiene sostegno essenziale a cittadini ed imprese.

E’ tutto molto triste?

No, c’è tanto che può essere fatto: per il lavoro, per i giovani, per le imprese. E non la garanzia giovani, che a poco serve, due gocce nell’oceano e per di più, come twitta Michele Tiraboschi, con un link al sito “desolatamente vuoto”, perché se non si stimola domanda e innovazione, anche con il settore pubblico, nessuno chiederà lavoro.

Oggi è il 1mo maggio, e sarò in giro a consegnare un po’ di speranza. Tre temi: abbattere l’ottusa austerità europea, servizio civile per i giovani, protezione per le piccole imprese negli appalti. Ecco come riparte l’occupazione.

Buon 1mo maggio.

Post Format

“Railroads are special”: come trasformare il virus delle banche in vaccino

Come rendere il settore più bancario più stabile? La risposta europea finora è stata una sola: creiamo l’Autorità Bancaria Europea.

Chi legge questo blog sa da tempo quanto per noi sia decisamente più rilevante e pressante la creazione di una Autorità Anti Corruzione Europea (l’Olaf attuale verifica soltanto spese ed investimenti delle istituzioni europee, non delle istituzioni in Europa).

Ma al di là di questo, si è sempre pensato poco a cosa dovremmo fare per rendere più stabile il settore finanziario in maniera duratura, evitando soluzioni, come quella dell’Autorità Bancaria, che soffre dell’evidente rischio che questa venga catturata appunto dai grandi agglomerati bancari che invece dovrebbe vigilare e che finisca per lasciare tutto com’era o forse peggio ancora.

*

Al riguardo, come spesso accade, lo studio della storia dell’altra Unione monetaria che meglio conosciamo, gli Stati Uniti di America,  ci insegna sempre cose utili.

Ho finito di leggere un bel lavoro di tre economisti americani, tra cui il bravo Peter Rousseau della Vanderbilt University, che studiano il mutamento della rischiosità (e della solidità) degli istituti bancari Usa al crescere della diffusione delle ferrovie dello Stato nella metà dell’800.

I risultati sono strabilianti: più lontana si situava una banca dai binari ferroviari, più alta era la sua possibilità di fallimento: 7,2% quella delle banche autorizzate entro 10 miglia dalla ferrovia contro il 34,5% di quelle più lontane. Già nel 1850 l’80% delle banche si era ormai localizzata attorno alla ferrovia, generando un mutamento strutturale nella stabilità bancaria Usa.

Da dove veniva questo effetto stabilizzante delle ferrovie?

Secondo i tre autori le ferrovie portarono in prossimità di esse sviluppo ed abitanti e quindi profittabilità per gli istituti finanziari. Ma non solo: facilitando lo sviluppo di un crescente manifatturiero permisero alle banche di diversificare il loro rischio da investimenti meramente agricoli. L’abbattimento dei costi per recuperare eventuali passività finanziarie di banche ritenute più rischiose spinse poi queste a comportarsi più prudentemente.

Railroads were special”, concludono gli autori.

*

E così eccoci ai giorni nostri. Cosa apprendere dalla lezione Usa per l’area euro di oggi?

Che il come rendere “sane” le nostre banche può avere poco a che fare con sovrastrutture centralistiche che dovrebbero sorvegliarle senza averne sempre l’incentivo a farlo. L’esempio statunitense ci ricorda come investimenti infrastrutturali, materiali o immateriali, che generano sviluppo e dinamismo attorno rendono le banche più sicure perché il sistema economico è più vibrante ed innovativo e dunque meno rischioso.

Ecco, mentre Padoan e Renzi fanno sparire gli investimenti pubblici italiani nel DEF, mentre l’Europa parla da due anni di Autorità bancarie forse inutili o dannose senza darsi da fare per creare un Patto di Stabilità e Crescita che escluda gli investimenti pubblici dai limiti ottusi delle regole contabili europee, noi dovremmo riflettere sul serio a rovesciare il paradigma di questi anni.

Abbiamo infatti acconsentito che il virus della finanza malsana uccidesse  l’economia reale. Trasformiamo il virus in vaccino: ma per farlo abbiamo bisogno di quegli investimenti pubblici che espongano il batterio all’aria aperta e che, come per il colera di Pasteur, lo depurino e lo rendano utile alla salvezza del malato.

Perché “public investment is special“, Mr. Renzi, altro che Job Act.

Post Format

La BCE spiega come ridare speranza quando lei non può nulla

Ci voleva un (bravo) economista tedesco della BCE per formalizzare in modo intelligente ed elegante quanto andiamo dicendo da 2 anni e mezzo.

Che quando una economia, come quella europea, è in uno stato di profonda crisi di domanda aggregata, consumi e investimenti che languono, vicino alla deflazione, e dove dunque la politica monetaria di tassi d’interesse pari a zero diviene inutile per stimolare l’economia (lo ammette anche lui, malgrado lavori alla BCE) …. ci vuole che …. la politica sia affidata ad un politico lungimirante che spinga sulla leva della politica fiscale degli acquisti pubblici più di quanto non farebbe un politico poco lungimirante.

