Il testo della mia audizione sulla riforma degli appalti pubblici presso la VIII Commissione Ambiente della Camera dei Deputati, nella giornata di lunedì 16 giugno.
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Sono onorato per la possibilità di essere audito da questa Commissione sulla revisione della normativa degli appalti pubblici.
La mia competenza specifica risale all’epoca della Presidenza della Consip SpA e della successiva scelta di dedicare gran parte della mia attività scientifica al tema degli appalti pubblici in quanto macro e micro economista. Sono da svariati anni direttore di uno dei Master di maggiore reputazione internazionale sul Procurement Pubblico, presso l’Università di Roma Tor Vergata, in versione italiana ed inglese. Il Master si regge su di un approccio al contempo interdisciplinare (è offerto dalle Facoltà di Economia, Giurisprudenza ed Ingegneria) e intersettoriale (è indirizzato a settore civile della Pubblica Amministrazione, difesa, privato) nella convinzione che molte delle best practice degli acquisti privati si possano importare ne settore pubblico. Presso l’Università di Roma Tor Vergata si è stabilito un centro di ricerca, Proxenter, che raggruppa i migliori ricercatori italiani ed europei provenienti dalle diverse discipline, sul tema degli acquisti e degli appalti.
Mi perdonerete se prenderò spunto da questa importante opportunità di relazionarvi e dal poco tempo che ho ricevuto in anticipo non tanto per cercare di stimolare la vostra attenzione sui nuovi spunti offerti dalla direttiva or ora approvata dal Parlamento europeo (tra i quali spiccano certamente i temi importanti della sostenibilità, degli aspetti elettronici, delle Pmi, delle riduzioni degli oneri amministrativi) quanto per darvi un rapidissimo quadro di insieme di quali sono a mio avviso da almeno un decennio le grandi sfide irrisolte che spetta al legislatore affrontare se effettivamente ritiene di dare un contributo decisivo alla crescita economica ed allo sviluppo sostenibile Paese e se effettivamente non vogliamo ritrovarci qui di nuovo tra qualche anno a chiederci come mai la nuova Direttiva non ha garantito certi risultati.
Sulla direttiva auspico solo 2 cose: un recepimento rapido (come intende fare ad esempio il Regno Unito) e senza commissioni di esperti fatte solo da giuristi, un male tutto italiano che si ripete con regolarità.
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Nell’avviare la mia discussione ritengo decisivo ricordare che se il Paese spende più del 15% del suo PIL negli appalti pubblici (dati Commissione europea), non vi è questione più rilevante al momento che deve attrarre il dibattito all’interno di un Paese in crisi economica e con la necessità di trovare fonti di finanziamento per sostenere la domanda interna con investimenti pubblici.
Quindi mi si consenta di partire da una domanda alta: qual è l’obiettivo che si deve porre una buona normativa degli appalti? Siccome le risposte che si danno nei paesi più avanzati sono purtroppo spesso assenti dal dibattito italiano ritengo, mi ripeto, che sia mio compito affrontare oggi con voi queste questioni piuttosto che altre.
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Una buona normativa sugli appalti deve assicurarsi che contribuisca il più possibile a far sì che sì acquisti la cosa giusta dalle persone giuste.
Questo vale sia al livello alto della politica degli appalti (la cosa giusta: appalti verdi, quanto verdi/appalti innovativi, quanto innovativi; da chi: dalle PMI/quanto dalle PMI, da attori sociali deboli/quanto da loro) che a livello dell’operatività quotidiana della stazione appaltante (la cosa giusta: capitolati non influenzati da corruzione/incompetenza, con beni o servizi o lavori la cui qualità finale rifletta quella richiesta dai buoni capitolati; da chi: non influenzata da corruzione/incompetenza ed in cui chi ha fatto bene in passato sia premiato).
L’efficacia delle decisioni che verranno prese in tal senso, e creare un contesto che la faciliti, è dirimente. E tuttavia “la cosa giusta dalle persone giuste” dipende anche dal costo delle diverse opzioni. Non vi è efficacia senza efficienza. A livello politico: quanto costoso è il verde? E la predilezione per le PMI? A livello operativo: quanta competenza e quanta organizzazione richiede ogni scelta e dunque quanti costi questa comporterà? Anche di questi aspetti è essenziale tener conto nel prendere le decisioni.
