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Draghi e Renzi: ecco come farli vincere entrambi per salvare l’Europa

Quanto è importante l’incontro tra Draghi e Renzi? Mi verrebbe da dirvi: immensamente.

Perché?

Perché quell’incontro è stato il simbolo del nocciolo del problema che affligge l’Europa attualmente ed è anche una condizione necessaria (ma non sufficiente) per avviarci verso la sua risoluzione.

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L’incontro umbro era stato già immaginato, solo due mesi fa, da due ricercatori, guarda caso italiani, Francesco Bianchi e Leonardo Melosi, il primo della Duke University ed il secondo dipendente della Federal Reserve di Chicago. Che hanno avuto la brillante capacità di immaginare – con i mezzi della teoria economica (http://public.econ.duke.edu/~fb36/Papers_Francesco_Bianchi/BianchiMelosi_Escaping.pdf ) – i diversi percorsi a disposizione delle istituzioni di Paese (o un gruppi di Paesi con una valuta unica e regole fiscali comuni, come l’area dell’euro) per provare ad uscire da una crisi da domanda e da pessimismo come quella in cui ci troviamo a combattere, ed in cui la banca centrale (da ora in poi BCE) ha già spinto i tassi verso il minimo, lo zero.

Mi perdoneranno questi due bravi ricercatori se semplificherò il loro rigoroso messaggio, romanzandolo un po’ per il lettore, sperando di non tradire troppo i loro affascinanti risultati.

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Ma prima, una premessa.

Mario Draghi porta sulle spalle un’eredità pesante. Quella di una istituzione che, nel giro di poco più di un decennio, ha conseguito una elevatissima reputazione anti inflazionistica, direi sorprendente, che è senza dubbio alla base di gran parte della stabilità che l’area euro ha conosciuto prima della grande recessione dal 2008. Tale reputazione anti-inflazionistica non è stata intaccata dal comportamento della BCE dal 2008 in poi, quando sempre più insistenti sono diventate le domande esterne alla Banca per fare più inflazione, molta di più di quanta non ne stia facendo ora. Inflazione richiesta perché capace di avere due effetti: essendo i tassi nominali allo zero, essa abbatterebbe il costo reale del credito, rilanciando consumi e investimenti (il contrario di quello che fa oggi la crescente deflazione) ed, al contempo, svaluterebbe il valore nominale del debito pubblico, riducendo la necessità di aumentare tasse e diminuire spese per ripagarlo, cose, queste, che impediscono la ripresa.

Nessuno ha sintetizzato meglio di Filippo Taddei, economista di Renzi, ieri su Repubblica, tali domande esterne: “per noi è un vero problema tenere sotto controllo il debito pubblico in deflazione”.

Draghi riuscirà a resistere a queste pressioni di Renzi e di tutti i governi in difficoltà? E’ cosa buona che vi resista nelle condizioni in cui versa l’Europa? Non vi sarebbe una soluzione capace di salvare l’Europa mantenendo alta la reputazione anti inflazionistica della BCE? Sono queste le domande a cui rispondono di due ricercatori nel loro affascinante saggio.

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Certo, argomentano, in tempi normali il modello di banca centrale anti inflazionista e di un Fiscal Compact che garantisce la stabilità del debito pubblico è ideale.

Ma in tempi eccezionali come quelli che attraversiamo, in cui la crisi è iniziata per colpe esterne alla volontà dei nostri politici? Quale sarà la politica da attuare?

Bloccati nell’oggi a un tasso di sconto pari a zero e non ulteriormente riducibile, la politica ideale dipenderà da cosa decideranno oggi i responsabili della politica economica, i Renzi ed i Draghi, su quali saranno le politiche future che dovranno essere seguite, una volta usciti dalla recessione. In particolare, su come gestiranno gli enormi debiti pubblici su PIL che avrà lasciato la recessione. A che annunci odierni vorranno legarsi per le politiche del domani risulterà decisivo per le sorti della eventuale ripresa dalla crisi.

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Se ad esempio i politici convinceranno i mercati oggi che appena tornerà il bello continuerà ad essere vigente il Fiscal Compact volto al ripagamento del debito pubblico accumulato nella recessione e una politica monetaria dura e pura, con le loro esose richieste sulla domanda interna via maggiori tasse, minori spese ed assenza di credito, la domanda di imprese e famiglie crolla subito (investimenti? Perché farli si dice l’imprenditore se non vede il lumicino di una maggiore attività economica domani), la deflazione segue, i tassi reali salgono invece di scendere, la recessione si amplifica e dura a lungo, il debito su PIL sale ancora. Un po’ quello che pare essere la realtà odierna.

Se invece i politici diranno e convinceranno i mercati che si impegnano ad abolire per un lungo periodo il Fiscal Compact ed ad inflazionare l’economia, ecco che questa uscirà oggi dalla crisi, grazie alle aspettative di maggiore inflazione ed abbassamento dei tassi reali che seguirà, con l’abbattimento anche del rapporto debito su PIL. Ma mentre questa sarebbe una politica ideale nel breve periodo, tirandoci fuori dalla recessione, essa metterebbe a rischio la stabilità nei tempi normali e con essa la reputazione anti-inflazionistica della BCE di Draghi.

