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Stati Uniti d’America e d’Europa: mele e pere.

Appena tornato da Berlino, dove commentavo un lavoro di Michael Emerson e Alessandro Giovannini. Circondati da moltissimi funzionari dell’amministrazione tedesca, in netta minoranza l’area Sud d’Europa (lo spagnolo era malato).

*

Tante cose interessanti nel loro lavoro. Uno è il grafico dove fanno vedere come la variazione dei tassi di disoccupazione tra stati degli Stati Uniti è decisamente minore di quella degli Stati europei, a conferma che abbiamo meno “strumenti” per far fronte a shock a singole aree dell’unione monetaria. Troppo ancora diversi culturalmente, gli europei, per decidere di migrare in caso di maggiori prospettive in un altro Stato quando disoccupati. Usando le loro parole (da me tradotte): “strutture sociali e tradizioni molto radicate sono alla base delle incredibili differenze nei tassi di disoccupazione. Per armonizzare queste più rapidamente che non tramite un lento processo di apprendimento sociale appare come un’impresa politica azzardata. Le ovvie ragioni di una mobilità del lavoro tra stati europei limitata sono le barriere di linguaggio e le identità/culture nazionali. Ciò contrasta con il “melting pot’ americano, dove la migrazione tra stati è problema ben minore di quello tra paesi europei.”

Quindi, fomentano gli anti-euristi, ecco la prova che non possiamo funzionare come area monetaria comune. Che dobbiamo abbandonare l’euro. Peccato che il grafico così fatto è giusto ma ingannevole. Paragona in un certo senso mele con pere: una unione monetaria e culturale che ha più di due secoli all’attivo, la loro, ed una, la nostra, con nemmeno due decenni trascorsi dalla nascita.

Paragonereste le performance sportive di un bambino con quelle di un adulto? Che senso avrebbe?

E’ ovvio che il grafico corretto sarebbe quello che mostra la statistica Usa tra il 1800 ed il 1810 confrontata con quella europea attuale. Non l’abbiamo. Ma siamo certi che mostrerebbe inequivocabilmente una cosa: un tasso di variazione dei tassi di disoccupazione tra stati degli Stati Uniti molto più alto di quello odierno, probabilmente molto superiore a quello odierno europeo. Perché non c’era il treno, né Easy Jet, né la radio, perché le culture del Sud e del Nord erano per certi versi agi antipodi. Anche la lingua dominante era spesso diversa tra aree geografiche, in attesa che l’inglese vincesse la battaglia. Insomma, una unione monetaria altamente subottimale, come amerebbero chiamarla coloro che pensano che il metro economico sia l’unico per giudicare la bontà delle scelte politiche.

Eppure ce l’hanno fatta. Perché? Certo. Perché una guerra di secessione. Ma limitarsi a dire che ciò fu la ragione principale è non conoscere gli Stati Uniti. Li unì un desiderio comune di affrancarsi dal Vecchio Continente, dai suoi monarchi e dalla sua scarsa mobilità sociale. Lì unì una leadership pragmatica che seppe capire quando accelerare e quando rallentare il processo di unificazione, che fu possibile, fiscalmente, solo nel 1930, più di 1 secolo dopo l’avvio dell’unione monetaria.

Questo è ovviamente un momento per rallentare. Non per fare ancora gli architetti di una ulteriore sovra-struttura, ma i pompieri di una gravissima crisi sociale in alcuni stati, resa più forte dal benessere di un’altra area.

Che si spenga l’incendio in quelle aree, invece che criticare le scarse precauzioni anti-incendio che queste hanno preso negli ultimi anni (le c.d. mancate riforme), è essenziale per il benessere dello stesso Nord Europa. Perché molti degli incendi lasciati crescere, spesso, annientano tutto.

24 comments

  1. L’idea di come nascano e crescano gli USA mi sembra leggermente da sistemare, se mi posso permettere. Sempre chiedendo scusa per l’ardire una (ri)lettura anche di Manituana, senza arrivare agli estremismi (uhm) di Losurdo non sarebbe male: quella è un’unione fondata su un paio di genocidi, davvero dobbiamo prenderla a modello, euroscetticismo o meno?

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    • Ecco ci siamo. Punto chiave. No non è un modello: ed ecco perché è così essenziale che a quel tavolo delle decisioni, per ora a 2, ci siamo anche noi, per portarci i nostri valori. Ma per starci dobbiamo restare uniti. E per restare uniti bisogna fare quanto dicevo nel post.

