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Panda o ape? La lenta morte dell’Università italiana

Da due giorni a questa parte sto cercando di capire come scrivere questo pezzo. Se parlare dell’Università che sta morendo sotto i miei occhi o dell’Università che è portata di mano, se soltanto. Solo perché l’urlo di allarme l’ha lanciato qualcun altro, incisivamente, sceglierò di chiudere questo post con una dichiarazione di amore e di ottimismo.

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Farvi vedere il grafico che riporta il rapporto CUN, Consiglio Universitario Nazionale, sui finanziamenti all’Università e come questi si sono evoluti nell’ultimo ventennio può generare due tipi di risposte.

Da un lato può portare a lamentarsi dell’incredibile crollo in termini reali degli stanziamenti, segnale di disinteresse totale dei precedenti Governi alla cosa pubblica universitaria.

Dall’altro può generare una scrollata di spalle e quasi un consenso (leggendo i commenti all’articolo del Corriere della Sera sul rapporto è facile rintracciare elementi di questo tipo da parte di non pochi lettori), da parte di chi crede che l’università essendo centro degli sprechi e dei baroni meritasse solo un trattamento simile.

Una simile doppia interpretazione la possono generare tante altre statistiche riportate. Per esempio quelle sul crollo degli immatricolati. C’è chi dice che questo crollo è dovuto ai tagli che rendono impossibile fornire servizi di qualità, c’è chi dice che è semplicemente il segno che l’Università italiana è di pessima qualità e dunque o si lavora o si va a lavorare all’estero.

Non c’è dubbio che ambedue i meccanismi sono al lavoro e che rendono assieme meno attraente il sistema universitario italiano: la globalizzazione, la maggiore concorrenza tra Atenei in Europa, la crescita di programmi in lingua inglese, i minori costi di trasporto fanno il resto, naturalmente portando via dalle università italiane i figli dei più abbienti o i più talentuosi. Se fino a un decennio fa erano i ricercatori che non tornavano, ora sono i diplomati che non tornano.

In tutto ciò, la maggioranza silenziosa, quelli che non andavano prima all’Università, quelli meno abbienti, e che pagavano di fatto l’università dei ricchi, continua a fare quello che ha sempre fatto: non andare all’università. Lo dicono i dati, che nulla è stato fatto per diventare in questo senso più europei e più capaci di far diventare l’università qualcosa di meno aristocratico:

Il numero di chi accede a un titolo di studio universitario, in Italia, è decisamente sotto la media OCSE, le cui rilevazioni riferite al 2010 collocano l’Italia al 34° posto su 36 Paesi considerati. In termini assoluti, nella fascia di età 30-34 ann, solo il 19% possiede un diploma di laurea, contro una media europea del 30%. Si ricorda che la Commissione UE, ai fini della strategia Europa 2020, chiede agli Stati membri di raggiungere una percentuale almeno del 40% di laureati in quella fascia di età. Nel Programma Nazionale di Riforma 2012 l’Italia s’impegna a portare al 26-27% la percentuale di popolazione in possesso di un diploma di Istruzione superiore.

In realtà il sistema sì sta diventando meno aristocratico, perché gli aristocratici fuggono. E’ chiaro dove finiremo se i ricchi scappano e i poveri non entrano: l’Università italiana sta per scomparire.

Secondo i dati MIUR (Anagrafe Nazionale degli Studenti), gli immatricolati sono scesi da 338.482 (nel 2003-2004) a 280.144 (nel 2011-2012), ciò che significa un calo di 58.000 studenti pari al 17% degli immatricolati del 2003, come se in un decennio fosse scomparso un Ateneo grande come la Statale di Milano con tutti i suoi iscritti.

Ottimo modo di comunicare la dinamica dei dati: come cascano i muri di Pompei per incuria, per incuria spariscono le università.

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Sparire come i Panda? No, sparire come le api.

L’altra sera a cena mi hanno detto che le api hanno smesso di morire e sparire. Hanno trovato apparentemente la causa, in un prodotto chimico che ne distruggeva il senso dell’orientamento. Causa trovata, causa eliminata, ape salvata.

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Si può fare. Certo che sì. Ridare vita all’ape operosa chiamata Università. Restaurare il muro crollato e ridargli bellezza e dignità, splendore per chi contempla. Al contempo iniettando più fondi ed ottenendo più qualità. Addirittura mettere a frutto un investimento ingente, facendola divenire polo di attrazione di tantissimi studenti stranieri e delle loro risorse, fonte infinita di export. E di rientro di giovani ricercatori italiani, ed europei.

Nel programma dei Viaggiatori c’è scritto come. Vi assicuro, è facile. Richiede un po’ di coraggio, un po’ di fantasia, molta leadership sicura, un po’ di fondi, tanta capacità organizzativa e di monitoraggio.

8 comments

  1. Insisto sulle cause multiple: 1. riduzione dei finanziamenti; 2. cattiva organizzazione universitaria; 3. mancato orientamento degli studenti; 4. (e forse è il secondo in importanza, dopo il calo dei finanziamenti) il sistema produttivo italiano, in prevalenza, non richiede alte professionalità. Mi laureo, e poi che faccio che lavoro trovo? Soprattutto se mi sono laureato in uno dei tanti indirizzi inflazionati. Sarebbe interessante vedere il calo degli studenti suddiviso per indirizzo di studi

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  2. sinceramente, trovo fuorviante sostenere che sia facile uscire dalla situazione in cui siamo.
    è difficile, invece, difficilissimo.
    richiede un cambio culturale nelle teste, nei cuori, dei singoli.
    richiamare una leadership forte è fumo negli occhi.
    faccio politica nei territori, in Puglia.
    nella Puglia dei leaders.
    quel poco che è migliorato è dovuto all’azione oscura dei corpi intermedi e delle associazioni.