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Mi direte: ma di cosa si convinceranno i mercati? Beh ovviamente dipenderà da chi crederanno comanda in Europa. Comandano i Draghi o i Renzi? Se si crede siano i primi, la recessione dura per i prossimi 10 anni e come contentino avremo la stabilità nel lungo periodo. Se i Renzi, via dalla recessione subito, ma grande instabilità nel lungo periodo.

La cosa peggiore, argomentano gli autori, sarebbe che i Renzi ed i Draghi non si coordinassero tra loro, dando il via ad una battaglia istituzionale. Immaginiamo per esempio che la BCE annunci che al termine della crisi manterrà la lotta senza se e senza ma all’inflazione mentre i governi spiegheranno che non faranno, per ripagare il debito accumulato,  aumentare le tasse quando tornerà il bel tempo.

Se i mercati si fissano che i governi non molleranno nel loro atteggiamento, crescerà la convinzione che la BCE dovrà prima o poi inflazionare il crescente debito. L’aumento delle aspettative d’inflazione porterà Draghi a alzare i tassi subito, esacerbando la crisi e l’aumento del debito-PIL che a sua volta spingerà ad attendersi più inflazione, rafforzando la crisi ecc. fino a quando Draghi non avrà mollato, ma sarà sempre troppo tardi, la recessione sarà stata ancora più grave.

Analogamente, un governo che dichiara che non aumenterà le tasse per ripagare il debito creatosi nella recessione ma che i mercati si aspettano cederà alla fine le armi ai voleri della BCE che non si piegherà a fare inflazione per eliminare il debito (come chiede Taddei), beh, questo Governo non riuscirà a stimolare l’economia ad uscire dalla recessione perché gli operatori si aspettano che prima o poi questo aumenterà le tasse per ripagarlo, come chiede la BCE.

Comunque vada, se i Draghi della BCE ed i Renzi dei governi europei non trovano un accordo, dalla recessione non si esce.

Ecco perché l’incontro Renzi-Draghi di ieri è stato così importante: è necessario che si parlino. Ma non sufficiente perché se dal dialogo Draghi la spuntasse, finiremmo là dove siamo oggi: più debito, più recessione, più deflazione.

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Come uscirne dunque fuori senza ottenere la sconfitta di Draghi e la sua perdita di reputazione come falco che combatte l’inflazione?

I due ricercatori formulano una proposta concreta: Draghi inflazioni solo quella parte del debito-PIL che è stata causata dalla recessione e i Governi si astengano dall’aumentare tasse o diminuire spese per farlo rientrare al livello pre-recessione, cosa che aggraverebbe la recessione in corso. Quella recessione di cui i governi non hanno colpa alcuna.

Un tale annuncio di accordo istituzionale – una moratoria sul Fiscal Compact fino all’abbattimento del debito su PIL al livello pre-crisi via inflazione – porterebbe immediatamente verso l’alto le aspettative d’inflazione, abbassando il costo del denaro per le imprese, facendo ripartire investimenti e morire la recessione e con essa, ovviamente, la deflazione. Tutto ciò verrebbe fatto senza mettere in difficoltà l’indipendenza della BCE e la sua missione anti-inflazione che, appena raggiunta la vecchia soglia del debito-PIL pre-crisi, tornerebbe – con la piena comprensione dei mercati – a fare il suo mestiere, indipendente come non mai e senza aver perso un’oncia di reputazione.

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Renzi, hai convinto Draghi a inflazionare così tanto da far tornare il rapporto debito-PIL italiano al 103% del pre-crisi come chiede, non tanto silenziosamente, Filippo Taddei? Se lo hai fatto, siamo con ogni probabilità fuori dalla crisi.

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Keynes 2014?

Cosa avrebbe detto Keynes in questa e di questa crisi?

E che ne so.

Lo dico non solo per sottolineare l’ovvia impossibilità di dare una risposta, ma anche a causa del “mistero di Keynes l’imprevedibile”, economista capace di sfuggire a qualsiasi facile categorizzazione .

Sappiamo ad esempio che, scrivendo nel 1930, per il 2030 auspicava una società non più capitalistica, dove la contemplazione del bello avrebbe sostituito lavoro, risparmio, investimento, consumo (vedi Economic Possibilities for our Grandchildren, così come tradotto e commentato nel volume curato con Lorenzo Pecchi per MIT Press e Luiss University Press). Forse avrebbe sollecitato tutti noi a smettere di calcolare il PIL ed a misurarsi con sfide più ambiziose, come quella di dare peso alle componenti non economiche del benessere umano.

Non so cosa avrebbe detto di politiche fatte, come quelle che chiediamo da sempre su questo blog per vincere la sfida posta da questa crisi, di espansione della spesa pubblica per appalti finanziata da tagli di spesa pubblica chiamati sprechi.

Sappiamo che Keynes non era di per sé contrario alla spending review. Nella parte finale della sua vita, nel 1942, quando fu chiamato ad incarichi organizzativi e divenne Presidente del C.E.M.A., il Consiglio per l’incoraggiamento della musica e delle arti, non esitò a dichiararsi contro assunzioni a tempo indeterminato dello staff, temendo l’effetto “red tape” della burocrazia:

Il minimo ammontare di burocrazia (red tape) sarà desiderabile. Non dobbiamo preoccuparci di garantire ragionevoli aspettative alle persone su cosa aspettarsi per i prossimi 20 o 30 anni. Porteremo per periodi brevi persone da tutte le professioni e vocazioni. Un sistema salariale rigido significherebbe pagare più del necessario in alcuni casi e molto meno di quanto necessario, se uno vuole attrarre il candidato ideale, in altri.”

