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L’Italia dei giovani che, prima di correre, si deve rialzare

I numeri sono assordanti.

In Italia abbiamo 22 milioni di occupati. Circa 1/20 di questi sono giovani tra i 15 ed i 24 anni, 923.000 per la precisione.

Non mi dite che non l’avevamo detto che le recessioni uccidono i germogli più fragili e con più potenziale di una società: dei 365.000 occupati in meno in un anno di governo Letta, un terzo quasi di questi, 107.000 sono giovani. Non un ventesimo, un terzo.

Ma c’è di più. Un’altra cosa abbiamo sempre detto su questo blog: che la perdita di lavoro dei giovani non produce disoccupazione ma, principalmente, scoraggiamento, avvilimento, abbandono. E questo è spesso per sempre. Eccoli i numeri. Dei 107.000 in meno senza lavoro, solo 27.000 hanno arricchito l’esercito dei disoccupati, almeno loro mostrando una qualche caparbietà a non mollare. 46.000, quasi il doppio, hanno invece arricchito la massa enorme dei nostri inattivi, alcuni per andare a studiare, molti di più hanno mollato. Molti per sempre.

Brava Europa, bravo Monti, bravo Letta. Che con le loro stupide austerità hanno ghiacciato il cuore del continente e della nostra penisola. E che hanno rifiutato di ascoltare il nostro appello per un servizio civile nella Pubblica Amministrazione, 1000 euro al mese per 2 anni, non rinnovabile, per lavorare nelle Pompei d’Italia, dovunque ci sia bisogno della presenza dello Stato, dovunque uno Stato vecchio dal mancato turnover come quello italiano crolla a pezzi invece di sostenere con forza e attenzione il settore privato ed arricchirlo di attenzione alla bellezza, alla solidarietà, alla giustizia sociale.

Se Renzi pensa di cavarsela rendendo più flessibile il lavoro correndo inciamperà. Ha bisogno di fermare l’emorragia subito, poi il paziente, curato, potrà ascoltare di riforme e riprendere la corsa.

Se Renzi vuole essere diverso, stanzi almeno per 100.000 giovani disoccupati e scoraggiati, 1,2 miliardi di euro l’anno per due anni nel DEF che si appresta a presentare. Coraggio, Italia che non puoi ancora correre, rialzati in piedi.

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La truffa di Bruxelles: Renzi citi Bernanke, ignori la multa, salvi l’Italia e l’Europa

Alcuni hanno giudicato la mancanza di miglioramenti come prova che la crisi finanziaria ha causato danni strutturali all’economia, rendendo gli attuali livelli di disoccupazione insensibili ad addizionali stimoli monetari… Tuttavia, se osservo qualsiasi precedente recessione avvenuta negli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale in poi, il tasso di disoccupazione è sempre rientrato al suo livello pre-recessione, e, malgrado la recente recessione sia stata inusualmente profonda, vedo poca evidenza in questi ultimi anni di cambiamenti strutturali.

Ben Bernanke, ex presidente della banca centrale Usa, 2012.

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Quando la disoccupazione effettiva nell’economia cambia ciò può derivare da effetti ciclici di breve periodo che non lasciano tracce nel lungo periodo o da fattori strutturali che tendono a permanere.

Distinguiamo come economisti quindi tra disoccupazione ciclica e disoccupazione strutturale, quest’ultima essendo quella a cui tende naturalmente l’economia, a causa dei suoi pregi e difetti appunto, strutturali. Il legame tra queste due forme di disoccupazione? Quando l’economia genera una disoccupazione ciclica, se questa è superiore (inferiore) a quella strutturale salari e prezzi cominciano a calare (salire).

A che serve questa distinzione? E’ fondamentale per capire se la politica economica deve o non deve intervenire.

Per esempio, dovunque si tema la ripresa dell’inflazione, ci si sforza con grande attenzione affinché il tasso di disoccupazione effettivo non tenda ad essere inferiore a quello strutturale, perché tipicamente ciò porterebbe i prezzi a salire e l’inflazione a sfuggire di mano, facendo ben presto svanire la maggiore occupazione (tramite aumenti delle rivendicazioni salariali) e lasciandoci in un ambiente instabile come negli anni 70.

Ma cosa succede se la disoccupazione effettiva invece sale al di sopra di quella strutturale? Che si possono fare politiche economiche espansive (monetarie e fiscali) senza temere che queste generino inflazione e con la certezza, anzi, che aiutino a riportare il livello di disoccupazione al suo livello naturale.

Tutto ciò presume che si possa misurare la disoccupazione strutturale. Ma, problemino non da poco, i mezzi a disposizione di noi economisti per farlo sono limitati e si possono fare errori. Per esempio si può confondere un aumento di disoccupazione dovuta meramente al ciclo con un cambiamento strutturale.

Ecco spiegata la frase sopra di Bernanke, che si difendeva da chi lo attaccava perché continuava a pompare moneta nell’economia. “Smettila di farlo” – così i suoi critici – “la disoccupazione Usa è alta perché è alta quella strutturale, e tu, così continuando a comportarti, farai schizzare verso le stelle l’inflazione”.

Aveva ragione Bernanke, che non credeva a questo ragionamento, attribuendo invece l’alta disoccupazione Usa solo a fenomeni ciclici. Continuò a fare politiche in aiuto dell’economia, l’inflazione non mutò, e la disoccupazione che era dunque ciclica tornò al suo livello strutturale che non era cambiato a causa della grande crisi finanziaria del 2007. Salvando il paese da una stupida sofferenza prolungata ed unendo il Paese attorno alla sua bandiera di solidarietà.

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Eccoci in Europa. Dove, come negli Usa, ci si preoccupa di calcolare – a livello di Commissione europea – la disoccupazione strutturale perché si vuole evitare che le politiche economiche generino inflazione, mettendo in difficoltà la BCE. Siccome la politica monetaria è in mano alla BCE, mi direte, qual è il problema?