Chi è il politico poco lungimirante? Colui che non tiene conto dell’impatto delle sue politiche sulle aspettative degli operatori. L’Europa ne è piena. “Subdued willingness” – “volontà sottomessa” – è il termine significativo che utilizza Sebastian Schmidt, è questo il suo nome,  per quei politici che non riescono a vedere al di là del loro naso.

Schmidt mostra - in un saggio pubblicato da poche settimane proprio nei quaderni della BCE - come spingere sulla leva degli acquisti pubblici non soltanto ha un impatto diretto sull’attività economica, tirandola fuori dalle secche del declino, ma influenza le aspettative degli operatori economici che, più ottimisti sul futuro e con aspettative di maggiore inflazione futura, operano in un clima di tassi reali più bassi con relativo aumento di investimenti e consumi, in un circolo virtuoso che si autoalimenta.

La soluzione sta dunque nel combattere questa recessione ora. Gli strumenti ci sono. Se i Governi che si sono succeduti in questi anni in Italia non hanno voluto usare la leva degli appalti pubblici con la scusa che appalti uguale sprechi (quando magari poi fanno battaglie dicendo che con loro non ci saranno più sprechi!) significa che non solo sono poco lungimiranti, ma che sono preda di una malattia ideologica contro tutto ciò che è pubblico che li abbaglia e conduce il Paese ed il suo settore privato al disastro.

Basta guardare al lavoro di Schmidt per quantificare il disastro della mancata leadership in un momento del ciclo così negativo: usando i dati della grande recessione statunitense del 2008-2010 possono arrivare a spiegare il 38% della perdita di benessere subita, perdita che potremmo evitare facendo ricorso agli appalti pubblici a sostegno delle nostre imprese (il doppio di quanti fatti nel regime normale).

Rimane solo una questione da rivolgere al bravo Schmidt: come mettere a capo della politica economica un leader lungimirante? Un leader che sappia comprendere che la soluzione non consiste nell’uscire dall’euro, oppure nello scrivere DEF austeri per soddisfare la Commissione europea, oppure nel fare fantascientifiche unioni fiscali? Schmidt non lo dice. Per noi la risposta è ovvia: con la politica.

Post Format

Non è piu’ colpa di Brunetta se le riforme non sapremo farle

Buona Pasquetta a tutti.

E’ chiaro a tutti cosa sta succedendo all’interno del bilancio pubblico alla spesa per stipendi? Siccome a qualcuno potrebbe sembrare, leggendo le prime pagine dei giornali, che in gioco vi siano solo gli stipendi (alti) di qualche (alto) magistrato o (alto) dirigente, faccio chiarezza per capire bene gli indirizzi di politica economica attuali e comprendere la rotta del comandante.

a) la spesa per stipendi nel DEF Renzi-Padoan è prevista calare dal 10,5% al 9,4% del PIL dal 2013 al 2017. In questo senso il calo è inferiore a quello previsto da Letta Saccomanni (che immaginavano una riduzione al 9,2% per il 2017)  ma solo perché le stime di Renzi e Padoan sulla crescita italiana del PIL sono diminuite rispetto a quelle di Letta e Saccomanni. In euro, la spesa per stipendi scende ancora da 163,929 miliardi di euro a 162,714.

b) dei 2,5% di PIL in meno che Renzi e Padoan prevedono di lasciare al Paese di spesa pubblica nel 2017 rispetto al 2014 (contro i 2,7% di Letta e Saccomanni), 0,9%, più di un terzo, sono dunque assicurati dal calo degli stipendi.

c) chi è responsabile per questi cali? Si direbbe Renato Brunetta, visto che è sua la legge 78 del 2010 che blocca la contrattazione collettiva  (ferma al biennio 2008-2009) e fissa rigorosi limiti al turnover. Per chiarezza: tutti i governi successivi hanno confermato/prorogato la legge Brunetta. Quindi Brunetta non c’entra più nulla in verità: Monti, Letta e ora Renzi hanno voluto essere come lui. E’ un dato di fatto, non un giudizio.

d) Nel DEF Renzi Padoan, sostiene la Corte dei Conti nella sua relazione al documento, “solo dal 2018 si potrà tornare ad assumere personale in numero pari agli abbandoni. Si tratta di valori, ancora la Corte, che pongono l’Italia ben al di sotto della media europea per la spesa per personale e che contribuiscono a renderci ancora più “ultimi” quanto alla variabile più importante, l’età media dei dipendenti pubblici. Abbiamo una amministrazione pubblica “scarseggiante” e, peggio ancora “decrepita” e dunque “poco motivata”, naturalmente meno produttiva del suo potenziale. La linea gialla indica il valore del 30%, il colore blu e rosso i dipendenti pubblici tra i 18 ed i 39 anni (sarebbero giovani di… 39 anni!) (fonte Aran). Terrificante.

e) Un esempio tra i tanti, dove ne so un minimo di più? La mia Università, piena di vecchietti come me, dove per far entrare un giovane dobbiamo aspettare … 4 pensionamenti. Ecco come il DEF e la strategia di governo impatteranno ulteriormente su questo clima di crisi:per le Università, la razionalizzazione della suddetta spesa è assicurata attraverso la riduzione della dotazione del Fondo per il finanziamento ordinario delle università di cui all’articolo 5, comma 1, lettera a), della legge 24 dicembre 1993, n. 537, dell’importo di 30 milioni di euro per l’anno 2014 e di 45 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2015″. In parole povere: via 30 milioni già da quest’anno (una tantum), mentre dal 2015 il definanziamento (di 45 milioni) diventa strutturale” (grazie Marta). Spero si comprenda bene cosa significa tutto ciò: meno giovani dentro gli Atenei, più fughe all’estero dei più bravi, meno innovazione, meno competitività.