Più di ciò forse l’avrebbe convinto a far parte del nostro campo la seguente rilevantissima variazione strutturale nelle società di mercato, ben sintetizzato dall’andamento dal 1900 del rapporto spesa pubblica su PIL negli Stati Uniti:

Il cerchio arancione mostra non solo  la crescita della spesa pubblica nell’economia Usa durante gli anni duri della Grande Depressione ma anche come, paragonato al cerchio rosa del nostro ultimo decennio, quanto minore fosse questa comunque rispetto ad oggi e quanto è cresciuta la spesa con l’espandersi delle funzioni dello Stato.

Ed, inevitabilmente, lo stesso grafico vale per le tasse: molto più alte oggi di allora.

E siccome un aumento di 1% di tasse diventa sempre più costoso mano a mano che si tassa di più (non fosse altro che per i costi di combattere la crescente evasione che accompagna la crescita dell’imposizione fiscale), forse Keynes avrebbe condiviso come noi un sostegno all’economia in crisi tramite non tanto le maggiori tasse, presenti o future, ma tramite una vera spending review.

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Immobile sarai tu. Vendiamo Via XX Settembre e poi facciamo vera politica industriale

Ascolto sempre con grande attenzione Paolo Savona, spesso vede molto più lontano di altri.

Sugli immobili (intervista ieri al Corriere della Sera)? No.

L’idea che un Fondo Immobiliare, a cui conferire gli immobili di proprietà pubblica, ci salverà dalla crisi, è sbagliata, tout simplement.

Infiliamoci tutti gli immobili pubblici che vogliamo, qualcuno li dovrà pur sempre comprare. E dovrà ricevere un rendimento consono al rischio che corre.

Per semplificare immaginiamo che ci siano due tipi di immobili pubblici: quelli a valore pressoché nullo (perché in zone poco attraenti, con poco potenziale di mercato, troppo costose da restaurare) e quelli a valore positivo.

Per i primi, spesso anche se non sempre coincidenti con quelli ormai già in disuso presso la pubblica amministrazione, che siano venduti direttamente ai privati o via fondo, il Tesoro incasserà zero o giù di lì (il rendimento atteso sarebbe praticamente nullo in assenza di una valorizzazione altamente improbabile).

Per i secondi ovviamente incasserà qualcosa, o anche tanto. Per esempio il Tesoro potrebbe vendere gli immobili di una università. La vendita genererà risorse utilizzabili per la riduzione del debito pubblico. Diminuirà anche la spesa per interessi, migliorando il deficit pubblico.

Ma.

Ma ovviamente l’Università dovrà pur svolgere la sua attività da qualche parte. Ecco che il Tesoro negozierà con l’acquirente un affitto a costo del contribuente dei locali non più di sua proprietà per permettere l’attività di didattica e di ricerca.

Questo si badi varrà anche con l’acquisto di quote del fondo: l’acquirente sarà disposto a sottoscriverle se e nei limiti in cui esse generano ritorni. L’affitto pagato dal Tesoro per i locali dell’università andrà per una certa quota al gestore del fondo (una commissione di gestione) e per il resto, appunto, al cittadino-azionista del fondo. Quanto andrà pagato in affitto/dividendo da parte dello Stato? Beh, come minimo un tasso di rendimento pari quello su investimenti “sicuri” come i titoli di Stato; ma tenendo conto dei rischi di gestire un patrimonio immobiliare (affittuari che non pagano, mercato  volte inesistente, condomini ritardatari nei pagamenti) probabilmente di più, un tasso più alto.

Sorpresa: i nuovi costi che il Tesoro dovrà sostenere per pagare i detentori degli immobili saranno maggiori (se proprio va bene uguali) della minore spesa per interessi che deriverà dall’abbattimento del debito, a sua volta derivante dall’utilizzo dei fondi derivanti dalla vendita degli immobili.

Quindi facciamo subito i conti con gli effetti della proposta Savona:  meno debito su PIL subito, deficit su PIL uguale o superiore a prima (meno spesa per interessi più spesa per affitti).

Ovviamente siccome l’Europa pone tre vincoli, quello del debito, quello del deficit e quello della spesa pubblica, bisogna capire quello che diverrà più stringente.

Sul tetto di spesa va tenuto da conto che esso è calcolato senza guardare alla spesa per interessi: quindi i maggiori affitti renderanno ancora più vincolante e restrittivo questo vincolo, imponendo tagli ancora superiori a quelli attuali e quindi recessivi.

Sul deficit, prendo come sacre le parole di Savona che fa presente come quello che ci sta uccidendo oggi è la regola del deficit su PIL che impone  il rientro via maggiori tasse e minori spese a casaccio e che dunque “ucciderebbe la crescita dell’economia”. Quindi la sua stessa proposta non risolverà i problemi, lasciando infatti ancora ingessati i conti pubblici con valori del deficit pubblico altrettanto se non ancora più alti, richiedendo quelle manovre che giustamente Savona teme.