Che domande, ovviamente la politica fiscale, in mano a quei cattivoni dei governi nazionali. Che potrebbero, vedendo crescere la disoccupazione, argomentare che quest’aumento è dovuto a fattori ciclici e che quindi bisogna fare più deficit per aiutare l’economia (senza minacce per l’inflazione). “Ma se l’aumento della disoccupazione fosse dovuto invece a fattori strutturali i governi farebbero più spese e meno tasse solo per illudere gli elettori, mettendo a rischio la stabilità europea!” già mi vedo il burocrate europeo stile Ollie Rehn con il ditino alzato.

“Se un governo ha risorse a disposizione, continua il burocrate, le usi solo se l’economia ne ha bisogno perché vi è disoccupazione ciclica”. Se l’economia va male per motivi strutturali è inutile fare più deficit. Quindi, termina il burocrate, vi vengo in aiuto: mi invento un indicatore, il deficit pubblico strutturale, che non varia quando cambia il ciclo, e vi indico di questo il livello che voi governi dovete raggiungere. Così che se le cose ciclicamente vanno male nell’economia e voi volete aiutarla avendone le risorse, nessuno vi dirà nulla.

“Ma, e qui il ditino vola molto alto, non cercate di fregarmi: se la disoccupazione non è ciclica ma strutturale, e dunque qualsiasi aiutino di politica economica è inutile ed anzi dannoso (riparte l’inflazione e peggiorano i conti), il mio indicatore di deficit strutturale peggiora appena ci provate ed io vi blocco.”

Complicato? Beh forse. Ma sappiate che è questo che abbiamo messo in Costituzione nell’art. 81 a seguito anche del Fiscal Compact: dobbiamo raggiungere un deficit strutturale di 0,5% di PIL, noi che abbiamo un debito su PIL superiore al 60%.

Se volete questo è il tempo per prendersi una pausa. Perché quello che segue rappresenta la storia dell’ennesimo scandalo europeo. E la migliore finestra negoziale per il nostro Governo nei giorni a venire.

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Riposati? Benissimo, procediamo.

Partendo dal fantastico articolo di 3 economisti del CER, Stefano Fantacone, Petya Garalova e Carlo Milani. Che si sono accorti, loro sì, della truffa europea a danno dell’Italia (e di altri paesi come la Spagna ed il Portogallo) e l’hanno denunciata con grande dovizia di dati.

Da cosa sono partiti? Da questo grafico, dove si mostra che l’Italia dal 2013 al 2015 ridurrà il deficit pubblico normale (non strutturale) in euro dal 3% famigerato di PIL al 2,2%. Bravi? Bravissimi?

Macché. ”Pessima Italia”, che quanto a deficit strutturale è passata negli stessi anni dal -0,6% di PIL al -0,9%.  Ma come è possibile? E’ come se l’Italia avesse deciso di diventare troppo espansiva quanto a politiche fiscali malgrado il crollo del deficit normale dica il contrario.

Come è possibile? Semplice. Basta capirsi su cosa vuol dire “troppo espansivi”.  Vi ricordate sopra? E’ “troppo” espansivo chi cerca di fare politiche fiscali quando la disoccupazione è già al suo livello strutturale: genererà solo inflazione e non curerà la disoccupazione.

Ma, mi direte, la disoccupazione italiana è salita tanto in questi anni, ma per motivi ciclici, come quelli di cui parla Bernanke, mica per motivi strutturali! Detta in altro modo: se Renzi abbassa le tasse o, come chiede invece Piga, fa più spesa pubblica buona, mica sale l’inflazione (in questo clima deflazionista!) ma piuttosto aumenta l’occupazione e la disoccupazione scende!

No. Non secondo la Commissione europea almeno. Che si è inventata una mossa geniale: in questi anni, in Italia, ha deciso che è salita la disoccupazione strutturale, non quella ciclica. Addirittura, mostrano i 3 ricercatori (vedi grafico), la Commissione stima che questa sia salita dal 7,5% del 2011 all’11% nel 2015!

Detta in altro modo: mentre nel 2011 non servivano politiche a sostegno dell’economia se la disoccupazione era del 7,5%, nel 2015 si dice ai governi che ogni politica espansiva fatta quando la disoccupazione è attorno all’11% è inutile (dannosa), e va catalogata con un aumento del deficit strutturale e quindi va vietata.

Ecco infine la tabella più clamorosa dei 3 ricercatori: come sarebbero stati interpretati gli stessi conti italiani se, seguendo Bernanke, si fosse considerata questa crisi interamente ciclica e senza impatti strutturali? Fatevi due risate: tenendo il tasso di disoccupazione strutturale all’8% (un valore ben più alto comunque di quello considerato da Bernanke) la posizione del deficit strutturale italiano sarebbe non il -0,9% ma il +0,3% di PIL. Questo, rispetto al limite del Fiscal Compact del -0,5%, libererebbe risorse per 0,8% di PIL, 13 miliardi circa in più rispetto  alla situazione attuale.

13 miliardi.

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La Commissione europea, nello giustificare il suo approccio così “austero”, ricorda come sia essenziale non generare aspettative troppo ottimistiche della disoccupazione strutturale in tempi “buoni” dell’economia, consentendo politiche espansive quando non ce n’è bisogno. In effetti è vero, non bisogna.

Ma analogamente, sarebbe ancora più essenziale non generare aspettative troppo pessimistiche sulla disoccupazione strutturale, come invece fa, non consentendo politiche espansive quando ce n’è un immenso bisogno.

La Commissione europea commette un secondo errore: un aumento della disoccupazione genera automaticamente, nel suo modello, un aumento anche della disoccupazione strutturale. Nei limiti in cui quest’ultimo aumento riduce, come abbiamo fatto vedere, gli spazi per i governi per fronteggiare con le politiche fiscali la crisi, la disoccupazione sale ulteriormente, trascinando con se di nuovo la disoccupazione strutturale ecc. in un circolo vizioso a cui stiamo assistendo impotenti da anni, generando sofferenza e disillusione sull’Europa senza bandiera che unisce.

Ma non è detto che si debba rimanere impotenti. Padoan e Renzi possono infatti ricordare alla Commissione europea che è uno scandalo che si sia “d’impero” aumentato il valore del tasso di disoccupazione naturale italiano senza sentire l’opinione italiana (sperando che nessuno che lavora al MEF di Grilli e Saccomanni sapesse di ciò e non l’abbia fatto notare). Renzi e Padoan potranno chiedere una revisione di questi valori, magari citando uno sconosciuto di nome Bernanke ed ottenere spazio essenziale per la ripresa.