f) Lo so, lo so, l’argomento solito è: l’Università non sa selezionare i migliori, quindi è meglio se tagliamo. Ma come? Un Governo che dice che sa tagliare gli sprechi saprà pure spendere bene? Nell’Università ci vuole poco a spendere bene, stimolando non solo la ricerca ma anche l’insegnamento: vi pensate che qualcuno ci si sia cimentato veramente a riformare davvero l’Università?

g) E così vale per tutti i luoghi dove abbiamo deciso di spendere meno per il personale per dichiarata incapacità: nelle Pompei, nell’assunzione di carabinieri e poliziotti (quelli vecchi attuali non hanno il fiato per correre dietro ai ladri…),  nel pagare di più i maestri delle scuole bravi e/o impegnati nel loro lavoro.

h) E scordatevi che ciò implichi maggiore tassazione: se veramente siamo seri sul taglio agli sprechi abbiamo abbondanti risorse per far tornare a brillare di giovani competenti la nostra Amministrazione Pubblica senza creare un goccio di debito più ma solo maggiore crescita e benessere. Ma il Fiscal Compact mette ansia a Padoan e Renzi, e dunque bisogna tagliare, tagliare, tagliare, correndo, correndo, correndo, senza pensare che tra 4 anni, senza funzionari pubblici di qualità le loro riforme che così tanto dovrebbero contribuire alla ripresa del Paese non troveranno all’appello nessuno capace di attuarle.

Post Format

Il Fiscal Compact? E’ già con noi e già uccide l’economia

Conosco Lorenzo Bini Smaghi da anni e apprezzo il suo europeismo. La sua difesa del Fiscal Compact pubblicata da Formiche (testo in corsivo qui sotto) è utile per chiarire le diverse posizioni. La mia convinzione è radicalmente diversa dalla sua: l’Europa si salverà se saprà fare una serie di passi non più rinviabili; tra questi (non vi è l’uscita dall’euro) la morte dello scellerato Fiscal Compact è uno dei più essenziali.

*

La fallacia dello sforzo che va a sparire

1.Il Fiscal Compact stabilisce che ogni anno il debito deve essere ridotto di 1/20 della distanza tra il livello del debito e il 60%. Quando il debito è al 130%, il ritmo di riduzione del rapporto debito/Pil è di 3,5 punti, ossia (130-70)/20, ma quando il debito scende al 110% del Prodotto la riduzione annua richiesta cala al 2,5%, ossia (110-60)/20. Nel caso di una crescita del Pil nominale del 2,8%, come sopra, non c’è più bisogno di un saldo di bilancio in pareggio per raggiungere l’obiettivo ma basta anche un disavanzo dello 0,5%. In sintesi, l’aggiustamento richiesto per soddisfare il Fiscal Compact, in termini di saldo di bilancio, avviene soprattutto all’inizio del processo. Una volta raggiunto il saldo primario necessario, basta mantenerlo immutato per continuare a soddisfare il requisito della riduzione del debito. Dopo qualche anno è addirittura possibile allentare lo sforzo.

Argomento interessante quanto errato. Senza entrare per ora nel merito se lo sforzo richiesto dal Fiscal Compact sia utile o meno al Paese, quello che va puntualizzato è che il Fiscal Compact richiede uno sforzo e soprattutto che questo sforzo non “sparisce” dopo il primo anno in cui si fa quanto richiesto. Se al primo anno esso richiede di alzare le tasse e  diminuire le spese di “X”, non è che al secondo anno il mantenere le tasse al nuovo, più alto, livello, o le spese al nuovo, più basso, livello, non implica un eguale sacrificio. “Basta mantenerlo immutato” non è per niente facile.

La fallacia della crescita (e dell’inflazione) che non c’è

2. Una obiezione che viene spesso avanzata è che non è facile ridurre il rapporto debito/Pil del 3,5% all’anno, soprattutto quando la crescita è bassa. Ma se la crescita dell’economia reale è più elevata di 1 punto (1,8% reale e 2% d’inflazione), il surplus primario necessario per raggiungere l’obiettivo è solo del 4,7%. In altre parole, più alta è la crescita, minore è lo sforzo necessario per raggiungere l’obiettivo del Fiscal Compact.