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  2. Professore, mi perdoni. Anche nel 1800 tutti gli americani parlavano la stessa lingua, e quindi potevano emigrare da una zona all’altra dell’America per poter lavorare. Se in una zona si fosse parlato fiammingo e in un’altra portoghese, scommetto che non avrebbe funzionato. Certo, se l’unica emigrazione che ci interessa sono i manovali, magari imparandosi trenta parole possono emigrare. Ma immagino che non sia questo il punto.

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    • non “tutti” gli americani ovviamente, ho sbagliato, ma “la maggior parte”. Ricordiamo comunque che nel 1795 non passo’ la legge per stampare 3000 copie del codice federale in lingua tedesca per facilitare il compito agli immigrati germanici: gia’ allora l’inglese era considerato la lingua ufficiale americana.

      Diversi studiosi affermano che l’inglese e’ da sempre la lingua ufficiale degli stati uniti, vedere ad esempio Prof. J.R. Pole, “Foundations of American Indepedence: 1763-1815,” Bobbs-Merrill Co. 1972, 18.

      Nessuna lingua oltre all’inglese ha mai avuto uno status legale paragonabile ad essa, a parte le zone spagnole. Anche li’, la emigrazione da zone spagnole a zone inglesi o viceversa sarebbero state difficili, e avrebbero permesso solo l’emigrazione di forza lavoro di basso livello.

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      • Allora, detto che parliamo di una questione marginale rispetto al punto complessivo, lo trovo interessante in se stesso, grazie.
        L’ufficialità conta poco, e siamo certamente d’accordo su di essa. Era ed è l’inglese, malgrado la preoccupazione di qualche iper-conservatore che la lingua spagnola si stia espandendo “troppo”.
        Mi interessa più parlare dei “manovali”, che sono i più toccati dalla disoccupazione, ora come allora. 30 parole, certo, ma per andare a vivere dove? In un ambiente a loro nemico. Meglio vivere agglomerandosi, senza muoversi, come fanno oggi spesso molti spagnoli poveri.
        Rimane il fatto che la mobilità Usa di allora era drammaticamente minore, per tanti motivi, ma l’unione monetaria l’hanno fatta, eccome. Ed è ancora viva ed ha probabilmente causato la vittoria geopolitica Usa.

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        • Mah, marginale fino ad un certo punto, visto che il “modello” più o meno dichiarato è quello. Torno a dire che per arrivare sin qui gli USA sono state il modello di tutte le sovercherie possibili e immaginabili. Non che gli europei siano tanto migliori, quello che hanno combinato nelle colonie farebbe impallidire i nazisti, ma persone che cercano un ideale di fratellanza – come mi pare che vogliate fare – dovrebbero, anche se sembra una contraddizione, essere realisti…

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          • Ma infatti la filosofia dei Viaggiatori è “Se non sei seduto a tavola sei nel menu”.
            Sarebbe interessante sapere dal professor Piga chi ha intenzione di mettere nel menu per mangiarcelo in maniera consona ai “nostri valori”: i paesi africani? Alcuni paesi sudamericani? O solo determinate classi sociali?
            E che vino ci abbiniamo?
            Nel programma dei Viaggiatori la questione del vino non viene affrontata.

          • In realtà per come la Cina si mangia l’Africa e gli Stati Uniti l’America Latina, penso che anche loro debbano fare il tifo per una Europa al tavolo per frenare gli appetiti.

          • “In realtà per come la Cina si mangia l’Africa e gli Stati Uniti l’America Latina, penso che anche loro debbano fare il tifo per una Europa al tavolo per frenare gli appetiti.”

            :D

          • Buona sera Professore,
            sembrerà una banale affermazione, ma 3 mangiano più di 2, quindi come potrà l’aggiunta di un commensale frenare gli appetiti?
            Se a tavola sono seduti in 3 e sul menu restano sempre e soltanto 2 portate, semplicemente ci sarà più bagarre nella spartizione e per quelli sul menu non cambierà niente. O dovrebbero sentirsi più onorati di essere divorati dagli europei?

            Che poi un’Unione formata da stati forti e da élites che hanno divorato i deboli in casa propria diventi paladina dei diritti umani a casa d’altri sembra una cinica barzelletta.
            E, diciamocelo, bastano e avanzano gli Stati Uniti a esportare democrazia!!!

            Ha percezione del fatto che mentre Lei sta a difendere l’indifendibile (l’euro) tra contorsioni pseudomoralismo e sforzi retorici, l’indifendibile sta divorando l’Italia e le PMI i cui interessi lei sostiene di rappresentare ?
            Penso di poter prevedere la sua risposta: “non è colpa dell’euro, ma dell’austerità”.
            Già, ma l’austerità chi la sta imponendo?
            Penso che gli italiani e le PMI meritino di più e di meglio.