E, di nuovo, se la Commissione dice no, l’Italia non se ne curi. Calcoli da sola il suo deficit strutturale, citando Bernanke, e porti conti pubblici sani e manovre espansive che aiutano l’Italia e l’Europa. Tra due anni, quando scatteranno le multe per l’Italia, l’Italia avrà salvato l’Europa.

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La BCE per la Vecchia Europa vecchia

Perché la BCE non persegue il suo mandato di raggiungere il 2% di inflazione e non adegua la sua politica monetaria, rendendola più espansiva, visto che siamo a livelli sempre più vicini alla deflazione (diminuzione del livello generale dei prezzi)?

Una questione simile si pone da tempo in Giappone. Il nuovo Premier Abe si trova in grande difficoltà, lui che ha appunto chiesto alla Bank of Japan di raggiungere, come dovrebbe la BCE, anch’essa un’inflazione pari al 2% (anche qui siamo vicini alla deflazione, ma perlomeno si va via da essa, mentre nell’area euro ci si avvicina ad essa, cosa ben più preoccupante) e non pare riuscirvi.

Basta leggersi la storia giapponese per comprendere il perché Giappone ed Europa non sanno generare più inflazione e con essa occupazione via maggiore domanda. Il colpevole? L’invecchiamento della popolazione.

La ampia popolazione giapponese in pensione beneficia dalla deflazione. In teoria, le pensioni giapponesi sono indicizzate all’inflazione. Ma, nella pratica, quando i prezzi diminuiscono, questa indicizzazione è stata incompleta o ritardata (e dunque beneficia i pensionati giapponesi, NdR). Per di più la popolazione giapponese detiene più della metà della sua ricchezza finanziaria in depositi bancari e banconote. L’inflazione dunque impone delle perdite da cui (quanto meno) coloro che sono oggi in pensione non possono essere rimborsati con un mercato del lavoro più vibrante”. E dunque ecco una lobby potentemente avversa a far sì che l’inflazione si possa materializzare, assieme ad aumenti dei salari nominali e dei consumi, rilanciando occupazione e crescita nipponiche.

La lobby degli anziani europea è ormai anch’essa dominante. E questo spiega perché Draghi non può ricorrere all’inflazione per stimolare il Vecchio Continente e ridurre la disoccupazione giovanile. Ed i governi, come quelli recenti italiani, che riducono l’indicizzazione delle nostre pensioni  all’inflazione per risparmiare qualche soldino di spesa pubblica non fanno altro che ingrossare l’esercito degli anziani che pretendono una BCE conservatrice ed anti-inflazione.

Aiuterebbe cosa? Mettere i giovani al potere? Serve a poco se poi chi vota – i vecchi – ti mandano a casa per non averli protetti. Meglio qualcosa di meno traumatico e più sottile: proteggerli, i vecchi, con strumenti indicizzati all’inflazione, e così lasceranno, i vecchi, far fare a Draghi quello che fece Roosevelt nel 1933: inflazione, inflazione, inflazione per generare occupazione, occupazione, occupazione.

Il Vecchio Continente a quel punto finalmente proteggerà i suoi giovani dal male della disoccupazione, riscoprendosi giovane.

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Sprechi o risparmi?

Ho una brutta sensazione.

Una domanda semplice sulla spending review. Perché si parla sempre di “risparmi” e non di “sprechi”? La semantica è sempre importante, mi dico.

Qualcosa non mi torna e continua ad arrovellarmi nelle 72 slide di Cottarelli.

Un’altra domanda semplice: il recente caso di Expo 2015, o meglio di Infrastrutture Lombarde: dove lo trovo nelle slide di Carlo Cottarelli?

“Forti azioni di sorveglianza nell’esecuzione e messa in esercizio delle opere programmate dal CIPE”. Ecco, una riga forse c’è. Su 72 slides.

Qualcosa comincia a tornare.

Eppure è così importante: la corruzione nei lavori pubblici delle grandi opere è probabilmente alla base di una buona quota degli sprechi. Eppure le 72 slide dovrebbero parlare esattamente di questo e solo di questo. Di come si intende combattere questa forma di spreco, la corruzione: come si intende lavorare con l’Antitrust (collusione e corruzione vanno a braccetto), con la DIA (Mafia e corruzione? idem) come si intende rafforzare l’Autorità Anti Corruzione oltre a nominare un nuovo Presidente (lo ha detto anche Saviano se non sbaglio)  ancora senza dipendenti, come coinvolgere la Guardia di Finanza e la Corte dei Conti nei controlli sulla qualità degli appalti (anche sui beni e servizi, dove nessuno controlla se la commessa affidata viene svolta come richiesta).

Le 72 slide dovrebbero dire anche come si intende porre fine all’enorme altra fonte di spreco negli appalti: l’incompetenza di chi scrive i capitolati. Come, quando, dove verranno formati funzionari e dirigenti degli acquisti pubblici.

E della disponibilità dei dati in tempo reale per identificare gli sprechi.

Eppure, invece di spiegare come combatteremo gli sprechi e le loro fonti, si spiega dove si troveranno i risparmi. I secondi sono più rapidi da trovare dei primi – basta un decreto legge – ed il taglio dei secondi è più lineare del taglio dei primi, ovvero più recessivo.

Ho una brutta sensazione. Aspetterò ancora un po’, prima di esternarvela.

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La spending che verrà?

Da Panorama di oggi in edicola, il mio articolo.

Il gioco della spending review è complesso. Più che a una partita di poker assomiglia ad una di Risiko, dove l’accumulo paziente di truppe nelle varie aree geografiche di cui è composto il tavolo toglie ossigeno al nemico fino a farlo capitolare. Ogni area merita attenzione, alcune più delle altre, il successo in una sostenendo le possibilità di vittoria nell’altro.