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  3. francesco russo

    03/02/2013 @ 17:09

    Difficile trovare una risposta tranciante sull’ evidenza del calo degli iscritti universitari (prima volta dal dopoguerra). Sicuramente la crisi economica dei genitori che mantengono i figli agli studi, ma anche il convincimento che il famoso pezzo di carta non renda più. Poi la proliferazione di corsi di laurea inutili e truffaldini (oggi ci si è spostati sui Master !!), la beffa del 3+2 demagogico e totalmente fallimentare, la gravissima perdita di etica e trasparenza dei nostri vertici universitari (parentopoli e nepotismi vari), la riduzione dei fondi pubblici, la mancanza di distinzione dei ruoli di chi fa didattica da chi fa ricerca e per il medico da chi fa assistenza (tre cose insieme è impossibile farle bene !!).
    Chi ha i soldi, fa laureare il proprio figlio nel Nord Europa oppure si sceglie un ateneo e corso di laurea VIP italiano con bravi docenti (ancora ce ne sono).
    E’ di fatto la perdita del valore legale del titolo di studio e la privatizzazione di fatto dell’ insegnamento superiore universitario: facoltà mediche americane hanno già chiesto di aprire loro sedi in Italia.

    Conto molto sul 2016-2018 quando Madre Natura farà quello che il Legislatore non è stato mai capace di fare dalla 382/80 ad oggi: togliere un buon 40% di ricercatori e docenti di ruolo all’ Accademia per cessazioni e pensionamenti e vedrete che allora si passerà – i numeri lo consentiranno – ad un sistema più di tipo anglosassone che come quello attuale (berbero) senza tanti bizantinismi e con più attenzione alla preparazione ed al merito.
    Sempre se i nostri governanti sapranno resistere alle tentazioni di imbarcare altra massa di gente nel frattempo.

    Cordialità

    Franco Russo

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    • La riforma 3+2 è una delle poche cose decenti fatte in italia, seguendo il resto del mondo, peccato che nei 3 anni seguitano a volerci metterci 5 anni di insegnamento, se non si cambia totalmente o quasi la classe insegnante non si cambiera mai mentalita.

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  4. il problema dell’Università Italiana è che questa è vecchia come lo è il paese stesso. Mentalità arrugginite, rapporti di sottomissione studente-professori, troppi baroni dentro all’Università….
    L’Università Italiana è burocratica e non spinge lo studente in avanti, anzi, fa di tutto per farlo abbandonare il corso. Ci sono dei professori che non sanno insegnare ma apriti cielo se li fai una critica perché ai Dei le critiche non devono essere fatte. Poi al contrario delle altre università europee e non solo in Italia si usa poco i software, si fanno poche lezioni on line e soprattutto c’è sempre un esame per ogni cavolo di materia, la mentalità delle tesine o delle presentazioni in classe per le materie meno importanti non riesce proprio ad avere approvazione in Italia. E poi c’è una massa di docenti vecchi di età e soprattutto di mentalità che non riescono più ad insegnare e a rapportarsi con i giovani di oggi e non se ne vanno, non vogliono dare spazio a nuovi professori spesso più capaci, e rimangono li nelle sue cattedre ormai rancide e passano il loro tempo a rompere le pa*** agli studenti. Per non parlare poi delle segreterie indecenti e tutto il resto. Quindi alla fine lo studente inizia ad odiare talmente tanto l’università che o la lascia o va avanti non con il pensiero di imparare, ma di liberarsi e basta.

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    • Interessante. E in parte vero. Non dappertutto, ma spesso. E lo spread con l’estero comunque cresce, quindi anche se non peggioriamo … peggioriamo.

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  5. Santa La Rocca

    08/09/2013 @ 21:16

    L’analisi misura dimensioni quantitative del fenomeno in oggetto. La mia opinione è che tutto debba ricominciare dalla qualità. Il sistema universitario in media però ha difficoltà a generare eccellenza. Se fosse eccellente gli studenti bravi non avrebbero bisogno di cercare qualificazioni all’estero e ci sarebbe una frequenza abbondante di studenti internazionali. Nella mia esperienza (a parte l’ambiente Bocconi, che non fa testo in questa discussione, per fortuna) ho visto solo frequenze fantasma di studenti cinesi e la presa a prestito di docenti stranieri per supportare insegnamenti in inglese. Per il resto i corsi in inglese riproducono la solita qualità dimostrabile dalla assenza di pubblicazioni internazionali dei docenti italiani. Intanto i più furbi si adoperano per coprire funzioni di amministrazione dell’Università che li mettono al riparo dal rendere conto della propria formazione nazionale e internazionale. I progressi sono per ora in fieri, ma la prospettiva di miglioramento si annuncia faticosa perchè la formazione richiede tempo, passione e dedizione. E questa è una merce rara nella ns università dove il processo di assunzione è stato fino a pochissimo tempo fa gestito senza criteri e senza criterio. Inoltre, l’eccellenza fa ancora paura.

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