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La confusione di decimali da parte di Renzi è molto pericolosa

Il mio collega Giovanni Vecchi ha studiato il ruolo dei decimali nella nostra vita di tutti i giorni dall’Unità d’Italia in poi.

Come vedere dalla tabella sopra (in rosso) nel ventennio tra il 1861 ed il 1881 il reddito pro-capite degli italiani è cresciuto dello 0,6% annuo in media, mentre (in verde) nel decennio dal 1992 al 2002 di più, dell’1,5%.

Quisquilie? Differenze impercettibili di quasi 1% annuo, che volete che sia.

Beh un modo per convincervi che quisquilie non sono è farvi vedere (le frecce) il numero di anni che si impiegano, a quei tassi di crescita, a raddoppiare il proprio tenore di vita. Se fossimo sempre cresciuti come nel ventennio del Novecento, ci ricorda Vecchi, ci avremmo messo ben 115 anni a raddoppiare il livello di benessere economico! Se invece  (come è poi stato dall’Unità d’Italia in poi) fossimo cresciuti come dal 1992 al 2002, gli anni si sarebbero ridotti a 40. Accipicchia se conta un misero 1%!

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Quando il Presidente del Consiglio Renzi afferma che “se la crescita è 0,4 o 0,8 o 1,5 non cambia niente per la vita quotidiana delle persone” mi preoccupa. Molto.

Primo perché proprio il suo bonus di 80 euro di cui esalta l’importanza ha l’impatto di circa 0,7% di PIL (la differenza tra 0,8 e 1,5 di PIL).

Secondo perché sono proprio questi decimali di crescita in più che possono generare occupazione: infatti la differenza tra 1,5 e 0,4 di crescita in più che Renzi ritiene irrilevante abbatte la disoccupazione dello 0,5%, aprendo la strada per un lavoro vero per circa centomila disoccupati.

Ma io ho capito perché Renzi si è così grossolonamente sbagliato. Credo che Renzi abbia confuso la crescita economica con il deficit pubblico strutturale, visto che vuole portare quest’ultimo proprio dall’1,5% allo 0,4%, credendo per di più, come è noto dal DEF che ha fatto approvare, di non peggiorare per questo la vita quotidiana delle persone. E anche qui sbaglia: levando risorse per investimenti pubblici e minori tasse – come gli chiede lo stupido Fiscal Compact – uccide l’economia italiana.

Vorremmo consigliare a Renzi di firmare il nostro referendum contro l’austerità e di pensare ogni giorno a quei decimali del deficit e a non ridurli in queste terribile recessione: ne otterrà tantissimi decimali in più di crescita e potrà godersi una vecchiaia con un reddito doppio rispetto a quello suo odierno. Non male, no?

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Review della Spending Review

Su Panorama oggi.

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Godiamoci questo agosto e non pensiamo al rientro dalle ferie. Anche perché a settembre, quando torneremo, saremo immersi in un drammatico dibattito dagli esiti imprevedibili sul come consolidare i conti pubblici di circa 30 miliardi di euro nel 2015, via aumento di tasse e tagli di spesa, chiesto dall’Europa.

In attesa che Renzi riesca ad ottenere una moratoria sull’ottuso Fiscal Compact, appoggiato anche dal referendum contro l’austerità per il quale stiamo raccogliendo in queste settimane le firme in tutta Italia, è d’obbligo chiedersi cosa si sta facendo per ridurre il tremendo impatto sull’economia che potrebbe avere la manovra di cui sopra.

La domanda vera è una sola: saprà il Governo identificare in pochi mesi gli sprechi dentro la spesa ed evitare tagli di appalti a casaccio che uccidono imprese e occupazione? Filtrano poche informazioni. Alcune inducono a sperare, altre suscitano preoccupazioni.

Tra le prime è la crescente collaborazione a cui assistiamo tra le istituzioni rilevanti per la spending review. Ne è prova la fusione tra Autorità Anti Corruzione ed Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici, condizione necessaria per migliorare le sinergie ispettive su una materia, quella degli appalti pubblici, che arriva a generare il 15% del Prodotto Interno Lordo. Ma anche la lettera congiunta di Cantone (capo dell’ANAC) e Cottarelli (capo della Spending Review) a 100 stazioni appaltanti che parrebbero non avere osservato l’obbligo di acquistare presso la centrale di committenza Consip.

Tra le seconde, spicca più di tutte la decisione di dare rilievo decisionale al massimo a 35 stazioni appaltanti. Se è un bene infatti ridurne il numero (che viaggia oggi sulle svariate decine di migliaia), non può che preoccupare una scelta che rischia di far crescere enormemente la dimensione media delle gare pubbliche escludendo il tessuto più dinamico del nostro Paese, le piccole imprese. PMI che, mostrano tutte le statistiche europee, sono, paradosso dei paradossi, tra le più discriminate del Continente nel mercato delle commesse pubbliche e questo proprio dalla “loro” Pubblica Amministrazione!

Una minore partecipazione e vitalità delle nostre piccole imprese significherebbe non solo perdere tutti i risparmi derivanti dal minor numero di stazioni appaltanti a causa della minore concorrenza in gara, ma aggiungervi una minore nostra competitività interna ed estera come Sistema Paese.

Buon Agosto a tutti.

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The Race we Would Like to Watch: Protect SMEs

This is the race that we would like to watch. The one between the Young 14 Aussie Champ James Gallagheur, sprinter today, and his 14 year old predecessor in year 1998, Usain Bolt. It strikes us a fair race. Where James would even be able to beat Usain, as he did.

A race of equals.

This one below is instead the race that we do not comprehend: the one between a 14 year old Champ and the Immense Usain of today, 28 years old, twice his age. An unfair race, where James would never win. Never.

And if James never wins, why would he want to still run? Always defeated by a 14 year older guy, he would quit, not show up anymore. Game over. For him. And for us, never enjoying any race anymore.

This is what happens in a country where you let SMEs run the public procurement race side by side with large firms. You kill them, by depriving them of their fair race.

Let the race start, protect SMEs today in public procurement, allot them their fair share of business with government, and the world will one day be full of many many many grown-up Usain Bolt, running the world with the beauty of their grown-up skills.

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Nessuna clemenza per chi non vuole combattere come si deve la corruzione

Quanto spazio vi è per combattere la corruzione negli appalti pubblici in Italia oggi?

