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Chi vogliamo che acceda all’università italiana?

A liceo ero uno studente pessimo. Alla Sapienza, con accesso aperto a tutti, fui molto bravo. Chissà se avrei mai superato un test d’accesso all’università. Ne dubito.

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Il Ministro Carrozza ha deciso: niente uso da ora in poi dei voti di scuola nei test universitari. Ora i test rimangono, ma senza peso per i voti di scuola.

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“Da oggi invece per essere ammessi alle facoltà a numero chiuso sarà decisivo esclusivamente l’andamento che si avrà nei 100 minuti di test”. Così Virgilio Falco, portavoce nazionale di StudiCentro, commenta la sua abolizione. “Riteniamo- ha continuato- che sia più rilevante ai fini dell’ammissione avere alle spalle un buon percorso scolastico rispetto al conoscere o meno Dominique Strauss-Kahn, protagonista quest’anno dei test d’ingresso di medicina”.

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Eppure mi chiedo se restringere l’accesso all’Università sia qualcosa di intelligente, voto di scuola o test che sia. Ne dubito.

Tanti studenti che entrano via test abbandonano gli studi dopo uno o due anni. Hanno dunque levato dei posti a qualcun altro, che non è stato ammesso dopo il test d’ingresso.

Chi non è stato ammesso, per un voto a scuola o una performance al test peggiore (o ambedue), avrebbe anch’egli abbandonato gli studi universitari? Qualcuno certamente, ma non credo tutti.

Perché è possibile che alcuni studenti bravi a scuola o ai test non abbiano una delle qualità più utili per completare con successo l’università: la voglia di emergere e la capacità di non mollare che, come sappiamo dai lavori del Nobel Spence, è spesso la vera qualità che cercano nei giovani laureati le imprese. Qualità che potrebbero ben rivelare di avere studenti che oggi non superano il test d’ingresso.

Ecco perché sarebbe ben più utile pensare ad un test di mero orientamento che non impedisca l’accesso a nessuno e piuttosto, come in tantissimi sistemi europei, un passaggio agli anni successivi dell’università condizionato al superamento di tutti gli esami dell’anno precedente con la media del sufficiente (eliminando contemporaneamente il folle trend italiano dei fuori corso ed il potere del singolo docente di bocciare uno studente): cosa a tutt’oggi impossibile in Italia.

Certo, avremmo delle aule dei primi anni un po’ più affollate, ma una minore misallocazione dei talenti e un minore spreco di risorse.

Certo ci si sarebbe una corsa per accedere al primo anno alle migliori università, ma non sovrastimerei questo problema. Le migliori università sono anche quelle che faranno corsi più impegnativi, corsi che scoraggeranno l’accesso di studenti meno bravi che sanno di rischiare di non superare gli esami del primo anno e preferiranno studiare in università meno impegnative.

9 comments

  1. Enrico Giacomazzi

    13/09/2013 @ 22:27

    Gentile Gustavo,

    sono uno studente laureando triennale di Economia.
    Il suo articolo, per quanto mi riguarda, non fa una piega: dare la possibilità a tutti di poter emergere ma allo stesso tempo richiedere una determinata costanza, pena l’ esclusione.
    Unica nota negativa, qui riportata: “Le migliori università sono anche quelle che faranno corsi più impegnativi”.
    Innanzitutto cosa vuol dire “migliori università”? Quelle che hanno un ranking piu elevato per caso? Ranking il quale, se non erro, per quanto riguarda certe classifiche italiane dipende in buona parte dal voto medio di maturità delle matricole del primo anno, giusto per ricondurci a quanto detto da lei su tale fattore. Tralasciando classifiche e ranking di dubbie provenienza ed obiettività, continuo: siamo veramente certi che le migliori università (sempre secondo i ranking) siano pure le più difficili? Volevo porle quella che è il mio presentimento, saprò confermarlo o meno piu avanti negli anni, visto che probabilmente andrò ad effettuare il mio master all’ estero: ho il dubbio che in certe università si studi veramente molto, in quanto i test sono basati essenzialmente sul sapere a memoria un determinato paragrafo o capitolo di un libro di 600 pagine, senza magari aver capito bene quanto si sta studiando. Altre università, invece, sarà per una maggiore preparazione dei professori o per una maggiore predisposizione degli studenti, o per altri fattori che lascio a lei trovare, puntano molto sulla pragmaticità degli insegnamenti: favorire lo studio applicato a quesiti e casi aziendali reali, piuttosto che uno mnemonico. Concludo nel dire che, questo secondo tipo di approcio è molto meno dispendioso in termini di studio e fatica che il primo, per cui piu facile; inoltre, come si può riscontrare in molti casi, questo stesso concetto di università le fa posizionare a livelli di ranking maggiori delle precedenti.
    Detto questo volevo porle un quesito: veramente le università migliori sono le più impegnative?

    La ringrazio per il tempo che dedicherà a questo mio commento.

    Enrico Giacomazzi

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    • Buongiorno Enrico. Ci fu mi pare un dibattito su questo blog a un certo punto su chi fa i rating delle università, se fa clic su rating nel motore di ricerca ritroverà il dibattito. E no, i ranking di cui parlo non hanno nulla a che vedere con il voto medio alla maturità, anche perché quel voto non ha nulla a che fare con la performance dell’università ma (eventualmente) della scuola e dello studente liceale.
      Ha ragione “impegnativi” va qualificato. E forse è la parola sbagliata: diciamo “sfidanti”. Che credo ricomprenda la sua visione di cosa è una università che funziona (se posso a breve posterò la mail di uno studente americano che va a studiare in una università per lui sfidante). Non concordo che “sfidante” e “pragmatico” sia “più facile”. Quindi io credo questo: correggendomi in parte semanticamente: sì, le università più sfidanti, quelle che ti forniscono una sfida altamente affascinante di apprendimento, sono le più impegnative. E non è detto che tutti ne siano all’altezza, e non è detto che questo sia un male o che ci sia uno stigma per quelli che non vorranno/sapranno raccogliere una sfida di quel tipo. Ne troveranno altre all’altezza dei loro desideri. Sempre che le università si attrezzino, come lei fa notare, per abbandonare un modello in parte (solo in parte!) vecchio di insegnamento e apprendimento.