          • Buonasera Chiara, ben trovata.
            Il piatto è lo stesso, nel breve periodo, chi mangia tanto oggi dovrà rinunciare all’obesità. E penso che con la cucina europea il piatto, nel lungo periodo, si arricchirà di pietanze migliori.
            Lei pensa che se noi siamo a quel tavolo gli Stati Uniti esporteranno democrazia come prima o con un po’ più di difficoltà? IO credo la seconda.
            L’austerità l’impone chi deve andare a casa per manifesta incompetenza, complicità ed ignavia.

    • Luigi Biagini

      16/12/2013 @ 08:24

      Anche se l’analisi del Prof. Piga è parziale (per ovvie ragione di spazio) non è nient’altro che l’espressione del pensiero di Mundell con il suo famosissimo paper sulle aree valutarie ottimale del 1961 (http://www.jstor.org/discover/10.2307/1812792?uid=2&uid=4&sid=21103128032637) che gli valse il premio Noble(http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/economic-sciences/laureates/1999/index.html) .

      The subject of flexible exchange rates can logically be separated into two distinct questions.
      The first is whether a system of flexible exchange rates can work effectively and efficiently in the modern world economy. For this to be possible it must be demonstrated
      that:
      (1) an international price system based on flexible exchange rates is dynamically stable after taking speculative demands into account;
      (2) the exchange rate changes necessary to eliminate normal disturbances to dynamic equilibrium are not so large as to cause violent and reversible shifts between export and import-competing industries (this is not ruled out by stability);
      (3) the risks created by variable exchange rates can be covered at reasonable costs in the forward markets;
      (4) central banks will refrain from monopolistic speculation;
      (5) monetary discipline will be maintained by the unfavorable political consequences of continuing depreciation, as it is to some extent maintained today by threats to the levels of foreign exchange reserves;
      (6) reasonable protection of debtors and creditors can be assured to maintain an increasing flow of long-term capital movements;and
      (7) wages and profits are not tied to a price index in which import goods are heavily weighted.

      The second question concerns how the world should be divided into currency areas.
      I have argued that the stabilization argument for flexible exchange rates is valid only if it is based on regional currency areas.
      If the world can be divided into regions within each of which there is factor mobility and between which there is factor immobility, then each of these regions should have a separate currency which fluctuates relative to all other currencies.
      This carries the argument for flexible exchange rates to its logical conclusion.
      But a region is an economic unit while a currency domain is partly an expression of national sovereignty.
      Except in areas where national sovereignty is being given up it is not feasible to suggest
      that currencies should be reorganized; the validity of the argument for flexible exchange rates therefore hinges on the closeness with which nations correspond to regions.
      The argument works best if each nation (and currency) has internal factor mobility and external factor immobility.
      But if labor and capital are insufficiently mobile within a country then flexibility of the external price of the national currency cannot be expected to perform the stabilization function attributed to it, and one could expect varying rates of unemployment or inflation
      in the different regions.
      Similarly, if factors are mobile across national boundaries then a flexible exchange system becomes unnecessary, and may even be positively harmful, as I have suggested elsewhere

      According to my argument the experiment should be largely unsuccessful as far as stabilization is concerned.
      Because of the factor immobility between regions an increase in foreign demand for the products of one of the regions would cause an appreciation of the exchange rate and therefore increased unemployment in the remaining regions, a process which could be corrected by a monetary policy which aggravated inflationary pressures in the first region; every change in demand for the products in one region is likely to induce opposite changes in other regions which can not be entirely modified by national stabilization policies.
      Similarly the high degree of external capital mobility is likely to interfere with stabilization policy for completely different reasons: to achieve internal stability the central bank can
      alter credit conditions but it is the change in the exchange rate rather than the alteration
      in the interest rate which produces the stabilizing effect; this indirectness conduces to a cyclical approach to equilibrium.

      Una barriera linguistica, ma non solo anche religiosa (e su questo negli USA dell’800 si sentiva molto la differenza), culturale (un Sud Schiavista contro un nord per l’abolizione della tratta degli schiavi), trasporti, livello culturale (tra nord e sud USA ci sono differenze ora figuriamoci nell’800).
      Mi dispiace ffortini ma reputo la sua replica priva di fondamento.

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  3. Antonello S.