1.8 di crescita reale? Oggi siamo  allo 0,6%. 2% d’inflazione? Oggi siamo allo 0,5%. Ben lontani da quelle soglie indicate d Bini Smaghi (e da Visco), ragione per cui il Fiscal Compact ci deve terrorizzare per lo sforzo che richiede (e ragion per cui, come vedremo sotto, Renzi e Padoan chiedono avanzi primari del … 6% del PIL). C’è di più tuttavia: “più alta è la crescita minore lo sforzo”, fa sembrare che la crescita caschi dal cielo e non dipenda anche dall’impatto che le attuali restrizioni di bilancio richieste dal Fiscal Compact generano sulla crescita futura. Ma la disoccupazione giovanile che si trasforma in scoraggiamento, la crescente evasione verso il settore in nero e la criminalità organizzata di persone ed imprese, la fuga dei cervelli all’estero perché non c’è lavoro, la chiusura di tante piccole imprese che non torneranno più sono tutti effetti di lungo periodo del Fiscal Compact e di questa austerità, che fanno sì che più cerchiamo di raggiungere l’obiettivo del Fiscal Compact più aumenta lo sforzo necessario per raggiungerlo perché la nostra economia cresce di meno nel lungo periodo, inviluppandoci in un mostruoso circolo vizioso.

La fallacia dello sconto dovuto al ciclo economico

3. Il Fiscal Compact tiene comunque conto del fatto che quando il ciclo economico è negativo diventa controproducente cercare a tutti i costi di ridurre il debito a un ritmo di 1/20 del divario rispetto al 60%. È prevista pertanto una procedura per esaminare i motivi per cui un paese non riesce a ridurre il debito come previsto, che prende in considerazione l’impatto di effetti specifici, come i contributi al Fondo salva Stati e il ciclo economico negativo. Se il paese è in recessione o il suo livello di reddito è inferiore al potenziale, il vincolo non riguarda più il ritmo di riduzione del debito ma il raggiungimento di un saldo di bilancio corretto per gli effetti del ciclo economico inferiore allo 0,5% del Pil. Se tale saldo viene mantenuto immutato quando l’economia riprende a crescere, il bilancio nominale migliora e il debito si riduce in linea con i requisiti del Fiscal Compact.

In realtà è vero che se l’economia va male “si deve fare di meno” quanto a sforzo, che ci fanno “uno sconto” di austerità. Il che non ci libera dalla follia del Compact che appena le cose migliorano un po’ bisogna tornare a farci del male, ripiombando nell’oscurità degli sconti. E’ un po’ come dire che ci si tiene in vita comatosi ed al primo segno di guarigione ci si rimanda immediatamente in coma.

Ma anche qui il tema è un altro. Qual è il livello di avanzo primario che ci si chiede “quando il ciclo va male” come oggi? I dati del DEF sono chiari al riguardo: un avanzo primario del 6%, esattamente quello che mettono nei numeri di finanza pubblica Renzi e Padoan. Numeri che, per essere raggiunti, richiedono feroci manovre austere in un momento così debole della nostra economia: l’avanzo primario deve passare dal 2,4% di PIL del 2013 al 5,7% del 2017. 3,3% di PIL in 4 anni, sono manovre da 13 miliardi ogni anno, sufficienti per stendere un leone negli anni più critici per la sopravvivenza dell’area dell’euro a causa della sua scarsa appetibilità presso le gente, che ne vede, effettivamente, solo i sacrifici e non la direzione.

“Se il paese è in recessione o il suo livello di reddito è inferiore al potenziale” è una condizione che non rileva. Dalla recessione ne siamo usciti da poco, ed è difficile che vi torneremo, il pericolo è navigare attorno allo stato di coma clinico dello 0% di crescita. Ma anche in questo caso la Commissione europea ha trovato la soluzione per non farci sconti: come abbiamo visto, ha adattato anno dopo anno la nostra crescita potenziale sempre più al ribasso (o la nostra disoccupazione strutturale sempre più al rialzo), così che il nostro reddito non sarà … mai sotto al suo livello potenziale. E’ come se diceste ogni anno al malato che non è grave dopo avergli diagnosticato una malattia peggiore della precedente,  trovando il malato in salute rispetto a quanto male potrebbe stare. Il malato sta oggettivamente peggio di ieri, ma in fondo oggi potrebbe essergli andata peggio, sorrida, va tutto bene, non dobbiamo fare nulla.

La fallacia di quanto costa all’Italia abbattere il debito  

4. Prendendo il caso concreto dell’Italia, che nel 2013 ha registrato un saldo di bilancio corretto per il ciclo pari allo 0,6% del Pil, secondo le stime della Commissione europea, lo scarto rispetto al requisito del Fiscal Compact è di soli 0,1-0,2 punti percentuali. In altre parole, per essere in linea con il Fiscal Compact all’Italia mancano circa 3 miliardi di euro, non 50 come viene erroneamente sostenuto.

Magari fosse così. Al di là del fatto che il Tesoro per sua stessa ammissione per il 2015 deve raggiungere lo 0% dallo 0,6% per non violare la regola del debito, Bini Smaghi non si rende conto che raggiungere quello 0,6% ha richiesto sacrifici che senza lo stupido Fiscal Compact non avremmo dovuto fare, uccidendo l’economia e tra l’altro facendo aumentare il rapporto debito-PIL che vorremmo abbattere, per colpa della mancata crescita che il Patto genera.

Per esempio, senza il Fiscal Compact che oggi ci chiede di essere allo 0,6% e domani allo 0%, avremmo potuto combattere per avere un deficit su PIL 2015 (non corretto per il ciclo) non pari al -1,8% ma al 3%. 1,2% in più per minori tasse ma soprattutto maggiori investimenti pubblici a sostegno della ripresa, soprattutto con un Governo come quello Renzi che sostiene di saper “spendere bene” visto che sostiene di saper “individuare gli sprechi”, due facce della stessa medaglia di un Governo che funziona. E invece siamo qui a prendere atto della riduzione programmata degli investimenti pubblici al loro livello storicamente più basso di sempre, 1,4% di PIL.