Sul debito, è vero che probabilmente che l’obbligo di far scendere il rapporto debito PIL verso il 60% sarebbe meno vincolante, ma mettiamo le cose in chiaro: lo spread sul minore debito pubblico italiano non calerà, perché l’Italia sarà percepito come un emittente altrettanto rischioso a prima della riduzione. Se un “cattivo debitore” va in banca e ripaga il debito grazie ad una inattesa eredità non per questo la banca gli farà nuovi prestiti a condizioni di favore: sempre cattivo debitore rimane.

Insomma, una proposta che cambia poco nel panorama italiano, specie se mirato alla risoluzione della crisi. Ma allora nulla rileva a tal fine quando parliamo di immobili?

Assolutamente no.

Perché il debitore cattivo non smuove la sua situazione negli occhi della banca? Perché non riesce a dimostrare  di aver saputo cambiare nell’unica dimensione che interessa appunto ad una banca, la propria capacità di crescita virtuosa, la bravura a tenere sotto controllo i costi ed a valorizzare il proprio attivo.

E’ questo che lo Stato  deve dimostrare, in tutte le sue dimensioni, ma anche quella immobiliare che qui ci interessa, per uscire dalla crisi: bravura, bravura, bravura.

La bravura nella politica immobiliare si gioca su due terreni, che poco hanno a che vedere con la riduzione del debito di per sé o la proprietà, pubblica o privata. Due terreni di “politica industriale degli immobili”.

Il primo, di valorizzazione dello stesso, senza cederlo al privato. Per esempio aumentando drasticamente il numero di dipendenti per metro quadro agendo su questa seconda variabile, oppure rendendone i consumi energetici per dipendente adeguati a quelli di un buon amministratore privato. Questo sì che assicurerebbe una riduzione di spesa, buona per il deficit e dunque per il debito e buona per i mercati che la premierebbero con minori spread riconoscendo la qualità dell’azione del debitore, esportabile anche in altri campi (vedasi l’esperienza della spending review inglese sugli immobili).

Il secondo, là dove l’immobile pubblico si dimostrasse ridondante o di migliore pertinenza di utilizzo da parte del settore privato, richiede pur sempre una intelligente azione pubblica: quella che rende possibile e fruttuosa la valorizzazione da parte del settore privato. Un contesto socio-economico rassicurante per l’investitore, poche regole e burocrazia legati all’acquisto dell’immobile, disponibilità a venire incontro ai progetti del privato con una classe di funzionari pubblici giovani, competenti e onesti. In queste condizioni la vendita avverrebbe a prezzi alti e generando sviluppo, le sole due condizioni per abbattere il rapporto debito pubblico PIl ma anche per uscire dalla crisi.  

E’ una battaglia già avviata, quotidiana, che richiede, come tutto quello che è vera spending review e non fuffa comunicativa, investimenti: non solo per adeguare gli immobili per esempio a nuovi standard più efficienti di consumo, ma anche risorse al team coinvolto nell’opera di valorizzazione e poi sostegno dei vertici politici, monitoraggio costante, una classe dirigente competente e ben pagata dedicata a questo lavoro.

Certo che essa si aiuterebbe con una qualche trovata mediatica coerente con il messaggio di fondo. Suggerisco a Padoan e Renzi di dare subito un segnale credibile di volontà di cambiamento: spostare il Ministero dell’Economia e delle Finanze da quell’enorme palazzo ottocentesco a soffitti alti e spazi per dipendente enormi ad un più morigerato, efficiente ed efficace (spazi comuni invece di stanze solitarie possono generare più produttività) immobile in area decentrata. E poi, lavorando come Sistema Paese assieme al Comune di Roma,  modificare la destinazione d’uso di Via XX Settembre e farne, vendendolo con tutte le attenzioni dovute ad investitori di rilievo, il primo hotel a sette stelle di Roma.

Ecco come generare PIL, PIL sostenibile, crescita sostenibile, abbattere debito, spread e far uscire il Paese dalla crisi.

Grazie a Patte Lourde.

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Di draghi e di Draghi

Sono nato nell’anno del Drago. Ogni 12 anni capita. Sono bravo a riconoscerli. Leggo su Wikipedia: “I Draghi richiedono che le azioni, per loro o per gli altri, siano efficienti e sono sorpresi quando gli altri non riescono ad occuparsi di un compito; sono così trasportati dal processo di azioni che non vedono le debolezze delle altre persone”.

Effettivamente è così. Nulla mi tormenta di più dell’incapacità di Mario Draghi di occuparsi del suo compito, di evitare la deflazione che sta causando, incapace di sottrarsi dalla morsa della Buba tedesca. A volte penso che un tedesco alla guida della BCE farebbe meglio, non fosse altro che perché non dovrebbe passare la vita, come Monti o Draghi, a dimostrarsi più tedesco dei tedeschi.

Nulla mi tormenta di più dell’incapacità di Mario Draghi di non occuparsi dei compiti altrui, come di quello di fare le riforme. Perché altrimenti non si stimolano gli investimenti. Che,secondo Draghi, si stimolano, appunto, con delle misteriose riforme. A tal punto che – assente la capacità italiana di fare queste riforme - pur di farli ripartire, questi investimenti privati, bisogna farle fare a chi le sappia fare, ovvero alle tecnocrazie europee.