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  2. Maurizio Decastri

    14/09/2013 @ 15:03

    Ancora una volta, non è lo strumento che è sbagliato. Non è il test che non va bene, ma il modo con cui lo si usa. Se è un test di conoscenza, è totalmente inutile, è un segnalatore di studio efficace. Avremo studenti che sanno impegnarsi, responsabili, determinati. Basta? No, è evidente…
    Se è un test attitudinale e motivazionale, allora forse può anche essere utile. Se riesco a selezionare i ragazzi che hanno un profilo di capacità potenziali coerente con il percorso di studi e che hanno una grande voglia di arrivare sino in fondo, be’, forse sto facendo un buon lavoro.

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    • Grazie Maurizio. Concordo, se esiste questo test. Certamente verificare durante gli anni di studio è un indicatore “sicuro” di motivazione.

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  3. Credo che lasciare libere le persone di studiare e di essere valutati ai singoli esami in base a ciò che hanno imparato sia la cosa ovvia da fare.
    In base a quale criterio bisognerebbe punire uno studente motivato per via di risultati non al top del passato?
    Soprattutto nelle nazioni in difficoltà (come la nostra), molte famiglie hanno grossi problemi. E i ragazzi che crescono nelle famiglie in difficoltà talvolta oltre ad andare a scuola fanno anche qualche sorta di lavoro (ad esempio il pomeriggio sono al negozio con il padre). E questi ragazzi meno fortunati poi dovrebbero essere ulteriormente puniti negando loro l’ingresso all’università?
    Si potrebbero fare tanti altri esempi.
    Sull’argomento c’è molto da lavorare.

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  4. Maria Romana Mongiello

    17/09/2013 @ 09:37

    Finalmente qualcuno che lo dice!!!
    Quando ai tempi di “mamma forse mi piacerebbe fare medicina” ” eh ma ci sono i test” io blateravo che non era giusto e feci passare subito via dalla mia testa la voglia del camice bianco che avevo da anni incubata solo perché sapevo di non avere gli strumenti logici-quantistici già sviluppati per superare i test (ci vogliono mesi di esercizio)… tutti invece mi dicevano che era perché non ero “portata”.
    Allora io dico, dopo che l’ università ha abbondantemente, grazie anche al mio impegno, sviluppato quei processi cognitivi che permettono al mio cervello di distinguere le risposte sbagliate nelle multiple choice, oggi l’ avrei superati (e mi sono sottoposta a verifica).

    Il problema a mio avviso non è quanto sia giusto scremare il futuro corpo studentesco con una selezione ex-ante, anzi forse lo preferirei perché questo porterebbe i liceali a non considerare “spreco” ciò che li qualifica per il futuro. La selezione ex-ante non deve farla l’ Università, ma la SCUOLA. E’ quest’ ultima che deve far fuoriuscire anche dai più deboli le capacità attitudinali che magari sono semplicemente nascoste, o offuscate da sentimenti, situazioni psicologiche quali timidezza, paura ecc..

    Il problema sta nel fatto che:
    - l’ impostazione dei nostri studi NON PREPARA AD UN TEST MULTIPLE CHOICE: la scuola italiana preferisce, non sbagliando a mio avviso, il ragionamento discorsivo e argomentato rispetto alla sintesi che viene fatta con i test (almeno la mia generazione era penalizzata se non portava da casa le 5 o 6 pagine di riassunti già dalle elementari).

    - i precedenti studi non forniscono una sufficiente preparazione scientifica che viene richiesta nei test (certo esiste “il fai da tè”, ma per quello ci vuole tempo e non tutti sono disposti a prendersi l’ anno sabbatico per studiare per un test che chissà se passeranno)

    Dunque: come sempre il nostro errore è che cerchiamo di forzare la nostra cultura, non aprendola con un processo evolutivo che si modelli ad un sistema che funziona bene (America), ma auspicando e pretendendo che una cultura secolare impianti in todo quel sistema.

    Per essere forti e crescere bisognerebbe essere simili, non uguali.

    Mi scuso per i toni, ma è un tema che scalda il mio animo….

    GRANDE PROF!

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  5. Maurizio Manca

    18/09/2013 @ 16:31

    Nella mia esperienza universitaria che oramai risale ad una decina di anni fa non ricordo di lezioni che non avrei potuto seguire comodamente da casa su un divano attraverso uno schermo e una webcam piazzata in aula ad inquadrare cattedra e lavagne.
    Quindi il primo problema che lei sottolinea (“avremmo delle aule dei primi anni un po’ più affollate”) sarebbe anche ora che non ce lo ponessimo più.
    Non si tratta più di una soluzione futuristica, spero ne convenga con me.

    La corsa alle migliori università, d’altro canto, la vedo solo come estremamente positiva in un’ottica di livellamento tra le classi sociali (in questo caso livellamento verso l’altro, s’intende).

    Mi piacerebbe conoscere il punto di vista dell’opinione pubblica inglese sulla questione del numero chiuso nelle loro università di Oxford e Cambridge, ad esempio…

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    • Beh diciamo che a Tor Vergata 1500 studenti nelle prime settimane richiedono l’Aula Magna, 2000 sarebbero impossibili da gestire con i docenti a disposizione.

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