Per essere in linea con il Fiscal Compact i conti sui suoi costi si fanno rispetto ad un mondo senza Fiscal Compact.

La fallacia consolatoria

5. Questo risultato si basa sull’ipotesi che il rallentamento economico registrato in Italia negli ultimi due anni sia di natura temporanea, e non strutturale. Se invece la crescita tendenziale dell’Italia è strutturalmente scesa a zero, diventa necessario un attivo di bilancio per far calare il debito. In questa ipotesi, è l’intera sostenibilità del debito pubblico del paese che diventa a rischio, e non può più essere curata con misure fiscali ma con interventi finanziari straordinari.

Anche qui, l’ipotesi di Lorenzo Bini Smaghi è che la crescita tendenziale italiana sia indipendente dalle manovre austere che si sono succedute in questi anni. Non devo citare Stiglitz, né tanti economisti che hanno ben spiegato il concetto di “isteresi” ovvero che shock di breve periodo possono avere impatti permanenti, di lungo periodo. Basti immaginare, lo ripeto, quanti piccoli imprenditori e giovani non torneranno più a contribuire alla crescita potenziale italiana a causa della stupida austerità: gli scoraggiati, gli emigrati all’estero, le aziende chiuse, la aziende delocalizzate. A queste aggiungo tutte quelle persone ed imprese ora operanti oggi e per sempre nell’economia in nero e nell’economia criminale, che tale scelta non avrebbero fatto senza questa stupidissima, evitabile, austerità che come solo risultato conseguito sui conti pubblici ha avuto l’aumento del rapporto debito–PIL.

La fallacia del guardare a casa nostra

6. In sintesi, il Fiscal Compact non è uno strumento rigido che imbriglia le politiche economiche dei paesi europei, ma contiene clausole di salvaguardia per tener conto della situazione congiunturale. D’altra parte, l’esperienza degli ultimi anni ha dimostrato che i paesi fortemente indebitati che non riescono a ridurre in modo continuativo il peso del loro debito pubblico possono trovarsi in una situazione molto vulnerabile per affrontare crisi scoppiate anche al di fuori dei loro confini, e contagiare il resto del sistema. Il Fiscal Compact è inoltre propedeutico a qualsiasi progresso si possa fare nell’ambito di una maggiore mutualizzazione delle finanze pubbliche dei paesi europei.

Non mi pare che si sia riusciti, grazie al Fiscal Compact, a ridurre in modo continuativo il peso del debito pubblico, anzi. Prendo atto tuttavia che solo in Europa siamo riusciti a costruire un meccanismo così arzigogolato da risultare incomprensibile ai più. Stati Uniti e Giappone, due paesi importanti nel consesso mondiale, non si sono mai sognati di ideare un tale meccanismo ieri, né mai lo faranno. Ma per un motivo molto semplice: Stati Uniti e Giappone hanno capito la vera lezione di questa crisi, ovvero che si esce da emergenze finanziarie e dalla carenza di domanda di questa portata con politiche economiche fortemente anticicliche, influenzando le aspettative degli operatori e non lasciandoli in balia di meccanismi contabili di ghiaccio che invece che riscaldare i cuori e le speranze congelano per sempre le economie in una trappola di pessimismo e disillusione, finendo per uccidere anche i sogni di una Europa al centro del mondo.

Detto questo, credo che il tempo delle discussioni sia finito e sia necessario impegnare politicamente le proprie forze e schierarsi in un campo o in un altro. I Viaggiatori in Movimento a cui appartengo lo faranno, chiedendo non solo una moratoria sul Fiscal Compact ma impegnandosi al più presto nella raccolta delle firme necessarie per un referendum abrogativo sulla stupida austerità così come importata nelle nostre leggi nazionali. Speriamo con ciò di svegliare chi crede nell’Europa dell’euro prima che sia troppo tardi.

Post Format

Renzi e Padoan vs. Letta e Saccomanni: vince la Commissione europea

Sto girando attorno ai numeri del DEF, sperando di scorgere dettagli che mi rassicurino, che mi portino a dire che il Governo Renzi segna una discontinuità col passato, con la stupidissima austerità che uccide l’Europa che amo, con il supino inchinarsi all’europa che odio.

Ecco perché faccio fatica (al di là di quanto scritto ieri).

1. In Europa Padoan e Renzi hanno ottenuto briciole. Per il 2014, l’obiettivo di deficit strutturale Saccomanni-Letta (corretto per il ciclo) da raggiungere era dello 0,6% di PIL: rimane tale, senza dimenticare che la Commissione europea lo ha stimato a 0,9%, lasciando aperta la porta per una prossima richiesta di manovra aggiuntiva. Per il 2015, l’anno chiave, Saccomani e Letta promettevano l’equilibrio di bilancio strutturale, Padoan e Renzi scrivono … lo 0,1% di deficit. 0,1! Briciole. Senza nemmeno ricordare che il deficit strutturale italiano, noi che abbiamo un debito su PIL superiore al 60%, il demenziale Fiscal Compact stesso lo fissa allo 0,5% di PIL. Ma il Governo Renzi, come Monti e Letta prima di lui, appare più realista del re, più austero di quanto necessario: e dunque invece di dire “mi fermo allo 0,5% di PIL di deficit strutturale” persegue masochisticamente lo 0% tramite la stupida austerità.