Tutto questo quadro di riferimento richiede delle grandi battaglie. Vi vado a descrivere le più rilevanti.
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La prima battaglia: quella delle competenze. Diciamo spesso che abbiamo pochi dati disponibili sul procurement pubblico. In realtà non è vero: il notissimo lavoro di Bandiera, Prat e Valletti sull’American Economic Review utilizza dati, quelli MEF-Istat sugli appalti pubblici di beni e servizi, che la politica economica invece non utilizza (chiediamoci perché) e che invece sarebbero utilissimi per segnalare potenziali situazioni patologiche o inefficienti. Cosa scoprono i tre autori?
Che ogni giorno lo stesso bene o servizio viene acquistato a prezzi diversi, e che la somma di questi sprechi (che rappresenta uno stima minima in quanto non comprende né gli sprechi di quantità ma solo di prezzi né gli sprechi nei lavori pubblici) ammonta a circa il 2% di PIL. E che, soprattutto, l’80% di questi non è dovuto a corruzione ma ad incompetenza. Risultato che ci deve rendere felici, perché l’incompetenza sarebbe più facile da combattere che non la corruzione, ma non illudere: incompetenza e corruzione si sostengono a vicenda, lo sappiamo. Ma anche, ed ecco il risultato importante, muoiono insieme: se ti batti per le competenze, se le riconosci e le esalti e le premi, non esiste più vantaggio per atti corrotti. Ecco perché dobbiamo batterci per una carriera professionale del buyer pubblico, ben remunerata come per un magistrato o un diplomatico, dove vengano formati, con competenze interdisciplinari, le future classi dirigenti degli acquisti pubblici. Nel Regno Unito questo dibattito è stato avviato 15 anni fa e i risultati si vedono a seguito delle riforme effettuate. Dobbiamo muoverci rapidamente verso una certificazione obbligatoria con un network di certificatori, come le università, che certo non ci mancano.
La seconda battaglia: riorganizzare la governance degli appalti
Non c’è competenza che possa servire al Paese se non inserita all’interno di una riorganizzazione complessiva delle istituzioni dedicate agli acquisti. E che sia chiaro: la razionalizzazione delle stazioni appaltanti e del loro numero è solo una condizione necessaria ma non sufficiente per una buona politica degli appalti. Peraltro questa, come avrò modo di sostenere, diventa condizione necessaria solo se dovuta attenzione sarà data alla questione delle PMI.
Ci vuole competenza, nelle stazioni appaltanti, come abbiamo detto. Raccolta attorno a remunerazione, premi, incoraggiamenti, carriera, per il raggiungimento di risultati. Ma quali risultati?
Anche qui l’esperienza internazionale ci aiuta nuovamente. Ci vuole un Piano Nazionale che determini per ognuna delle rimanenti stazioni appaltanti obiettivi a, diciamo, tre anni. Partiamo facilitati dal fato che è più semplice nel campo degli appalti misurare i risultati che nei rimanenti settori della pubblica amministrazione: tempi di aggiudicazione, tempi di completamento dell’opera, riduzione contenzioso, risparmi di prezzi, raggiungimento di qualità sono indicatori oggettivi che permettono di misurare e premiare il miglioramento in tutto il mondo.
Per avere obiettivi oggettivamente raggiungibili bisogna avere dati. E’ necessario dunque uno sforzo enorme per la raccolta in tempo reale dei dati, non con gli enormi ritardi odierni. Dati, a mio avviso, da non dare al pubblico, da non usare per paragoni tra stazioni appaltanti, ma solo per migliorarsi al proprio interno.
Terza battaglia: i cartelli negli appalti pubblici
Lo spreco di 2% di PIL è in larga parte dovuto alla pervasiva presenza di cartelli negli appalti. Come per l’incompetenza, i cartelli vanno a braccetto con la corruzione (e, aggiungiamo, alla Mafia). La corruzione è facilitata dall’esistenza di cartelli: essa prospera grazie alle maggiori rendite dei secondi; inoltre la minore probabilità che qualcuno denunci il dipendente corrotto la rende meno rischiosa. La collusione è facilitata dalla corruzione: la defezione all’interno del cartello diviene praticamente impossibile e i cartelli, grazie alla distorsione dei capitolati a loro favore, diventano ancora più profittevoli a scapito di quanto fornito ai cittadini.