La corruzione è un fenomeno culturale, e solo lentamente può essere sconfitta cercando di prenderla direttamente per le corna, come si farebbe per un toro infuriato. Bisogna stancarla, farle il vuoto attorno, sfiancarla come farebbe un bravo torero.

A cominciare dai banchi di scuola, certamente, con i più giovani, avvicinandoli con intelligenza (e metodi d’insegnamento consoni all’età del ragazzo) alla pratica complessa ma essenziale di come gestire bene i conflitti d’interesse che affliggono ogni giorno le nostre vite e soprattutto quella dell’azione pubblica.  E troppo poco facciamo su questo, se paragoniamo gli sforzi in tal senso di altri Paesi, per esempio il Brasile, con i nostri.

Ma esistono mezzi per assetare e uccidere la corruzione che possono agire più rapidamente. Se solo ricordiamo che corruzione e collusione sono inseparabili, che l’una rafforza l’altra, come abbiamo detto mille volte su questo blog, sappiamo come agire: combattendo la collusione con infinita pazienza e determinazione.

Ma i ritardi italiani nel combattere la collusione sono tanti. Ancora maggiori sono quelli nel combatterli negli appalti pubblici, dove l’AGCM, l’Antitrust, ha avuto le risorse e la voglia in 22 anni di aprire solo 1 istruttoria l’anno in media.

E’ difficile combattere i cartelli perché i programmi di leniency (clemenza) per i membri del cartello (ovvero l’immunità ex-ante per coloro che si autodenunciano prima della conoscenza del fatto da parte delle autorità e le minori sanzioni una volta noto il fatto per chi collabora) in Italia hanno efficacia pressoché nulla. Basse sanzioni economiche in caso di condanna e bassa probabilità di essere identificato come membro di un cartello rendono ovvia la domanda: e perché mai chiedere clemenza? Tanto più che la storia dei risarcimento del danno per cartelli condannati parla di somme molto basse da erogare per i colpevoli.

I programmi di clemenza italiani sono poi troppo generosi con i secondi e terzi arrivati a denunciarsi, riducendo gli incentivi del primo ad auto-denunciarsi e rendendo dunque il cartello più stabile.

E i poveri whistleblower, le c.d. vedette civiche, le singole persone che denunciano un illecito di cui sono testimoni? Per carità, abbiamo un’esperienza pressoché nulla, visto che i premi sono praticamente inesistenti come la protezione prevista per essi. Nei cartelli degli appalti pubblici le cose si complicano ulteriormente se ci ricordiamo che in essi il cartello è reato (turbativa d’asta), ed il whistleblower sarebbe al riparo dalla sanzione amministrativa ma non penale.

Volete sconfiggere la corruzione? Credeteci o no, la soluzione è semplice: rafforzate l’Antitrust e datele esplicito mandato ed ampie risorse per individuare e sanzionare i cartelli negli appalti pubblici.

Grazie a Paolo.

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Quando il Buono ed il Cattivo fanno vincere il Brutto sono guai

“I politici – me compresa – avrebbero dovuto impegnarsi più duramente per ottenere il consenso del pubblico sulla manovra espansiva… E’ più di una mera questione di pubbliche relazioni. Le misure volte a restaurare la ripresa funzionano meglio quando ridanno fiducia – come ben capì Franklin D. Roosevelt nel New Deal degli anni trenta. Le sue trasmissioni radiofoniche alla nazione davanti al caminetto (fireside chats) ed il suo discorso d’investitura, dove proclamò che avrebbe combattuto la Grande Depressione con la stessa determinazione che avrebbe adottato per sconfiggere un nemico invasore, miravano a rassicurare gli americani. Ricerca economica recente suggerisce come i programmi del New Deal di fatto potrebbero avere avuto il loro maggiore impatto sull’economia influenzando le aspettative dei consumatori e delle imprese sul futuro corso della crescita e dell’inflazione … e a causa anche del nostro imperfetto modo di comunicare il Recovery Act obamiano ha generato solo una minima ripresa di fiducia. Di conseguenza non ha avuto quell’extra spinta (“kick”) rooseveltiana”.

Christina Romer, Advisor di Obama.

A Berlino e Bruxelles pochi hanno capito che senza fiducia non si può agire sugli aspetti capillari del male che da vent’anni impedisce all’Italia di crescere. Ma senza fatti, anche la fiducia dopo un po’ si erode”.

Federico Fubini, oggi su Repubblica

Il nostro Governo, nelle ultime settimane, ha lanciato una campagna, spesso contradditoria nel messaggio e nella comunicazione, per ottenere maggiore flessibilità nell’interpretazione del Patto di Stabilità. Finora questa campagna non ha portato grandi risultati e potrebbe rivelarsi controproducente

Lucrezia Reichlin, oggi sul Corriere della Sera

Il crescente nervosismo del premier si scarica nel rapporto sempre più teso con le strutture di Via XX Settembre, dove, ritiene, ci sia un manipolo di sabotatori che … mette zeppe al suo piano”.

Francesco Verderami, oggi sul Corriere della Sera

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Questa crisi non se ne va, semplicemente perché non la facciamo andare via. Non la scacciamo perché non sappiamo combattere i suoi fantasmi.

Questa, cari signori, è una crisi da domanda, se lo mettano in testa i riformisti che chiedono non meglio specificate riforme a tutto spiano. I consumi delle famiglie crollano, non si utilizzano addirittura più i risparmi per attutire l’impatto dei minori redditi, così come gli investimenti delle imprese, perché non c’è fiducia nel futuro.

E la fiducia si nutre di ottimismo. E questo a sua volta si esalta con la coerenza e la forza comunicativa di chi ha il bastone del comando, lo sa qualsiasi grande generale. Come insegna il grande operato di Franklin Delano Roosevelt descritto da Christina Romer.

Non c’è forza né coerenza della comunicazione da nessuna parte in Europa. Non ce n’è a Francoforte, dove Draghi sostiene che farà tutto quanto è necessario e in realtà non solo fa molto meno del necessario (l’inflazione dell’area euro è ben al di sotto del 2% previsto dal mandato per la BCE) ma soprattutto condiziona da sempre il suo aiuto a maggiore consolidamento fiscale (austerità) dei Governi dei Paesi in difficoltà; con una mano promettendo l’aiuto, con l’altra promettendo al contempo di toglierlo. Come pensare che le imprese italiane vadano in banca a chiedere un prestito se sanno che l’attività economica non sarà stimolata da maggiore domanda pubblica in assenza di quella privata? Che razza di messaggio di politica economica è questo?

