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Sen: con Keynes, oltre Keynes, contro la stupida austerità che uccide l’Europa

Oggi non parlo io, che sono nella meravigliosa Beirut perché domani cercheremo di convincere  funzionari pubblici libanesi a venire a formarsi a Tor Vergata sugli appalti pubblici al Master. Un modo di fare “sistema Paese”- di far crescere la reputazione del e la gratitudine verso il nostro Paese – quello di accogliere funzionari e giovani stranieri nei nostri Atenei, il cui valore è troppo spesso sottostimato.

Faccio parlare il Nobel Amartya Sen, tratto dal Sole 24 ore del 28 gennaio (grazie Giak, grazie Paolo), così da spiegarvi perché odio la stupida austerità europea e perché la soluzione non la offre chi regala sogni non ancorati nei valori ma nella salvaguardia dei propri interessi.

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Nella brutale recessione che il mondo, e l’Europa in particolare, sta attraversando, c’è un numero enorme di persone disoccupate, dai redditi drasticamente ridotti, che non possono permettersi beni e servizi essenziali e hanno poca libertà di gestire la propria vita, mentre altre prosperano. E’ tipico di una crisi economica suscitare forti divisioni, eppure il senso di infelicità per qualcosa di molto sbagliato può essere provato sia da quelli colpiti dalla lunga recessione che da quelli immuni che ne sono comunque oltraggiati. La povertà, la miseria non si condividono, l’oltraggio sì e, per l’infelicità in senso lato, basta e avanza.

Perché l’Europa è tanto nei guai? In effetti ha due problemi da affrontare: l’inflessibilità della moneta unica nella zona euro e la gestione della recessione attraverso la politica di austerità scelta da potenti leader politici e finanziari europei. Ne ho già scritto altrove (“Cosa ti è successo, Europa?” Domenica – Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2012, ndr) e sarò breve. Nella zona euro, l’integrazione e l’unione monetaria realizzate prima di avere il sostegno di una più stretta unione politica e fiscale non suscitano solo infortuni economici ma anche rapporti ostili tra i popoli dei vari paesi.

Di conseguenza, lo scenario di crisi e di salvataggi in cambio di tagli draconiani ai servizi pubblici – questioni economiche sulle quali tornerò – ha suscitato malumori. Se errori nella successione delle misure prese e nelle decisioni politiche contingenti hanno peggiorato il disamore internazionale per l’Europa (è stato così, a giudicare dalla retorica politica sentita di recente con forme diverse da nord a sud), è il pegno da pagare per la via che si è imboccata. La visione di un’unità europea crescente che era nata a Ventotene e a Milano negli anni Quaranta è stata assecondata male da piani di salvataggio che non solo hanno precipitato milioni di cittadini in una miseria nera, ma hanno anche generato una divisione di cui si poteva far a meno tra tedeschi prepotenti, secondo i greci, e greci fannulloni, secondo i tedeschi.

L’analogia, spesso invocata, con i sacrifici dei tedeschi per unire le due Germanie è del tutto fuorviante. In parte perché i sacrifici coordinati dal cancelliere Kohl erano intelligenti e progettati bene, e soprattutto perché al momento tra i paesi europei non esiste il senso di unità nazionale che predisponeva i tedeschi ad accettarli. Inoltre ricadevano sulla parte ricca del paese dove il cancelliere era basato: questo fatto ha una qualità politica assai diversa dei tentativi di imporre una rigida austerità ai paesi più poveri dell’Europa meridionale da parte di leader politici che vivono in regioni più prospere.

Vengo ora alla crisi economica globale e agli sforzi europei per rimediare alla propria con l’austerità.La crisi che ha travolto il mondo nel 2008 non è nata in Europa, ma negli Stati Uniti e la recessione che ne è conseguita negli Stati Uniti ha avuto ripercussioni sul resto del mondo, in particolare in Europa. E’ iniziata negli Stati Uniti, dove il settore finanziario si era comportato in modo estremamente irresponsabile e avventato. Il mondo aveva molte ragioni di essere infelice e scontento dell’economia statunitense, data l’eliminazione graduale – dai tempi del presidente Reagan – di quasi tutti i controlli sensati che regolamentavano le istituzioni finanziarie e le assicurazioni. Nel settore finanziario, i giocatori di serie A fecero un sacco di soldi, per se stessi innanzitutto, con esiti scintillanti ai quali corrispondevano prassi inaccettabili. Gli americani hanno causato la crisi, ma sono stati più veloci degli europei a temperarne l’intensità con uno stimolo fiscale. Contagiata dalla recessione, l’Europa adottò invece una filosofia immensamente contro-produttiva di redenzione attraverso l’austerità.