Renzi sembra muoversi agilmente sul tavolo della “spending”, come la chiama lui. Alcune mosse che pare voler fare rappresentano delle precondizioni essenziali per avanzare.  Al contrario dei governi precedenti ha messo nella semantica della propria azione di governo (ma sì, anche nella presentazione con le sue slides) l’intenzione di vincere questa battaglia. Ricordo ancora quando Letta non menzionò nemmeno la parola “spending review” nel suo discorso di insediamento al Parlamento: mi dissi che l’apparato burocratico-amministrativo della cosa pubblica avrebbe annotato tale dimenticanza e l’avrebbe riversata a valle su di una indifferenza di fondo per  un obiettivo così importante. Così come tutti al Tesoro si devono essere accorti di quanto l’incaricato alla spending di Monti, il Dott. Bondi,  fu lasciato solo in una grande stanza, senza accesso a quella dei bottoni della Ragioneria Generale dello Stato che controlla i dati. Il suo potere fu dimezzato in un batter d’occhio da un simile distratto isolamento.  Il fatto che Renzi non molli la preda nei suoi discorsi è elemento che incide sulle aspettative delle persone, specie quelle che lavorano nell’amministrazione pubblica, rendendole più timorose e pronte ad individuare gli sprechi per non essere sgridate dal “capo”.

C’è di più. Il volere ricondurre a Palazzo Chigi gli uffici guidati dal capo della spending, Carlo Cottarelli, danno una qualche credibilità ai discorsi di Renzi, mostrando a tutti la sua intenzione di essere percepito come il solo responsabile di qualsiasi successo o fallimento, una forte motivazione al fare ed al fare bene su questo tema, che motiva anche i suoi sottoposti.

Queste precondizioni per il successo vanno ora condite con ulteriori elementi, appartenenti meno alla sfera comunicativa ed organizzativa e più legati all’operatività del progetto. L’esercito deve essere messo in marcia e non più solo motivato.

Prima di tutto, Carlo Cottarelli non va lasciato solo ma deve avere al suo fianco una squadra potente di funzionari capaci, ben pagati, motivati. Ad oggi Cottarelli ha potuto contare sul contributo a tempo parziale, senza alcun bonus, di tante persone di buona volontà che lavorano in altri uffici dell’amministrazione pubblica. Carlo Cottarelli è l’unico del team della spending che viene pagato per quanto fa. Un approccio ridicolo, basato sull’idea che sul tema degli sprechi si possa avere un “free lunch” che non esiste in nessun altro settore dell’attività economica, ovvero che si possa ottenere qualcosa senza fare investimenti, senza spendere. Cottarelli ha bisogno a tempo pieno di funzionari esperti di come si combatte la mafia, la corruzione, la collusione, l’incompetenza, i fattori che generano sprechi in quel mondo degli appalti e del personale che così tanto delle nostre tasse consumano. E devono essere ben pagati per il loro lavoro. Questi sono investimenti che ridanno mille volte quanto sono costati e vanno intrapresi senza timore di spendere. D’altro canto non è ovvio che chi dice di voler spendere bene sappia anche selezionare altrettanto bene il personale per garantire la bontà di questa spesa?

Sul fronte degli strumenti a Carlo Cottarelli va dato anche un database degli appalti (che rappresentano il 15% del PIL ed il 30% del totale della spesa pubblica) in tempo reale, che a tutt’oggi non c’è. A tutt’oggi Renzi, se dovesse chiedere chi spende quanto, su cosa, quando, riceverebbe in cambio un sonoro silenzio. E’ impossibile non dotarsi di una infrastruttura informatica che  garantisca una simile disponibilità di dati.

Non avendo ancora tutto ciò, non  per colpa sua, a Renzi ci viene automatico di dire che il rischio più grande che corre è quello di vendere risultati che oggi non può ottenere. Un grave danno è stato già inferto dalla confusione sulle cifre delle risorse disponibili per il 2014 dalla spending review, con Cottarelli che cita in Commissione 3 miliardi di sprechi ed il premier 7. Le cifre pubblicate dai giornali hanno fatto rapidamente sparire ogni riferimento ai 3 miliardi di Cottarelli ma è facile ritrovarli: dai 7 totali vanno levati i contributi temporanei dalle pensioni di 1,4 miliardi, e siamo già a 5,6. Calcolando che il decreto uscirà ad aprile e non potrà che essere operativo prima di giugno, facilmente si arriva alla metà, ovvero ai famosi 3 miliardi per il 2014. E siamo a mio avviso ancora nel reame dell’ottimismo: dubito fortissimamente che a primavera ormai avanzata una spending review seria appena avviata generi non 3 ma 1 miliardo. Le prime gare di appalto da razionalizzare verranno aggiudicate in autunno, troppo tardi per incidere sui numeri di quest’anno. E così per i tagli dei trasferimenti alle imprese, altra voce “corposa” nelle slide di Cottarelli.

L’impressione è che se cifre significative saranno ottenute, proverranno in larga parte da tagli lineari che incidono sulla domanda pubblica che viene rivolta alle imprese private, che non vinceranno dunque più le relative commesse, deprimendo il loro fatturato, l’occupazione ed il PIL del Paese. Il menzionare nel documento singoli settori, come i corpi di polizia, piuttosto che le specifiche misure riorganizzative (formazione, anti-corruzione, antitrust per l’individuazione dei cartelli nelle gare, disponibilità dati) per tutti i settori confermano questa sensazione.  L’unica misura di metodo menzionata, quella della centralizzazione delle gare (e non dei dati) appare come rischiosa in termini di impatto sul territorio e dunque di fattibilità politica (difficile pensare che le piccole imprese acconsentiranno ad un mutamento che inevitabilmente aumenta la dimensione delle gare della Pubblica Amministrazione).

Altre perplessità, non da poco, derivano, nel metodo, dall’assenza di qualsiasi riferimento a tagli agli sprechi nei lavori pubblici (e ce ne sono!) e, nella governance, al defilarsi dal tavolo di lavoro del Ministero della Sanità, che cura il settore più strategico per l’individuazione di risorse da sprechi da rimettere dentro il tessuto economico con altri investimenti e minori tasse.

Il punto centrale rimane infatti quello di individuare gli sprechi, non di tagliare la spesa tout court. Tagliare uno spreco non taglia occupazione: comprare un ecomotografo al prezzo giusto senza rialzo indebito non mette in crisi l’azienda che lo vende (a profitti più bassi ma senza tagliare lavoro o investimenti) e libera risorse per comprare ecotomografi aggiuntivi, se necessari. Ma bisogna saperli individuare gli sprechi, e per questo ci vuole tempo, speso bene.