    15/12/2013 @ 16:48

    Mi scusi professore se non uso particolari sofismi, ma che senso ha insistere negli Stati Uniti d’Europa, quando sappiamo benissimo che nessuno stato di antichissime origini democratiche (non come i primigeni abitanti delle americhe) è disposto a sacrificare la propria lingua, i costumi, le tradizioni ed anche, perchè no, la loro politica?
    Qual’è la minaccia che Paesi come la Corea del Sud, la Svezia, il Canada ecc. non riescono ad intravedere a differenza dei 17 appartenenti all’Eurozona e che li costringe ad inseguire, costi quel costi, un sogno che si sta trasformando ogni giorno che passa in incubo?
    Anche il vecchio progetto di contrapposizione allo strapotere del dollaro è stato superato dall’avanzata russo-cinese.

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    • La minaccia in Corea del sud l’hanno intravista eccome.
      Di fatto sono una colonia americana e per farsi un’economia solida hanno adottato per es. un sistema educativo inimmaginabile da noi:
      http://www.rivistauniversitas.it/articoli.aspx?IDC=2267

      “…..E’ lecito pensare, ed è opinione comune, che un sistema del genere, tanto severo da apparire quasi soffocante, possa essere causa dei frequenti suicidi verificatisi negli ultimi mesi in ambito accademico. “.
      Potremmo fare qualcosa del genere in Italia, secondo voi anti-euristi?

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      • Perchè, in cosa differisce il sistema dell’istruzione italiano da quello degli altri paesi? I test PISA, se analizzati a livello regionale, mostrano che nel Nord Est i risultati medi sono migliori di quelli dell’Europa centrale. Se dai test si escludessero le scuole private, l’Italia salirebbe di diverse posizioni in graduatoria.
        Per quanto concerne l’Università nonostante le frescacce – adeguatamente pubblicizzate dai soliti pennivendoli – che i nostri atenei siano in fondo alle classifiche stilate in base a chissà quali fantasmagorici criteri, di fatto il nostro paese è l’ottava “potenza” mondiale in termini di produzione scientifica. E tutto ciò senza suicidi

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      • In Italia di sicuro no.

        Ma I coreani non e’ che si siano messi a fare unioni monetarie con Cina e Giappone…

        Peraltro sistemi scolastici competitivi in Asia non sono una novita’ – si veda Singapore.

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  4. “Li unì un desiderio comune di affrancarsi dal Vecchio Continente, dai suoi monarchi e dalla sua scarsa mobilità sociale”

    Si parla espressamente di mobilità sociale nel programma dei Viaggiatori?
    Anche il problema dei monarchi di cui disfarsi potrebbe essere attuale per un movimento che voglia raccogliere un consenso.

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  5. Se c’è qualcosa che oggi noi europei (e italiani in particolare) dobbiamo imparare dagli americani, è applicarne la finalità all’inverso: come gli USA (gli stati del Nord, in particolare, contro i “cotonieri” del Sud, più legati alla Gran Bretagna) vollero svincolarsi dai vecchi padroni, inaugurando così un’era di sviluppo che li ha portati alla supremazia globale (anche se oggi in sempre più netto declino) così oggi l’Europa dovrebbe sciogliere i vincoli di tipo strategico (e militare, leggi Nato) con gli USA, dato che ormai i destini delle due aree sono ben distinti, se non addirittura contapposti.

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  6. Giorgio Zintu

    19/12/2013 @ 14:00

    Mi sono fermato quando ho letto “Le ovvie ragioni di una mobilità del lavoro tra stati europei limitata sono le barriere di linguaggio e le identità/culture nazionali”.
    Davvero? e quale sarebbe la soluzione, la deportazione? Oppure lo spopolamento, come sta già accadendo in Sardegna, di interi comuni? E poi alla fine se esiste una cultura in nome di cosa va schiodata dalle sue radici e crocefissa su un’impalcatura che probabilmente non è condivisa, solo per avere qualche ninnolo in più a Natale?

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    • E perché mai lei presume che io pensi che ci debba essere una “soluzione”? Io sono felicissimo di questa diversità. Ne prendo atto e dico “fermatevi” nel vostro processo di unificazione forzata e concentratevi nell’aiutare chi soffre. Tutto qua. Può riprendere la sua lettura. Saluti.

      Reply
      • Giorgio Zintu

        22/12/2013 @ 09:16

        Leggo con ritardo la sua replica al mio post. Forse non mi sono spiegato bene: nulla contro quello che lei ha esposto (anzi!), mi sono solo soffermato su una “politica europea” (amesso che ne esista una e sia condivisa”) che, in nome di un’artificiale e improbabile omogeneità, interviene su una enormità di comportamenti e tradizioni, non tutti da buttare. La storia diceva un grande “non fa salti”.

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