Non c’è poi alcuna forza né coerenza della comunicazione in Europa per definizione, perché la Commissione europea è un branco di tecnici incapaci di parlare alla gente (in fondo non è il loro mestiere) e perché 27 leader politici non possono esprimere un messaggio forte, mediando come fanno le posizioni ampiamente eterogenee di ognuno.

Ma non c’è forza né coerenza, e questa è la novità forse di questi giorni, nella politica economica italiana. Come non rimanere strabiliati di fronte allo sforzo sovrumano (e da molti, come la Reichlin, criticato) del Premier Renzi di cercare di svegliare l’Europa dal suo torpore di ottusa austerità, e le parole solo pochi giorni dopo del suo Ministro più importante, Padoan, che al termine dell’incontro europeo con i suoi colleghi esclama come “consolidamento fiscale (cioè austerità) e riforme sono due facce (positive)  della stessa medaglia”? Non posso pensare che Renzi e Padoan si siano messi d’accordo per fare, il primo, il Buono e, il secondo, il Cattivo. E se lo hanno fatto, beh, ne esce fuori una sola figura: quella del  Brutto, quello che manda un messaggio ambiguo ed incomprensibile, che non fa certo bene alla fiducia ed all’ottimismo di famiglie e imprenditori.

Ma anche Renzi deve decidersi: per influenzare con decisione gli umori del Paese in bene, deve dare una coerenza nella sua politica economica e non limitarsi a parlar male dell’Europa. Gli crederemmo tutti di più, in Europa e qui a casa, se avviasse con determinazione la spending review che trova gli sprechi e che non taglia la spesa pubblica a casaccio. Perché, parliamoci chiaro,  se a settembre con la legge di stabilità taglierà di 20 miliardi la spesa a casaccio, siamo finiti, e lui con noi, ovviamente.

Quello che va fatto è “semplice” e lo ha detto bene Roberto Perotti l’altro giorno sul Sole: fregarsene delle multe minacciate dall’Europa, svelandone il bluff, e rimanere col deficit incollato al 3% del PIL senza portarlo come chiede l’Europa all’1% nel 2016, e avviare, senza tagli folli e lineari ma con grande calma e instancabile precisione, l’individuazione di tutti gli sprechi là dove albergano massimamente, ovvero negli appalti pubblici. Un processo lungo e impegnativo, ma decisivo.

Come usare queste risorse? Perotti propone nella riduzione della tasse, io credo che si debbano fare investimenti pubblici. Renzi potrà fare il giusto mix. A quel punto gli italiani lo seguiranno con convinzione, l’Europa non potrà dire nulla, famiglie ed imprese torneranno a domandare, i mercati ci ridaranno fiducia abbattendo lo spread e, forse, a quel punto, anche Draghi potrà aiutarci come deve, senza se e senza ma.

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Dateci una destra liberale che nella recessione si batte contro l’ottusa austerità

Il mio articolo di prima pagina di oggi su Il Giornale.

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Se qualcuno pensa che l’atmosfera in Europa si stia surriscaldando sul tema degli spazi – specie per l’Italia – per una maggiore flessibilità nel ridurre deficit e debito pubblico, si tenga forte: andiamo incontro ad un autunno caldo, molto caldo. Sarà infatti ad ottobre che nel Parlamento ancora non riformato assisteremo alla discussione della Legge di Stabilità per il 2015. Che in teoria è “già scritta” sulla pietra sulla base delle indicazioni che Renzi e Padoan hanno voluto inserire nel Documento di Economia e Finanza dello scorso aprile e delle raccomandazioni, non tutte positive, che l’Europa gli ha rivolto.

Nel DEF il Governo ha infatti previsto una crescita dell’avanzo primario (tasse meno spese al netto degli interessi) da 2,6% a 3,3% del PIL, 12 miliardi di manovra, più tasse e meno spese. In più l’Europa chiede di aggiungervi altri 8 miliardi circa. Una manovra da 20 miliardi che ucciderà un’economia ansimante ed allo stremo: partita con la magra prospettiva governativa di crescere nel 2014 dello 0,8%, Confindustria oggi aggiorna le stime allo 0,2% e non dovremmo stupirci dunque se a breve ci diranno che per il terzo anno consecutivo la nostra crescita sarà in rosso, negativa.

Vi chiederete: come mai, in un momento in cui in Italia le famiglie riducono i consumi, le imprese non investono e non chiedono prestiti, ci mettiamo a tassarle di più e a ridurre la domanda pubblica di investimenti che costituirebbe la sola fonte di lavoro e prodotto interno lordo? E con la conseguenza addizionale e assurda che il nostro debito pubblico sul PIL invece di scendere, con l’austerità, sale al livello più alto dagli anni trenta?

Semplice. La risposta sta in uno strumento astrusissimo, che se provaste a spiegarlo a Obama o Abe in Giappone vi guarderebbero stralunati, senza capirci nulla: il Fiscal Compact. Che chiede all’Italia di ridurre il deficit (tasse meno spese pubbliche) rapidamente verso lo zero, forzandoci a manovre di austerità in recessione. Ma è un deficit tutto particolare, il cosiddetto deficit strutturale, quello che andrebbe portato in pareggio: che dovrebbe in teoria lasciar spazio per qualche minore aggiustamento nei momenti di difficoltà ma che – peccato! – per come è costruito, tanto più un paese è in difficoltà economica tanto minori sono questi spazi aggiuntivi.

Il Fiscal Compact chiede ai paesi come l’Italia un deficit strutturale dello 0,5% di PIL ma i nostri governanti si sono obbligati a fare ancora di più di quanto previsto dall’Europa, arrivando allo zero. Fare di più è in realtà consentito dalla legge 243 del 2012 proposta dal Governo Monti.  E’ rispetto a questa legge che il Comitato Promotore che presiedo ha identificato e depositato 4 quesiti referendari per lanciare un segnale all’Europa che è venuto il tempo di attivare una strategia volta a far ripartire la domanda interna nel Paese, salvando i più deboli dalla crisi, specie i giovani e le nostre piccole imprese.