E’ difficile vedere nell’austerità una soluzione economica assennata all’attuale malaise europeo. Non è neppure un buon mezzo per ridurre il deficit pubblico. Il pacchetto di provvedimenti richiesto dai leader finanziari è stato decisamente anti-crescita. Nella zona euro, la crescita è stata così tentennante e il prodotto interno lordo è calato così tanto che l’annuncio di una crescita zero sembra addirittura una “buona notizia”. Sebbene la Gran Bretagna non sia sotto il potere finanziario dei leader della zona euro, ha scelto deliberatamente la strana filosofia della ripresa attraverso l’austerità, con lo stesso triste risultato. E’ una politica fallimentare in Europa come lo è stata negli Stati Uniti negli anni Trenta e più recentemente in Giappone (una politica di contrazione che il primo ministro neo-eletto Shinzo Abe sta cercando di ribaltare).

Nella storia del mondo abbondano invece le prove che il modo migliore per ridurre il deficit non è l’austerità, ma una rapida crescita economica che generi reddito pubblico con il quale colmare il deficit. Dopo la seconda guerra mondiale, gli enormi deficit europei sono in gran parte spariti grazie a un veloce sviluppo; è successo qualcosa di simile durante gli otto anni della presidenza Clinton, iniziata con un deficit enorme e conclusasi senza, e in Svezia tra il 1994 e il 1998. Oggi la situazione è diversa, perché in aggiunta alla recessione la disciplina dell’austerità viene imposta per ridurre il deficit a molti paesi con un tasso di crescita zero o negativo. Creare sempre più disoccupazione laddove c’è una capacità produttiva inutilizzata è una strategia bizzarra, e non basta ai padroni della politica europea dire che non si aspettavano forti cali di produzione e alti e crescenti tassi di disoccupazione. Perché mai non se l’aspettavano? Da quale idea dell’economia si fanno guidare? Di sicuro la qualità intellettuale del loro pensiero è un motivo di infelicità. Non si tratta soltanto di avere un’etica solidale, ma anche un’epistemologia decente.

Dire che in caso di recessione la politica dell’austerità rischia di essere contro-produttiva può sembrare una critica sostanzialmente “keynesiana”.

John Maynard Keynes ha sostenuto in modo convincente che durante un eccesso di capacità produttiva dovuto alla scarsa domanda del mercato, tagliare la spesa pubblica rallenta l’economia e accresce la disoccupazione invece di diminuirla. Gli va riconosciuto il grande merito di aver fatto capire questo punto fondamentale ai responsabili politici di ogni tendenza. Sarebbe sensato avvalerci delle buone ragioni di Keynes, fanno ormai parte del pensiero economico comune (anche se sono ignote ai leader europei), ma per quanto riguarda la totale inadeguatezza dell’austerità in Europa, ce ne sono altre.

Dobbiamo andare oltre Keynes e chiederci a che cosa serva la spesa pubblica, oltre a rafforzare la domanda del mercato, qualunque ne sia il contenuto. Il risentimento – l’infelicità – di tanti europei per i tagli feroci ai servizi pubblici e per l’austerità indiscriminata non si basa soltanto e neppure primariamente su un ragionamento keynesiano. Fatto altrettanto importante, se non di più, quella resistenza esprime un’opinione costruttiva interessante dal punto di vista sia politico che economico. Parla di giustizia sociale, di ridurre l’ingiustizia invece di aumentarla. I servizi pubblici sono apprezzati per ciò che forniscono in concreto alle persone, soprattutto alle più vulnerabili, e in Europa sono stati ottenuti con decenni di lotta. Tagliarli spietatamente significa rinnegare l’impegno sociale degli anni Quaranta che ha portato alla previdenza e alla sanità pubblica in un periodo di cambiamento radicale. Questo continente ne è stato il pioniere, ha dato una lezione di responsabilità sociale poi imparata nel resto del mondo, dal Sud-est asiatico all’America latina.