2. Ricordatevi che nel DEF non contano nulla le centinaia di pagine di inchiostro sulle future riforme; che tra l’altro si possono fare anche senza metterle nel DEF. E’ un po’ di aria fritta, come è sempre stato, con la differenza che stavolta a queste riforme si attribuisce il magico potere di creare una “crescita in più” straordinariamente alta nel futuro lontano, addirittura 1,6% di crescita in più di PIL nel 2018. No, il DEF vale per l’oggi e basta, nel senso che l’unica cosa che di esso conta è che fissa “nella pietra” i paletti macro della finanziaria d’autunno, dai quali quest’ultima non potrà più discostarsi. E il dato è chiaro: il deficit pubblico su PIL 2015 dovrà essere ridotto dal 2,6% all’1,8%, e solo 0,1% di questa riduzione proverrà dalla spesa per interessi; 0,7% di essa proverrà invece da un aumento dell’avanzo primario, la differenza tra entrate e spese al netto degli interessi, che dovrà salire dal 2,6% al 3,3% del PIL. In questo periodo così gramo di domanda interna, il Governo ne sottrae dunque alle imprese una ulteriore parte, aumentando le tasse e diminuendo le spese (senza certezza di tagli agli sprechi, come ho detto ieri). Aumentando le tasse? Sì, aumentando le tasse da 745 miliardi di euro nel 2014 a 841 nel 2017. E lasciandole nel 2017, rispetto al Governo Letta-Saccomanni, che così austero mi era parso (ed era stato) al 47,2% di PIL, rispetto al 47% di questi ultimi. Perché se è vero che va attribuita al Governo Renzi la scelta di ridurre il carico fiscale sotto i 25.000 euro, va attribuita allo stesso la scelta di non modificare le decisioni austere prese dal Governo Letta e Saccomanni (aggiungeteci che Renzi e Padoan stimano un PIL 2017 più basso ed il gioco è fatto). Il colpevole? Come avrò modo di dirvi domani, il Fiscal Compact che – al contrario di quanto sentite questi giorni (“no il FC è buono, non fa male!”) – ci uccide eccome. Ma la colpa non è mai di un Fiscal Compact. La colpa è di chi lo accetta supinamente.

3. E la spesa direte voi? Renzi-Padoan la fanno calare dal 50,6% di PIL del 2014 al 48,1% del 2017 (0,5% di PIL di interessi in meno, 0,9% di stipendi in meno, 0,6% di pensioni in meno, 0,6% di acquisti di beni e servizi in meno e poi …) mentre Letta e Saccomanni la facevano calare nello stesso periodo da 50.7% di PIL al 48%. Tutto cambia per che nulla cambi, dunque? In realtà qualcosa peggiora pure. C’è infatti un’ultima parte che mi sconvolge forse più di tutte le altre: “le pizze sì, i ponti no”. Come ha ben sottolineato ieri il Sole 24 Ore ieri, il Governo Renzi, che tanto aveva fatto sperare con il suo intendimento di rimettere in sesto il futuro del Paese con la ristrutturazione delle scuole, ha ridotto se possibile ulteriormente rispetto a Letta e Saccomani la quota di investimenti pubblici, il futuro del Paese appunto. Dal 3% di PIL degli anni 90, crollati all’1,7% dei governi Monti e Letta, Padoan e Renzi dichiarano a tutti che la loro intenzioni è di ridurli ulteriormente, all’1,4% di PIL del 2017. Letta e Saccomanni avevano previsto l’1,6% di PIL nel 2017. Sì, la colpa è sempre il Fiscal Compact, e dunque degli uomini e donne che ne hanno il potere ma non osano dire Basta a questa stupidità. E che sono disposti a far sparire i ponti del futuro, della speranza, della crescita solidale che ci dovrebbero riunirci ai concittadini europei ed alle future generazioni, a cui non possiamo certo lasciare soltanto le pur utili pizze.

Un Governo Renzi Padoan dunque tanto austero e supino ai diktat della Commissione Europea quanto quello di Letta Saccomanni? Così parrebbe.

Post Format

Lo spreco del DEF?

Il DEF, che impatto avrà sulla crescita italiana? Secondo il Ministero dell’Economia, positivo. Con effetti sul PIL che crescono nel tempo. Piccoli (ma non troppo) nel 2014 (+0,3%), e poi mano mano a crescere: +0,8% nel 2015, +1,3%, +1,7% ed addirittura +2,2% in più nel 2018.

Da dove provengono questi effetti espansivi del DEF?

Eccoli riassunti:

Lasciate perdere per un attimo il 2014, troppo poco e troppo vicino per essere realmente messo in discussione. E lasciamo perdere le solite ipotesi “fantascientifiche” sulle riforme (Job Act, liberalizzazioni) che salvano l’Italia … tra 4 anni. Nel medio periodo siamo tutti morti.  Come Europa in primis.