Risiko è un gioco di grande pazienza. Renzi deve dimostrare di averne un bel po’. Ammassi truppe alla frontiera prima di invadere i paesi dell’avversario e passerà alla storia come il primo generale che ha condotto le sue truppe d’inverno in territorio nemico sbaragliando qualsiasi resistenza. Il Paese gliene sarà grato.

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Il vero banco di prova

Capisco la strategia di Renzi in questo modo.

Sul fronte della “qualità”, ragiona con il motto dell’economista: 2 obiettivi da raggiungere con 2 strumenti. Il dissenso interno sulle riforme (che comprende le mie perplessità per una riforma del lavoro che non capisco) lo gestisce con la carta della minore tassazione che fa tacere tutti o quasi sui redditi più bassi. Il dissenso esterno dei tedeschi sulle minori tasse lo gestisce con le riforme annunciate. Strategia intelligente, fino a quando dura, ovvero fino a quando non si toccano con mano i provvedimenti concreti e, soprattutto, il loro impatto.

E’ quello il vero banco di prova.

Ed è proprio di questo che voglio scrivere. Sul fronte della quantità noto, potrei sbagliarmi, una strategia più significativa. Il menzionare esclusivamente davanti alla Merkel il “vecchio” Trattato di Maastricht e non il suo più “giovane” (e meno intelligente) successore (il Fiscal Compact) da parte di Renzi (“staremo sopra il 3% come deficit-PIL) è un modo per non parlare della vera questione, ovvero del saldo strutturale corretto per il ciclo richiesto come obiettivo di medio termine, e quindi vincolante, dal Fiscal Compact.

E’ qui che si gioca la vera partita. Saccomanni per il 2015 l’aveva posto pari a zero e la Commissione europea lo valuta a -0,9% di PIL. 15 miliardi di differenza. Un abisso che separa una recessione o l’assenza della stessa.

L’enfasi di Renzi via dal Fiscal Compact e dal saldo strutturale fa pensare che abbia negoziato con la Germania un rientro verso lo zero ritardato nel tempo rispetto a Saccomanni. Il livello di tale saldo strutturale 2015 nel DEF tra poche settimane sarà dunque il nostro metro per giudicare la forza contrattuale di Renzi e la disponibilità della Germania a abbandonare sensibilmente i suoi piani di austerità.

Magari intonando in coro, insieme - per i mercati che seguono come pecoroni i veri leader – “l’Italia è stabile perché sta sopra il 3%”. Evviva!

Attendiamo dunque al varco del vero banco di prova il Governo Renzi. Manca poco.

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La Manica separerà 2 Unioni Monetarie?

Tra 6 mesi avremo un interessantissimo esperimento antropologico: il referendum scozzese per una unione monetaria tra Scozia ed Inghilterra (e quel che rimane del Regno Unito).

Qualcuno lo potrà definire un referendum per una “secessione” (il testo del quesito, chiarissimo, recita “la Scozia deve divenire un paese indipendente?”). Ma per noi appartenenti all’area dell’euro, con molti “euro-scettici” all’interno, non farà male vedere la questione in questa dimensione: sì, ci sono delle persone, dei popoli addirittura,  interessati a formare – in quest’epoca in cui le unioni monetarie godono di pessima reputazione – un’alleanza di diversi con la stessa moneta, ovvero popoli con parlamenti nazionali sovrani ma uniti dalla “sola” sterlina.

Che l’Europa guardi con timore a questo referendum (con Barroso che ha espresso già la sua disapprovazione) è motivo ulteriore per aprire gli occhi e prestare attenzione: al di là delle preoccupazioni spagnole per l’effetto domino sugli spiriti indipendentisti catalani, c’è chi vede evidentemente in questa mossa la possibilità che si cominci a riflettere concretamente su di un rallentamento del processo di unione fiscale europea. Se la Scozia non la vuole con il Regno Unito, così andrebbe il ragionamento, perché dobbiamo volerla noi tra paesi dell’euro?

Al referendum, paradossalmente, guardano con timore o disprezzo anche dalla sponda opposta. I fautori della uscita dell’euro si chiedono come sia possibile che due “diversi” non vogliano abbandonarsi del tutto, sterlina compresa. In questo referendum vedono la temuta conferma che “qualchecosa” di speciale e di positivo una moneta in comune ce l’ha, anche quando due paesi si ritengono desiderosi di non fare un matrimonio “completo” che preveda la fusione delle proprie istituzioni politiche.

Sono tre le questioni  chiave che un simile evento stimola nella mia mente: cosa c’è di diverso tra la loro eventuale unione monetaria e la nostra? Come mai la preferiscono ad una disunione totale con separazione valutaria? E come è possibile che si sia arrivati a questo punto in cui due paesi non ritengono utile mantenere una sovranità democratica in comune (detta pensando all’Europa dell’euro, cosa spinge due paesi a cedere sovranità democratica all’interno di una unione monetaria, procedendo verso una unione fiscale?).

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Comincio dalla prima domanda: cosa c’è di diverso con la situazione euro? Alcune cose.

E’ possibile per esempio che quello che in Europa si sta crescentemente mettendo in comune, l’intelligence di sicurezza nazionale, tra scozzesi e inglesi si separerà (tanto più che gli scozzesi potrebbero adottare una policy anti-nucleare che porterebbe a rimuovere i missili inglesi dal loro territorio). E’ anche possibile che diversa sarà la dinamica rispetto ai salvataggi bancari: mentre in Europa si parla della Germania che dovrebbe salvare le banche spagnole, in Inghilterra si minaccia di non salvare più le eventuali banche scozzesi in crisi.

Non sono questioni da poco, a conferma che nelle dinamiche di unione politica la difesa e la finanza giocano un ruolo sempre decisivo nelle trattative.