Mi basta qui ripetere cosa ha scritto al riguardo oggi per Repubblica un bravo economista, Paul de Grauwe: “è un’intromissione assolutamente inaccettabile sul terreno delle politiche delle riforme istituzionali di ogni singolo Paese, che è e deve restare dominio delle rispettive politiche. Draghi è solo un civil servant, bravo, serio e rispettato quanto si vuole ma che tale deve rimanere. Spero che non si ripeta più una vicenda del genere (come la lettera BCE del 2011, NdR). La BCE pensi alle sue responsabilità. Ha accumulato fin troppi ritardi e sta fallendo clamorosamente nel suo stesso ruolo di tutela dell’equilibrio della base monetaria: l’inflazione, continua a dire, deve stare sul 2%. Intanto stiamo andando in deflazione. E’ venuto alla luce il problema chiave dell’eurozona: deve dotarsi di strutture politiche proprie, che assumano decisioni in piena responsabilità. Altrimenti, se continua il paradosso della moneta senza Stato, senza fisco, senza bilancio, solo con una banca centrale, è meglio tornare alle monete nazionali“.

Io, da parte mia, mi soffermo solo su questa ultima assurdità che il crollo degli investimenti in Italia è dovuto alla mancanza di riforme. Basta leggersi che cosa ha scritto il Governatore della Banca d’Italia Visco (Draghi lo conosce bene) nella sua ultima relazione annuale di solo 3 mesi fa, al riguardo di cosa influenza gli investimenti privati.

E già. E qui casca l’asino: è l’andamento dell’economia, la scarsità di domanda derivante dalla deflazione che alza il costo del credito e dalla austerità che la BCE promuove ed incoraggia, che spiega perché gli investitori non scommettono più sul futuro, non investono più. E quindi non chiedono più credito a quelle banche che in fondo, per scelta della BCE, gli negano un futuro.

Guardate l’andamento dei prestiti bancari (tassi di crescita, grafico Banca d’Italia) e quello dell’economia italiana (tassi di crescita, grafico Istat). Notate nulla? Guardate bene.

E già. E’ l’economia ed il suo andamento (grafico di sotto) a guidare la scelta delle imprese di chiedere prestiti e delle banche dunque a prestare (grafico di sopra). Prendete per esempio il 2009, vedete come l’economia riprende (decresce di meno) nel secondo trimestre 2009 mentre i prestiti cominciano a farlo a fine 2009? La stessa cosa nel 2011, l’economia entra in crisi e poi crollano i prestiti.

Il disegno è chiaro. Dobbiamo fermarlo con le armi che ci restano: il referendum è la mia, dateci una mano, ce la faremo.

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La crisi spiegata ad un bambino

Che dire di Repubblica? Dopo avere invocato la Troika con Scalfari, cede il passo al mio collega Bisin che riesce a dire:

La questione concettuale importante da porsi è perché una prevista politica di domanda aggregata, di nuovi investimenti pubblici (suggerita dalla richiesta all’Europa di non includere gli investimenti nel computo del deficit) non abbia avuto gli effetti desiderati?

Excuse me?

L’Italia, per gestire questa crisi, ha fatto esattamente il contrario di quello che dice Bisin, governo Renzi compreso, ed ecco perché si trova in queste condizioni assurde.

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I numeri sono numeri, ed il PIL è il PIL. Purtroppo va chiarito ancora una volta che nel PIL non entrano né la spesa per interessi né la spesa pensionistica: sono trasferimenti da un cittadino ad un altro che non richiedono più produzione alle imprese. La spesa pubblica che incide sul PIL, perché genera servizi, beni, lavori è quella per stipendi pubblici e appalti.

Ed allora, per venire incontro a Bisin, facciamogli vedere cosa è successo alla spesa pubblica che incide sul PIL, su quel PIL che non c’è più, dal 2009, anno in cui la politica economica ha dovuto combattere, più male che bene, la crisi finanziaria del 2008.

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Basta vedere questo perfetto grafico Istat. Anche ad un bambino verrebbe spontaneo chiedere: “papà che è successo al PIL nel 2008?”.

“E’ sceso per la crisi mondiale, figliolo, dal tondo verde a quello celeste.”

“E nel 2009 come mai risale al tondo viola? E poi come mai riscende nel 2011 e non si ferma più fino al tondo arancione?”

Già, come mai? Non chiedetelo a Bisin.

Il papà dovrà spiegare che deve essere successo qualcosa di diverso tra quanto avvenuto tra il 2009 ed il 2010 e quanto avvenuto dal 2011 in poi. Ma non farà gran fatica: è successa una sola cosa  diversa, tra 2009 e anni successivi, nella politica economica, con buona pace dell’ideologia di Bisin, persona simpaticissima ma che ha smesso di fare l’economista da quando scrive per Repubblica.

E’ successo che nel 2009 – e solo allora – si è fatto quello che si fa sempre nelle crisi da mancanza di domanda interna di questo tipo: si è sostituita la domanda privata scomparsa e terrorizzata di imprese e famiglie con quella certa e visibilissima dello stato, fatta di maggiori appalti.