Keynes parlò pochissimo di disuguaglianza economica; sugli orrori della povertà e delle privazioni fu di una reticenza straordinaria. Non lo interessavano granché le esternalità e l’ambiente, trascurò del tutto “l’economia del benessere” di cui si occupava invece il suo rivale e antagonista A.C. Pigou. Come ho scritto sulla New York Review of Books – persino Bismarck nell’Ottocento si interessò di sicurezza e di giustizia sociale più di quanto avrebbe fatto Keynes. Gli amici keynesiani mi accusarono di irriverenza (anche quelli della Banca d’Italia), di aver insultato Keynes e vollero farmi ritrattare. Dimenticavano che, sebbene fosse un leader conservatore, Bismarck aveva molto da dire sull’importanza dei servizi sociali.

Per finire, vorrei accennare alla riforma economica di cui molti paesi europei, e non solo la Grecia o l’Italia, hanno senz’altro un gran bisogno. Uno degli aspetti peggiori dell’austerità è stato di rendere questa riforma impraticabile confondendo due programmi: l’austerità dei tagli spietati e la riforma di una cattiva amministrazione (evasione fiscale diffusa, favori concessi da funzionari pubblici per lucro personale e anche insostenibili convenzioni sull’età pensionabile). I requisiti della presunta disciplina finanziaria li hanno amalgamati, sebbene qualunque analisi della giustizia sociale porti a politiche distinte per ciascun programma.

L’amalgama è il frutto di una confusione intellettuale che porta al disastro politico perché collega un bisogno forte e sensato a una follia intempestiva, e nelle campagne politiche unisce gli oppositori dell’austerità a quelli delle riforme indispensabili. L’Europa deve cambiare ora. Nessun paese scaccerà da solo la potente illusione di cui i leader politici sembrano prigionieri, né la Grecia, né il Portogallo e nemmeno l’Italia, eppure bisognerà trovare una voce collettiva per porre fine a tanta miseria e a tanta infelicità.

3 comments

  1. sono l’autore del libro “Oltre il confine della stupidità fiscale” posso dire che se non si tratta di stupidità a livello fiscale qui ci troviamo davanti ad una strategia bella e buona per far collassare le nostre economie per aprire la strada alle poche multinazionali del Bilderberg o chi per loro che comunque ambiscono a governare il mondo “per il bene del mondo” perchè pensano che dalla loro idiozia possa scaturire “equità sociale”.

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  2. Bellissimo articolo, con istruzioni preziose per la pace e per questa terribile crisi economica, che è anche una profonda crisi dell’umanità. Penso anche a quei paesi come l’Africa che vivono condizioni di vita inaccettabili, come effetto di nostre moltissime responsabilità. Tornando all’Europa e all’Italia resta auspicabile che la consapevolezza di tutto quanto stia accadendo, induca gli individui più capaci a porsi al servizio di un nuovo rinascimento, che ponga l’uomo al centro del suo interesse. L’opposto di quanto la patologia dell’austerità vede nei suoi fautori, cinici, e incapaci anche di instaurare un rapporto con la realtà e con la sofferenza. Occorrono bocche straordinarie per dar voce a questo straordinario grido collettivo.

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  3. angelo giannetti

    04/02/2013 @ 10:14

    Un solo rilievo da mettere in evidenza: l’unione delle due Germanie con cambio pari fu poi pagato anche dal resto d’Europa e non solo dai “bravi, biondi e responsabili tedeschi” da la CURA FATALE di Mario Seminerio:
    “Dopo l’annessione alla pari della DDR, la massa monetaria tedesca si gonfiò a dismisura, come era ovvio attendersi. La Bundesbank, per tenere sotto controllo le pressioni inflazionistiche che iniziavano a serpeggiare, diede inizio a una robusta stretta monetaria che si ripercosse su tutta l’Europa, di fatto esportando i costi dell’inflazione tedesca.
    I Paesi più fragili, come il nostro, pagarono pegno, inseguendo il marco per via della banda di inflazione stretta consentita alla lira all’interno del Sistema monetario europeo: un guinzaglio fiscale che, attraverso aggiustamenti periodici, alzava la parità delle valute più forti (c.d. ”area marco”) e abbassava quella dei paesi più deboli, ..”
    Inoltre, non credo esisterà mai una voce collettiva per uscirne, ma un effetto domino, con conseguenze disastrose per chi non avrà anticipato l’evento e preparato un serio piano d’uscita.

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