I cartelli e la corruzione finiscono per danneggiare inoltre le PMI, come il recente caso in Expo 2015, rivelato dalle lamentele dei responsabili Ance, dimostra.
Come si combattono i cartelli e con loro la corruzione e la Mafia? Semplice, non lasciando il compito alla singola stazione appaltante. Che non vede (come fa la stazione appaltante di Firenze a vedere un accordo di spartizione del mercato tra Firenze e Bari?) e non vuole vedere, visto che il suo compito è quello di assicurare la fornitura di beni e servizi ed è riluttante a esternare i propri dubbi sull’esistenza di un cartello se questo poi implica l’arresto della fornitura.
Lo si fa dando risorse e un mandato chiarissimo all’AGCM, l’autorità antitrust che fino ad oggi ha un “record” deprimente: 22 istruttorie aperte in 22 anni. Lo stesso vale per la DIA.
Quarta battaglia: l’emergenza PMI
La riduzione delle stazioni appaltanti non va confuse con un grado eccessivo di centralizzazione. I costi di quest’ultima si misurano nel tempo con una riduzione del tessuto industriale del Paese ed una minore partecipazione alle gare pubbliche.
Per capire quanto già le PMI siano penalizzate negli appalti pubblici basta ricordare un dato citato dalla Commissione europea: “quanto a valore stimato ed aggiudicato, le PMI sono tra il 31% ed il 38% degli appalti pubblici mentre la loro quota nel totale dell’economia si aggira attorno al 52%”. Mentre negli Stati Uniti si reagisce a ciò riservando, in nome della concorrenza, quasi un quarto degli appalti pubblici, in Europa ci si ostina a credere che con micro cambiamenti si possa venire incontro a quella che è una evidente e forte discriminazione. La nuova Direttiva pensa di rimediare a ciò facilitando la politica dei lotti, senza pensare che questi saranno sempre troppo grandi per le piccole e comunque finiranno per aiutare le grandi a … cartellarsi.
Ma c’è speranza. Il recente annuncio del Regno Unito di voler raggiungere l’obiettivo del 23% per le PMI (anche se non vincolante) conferma che anche all’interno della Direttiva europea un paese voglioso di venire incontro alle esigenze delle piccole può farlo.
La centralizzazione all’interno della spending review deve essere dunque pensata avendo in mente che maggiore questa diventa più ampio è il danno per il tessuto industriale del nostro Paese: è necessario dunque trovare con attenzione e conoscenza il livello ottimale di quante stazioni appaltanti coordinare.
Un ultimo punto
Tutto quanto ho detto sopra significa una sola cosa: c’è bisogno di una governance politica complessiva degli appalti pubblici. Una cabina di regia, un Ministero per la Qualità della Spesa. Che stabilisca gli assi portanti della politica di cosa comprare da chi. Che stabilisca come organizzare e come rendere competenti le persone che lavorano nelle stazioni appaltanti. Che possa avere accesso ai dati in tempo reale di chi spende cosa quanto, su cosa, dove in tempo reale. Che determini il Piano Nazionale degli Appalti Pubblici con obiettivi e premi per ogni stazione appaltante.
La scelta recente del Governo Renzi di fondere ANAC e AVCP è un esempio tipico di scelta di governance; è qualcosa che richiedo da tempo, sia per la scarsa numerosità della prima – l’ANAC – sia per la necessità per l’ANAC di avere dati sugli appalti. Una decisione che mi pare andare casualmente nella giusta direzione. Dico casualmente perché sembra far parte di una processo estemporaneo ed emergenziale di valutazione piuttosto che figlio di un’opera di riorganizzazione complessiva. Ma non è solo questione di Anac e Avcp. Coinvolge l’ AGCM, la DIA, l’unità della spending review, il Ministero dell’Industria per le PMI: unità che devono essere strettamente coordinate attorno ad un centro decisionale.
Saprà il Governo comprendere la dimensione della sfida e la sua importanza? Capire l’enorme livello di risorse che essa mette potenzialmente a disposizione del Paese per evitare tagli lineari ed al contempo finanziare, senza maggiore debito pubblico, investimenti pubblici essenziali per la ripresa?
Lo spero vivamente. Grazie.