Va chiarito che nei quattro quesiti si chiede l’abrogazione di alcune specifiche disposizioni della legge 243 che non sono richieste né dall’Unione europea, né dal Fiscal Compact. Come noto, infatti, il referendum abrogativo non può toccare norme imposte dall’Europa o previste da trattati internazionali. Per questo motivo i quesiti rispettano l’art. 75 della Costituzione che impedisce di abrogare con referendum le leggi di ratifica dei trattati internazionali. E rispettano anche la giurisprudenza della Corte costituzionale che considera inammissibile  il referendum il cui esito impedisca  l’applicazione delle norme europee.

L’associazione che ha ideato i quesiti, I Viaggiatori in Movimento, ha avuto il sostegno di intellettuali di centro, di sinistra e di destra che fanno parte del Comitato. Altrettanto sostegno abbiamo avuto sinora dai movimenti e da responsabili politici della sinistra nonché dalla CGIL. Fatto strano, nessuno del centro destra e della destra si è ancora sbilanciato. Eppure mi sarei aspettato un grande sostegno da queste aree politiche: in fondo le piccole imprese che soffrono sono un loro forte interlocutore e così sono anche i tanti appartenenti alla classe media ed al pubblico impiego che vedono le loro prospettive future rimpicciolirsi sempre più a causa dell’austerità.

Il referendum, le cui firme raccoglieremo fino a fine settembre, è una grande occasione per salvare l’Europa dell’euro, la stabilità finanziaria e soprattutto ridare un senso di direzione, di crescita nella solidarietà, a tutto il Continente. Non si capisce perché questa non sia una sfida che tutta la politica italiana possa far sua.

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Come si uccidono le PMI, European style.

Che la goccia scavi la pietra… lo sapete quanto ci creda. Leggere la relazione Banca d’Italia di Paolo Sestito sulla riforma degli appalti pubblici è stata al 90% grande gioia, tutta focalizzata com’era sul problema essenziale da risolvere, quello della professionalizzazione delle stazioni appaltanti.

Stazioni appaltanti da ridurre in numero, senza dubbio, ma quanto? E quanto centralizzare gli acquisti pubblici nelle mani di poche organizzazioni? Una domanda a cui è difficile rispondere, e certamente non con la sicurezza che mostra Sestito nel suo appunto, in cui si sostiene che “la concentrazione degli acquisti non necessariamente limita la partecipazione delle PMI e di nuove imprese, che spesso sono – al contrario – ostacolate proprio dalla presenza di una struttura degli acquisti frammentata, poco standardizzata e opaca. A presidio della partecipazione al mercato di nuovi soggetti, in primis PMI e imprese innovative,  possono inoltre operare specifici meccanismi che promuovano la predisposizione di progetti innovativi, così da facilitare l’emergere di nuovi soggetti imprenditoriali. La Commissione europea già da tempo enfatizza il perseguimenti di tali finalità, in particolare attraverso lo strumento dell’appalto pre-commerciale”.

Ovvero: “PMI tranquille, più centralizzazione non può che farvi bene”. Più realista del re, la Banca d’Italia, che dimentica come le stessa nuova Direttiva, nel raccomandare la centralizzazione, ne ricorda i pericoli impliciti per le PMI, che vanno gestiti.

Tanto più che la situazione in Europa negli appalti pubblici è disastrosa per le PMI. Un recente rapporto della PricewaterHouseCoopers per la Commissione europea.

Ecco i dati, che parlano da soli: se oggi le grandi imprese contribuiscono al 42% del PIL dell’area europea, nella parte della domanda pubblica occupano il … 71%, 30% in più, mera discriminazione! Se le medie imprese sono quasi equamente rappresentate negli appalti pubblici (il 15% contro il 18% dell’economia complessiva) le cose si mettono male per le piccole imprese (il 9% contro di nuovo il 18%) a cui il mercato pubblico sembra ampiamente chiuso. Ma le cose divengono drammatiche per le micro imprese, che producono più di un quinto del PIL dell’Europa, e vincono 1/25 delle commesse pubbliche.

Devastante vero? Discriminazione pura, a cui negli Stati Uniti si cerca di rimediare riservando gare per le sole PMI, mentre in Europa si fanno spallucce.

Anche in Italia si fanno spallucce, mentre nel Regno Unito con la stessa normativa si cerca almeno di adottare obiettivi di target per le PMI negli appalti. In Italia no: è passata nel silenzio totale la mancata presentazione delle legge per le PMI che il Governo Renzi doveva adottare entro il 30 giugno e che certamente avrebbe potuto contenere sostegno per loro negli appalti pubblici.

E sì che l’Italia ne ha bisogno in una crisi come questa di aiutare le sue PMI (così tante!) con maggiore domanda pubblica a loro diretta visto che sono proprio loro a vedersi: a) ridotta la spesa pubblica per opere infrastrutturali minori  su cui sopravvivono; b) ridotto il credito per mancanza di fiducia da parte delle banche e c) incapaci di sopravvivere come le grandi imprese grazie all’export, unica fonte generatrice di domanda inq eusta ottusa crisi.

Eppure i dati PWC sono chiarissimi al riguardo. Se la discriminazione verso le PMI negli appalti pubblici media in Europa è del 30%  in Italia (freccia rossa) è del … 47%! Peggio di noi solo Grecia e Portogallo: nessuno come noi dunque fa vincere così tanto di più le grandi rispetto alle piccole imprese.

La colpa? Certamente la dimensione dei lotti non aiuta: ed in effetti l’Italia è tra i Paesi con la dimensione dei lotti maggiore e l’aggiudicazione alle PMI minori, come mostra il grafico sotto (freccia verde).

 

E il rapporto è chiarissimo nell’inividuare quali sono le vere difficoltà per le PMI negli appalti: “gli acquisti centralizzati hanno un effetto considerevolmente negativo per l’accesso delle PMI”.

Banca d’Italia sbaglia, e alla grande, se pensa che lo strumento di appalti pre-commerciali per prototipi innovativi sia la svolta per le PMI: questo tipo di appalti ha una rilevanza minima. E sbaglia una seconda volta nel pensare che possiamo centralizzare di più senza al contempo capire come gestire il “problema” delle PMI, ovvero le coneseguenze nefaste che potremmo avere procedendo su di una spending review senza pensare all’impatto negativo di questa sulla loro partecipazione alle gare pubbliche e, ancora più importante, alla loro probabilità di vittoria che si riduce.