Cito il Ragioniere Generale dello stato: nel 2009 la spesa primaria corrente in termini reali (senza tener conto dell’inflazione) aumenta del 3,4% e la spesa in conto capitale (gli investimenti pubblici) 12,2%. E i risultati, dirà il papà, si vedono: il PIL riprende la sua marcia. E se solo avessimo continuato…

“Perché? Non l’abbiamo fatto?” dirà l’ingenuo pargolo.

“E no, è entrato in gioco un meccanismo europeo assurdo che si chiama Fiscal Compact, che ci obbliga a non usare la spesa pubblica quando l’economia soffre. Così la spesa primaria senza contare le pensioni ed i sussidi, quella che contiamo nel PIL è scesa da 432,6 miliardi del 2010 ai 420,7 del 2014. In termini nominali!! E i famosi investimenti pubblici? Tieniti forte figlio mio, da 51,8 a 45,4, una diminuzione di più del 10% in termini nominali, molto di più in termini reali tenendo conto dell’inflazione.

Abbiamo smesso purtroppo per te di costruire ponti e abbiamo smesso di spendere soldi per la scuola e l’università. Pensa soltanto che oggi ci vogliono 3 professori universitari che vanno in pensione per assumere un giovane ricercatore e che quest’ultimo viene pagato la metà dei suoi colleghi stranieri.”

“Papà ma questo Signor Bisin dice diversamente.”

“I dati sono i dati figlio mio, non si può cambiarli a piacimento. Te li rimetto qui eccoli:

“Ma papà, forse è perché gli italiani non vogliono questo tipo di spese?” “Beh figlio caro, direi di no: guarda i risultati di questo sondaggio dell’Istituto Piepoli…”

“Ma papà questo Sig. Bisin dice che non ci sono i soldi per fare tutte queste spese… “

“Beh, bisognerebbe dirgli che intanto i margini ci sono eccome: queste stupide regole europee a cui abbiamo aderito almeno prevedono che quando quella linea rossa del PIL comincia a scendere si possa interrompere la corsa a ridurre le spese e aumentare le tasse. E sai cosa? Con la crescita che esse genereranno daranno forza al Paese per essere ripagate senza maggiori tasse, anzi con meno in percentuale! Oggi invece il Paese è debole e per ottenere le stesse entrate bisogna tassare sempre di più in percentuale le persone. E i conti pubblici continuano a peggiorare.

Poi certo non c’è dubbio che dobbiamo dare l’assalto a quella parte di PIL dovuto agli appalti o agli stipendi che PIL non è perché non genera maggiore risorse ma solo trasferimenti verso gente che non lavora o verso imprese che corrompono. Ma questo non si fa in un battibaleno, e comunque bisognerebbe decidersi a cominciare a farlo…”

Che papà saggio. Invece di ridurre il deficit nel 2015, in recessione, dal 3% all’1,6% di PIL, siamo certi che consiglierebbe a Renzi di rimanere al 3% (o arrivare al 4 come Francia e Spagna) e usare questa opportunità per non aumentare le tasse, non tagliare a casaccio stipendi a maestri e ricercatori, poliziotti e medici, fare investimenti a Taranto per la bonifica del territorio, fare appalti per dare tecnologia avanzata ai nostri ospedali e per ricostruire molte più scuole di quanto non se ne intendano rimettere a nuovo oggi.

E’ così che ripartono le nostre imprese, i consumi delle famiglie, la riduzione del debito pubblico e della disoccupazione.

E nel contempo cominciare, ma veramente, la battaglia indefessa della spending review perché i nostri ospedali e le nostre scuole siano luoghi dove non si sprecano risorse e dove il servizio al cittadino è semplicemente eccellente.

Ecco, come si fa, caro Bisin.

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I nuovi guardiani dei conti facciano la guardia sui derivati del Tesoro

E così il Corriere ci dice che tutto è pronto per l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, la nuova Autorità prevista dagli accordi europei per monitorare i conti pubblici italiani.

Composta da tecnici e indipendente dalla politica. Anco più indipendente, almeno sulla carta, della temutissima Ragioneria Generale dello Stato“.

Addirittura.

Auguro ogni bene all’Autorità, di cui conosco molte persone che vi lavoreranno dentro e che stimo. Ma l’indipendenza dalla politica non dipende dalla bravura della persona. Dipende da una serie di fattori, tra cui certamente il carattere delle persone ed il contesto in cui lavoreranno. Ma anche da altri fattori.

L’aiuto all’indipendenza (specialmente in un contesto difficile come quello italiano, aggiungo io) suggerisce uno studio Ocse, può venire da regole nazionali che proteggano i membri ed i dipendenti dell’Autorità da intrusioni, oppure dal monitoraggio di istituzioni internazionali e infine dal … “costruirsi una reputazione per sapere fare analisi di buona qualità ed (appunto) indipendenti … Ma, costruirsi una reputazione necessita tempo e Autorità appena nate corrono ampi rischi politici all’inizio della loro esistenza.”

Non sono sicuro che costruirsi una reputazione porti necessariamente via tempo e sia un processo lento. Faticoso, certamente. Lo dico perché a volte la reputazione si ottiene con un gesto eclatante, quasi di scontro frontale, come nella vita: meglio subito e tanto che poco e lentamente, come sa bene qualsiasi ragazzino che arriva in una nuova scuola e deve ottenere il rispetto degli altri compagni, o come sa chiunque abbia fatto il servizio militare ed è entrato da “spina” dovendo affrontare i “nonni”.