E’ vero, tra i 2 paesi ci sono una lingua in comune, una storia fortemente in comune (a studiarla a volte meno acrimoniosa di quanto non tenda a ricordarci Braveheart) ed una mobilità del lavoro maggiore che nell’area dell’euro. Qualcuno direbbe dunque: “loro sono un’area valutaria ottimale, noi no!”. Vero, ma, anche ricordando le preoccupate parole del Governatore della Bank of England, Carney (“in breve, una unione monetaria durevole e di successo richiede una qualche forma di cessione di sovranità nazionale”) è evidente il ruolo che giocano in tutto ciò le dinamiche in opposta direzione, integrative (proprie dell’euro) e secessioniste (proprie della eventuale scelta scozzese per il SI): le prime aumenteranno i fenomeni di vicinanza culturale, le seconde le diminuiranno, facendomi ritenere che tra 20 anni, a regime, vivremmo in aree monetarie molto simili.

Quindi, se c’è poco di diverso tra 20 anni tra noi e loro, forse la loro eventuale scelta per il SI è da comprendere meglio. Forse non lasciare l’euro e non accelerare sull’integrazione politica a tutti costi, in prima battuta verso una unione fiscale, è la scelta migliore? La risposta sarebbe sì se effettivamente gli scozzesi avessero una ragione fondata per votare SI.

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Perché gli scozzesi vogliono mantenere una valuta unica è la prima domanda che ci dobbiamo porre. Non la più interessante in realtà. E’ probabile che il referendum non avrebbe avuto altrettante possibilità di vittoria per il fronte del SI se unito a quello di abbandono della sterlina. Ma questo da parte mia è solo nascondere sotto al tappeto la questione, rinviare la risposta a chissà quando. E’ chiaro altresì che gli scozzesi capiscano come poco possono contare sulla possibilità che in tal modo, tenendo la sterlina, le loro banche verranno salvate: i messaggi che arrivano dalla City al riguardo non sono per nulla rassicuranti.

Come mai allora gli scozzesi si sentono così legati alla sterlina da non tollerarne una nuova, scozzese? E’ possibile che lo strappo sarebbe troppo forte, a conferma del contenuto simbolico che detiene una moneta. E’ possibile che la reputazione della sterlina permetta alla Scozia un “free-riding” non indifferente negli scambi internazionali che una nuova valuta non permetterebbe.

Tutte ragioni importanti, che dovrebbero far riflettere gli anti-euro, certamente.

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Ma adesso vorrei far riflettere i pro-unione fiscale nell’area euro. Chiedendomi come mai la Scozia potrebbe decidere di adottare una politica fiscale indipendente da quella attuale britannica, mettendosi a rischio, come giustamente sottolinea Krugman, di non poter affrontare con successo una crisi fiscale locale (non avendo come aiuto né la valuta nazionale né i trasferimenti da Londra come quelli che ci sono negli Stati Uniti, esattamente la situazione dell’Italia nell’euro di oggi).

A rileggere i (bei) resoconti sul referendum leggo di una lamentela scozzese di attuale “deficit democratico”. Ma in cosa consiste esattamente questa lamentela, in uno dei Paesi in cui la democrazia è stata da più lungo tempo “coccolata” e curata? In cui gli eletti scozzesi occupano in proporzione notevole gli scranni di Westminster?

La risposta che leggo è interessante e si attaglia alla mia visione del mondo e del problema attuale europeo: una percezione in molti (scozzesi) di una visione culturale (non genetica o che) diversa che va prevalendo nelle due aree geografiche dell’isola. E che l’attuale governance politica britannica non permette di essere rappresentata appropriatamente.

“La nostra storia nazionale – dice il leader del SI scozzese Salmond – è stata costruita da molte generazioni sui valori della compassione, dell’uguaglianza e della preminenza senza pari per l’individuo  (empowerment) dell’istruzione”. E siccome il Regno Unito va secondo alcuni virando verso un modello più statunitense “dove non si può mai dare a sufficienza al top 1% della popolazione quanto a distribuzione dei redditi”, è chiaro che l’esigenza di modellarsi attorno ad un modello più “scandinavo” ha modificato il quadro politico scozzese, dove già da tempo non esiste più un partito conservatore ma dove lo stesso Blair non è ricordato con affetto per le sue riforme troppo liberiste e pro-finanza.

Poco riusciamo a fare, dicono gli scozzesi del SI, per le nostre scuole, la nostra università, i nostri ospedali e non c’è devoluzione a sufficienza per fare quello che vogliamo noi. “Quella che è iniziata in Scozia è una ribellione contro lo stato centralizzato presso Westminster, che continua a erogare alla Scozia, al Galles, all’Irlanda del Nord una somma di fondi bloccata, piuttosto che permettergli di tassare e spendere i propri fondi come meglio desiderano”.

Siano avvertiti tutti i politici europei che vogliono muoversi verso uno stato delle cose ancor più centralizzato di oggi, stiano attenti a non calpestare il ruolo essenziale della cultura di riferimento e le preferenze sociali di un popolo. Perché il passo successivo è la fine dell’Unione che si sperava di rafforzare. La Commissione delle “medie”, che raccomanda a tutti di convergere su tutto con identiche riforme, è strumento in questo senso destabilizzante.

E qui vi è un’ultima lezione, forse la più potente. Come è possibile che proprio la Scozia, che tanto aveva dato al Regno Unito dal dopoguerra, sia arrivata a questo punto di volontà di separazione? Semplice. La fine della statalizzazione dell’economia inglese, decretata da Margaret Thatcher, che tanto aveva dato alla Scozia. Allan Little, della BBC così parla di quel Regno Veramente Unito di allora: “Quando sono cresciuto a Galloway erano i giorni di British Coal e British Steel. Lo stato britannico era quello che probabilmente ti aveva costruito la casa, riscaldato il salotto, e cablato il telefono. Era quello che produceva l’acciaio e dava occupazione a tutti nei dintorni. Ora tutto questo non c’è più. Comunità come Galloway che erano la pietra fondante dell’identità Britannica in Scozia, oggi, come l’Impero, spariscono nella memoria collettiva”.

Ironicamente il programma di denazionalizzazione della Thatcher ha ottenuto un risultato che la semantica di allora non aveva compreso fino in fondo.

Così come gli Stati Uniti sono divenuti tali con la solidarietà di Roosevelt e non subito, così il Regno Unito (la parola è sempre quella) rischia di morire nel momento in cui si perde il significato della parola stessa, solidamente ancorata ai principi della solidarietà e di una unione tra pari.