Negli Stati Uniti, in Brasile, in Sud Africa, in Messico, in Cina ed in India, non paesi minuscoli, l’hanno capito: bisogna proteggere le PMI nel solo modo possibile, riservando esclusivamente a loro quote d’appalti perché gareggiare con le grandi equivarrebbe a far correre un bravo corridore di 14 anni i 100 metri con Usain Bolt: perderebbe sempre. Poi si può discutere per quanto tempo, per quale quota e come. Ma intanto lo si faccia.

Lo deve fare in primis un Paese come l’Italia che ha nelle PMI il suo gioiello industriale e che in questo momento di recessione le vede in enorme difficoltà.

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Sulla nomina del nuovo Presidente Istat

Conosco, ma non molto bene, Giorgio Alleva, nuovo presidente incaricato, sotto conferma, dell’ISTAT. Sono stato ricercatore universitario nella Facoltà di Economia dell’Università di Roma La Sapienza quando lui ne era Professore Associato di statistica.

E’ sorta una polemica da parte di alcuni miei valenti e bravi colleghi, economisti e statistici, che hanno lanciato con un appello a Renzi sulla “qualità” della persona di Giorgio Alleva, valutando come scarse le sue “qualità” per essere a capo dell’Istituto Nazionale di Statistica, sulla base dello scarso numero di “citazioni dei suoi lavori” e sulla “qualità delle riviste” dove ha pubblicato i suoi lavori.

Un curriculum “decisamente modesto” guardando su Google Scholar, si legge nell’appello. Dubbi emergono allora sulla sua capacità di gestire un ente come l’Istat. Ci si chiede se ci siano altri criteri che compensino queste scarse pubblicazioni, altrimenti perché non rinunciare al criterio di richiedere che il Presidente dell’Istat sia scelto tra i professori? Addirittura, si dice nell’appello, la reputazione internazionale dell’Italia è messa in difficoltà dalla scelta di Renzi e la fuga di cervelli è ritenuto che aumenterà.

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Ricordo bene cosa si diceva tra studenti e colleghi alla Sapienza di Giorgio Alleva, pur io non frequentandolo. Che era di gran lunga tra i migliori professori che avevamo. Che gli studenti che frequentavano, in tantissimi, le sue lezioni di Statistica sui banchi della Sapienza ne uscivano eccitati, felici, più interessati alla materia. Era bravissimo.

Il numero di citazioni su Google Scholar non è condizione né necessaria né sufficiente per giudicare un Presidente dell’Istat. Non è necessaria perché quello che “è un professore” di statistica, è un insieme complesso di caratteristiche che non può essere riassunto in un numero.

Non è sufficiente nemmeno. Oggi ormai molti docenti che hanno un impact factor alto (non tutti!) si rifiutano di andare in aula al primo anno ad insegnare alle masse di ragazzi che affollano i banchi, e preferiscono cimentarsi con i più comodi corsi piccolini di lauree magistrali e di dottorato. Non fanno più esami orali, ma solo scritti e ritengono di avere fatto il loro dovere (può darsi). Quando insegnano, alcuni di loro sono incapaci di affascinare, emozionare, trasmettere competenze agli studenti, che sono le cose che la maggior parte delle persone dietro al banco ricorderanno venti anni dopo quando inseriti nel mondo lavorativo. Diranno secondo voi “ti ricordi quante pubblicazioni aveva Tizio” che ci insegnava Statistica o diranno “ti ricordi quanto era bravo ad insegnare Caio”? Scommetto la seconda.

Sono doti “soft”, quelle legate alla bravura ad insegnare, difficili da misurare in un Curriculum o su Google Scholar, ma essenziali anche per gestire un’organizzazione complessa, spesso più del numero di citazioni. Se sai insegnare bene, se ti dedichi agli studenti, sono più alte le probabilità che ti dedicherai con serietà e senza altezzosità al lavoro difficile di gestire una organizzazione complessa come l’Istat, dove le doti umane sono fondamentali per riuscire nel mestiere. Sono doti che presumono comunque una competenza “minima” del campo specifico assai elevata, che a volte 30 pubblicazioni internazionali sullo stesso tema non garantiscono.

Alleva è stato scelto, voglio pensare, anche perché tutti (o quasi) conoscono la sua bravura e serietà di docente, caratteristiche che non hanno nessun ruolo nella lettera dei miei colleghi ma che sono fondamentali per un Presidente Istat. Come si misurano questa caratteristiche? Si conoscono, sono nell’aria, basta chiedere, si chiama reputazione, passeggiando per i corridoi della Sapienza. E un Presidente del Consiglio che si rispetti ha il dovere di indagare al riguardo non limitandosi a leggere il Curriculum Vitae o ad andare su Google Scholar. E scegliere poi tra i tanti nomi eccellenti che, come in questo caso, ha ricevuto.

Non è detto che Giorgio Alleva farà bene all’Istat, ma le chance sono molto alte. E’ comunque solo a quel punto, dopo che avrà lavorato per qualche anno, che potremo giudicare sull’impatto che la sua nomina avrà avuto sulla reputazione internazionale del Paese e sulla fuga di cervelli susseguente alla scelta di un candidato potenzialmente eccellente per questo ruolo.

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Le 5 battaglie che Renzi deve fare sugli appalti pubblici

Il testo della mia audizione sulla riforma degli appalti pubblici presso la VIII Commissione Ambiente della Camera dei Deputati, nella giornata di lunedì 16 giugno.

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Sono onorato per la possibilità di essere audito da questa Commissione sulla revisione della normativa degli appalti pubblici.

La mia competenza specifica risale all’epoca della Presidenza della Consip SpA e della successiva scelta di dedicare gran parte della mia attività scientifica al tema degli appalti pubblici in quanto macro e micro economista. Sono da svariati anni direttore di uno dei Master di maggiore reputazione internazionale sul Procurement Pubblico, presso l’Università di Roma Tor Vergata, in versione italiana ed inglese. Il Master si regge su di un approccio al contempo interdisciplinare (è offerto dalle Facoltà di Economia, Giurisprudenza ed Ingegneria) e intersettoriale (è indirizzato a settore civile della Pubblica Amministrazione, difesa, privato) nella convinzione che molte delle best practice degli acquisti privati si possano importare ne settore pubblico. Presso l’Università di Roma Tor Vergata si è stabilito un centro di ricerca, Proxenter, che raggruppa i migliori ricercatori italiani ed europei provenienti dalle diverse discipline, sul tema degli acquisti e degli appalti.