Concentriamoci sul 2015, l’anno su cui incide il DEF realmente. Cosa notate?

Una cosa semplice semplice. Che Padoan segue Alesina e Giavazzi. Nello scommettere che le minori tasse siano più espansive (+0,4%) di quanto non sia recessiva la spending review (-0,2%).

Contabilmente non accadrà mai: lo sa bene Padoan che di moltiplicatori se ne intende. In realtà, se il taglio della spesa equivalesse a taglio degli sprechi, anche se contabilmente il PIL potrebbe ancora andare giù (eh già, il PIL – indicatore altamente imperfetto del valore della produzione – sale se salgono gli sprechi pubblici, e scende se questi scendono, mentre in realtà la produzione e/o il benessere non cambiano), non dovremmo preoccuparci perché nella sostanza non si produce di meno valore aggiunto. E allora, in questo caso, le minori tasse effettivamente trascinerebbero al rialzo l’economia.

Ma se i tagli fossero a casaccio, lineari, l’economia andrebbe peggio, e non meglio. Perché ridurre la domanda diretta di appalti alle imprese fa male al PIL, mentre diminuendo le tasse potremmo assistere solo ad un maggiore risparmio delle famiglie, specie se queste rimangono pessimiste sul futuro.

E dunque, come saranno i tagli? A casaccio o mirati agli sprechi? Basta capirsi su cosa siano per davvero gli sprechi.

Eccovi un esempio di sprechi: sono dovuti a corruzione negli appalti presso l’Enac. Fatevi una cultura: altro che auto blu su e-bay! Altro che le briciole del taglio delle Province: è negli appalti pubblici, dove la politica non vuole intervenire, che si annidano gli unici sprechi quantitativamente significativi.

E a questo punto la domanda è: sapranno Padoan e Cottarelli e Renzi arrestare questo tipo di sprechi? E se sì, come? Non è dato sapere.

Se non ci si spiccia a rafforzare l’Autorità Anti Corruzione per controllare gli appalti, l’Autorità Antitrust per sorvegliare i cartelli negli appalti, la DIA per combattere la mafia negli appalti, l’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici che dorme,  la protezione inesistente dei programmi per testimoni di corruzione, la competenza e la remunerazione dei responsabili delle stazioni appaltanti … sprechiamo solo tempo ed allora sarà meglio chiamare questi numeri di futura crescita per quello che si saranno rivelati essere: fuffa.

Post Format

DEF: una cosa è certa.

Ho trovato sul web per ora solo il volume III del nuovo Documento di Economia e Finanza, quello sulle riforme. Attendo con ansia quello sulla manovra quadriennale, l’unico che mi interessa perché vincola l’azione del governo: le tante parole sulle riforme, no.

Sono passati solo 6 mesi dalla Nota di Aggiornamento al DEF di Letta e Saccomanni. Eppure è già tempo di chiedersi come mai le cose col Governo Renzi ed il Ministro Padoan sono così diverse a distanza di così pochi mesi.

Semplice, mi direte. Renzi e Padoan hanno fatto politiche espansive, meno tasse, e quindi le cose vanno meglio.

Ahem.

Non pare proprio, a giudicare dal raffronto delle previsioni 2015 e 2016 fatte dai due governi, che vi ripropongo qui sotto.

 

E meno male che il nuovo governo portava una ventata di ottimismo! Va tutto peggio, sembrerebbe. Alla faccia delle ipotesi di maggiore crescita che provengono da tutta l’Europa.

Certo, potremmo dire che il nuovo duo ha fatto, con la sua manovra quadriennale di cui ancora conosciamo poco, più crescita rispetto al tendenziale dell’economia, e che è stato piuttosto il Governo Letta a sovrastimare la crescita e a peccare di ottimismo quando fece le sue previsioni nell’autunno del 2013. Potrebbero dire che loro sono stati più seri e realistici, oltre che ambiziosi.

Letta e Saccomanni potrebbero replicare che questo governo non sa generare crescita.

Una cosa è certa: consegniamo al Paese stime di sviluppo sempre più deprimenti, abbattendo l’ottimismo degli operatori e la loro voglia di investire.

Post Format

La scelta

Ieri sera a Tor Vergata a discutere di Europa con il mio amico e collega Giovanni Salmeri , legato a lui da una crescente identità di vedute ed esperienze (tutti a parole a parlare del come la filosofia non vada esclusa dai percorsi formativi, e con molti miei colleghi in pratica sconvolti dall’idea che economisti, aziendalisti e filosofi si possano mettere insieme in un progetto culturale comune, come è il nostro Dipartimento di Studi di Impresa Governo Filosofia). C’era Claudio Borghi ormai schierato con la Lega e contro l’euro, sempre piacevole da ascoltare e poi c’era Diego Fusaro, filosofo che non conoscevo che pensa che l’Europa sia un lager e paragona al nazismo l’attuale vertice capitalistico-istituzionale continentale. Ho sempre pensato che chi ama ascoltare le proprie parole vibrare nell’aria finisce per distruggere il loro significato, e ne ho avuto una drammatica conferma quando ho sentito questi paragoni così superficiali. Peraltro tutti e quatto credo abbiamo passato una serata interessante perché gli stimoli sono venuti da tutti e abbiamo mostrato che Tor Vergata è luogo di apertura culturale profonda come pochi altri Atenei. Bravo Lorenzo Echeoni che ha organizzato con 2duerighe.com il tutto.