Ecco, un suggerimento lo vorrei dare all’Autorità in tal senso. Si scelga una battaglia bella tosta, ben nota, che le costerà caro quanto ad amicizie politiche. Ma che, una volta vinta, porterà la sua reputazione alle stelle e la renderà veramente indipendente in un battibaleno.

Un’idea? Ma certo. Pretendano dal Ministero dell’Economia e delle Finanze la verità e solo la verità su tutta la situazione attuale dei derivati del Tesoro: ammontare di nozionali, valori di mercato, controparti, contabilizzazione. Sappiamo che Renzi e Padoan in conferenza stampa quando partì il Governo annunciarono piena trasparenza: ovviamente come per tutti gli altri Governi, nulla si fece, nulla si dice.

Scopriremmo così finalmente che non c’era nulla da nascondere, come ha sempre dichiarato il Tesoro, e vivremo tutti più felici e contenti, probabilmente anche con un calo dello spread dovuto alla maggiore fiducia che gli investitori nutriranno sulla stabilità dei nostri conti pubblici.

In assenza di una mossa dell’Autorità di questo tipo, beh, sarà dolce e noioso il navigare di una Autorità che resterà sempre, nella mente dei più, un organo al servizio della politica più che del cittadino.

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Caro Renzi, faccia come FDR, salvi l’aereo italiano nella tempesta, rimandi le riforme

Ogni giorno che passa ci avviciniamo al giorno X in cui sapremo cosa farà il Governo Renzi veramente sul Fiscal Compact e le sue ingenue ed ottuse prescrizioni. Ogni giorno che passa Renzi comprende un pochino di più, visto che deve prendere decisioni che influenzano il bilancio pubblico, l’impatto dell’attuale contesto europeo – istituzionale ed economico – sul suo progetto per il Paese, se e come ne viene aiutato o come piuttosto le sue ali ne vengono tarpate. Ogni giorno che passa manca un giorno in meno alla approvazione della mega manovra finanziaria per il 2015 (ovviamente non farà nulla per il 2014, d’accordo con l’Europa che perlomeno così idiota non è e ha deciso di chiudere un occhio) che, se approvata come richiesto, rischia di uccidere Italia ed Europa.

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Ieri Renzi deve avere capito molto. Gli è stato “impedito” di portare a casa la riforma del ringiovanimento dell’Università, mandando a casa presto i professori ultra cinquantenni. Non si può fare, non ci sono i soldi, dice la Ragioneria. Ora, io non so bene se questa è una riforma giusta o meno dell’università. Se dovessi dire la mia direi no, che c’è bisogno di ultrasessantenni all’Università, ma insieme a molti molti più posti, meglio pagati, per i giovani. Il che significa comunque avere bisogno di più soldi.

Ma supponiamo per un attimo che la riforma di Renzi sia quella giusta, quella che lui voleva fare perché coerente con la sua visione del mondo.

Ecco, ora Renzi sa. Sa due cose. Primo, che le riforme costano. Secondo, che in una recessione e in più con il Fiscal Compact che preme - chiedendo più tasse e meno spese in una recessione! - le riforme generano ancora più facili mal di pancia e ribellioni (mancano le risorse per compensare i perdenti). E che quindi non si fanno.

Torno al mio punto di sempre. Le riforme dopo, la crescita subito. Il che significa, siccome crescita di breve periodo si ottiene solo con la politica economica, via il Fiscal Compact e via la BCE che ci mette nei guai con la deflazione e l’aumento degli spread dei tassi d’interesse reali.

La metafora che faccio sempre dell’aeroplano in volo si arricchisce. Il Fiscal Compact è il pilota automatico che funziona in assenza di turbolenza. Ora si balla eccome, a causa della crisi. Col pilota automatico si sbatte contro la montagna, ci vuole il pilota che prenda in mano il velivolo. Il che significa moratoria sul Fiscal Compact (la nostra battaglia col referendum è mirata a ciò) e discrezionalità maggiore nelle politiche di bilancio, rinviando l’ottuso bilancio in pareggio a momenti buoni per l’economia. Le riforme? E’ ovvio che si balla molto perché l’aereo italiano non è in buono stato. Ma non si rimette certo a posto in volo. Lo si fa abilmente atterrare, si salvano i passeggeri, e poi si rimette a posto. Con le riforme, a cominciare dalla spending review.

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Badate bene, non è argomento da poco quello che sollevo. Lo ricordò chiarissimamente Keynes al Presidente Franklin Delano Roosevelt in una lettera celeberrima che val la pena riprendere nuovamente:

Caro Signor Presidente,

  … vi siete lanciato in un duplice compito, ripresa e riforma: ripresa dalla recessione ed il passaggio di quelle riforme sociali e di mercato che sono ormai da tempo necessarie. Per quanto riguarda il primo compito, velocità e risultati rapidi sono essenziali. Il secondo può essere anch’esso urgente: ma troppa fretta potrebbe essere nefasta e ci vuole in questo caso la saggezza del lungo periodo, qui più necessaria del risultato immediato. Sarà grazie al prestigio derivante per la sua Amministrazione del conseguire la ripresa nel breve periodo che avrà la forza per compiere le riforme di lungo periodo. Affrontare ora una riforma anche se questa è saggia e necessaria, può per certi versi stravolgere la fiducia del mondo imprenditoriale …

In generale, un incremento della produzione non può che avvenire con uno di questi 3 modi:

1) le famiglie devono essere indotte a spendere di più,

2) le imprese devono essere indotte, o tramite maggiore fiducia sulle prospettive future o tramite minori tassi d’interesse, a generare più reddito nelle mani deila propria forza lavoro o …

3) le autorità pubbliche devono essere invocate in supporto della creazione di redditi addizionali tramite la spesa di denaro preso a prestito o stampato.