Mi perdonerete se prenderò spunto da questa importante opportunità di relazionarvi e dal poco tempo che ho ricevuto in anticipo non tanto per cercare di stimolare la vostra attenzione sui nuovi spunti offerti dalla direttiva or ora approvata dal Parlamento europeo (tra i quali spiccano certamente i temi importanti della sostenibilità, degli aspetti elettronici, delle Pmi, delle riduzioni degli oneri amministrativi)  quanto per darvi un rapidissimo quadro di insieme di quali sono a mio avviso da almeno un decennio le grandi sfide irrisolte che spetta al legislatore affrontare se effettivamente ritiene di dare un contributo decisivo alla crescita economica ed allo sviluppo sostenibile  Paese e se effettivamente non vogliamo ritrovarci qui di nuovo tra qualche anno a chiederci come mai la nuova Direttiva non ha garantito certi risultati.

Sulla direttiva auspico solo 2 cose: un recepimento rapido (come intende fare ad esempio il Regno Unito) e senza commissioni di esperti fatte solo da giuristi, un male tutto italiano che si ripete con regolarità.

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Nell’avviare la mia discussione ritengo decisivo ricordare che se il Paese spende più del 15% del suo PIL negli appalti pubblici (dati Commissione europea), non vi è questione più rilevante al momento che deve attrarre il dibattito all’interno di un Paese in crisi economica e con la necessità di trovare fonti di finanziamento per sostenere la domanda interna con investimenti pubblici.

Quindi mi si consenta di partire da una domanda alta: qual è l’obiettivo che si deve porre una buona normativa degli appalti? Siccome le risposte che si danno nei paesi più avanzati sono purtroppo spesso assenti dal dibattito italiano ritengo, mi ripeto, che sia mio compito affrontare oggi con voi queste questioni piuttosto che altre.

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Una buona normativa sugli appalti deve assicurarsi che contribuisca il più possibile a far sì che sì acquisti la cosa giusta dalle persone giuste.

Questo vale sia al livello alto della politica degli appalti (la cosa giusta: appalti verdi, quanto verdi/appalti innovativi, quanto innovativi; da chi: dalle PMI/quanto dalle PMI, da attori sociali deboli/quanto da loro) che a livello dell’operatività quotidiana della stazione appaltante (la cosa giusta: capitolati non influenzati da corruzione/incompetenza, con beni o servizi o lavori la cui qualità finale rifletta quella richiesta  dai buoni capitolati; da chi: non influenzata da corruzione/incompetenza ed in cui chi ha fatto bene in passato sia premiato).

L’efficacia delle decisioni che verranno prese in tal senso, e creare un contesto che la faciliti, è dirimente. E tuttavia “la cosa giusta dalle persone giuste” dipende anche dal costo delle diverse opzioni. Non vi è efficacia senza efficienza. A livello politico: quanto costoso è il verde? E la predilezione per le PMI? A livello operativo: quanta competenza e quanta organizzazione richiede ogni scelta e dunque quanti costi questa comporterà? Anche di questi aspetti è essenziale tener conto nel prendere le decisioni.

Tutto questo quadro di riferimento richiede delle grandi battaglie. Vi vado a descrivere le più rilevanti.

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La prima battaglia: quella delle competenze. Diciamo spesso che abbiamo pochi dati disponibili sul procurement pubblico. In realtà non è vero: il notissimo lavoro di Bandiera, Prat e Valletti sull’American Economic Review utilizza dati, quelli MEF-Istat sugli appalti pubblici di beni e servizi, che la politica economica invece non utilizza (chiediamoci perché) e che invece sarebbero utilissimi per segnalare potenziali situazioni patologiche o inefficienti. Cosa scoprono i tre autori?

Che ogni giorno lo stesso bene o servizio viene acquistato a prezzi diversi, e che la somma di questi sprechi (che rappresenta uno stima minima in quanto non comprende né gli sprechi di quantità ma solo di prezzi né gli  sprechi nei lavori pubblici) ammonta a circa il 2% di PIL. E che, soprattutto, l’80% di questi non è dovuto a corruzione ma ad incompetenza. Risultato che ci deve rendere felici, perché l’incompetenza sarebbe più facile da combattere che non la corruzione, ma non illudere: incompetenza e corruzione si sostengono a vicenda, lo sappiamo. Ma anche, ed ecco il risultato importante, muoiono insieme: se ti batti per le competenze, se le riconosci e le esalti e le premi, non esiste più vantaggio per atti corrotti. Ecco perché dobbiamo batterci per una carriera professionale del buyer pubblico, ben remunerata come per un magistrato o un diplomatico, dove vengano formati, con competenze interdisciplinari, le future classi dirigenti degli acquisti pubblici. Nel Regno Unito questo dibattito è stato avviato 15 anni fa e i risultati si vedono a seguito delle riforme effettuate. Dobbiamo muoverci rapidamente verso una certificazione obbligatoria con un network di certificatori, come le università, che certo non ci mancano.

La seconda battaglia: riorganizzare la governance degli appalti

Non c’è competenza che possa servire al Paese se non inserita all’interno di una riorganizzazione complessiva delle istituzioni dedicate agli acquisti. E che sia chiaro: la razionalizzazione delle stazioni appaltanti e del loro numero è solo una condizione necessaria ma non sufficiente per una buona politica degli appalti. Peraltro questa, come avrò modo di sostenere, diventa condizione necessaria solo se dovuta attenzione sarà data alla questione delle PMI.

Ci vuole competenza, nelle stazioni appaltanti, come abbiamo detto. Raccolta attorno a remunerazione, premi, incoraggiamenti, carriera, per il raggiungimento di risultati. Ma quali risultati?

Anche qui l’esperienza internazionale ci aiuta nuovamente. Ci vuole un Piano Nazionale che determini per ognuna delle rimanenti stazioni appaltanti obiettivi a, diciamo, tre anni. Partiamo facilitati dal fato che è  più semplice nel campo degli appalti misurare i risultati che nei rimanenti settori della pubblica amministrazione: tempi di aggiudicazione, tempi di completamento dell’opera, riduzione contenzioso, risparmi di  prezzi, raggiungimento di qualità sono indicatori oggettivi che permettono di misurare e premiare il miglioramento in tutto il mondo.