Questo è il messaggio più potente che la Scozia urla oggi all’Europa: nessun passo significativo in avanti può essere fatto senza solidarietà e valori messi in comune, rappresentando quelli di ognuno.  Nel frattempo che ponderate sul da farsi non fate nessun passo avanti a costruire una centralizzazione senza anima: ne morireste immediatamente.

Se mai la Manica finisse per dividere due unioni monetarie, la raccomandazione ad ambedue per l’oggi sarebbe identica: trovate lo strumento per aiutare all’interno chi viene colpito da shock nazionali. Senza questa forma di solidarietà il passo verso il disfacimento di ambedue le unioni monetarie sarà inevitabile.

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PD ed Europa

Ieri all’Europa-Titanic di Fassina a cercare soluzioni nel PD (a cui non appartengo) per come andare avanti, almeno credo.

In attesa del DEF di aprile provo a riassumere le scelte che ci stanno davanti, ricordando che Saccomanni aveva promesso per il 2015 lo 0% (pareggio) di saldo di bilancio corretto per il ciclo e che la Commissione europea stabilisce che la finanziaria da lui elaborata col Governo Letta sforerà questo valore dello 0,9% di PIL (malgrado il miglior andamento della spesa per interessi). Un fallimento epocale, rafforzato dal fatto di un errore continuo di sovrastima dell’andamento del PIL che fu previsto al +1,7% da Saccomanni per quell’anno, ed oggi è previsto al +1,2% dalla Commissione.

*

Cosa potrà fare Padoan?

Primo. Accelerare il Titanic, andando a ripetere le promesse, stavolta con minore tempo a disposizione, di Saccomanni e portando il deficit strutturale 2015 da 0,9 a zero. Una manovra restrittiva di 15 miliardi, super recessiva, che è incompatibile con qualsiasi permanenza italiana nell’Unione europea dell’euro, punto e basta.

Secondo. Potrà confermare lo 0,9 previsto attualmente dalla Commissione, confermando le attuali politiche di tendenziale previste dal Governo Letta. Un lento Titanic, in cui il pilota automatico ci porta dritti dritti, più lentamente, allo stesso esito.

Terzo. Può confermare lo 0,9% ma modificare il mix di tasse e spese per raggiungerlo. E qui arriva la proposta Stiglitz-Viaggiatori che da sempre ci caratterizza. Esatto, il moltiplicatore del bilancio senza maggiore deficit, in pareggio, di maggiori spese o minori tasse non finanziate in deficit.

Ma come attivarlo? Tre opzioni anche qui.

Quella nuovamente suicida di Alesina-Giavazzi di minori spese che finanziano le minori tasse,  che anche un bambino sa essere recessive (e su questo ieri nel PD erano tutti d’accordo, forse qualcosa che differenzia la sinistra dalla destra in maniera chiara), specie in questa fase del ciclo economico.

Quella impossibile, à la Abe giapponese, finanziare maggiore spesa con maggiore tassazione. E’ tanto espansivo quanto politicamente suicida e difficile in Europa senza una banca centrale totalmente dedicata a sostenere questa iniziativa.

Quella possibile, di finanziare maggiore spesa (o minori tasse) con minori sprechi di spesa stessa nel settore degli appalti pubblici. Gli sprechi non sono domanda di beni, ma meri trasferimenti: tagliarli leva a qualcuno (il ricco imprenditore che ha corrotto) per darlo qualcun altro (la classe media che paga le tasse e riceve servizi pubblici in cambio della spesa) e dunque non taglia PIL. Anzi, genera nuove risorse per crearne via riduzione del carico fiscale o maggiore spesa pubblica produttiva.

E, anche qui, si aprono 3 scenari.

Opzione 3.1, la politica Padoan.

“5 miliardi dalla spending review del 2014″. Non ci sono 5 miliardi. Ce n’è zero. L’operazione Cottarelli, se partirà, potrà partire nel 2015, ormai a marzo 2014 è troppo tardi per generare risparmi da gare di appalti. Se Piercarlo Padoan troverà effettivamente questi 5 miliardi (troppo pochi comunque) proverranno da tagli lineari a casaccio per finanziare il taglio del cuneo. Padoan come Alesina e Giavazzi? Esatto, recessivo e Titanic.

Opzione 3.2; usare il taglio degli sprechi veri per finanziare il taglio del cuneo.

Detto che aspettiamo di vedere un segnale forte e credibile di appoggio a Cottarelli su questo, un Padoan schierato per riempire di risorse la squadra di Cottarelli che oggi lavora “gratuitamente” per lui, l’Antitrust senza budget, la Guardia di Finanza, l’Autorità Anti Corruzione senza presidente e con 12 dipendenti, la Consip che vede le sue risorse scemare ogni anno invece che aumentare, sappiamo perché questa politica fallirebbe: perché il ridurre il cuneo non stimolerà a sufficienza l’economia italiana, che si riavvierebbe solo con uno slancio di domanda alle imprese. E l’unica che può arrivare in questo momento di enorme pessimismo è quella pubblica, via appalti.

Appunto l’opzione 3.3: trovare dagli sprechi le fonti di sostegno al rilancio della domanda pubblica. Senza una goccia di deficit in più. Con tanto PIL in più. Meno spese cattive, più spese buone. Via enorme riorganizzazione, fattibile, della macchina degli appalti che rappresenta il 15% del PIL italiano circa. La nostra proposta per far rinascere il Paese.

Registro, e chiudo, su questa nostra proposta due fonti di scetticismo che mi derivano dal sedermi alla utile riunione del PD.