*

Pochi giorni fa, a proposito di Europa, ho letto quest’articolo dell’imprenditore Bulgari, sul futuro dell’euro e dell’Europa. Egli parte da un dato di fatto inequivocabile: il rigurgito di nazionalismo è ovunque, anche  nel Regno Unito, alle prese con il dilemma scozzese, e pare virale, rischiando di mettere in difficoltà altri Paesi come Spagna e la stessa Italia, alle prese ora con una ripresa delle tensioni separatiste regionali.

Ed ha ragione da vendere quando si lamenta dell’inadeguatezza della risposta che diamo ai problemi europei attuali, quando rilanciamo con una unione politica che sia lui che io riteniamo assolutamente “non a portata di mano”. Una illusione capace di ritardare la ricerca di una soluzione concreta ai problemi che affollano il Vecchio Continente. Gli Stati Uniti, di fatto, hanno impiegato ben 150 anni a raggiungere una struttura centralizzata a Washington, lentamente facendo i conti con le sane ed inevitabili enormi differenziazioni culturali ed economiche (ed anche antropologiche) di partenza tra Stati.

L’Europa di oggi non è tanto diversa dagli Stati Uniti di allora. Decisero una moneta unica ben prima di essere uniti politicamente, ben prima di essere “mobili” culturalmente e geograficamente, perché il simbolo della sovranità doveva – malgrado le evidenti rigidità che avrebbe comportato – forzare il dialogo tra diversi. Ovviamente non fu un processo semplice. Anzi, spesso ebbe risvolti drammatici. Come ricorda lo stesso Bulgari richiese, oltre all’invenzione del treno, una anzi due guerre: quella civile, di cui parla Bulgari, ma anche la prima guerra mondiale che fece prendere coscienza del ruolo geopolitico che gli Stati Uniti erano per la prima vota chiamati a svolgere a fronte del declino britannico.

Ci volle anche un grande leader, Franklin Delano Roosevelt, che proprio in una crisi economica drammatica ottenne, con la solidarietà dal centro che mostrò nel suo primo mandato, la delega a decidere per tutti gli Stati nel secondo mandato, con opere pubbliche rivolte innanzitutto a chi soffriva maggiormente nella Depressione. Da quella solidarietà nacque un progetto geopolitico nazionalistico che oggi anche Bulgari prende come un dato di fatto. Avessero, gli Stati degli Stati Uniti, abbandonato il progetto in corsa per le mille difficoltà, ognuno adottando una sua moneta, saremmo qui a chiederci sui libri di storia perché quel progetto di Unione è fallito.

Non possiamo salvare l’euro e l’Europa allo stesso tempo, dice Bulgari, che paragona il nostro dilemma a quello della scelta di Sophie che deve abbandonare un figlio o perderli tutti e due. Sophie emigrò in America, scappando da un’Europa devastata dall’Olocausto che gli aveva strappato un figlio. E’ quell’Europa che abbiamo cercato di superare: essa nacque dai nazionalismi che si abbeveravano alla fontana dell’incapacità di saper gestire la Grande Crisi tramite la solidarietà tra Stati, come invece fece Roosevelt al suo interno. Possiamo salvare i due figli, e risparmiarci l’isolamento a cui ci destinerebbe  la rottura dell’euro, con l’unica arma a disposizione: non l’unione politica, ma la fine dell’austerità che condanna i più deboli e meno protetti al dolore ed alla sofferenza.

Ma non è solo questione di isolamento. La scelta di Claudio Borghi di schierarsi con la Lega è sintomatica di un’evidenza che finalmente, col passare dei giorni e dei mesi, diventa più nitida a tutti riguardo a quale sia la vera scelta da fare.

Altro che euro, “tramonto dell’euro” à la Bagnai o “euro o morte” à la Piga: la questione vera, politica, essenziale, è quella dei “confini territoriali” che vogliamo dare alla nostra vita futura. Se vogliamo l’Italia o l’Europa, essere cittadini della prima o della seconda.

Io la mia scelta l’ho fatta. Mi sento cittadino di questa Europa, le cui scelte non condivido assolutamente. Ma di chi sono le scelte europee? Sono le mie e le tue, che ti piaccia o no. E dunque, come dice Giovanni Salmeri, so che spetta a me ed a te cercare di cambiarla, per quanto è nelle mie e tue possibilità: “l’Europa ci chiede che”, di nuovo da Giovanni, è un’idiozia equivalente, in una coppia in difficoltà, a dire “la nostra coppia ha deciso che tu vai al supermercato”.

Chi paragona l’Europa ad un Lager dimentica tante cose. La meno evidente? Che i Lager li abbiamo in Italia, regione d’Europa, si chiamano carceri, dove tantissime persone piene di dignità sono trattate quotidianamente, spesso, come animali da macello, intasati in 2 metri quadrati a testa. E che è proprio l’Europa a condannarci quotidianamente per queste violazione basilari dei diritti umani. L’Europa è casa mia anche per questo.