Per avere obiettivi oggettivamente raggiungibili bisogna avere dati. E’ necessario dunque uno sforzo enorme per la raccolta in tempo reale dei dati, non con gli enormi ritardi odierni. Dati, a mio avviso, da non dare al pubblico, da non usare per paragoni tra stazioni appaltanti, ma solo per migliorarsi al proprio interno.

 

Terza battaglia: i cartelli negli appalti pubblici

Lo spreco di 2% di PIL è in larga parte dovuto alla pervasiva presenza di cartelli negli appalti. Come per l’incompetenza, i cartelli vanno a braccetto con la corruzione (e, aggiungiamo, alla Mafia). La corruzione è facilitata dall’esistenza di cartelli: essa prospera grazie alle maggiori rendite dei secondi; inoltre la minore probabilità che qualcuno denunci il dipendente corrotto la rende meno rischiosa.   La collusione è facilitata dalla corruzione: la defezione all’interno del cartello diviene praticamente impossibile e i cartelli, grazie alla distorsione dei capitolati a loro favore, diventano ancora più profittevoli a scapito di quanto fornito ai cittadini.

I cartelli e la corruzione finiscono per danneggiare inoltre le PMI, come il recente caso in Expo 2015, rivelato dalle lamentele dei responsabili Ance, dimostra.

Come si combattono i cartelli e con loro la corruzione e la Mafia? Semplice, non lasciando il compito alla singola stazione appaltante. Che non vede (come fa la stazione appaltante di Firenze a vedere un accordo di spartizione del mercato tra Firenze e Bari?) e non vuole vedere, visto che il suo compito è quello di assicurare la fornitura di beni e servizi ed è riluttante a esternare i propri dubbi sull’esistenza di un cartello se questo poi implica l’arresto della fornitura.

Lo si fa dando risorse e un mandato chiarissimo all’AGCM, l’autorità antitrust che fino ad oggi ha un “record” deprimente: 22 istruttorie aperte in 22 anni. Lo stesso vale per la DIA.

Quarta battaglia: l’emergenza PMI

La riduzione delle stazioni appaltanti non va confuse con un grado eccessivo di centralizzazione. I costi di quest’ultima si misurano nel tempo con una riduzione del tessuto industriale del Paese ed una minore partecipazione alle gare pubbliche.

Per capire quanto già le PMI siano penalizzate negli appalti pubblici basta ricordare un dato citato dalla Commissione europea: “quanto a valore stimato ed aggiudicato, le PMI sono tra il 31% ed il 38% degli appalti pubblici mentre la loro quota nel totale dell’economia si aggira attorno al 52%”. Mentre negli Stati Uniti si reagisce a ciò riservando, in nome della concorrenza, quasi un quarto degli appalti pubblici, in Europa ci si ostina a credere che con micro cambiamenti si possa venire incontro a quella che è una evidente e forte discriminazione. La nuova Direttiva pensa di rimediare a ciò facilitando la politica dei lotti, senza pensare che questi saranno sempre troppo grandi per le piccole e comunque finiranno per aiutare le grandi a … cartellarsi.

Ma c’è speranza. Il recente annuncio del Regno Unito di voler raggiungere l’obiettivo del 23% per le PMI (anche se non vincolante) conferma che anche all’interno della Direttiva europea un paese voglioso di venire incontro alle esigenze delle piccole può farlo.

La centralizzazione all’interno della spending review deve essere dunque pensata avendo in mente che maggiore questa diventa più ampio è il danno per il tessuto industriale del nostro Paese: è necessario dunque trovare con attenzione e conoscenza il livello ottimale di quante stazioni appaltanti coordinare.

Un ultimo punto

Tutto quanto ho detto sopra significa una sola cosa: c’è bisogno di una governance politica complessiva degli appalti pubblici. Una cabina di regia, un Ministero per la Qualità della Spesa. Che stabilisca gli assi portanti della politica di cosa comprare da chi. Che stabilisca come organizzare e come rendere competenti le persone che lavorano nelle stazioni appaltanti. Che possa avere accesso ai dati in tempo reale di chi spende cosa quanto, su cosa, dove in tempo reale. Che determini il Piano Nazionale degli Appalti Pubblici con obiettivi e premi per ogni stazione appaltante.

La scelta recente del Governo Renzi di fondere ANAC e AVCP è un esempio tipico di scelta di governance; è qualcosa che richiedo da tempo, sia per la scarsa numerosità della prima – l’ANAC – sia per la necessità per l’ANAC di avere dati sugli appalti. Una decisione che mi pare andare casualmente nella giusta direzione. Dico casualmente perché sembra far parte di una processo estemporaneo ed emergenziale di valutazione  piuttosto che figlio di un’opera di riorganizzazione complessiva. Ma non è solo questione di Anac e Avcp. Coinvolge l’ AGCM, la DIA, l’unità della spending review, il Ministero dell’Industria per le PMI: unità che devono essere strettamente coordinate attorno ad un centro decisionale.

Saprà il Governo comprendere la dimensione della sfida e la sua importanza? Capire l’enorme livello di risorse che essa mette potenzialmente a disposizione del Paese per evitare tagli lineari ed al contempo finanziare, senza maggiore debito pubblico, investimenti pubblici essenziali per la ripresa?

Lo spero vivamente. Grazie.

Post Format

Ecco il pilota automatico del Fiscal Compact che ci fa schiantare sulla montagna

Il Consiglio europeo ha comunicato l’altro ieri all’Italia le proprie valutazioni sulla nostra politica economica dei prossimi anni, soprattutto per il 2014 e 2015. Malgrado il clima ancora di “vacanza” in attesa delle nuove nomine europee (il cui esito ogni giorno che passa è sempre più  vicino alla conferma di personaggi mediocri che non segnano nessuna discontinuità con il passato), il messaggio che arriva dall’Europa è assai netto: non che capiamo molto di quello che ci avete proposto, ma voi dovete capire bene quello che vi diciamo noi, una volte per tutte.