1) Lo scetticismo derivante dalla platea PD. Quando ho annunciato la mia proposta del taglio agli sprechi c’era una persona in prima fila che occupava parte del mio angolo visivo (no, non era Alberto Bagnai, a lui arrivo dopo)  che si è agitata terribilmente sulla sedia. So chi era. E’ l’esponente PD tipico che non crede che la lotta agli sprechi sia “qualcosa che serva a qualcosa”. Mentre io concordo con lui sugli sprechetti provinciali che danno cibo a Rizzo e Stella per denigrare quotidianamente dalle pagine del Corriere la bellezza del pubblico nell’economia, rimango basito dalla resistenza PD a un tema di questa portata per quanto riguarda gli appalti. Abbiamo tutti i dati scientifici che confermano che proprio lì dove c’è la soluzione dei nostri guai (gli investimenti pubblici) albergano anche i nostri guai (corruzione ed incompetenza delle stazioni appaltanti). Rinnegare ciò temendo che significhi la “fine del pubblico nell’economia” è miope sotto mille punti di vista. Primo perché fa sospettare che il PD sia felice di questi sprechi tanto quanto gli altri partiti. Secondo, perché si consegna ai tagli lineari da 5 miliardi di Padoan. Terzo perché, con un vero harakiri, non attaccando il cancro che uccide il ruolo dello Stato, conferma lo stereotipo europeo sulla “cattiveria” dell’intervento pubblico in Italia e ci porta a ricevere ricette sulla sua riduzione da Bruxelles.

2) Lo scetticismo di Alberto Bagnai sull’impatto negativo della nostra proposta sui conti esteri italiani. Scateneremmo con la nostra proposta, è il punto che mi ha sollevato prima ancora che parlassi ieri (conoscendo Alberto bene le nostre idee), uno tsunami di indebitamento internazionale del nostro Paese. Rimango sempre basito da questa obiezione. Premettendo che la nostra proposta genera occupazione subito (e quindi arresta l’emorragia che minaccia l’euro e l’Europa, ma qui capisco che Alberto sia monocorde e interessandogli la fine dell’euro per salvare l’Italia non gli interessa di sapere come si può salvare nell’euro l’Italia) via appalti che finiscono in mano ad aziende principalmente italiane che riusciranno a sopravvivere e dunque domani anche a esportare (le nostre PMI si spera), il punto è un altro. Il nostro saldo corrente non è certo drammatico ora, e se salvare il Paese significa aumentarne un po’ il deficit oggi (la ripresa riavviando i consumi porterà anche maggiori importazioni, per fortuna), questo sarà eliminato domani quando, in espansione finalmente, faremo quello che avremmo dovuto fare all’inizio del secolo, e cioè la giusta austerità per mettere da parte le risorse per tempi bui.

Fassina va nella nostra direzione alla fine quando propone di restare allo 0,9% di deficit strutturale per il 2015 e, anzi, ci aggiunge 0,5% di spese in più, 8 miliardi. Che magari aiutano a finanziare le proposte di qualche centinaia di milioni di edilizia scolastica proposti oggi sul Corriere dal Ministro Giannini.

Ma l’edilizia scolastica ha bisogno di miliardi non di milioni. E il Paese ha bisogna di decine di miliardi, non di 8: a cominciare da Pompei, dagli stipendi agli insegnanti, ai poliziotti per lottare contro la criminalità in maniera seria, alla ricerca, al territorio.

I numeri contano, per ridare ottimismo al Paese, e conta la credibilità di lungo periodo di quei numeri.

Non dire che si troveranno da una lotta senza quartiere agli sprechi negli appalti ammonta al peggio a  fare o come Saccomanni, cioè a vendere sogni, o come sta apparentemente promettendo Padoan, con tagli a casaccio nella Pubblica Amministrazione che distruggono ricchezza, progettazione, formazione, cultura, ricostruzione.

Non dire che si troveranno da interventi di dimensione notevole ammonta a non influenzare le aspettative e le speranze delle persone, lasciandoci nella palude dell’incertezza, della morte di chi resta e della emigrazione senza ritorno di chi parte.

Non sostenere una iniziativa popolare contro la stupida austerità eccessiva, maggiore addirittura di quella richiesta dall’Europa, che ha sottoscritto sinora il PD nei governi Monti e Letta, ammonta a far finta di voler combattere l’Europa ma invece assoggettarsi al suo diktat senza contribuire a modificarlo.

Ecco perché il PD fallirà se continuerà nel suo lento adeguarsi di malavoglia ad una Europa addormentata: perché contribuirà alla fine di un progetto che si alimenta solo di alti progetti ed ideali concreti, che facciamo, con molta onestà, una gran fatica a vedere.

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La PMI non è garantita, parola del Garante

Ecco alcuni passaggi, tra i più significativi del rapporto annuale del Garante delle PMI di 3 settimane fa. Notate come emerga chiaramente che le politiche della domanda interna sono essenziali per le PMI (le grandi e medie possono farcela con l’export) e come il Ministero dello Sviluppo Economico non abbia di fatto attivato un tavolo di crisi per le piccole, a conferma che abbiamo bisogno di un Ministero politico per le PMI:

E se non bastasse, prendete atto di questo atto di accusa evidente sul disinteresse dei Governi Monti e Letta per la piccola impresa di questi ultimi 2 anni:

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La recessione delle PMI italiane

Una politica liberale come quella dei Viaggiatori in Movimento si preoccupa di proteggere i piccoli: perché i più deboli nella società.

Questo blog ha spesso parlato di quanto questa recessione sia drammatica perché uccide i germogli più innovativi e delicati per una società: giovani e PMI. Grandi imprese e lavoratori anziani, anch’essi colpiti, hanno più tutele e le loro difficoltà momentanee spesso possono essere superate.

Dei giovani abbiamo parlato ieri. Ora guardiamo ai dati sulla PMI come proposti dal rapporto annuale del Garante delle PMI:

Guardiamo fino al 2013, quello che verrà nel 2014 è speranza. E c’è poco da guardare, se non il disastro di una recessione nazionale che non abbiamo voluto arrestare, quando ne avevamo i mezzi, per ignavia politica e disinteresse totale per il 99% delle imprese italiane: troppo occupati eravamo ad ascoltare le lamentele delle grandi imprese. O forse nemmeno di quelle.

E’ interessante notare come mentre sul PIL sia l’Italia che l’Europa non hanno ancora recuperato i livelli di PIL ante-crisi, le PMI europee mostrano un recupero di dinamismo che l’Italia pare non avere proprio. Anche questo non mi sorprende: quando giro il mondo mi accorgo che siamo uno dei Paesi con meno attenzione alla piccola impresa. Non a caso ancora aspettiamo da 3 anni la prima legge per la PMI da parte dei nostri governanti, che a questo sono obbligati dallo Statuto delle Imprese.

Giovani e PMI: gli unici da proteggere, i più abbandonati.