Mentre la stampa italiana fa finta di nulla (addirittura il Corriere della Sera non ha dedicato nemmeno un rigo alle decisioni del Consiglio né ieri né oggi), facciamo un po’ di chiarezza su dove stiamo andando a sbattere nel nostro volo europeo e perché: contro una montagna, senza nessun dubbio, a meno di radicali cambiamenti alla guida dell’aereo.

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Il Consiglio europeo, nel giudicare i conti italiani, paragona le proposte programmatiche del Governo italiano per il periodo 2014-2018 (DEF) alle stime per il 2014-2015 dalla Commissione europea, nelle sue previsioni dell’ultimo maggio. Dal che fa emergere come:

a)   Il deficit strutturale italiano nel 2014 sarebbe dello 0,8% del PIL anziché dello 0,6% del PIL previsto dal Governo (sforamento di 0,2% di PIL);

b)   Il deficit strutturale italiano nel 2015 sarebbe dello 0,7% di PIL anziché dello 0,1% previsto dal Governo e dello 0 richiesto dal Consiglio europeo (sforamento di 0,7% di PIL);

c)    la regola della riduzione minima del debito pubblico sul PIL per il 2014 e 2015, invocata dal Consiglio europeo ai sensi del rispetto del Fiscal Compact, non sarebbe inoltre rispettata in assenza degli aggiustamenti degli sforamenti di cui ai punti a ) e b) e di un piano di privatizzazioni definito “ambizioso” (e comunque strutturato sul periodo 2014-2017) .

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Come risponde il Governo italiano a queste critiche? Non è dato esattamente sapere, e non solo a me: anche il Consiglio europeo richiede più chiarezza nei documenti ufficiali sulle manovre proposte.

E’ probabile comunque che Renzi e Padoan abbiano negoziato una “chiusura degli occhi” rispetto allo sforamento di 0,2% di PIL (circa 3 miliardi di euro) nel 2014 di deficit strutturale, ma non possiamo escludere una qualche sorpresa extra nell’autunno. Mentre per il 2015, allacciatevi la cintura: oltre agli 0,2% di PIL del 2014 rinviati, la manovra autunnale, che già incorpora una correzione di 0,4% di PIL, per passare dallo 0.7% di PIL stimato dalla Commissione allo 0 richiesto avrà bisogno di un altro 0,3% di PIL. Quindi 0.3% mancante più 0,2% trascinato dal 2014 fa 0,5% di PIL, circa 8 miliardi di euro da trovare per il 2015.

Ma che sia chiaro, 8 miliardi che si aggiungono a quanto già previsto dal Governo, che inserisce, nel suo piano per il 2015, una crescita dell’avanzo primario da 2,6% a 3,3% del PIL, sì, altri 0,7% di PIL, altri 12 miliardi, di manovra.

Una manovra quindi di 12+8, ossia 20 miliardi di euro da approvare in autunno di maggiori tasse e minori spese applicata su di un paziente già sfinito da mancanza di domanda interna, consumi ed investimenti, privati o pubblici che siano. E se aggiungete a queste cifre i soldi da trovare per il rinnovo degli 80 euro, ecco magicamente apparire l’esigenza di trovare circa altri 10 miliardi di maggiori tasse o minori spese!

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Conclusione? Senza eccessive drammatizzazioni: il PIL 2015 è destinato a crollare sotto manovre di questo tipo, e con essa l’Italia e con essa l’Europa. L’alternativa apparentemente a disposizione, quella di chi dice che alla fine tutto verrà risolto a tarallucci e vino, non pare migliore. Se infatti queste cifre richieste dall’Europa non fossero realistiche (e tutti lo verrebbero a sapere, statene certi), allora scordatevi che questa Europa basata sulla menzogna ed il quieto galleggiare possa avere più di 4-5 anni di vita: niente PIL e zero credibilità sono un cocktail micidiale per qualsiasi investitore che volesse prezzare il rischio Europa. Lo spread reale, che tiene conto della deflazione in arrivo, è già ai massimi: il collasso è vicino. Quanto vicino? Un anno? Dieci? Per i tempi di cui necessita una unione di diversi a formarsi (gli Usa vi misero quasi un secolo e  mezzo), un nonnulla comunque.

Come, direte, uno veloce come Renzi, non riuscirà a fare le riforme che servono a far ripartire l’Italia? Io non so se le riforme che sta studiando il nostro premier sono veramente quelle di cui il Paese ha bisogno, ma so per certo una cosa: anche Usain Bolt, trattenuto da un gigantesco elastico, non va da nessuna parte e perde la gara.

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C’è un altro modo di vedere il Fiscal Compact, oltre che nella forma di un gigantesco elastico: immaginatelo come un pilota automatico, assolutamente funzionante ed a regime, sull’aereo che ci conduce verso il futuro. Peccato che la turbolenza della recessione sopraggiunta sta facendo schiantare l’aereo sulla montagna che volevamo scavalcare con il motore possente dell’euro, capace di potarci lontano. Ma nessun motore potente va alcunché senza una strategia di volo intelligente. Che in questo momento richiederebbe che il pilota prendesse il comando del volo, disinserendo il pilota automatico.  Il referendum che sosteniamo contro l’applicazione meccanicistica della politica fiscale va esattamente in questa direzione: da luglio saremo in tutte le città italiane, sosteneteci con la vostra firma.

Ma che sia chiara una cosa: levare il pilota automatico è condizione necessaria ma non sufficiente per riprendere in mano l’aereo. Ci vuole un pilota competente ed abile, che sappia fare le politiche giuste e le riforme appropriate. Chi legge questo blog sa bene quali queste siano per lo scrivente e come e quanto differiscano da quelle suggerite dai vari partiti e movimenti attualmente in Parlamento.

Un deficit che invece di scendere da 2,6 a 0,9 di PIL dal 2014 al 2016 si mantenesse costante al 2,6% – rispettando la regola del Trattato di non superare il 3% di PIL – permetterebbe di avere circa 28 miliardi aggiuntivi da usare per generare vera domanda interna, portando gli investimenti pubblici, che Renzi e Padoan vogliono schiacciare al loro minimo storico dell’1,4% di PIL, fino al 3% come sono stati negli anni Ottanta. Questo permetterebbe di ammorbidire l’impatto recessivo della minore spesa pubblica ed avere il tempo di tarare bene i tagli di spesa in modo tale che non siano lineari ma veri tagli di sprechi.