In tempi cattivi il primo fattore non può funzionare in larga scala. Il secondo fattore entrerà in gioco solo dopo, come successivo attacco alla recessione, una volta che la marea sia stata respinta dalla spesa pubblica, da cui ci possiamo aspettare il maggiore impulso.

Gli insuccessi di questi primi sei mesi del suo mandato sono da addebitare all’ovvia conseguenza del fallimento da parte della Sua amministrazione di apportare incrementi sostanziali nella spesa pubblica via deficit. La situazione tra 6 mesi dunque dipenderà interamente dal fatto che abbiate costruito le fondamenta per un programma più ampio di spesa per il futuro.

Se mi chiedesse cosa fare per il futuro immediato Le direi quanto segue:

  Nel campo della politica domestica, prima di tutto è necessario un ampio programma di spesa. … Non rientra nelle mie funzioni indicare in quali campi della spesa pubblica. Ma darei preferenza a quei progetti che possono maturare rapidamente ad una dimensione notevole …Secondo poi, si dovrà mantenere ampio ed abbondante credito, curando in particolare la riduzione dei tassi a lungo termine.

Con questi adattamenti o ampliamenti delle vostre attuali politiche, mi attenderei un esito di successo con grande sicurezza  Quanto ciò sarebbe significativo non solo per la prosperità materiale degli Stati Uniti e del mondo intero, ma anche  conforto dei crucci delle persone tramite una restaurazione della loro fiducia nella saggezza e nel potere del Governo! 

Con grande rispetto. Il suo servo obbediente,

JMK.
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A ben pensarci, non è colpa di Carlo Cottarelli

Voglio parlarvi di spending review, spesa pubblica, Governo, Paese. Sono molto preoccupato per le sorti della prima e dell’ultimo.

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In Italia il settore pubblico non spende molto. Le slide che vi mostro sono tratte da una lezione recente a Tor Vergata del ragioniere Generale dello Stato, Daniele Franco. La prima mostra come l’Italia tuttora spenda, in spesa primaria (spesa totale esclusi i trasferimenti per interessi), meno del resto dell’area euro. Eppure non potrà sfuggire ai più come il differenziale di spesa tra Italia e resto di Europa si è ampiamente ridotto in questi ultimi 20 anni.

La chiusura del gap di spesa primaria (comunque noi rimanendo più “virtuosi” della media degli altri Paesi) è avvenuta in due periodi storici e con dinamiche decisamente diverse.

La prima volta? Prima dell’ingresso nella moneta unica – dopo la prima metà degli anni 90 . Il gap si chiude non perché noi spendiamo di più in termini di spesa primaria, ma perché sono gli altri a spendere di meno. Tutti dovevamo fare in quegli anni uno sforzo per rientrare nei parametri fiscali richiesti dell’euro: gli altri lo fecero sulla loro spesa primaria ben più alta della nostra, noi invece sulla spesa per interessi che era altissima a causa del debito pubblico. E il merito non fu di Ciampi, né di Prodi (che agì, comunque meritoriamente e temporaneamente, sul lato delle entrate con la famosa tassa sull’Europa) come vuole la vulgata, ma di un signore ancor oggi poco gradito ai salotti buoni, si chiama Antonio Fazio, allora Governatore della Banca d’Italia, che si batté, vincendo, da vero falco coraggioso contro (quasi) tutti per abbattere  le aspettative inflazionistiche e far crollare il premio nominale sui tassi d’interesse applicati ai nostri titoli.

La seconda volta? Quella invece è tutta colpa nostra e la vedete nel cerchio verde: negli anni in cui l’economia italiana ancora un pochino tirava, dal 2001 al 2006, prima della crisi del 2007, mentre la spesa primaria degli altri paesi rimane sostanzialmente stabile, da noi cresce di 2,5 punti di PIL. Dato il nostro debito, avevamo l’obbligo e l’intelligenza di non farlo e esercitare prudenza almeno come gli altri Paesi europei: non lo facemmo, ed oggi forse ne paghiamo le conseguenze.

Il grafico sotto mostra ancora meglio come, in quegli anni così critici, le dinamiche effettive sfuggirono di mano rispetto alle previsioni.

Dal 1998 al 2007 la crescita economica in Germania fu praticamente uguale alla nostra, ma mentre questa mantenne costante la spesa corrente primaria (spesa senza interessi né investimenti pubblici) in rapporto al PIL, noi la lasciammo aumentare in valori reale del 2,1% annuo.

Rimane il fatto che spendiamo da allora come l’Europa, non di più.

Ma a quell’errore di allora stiamo oggi, o meglio dal 2010, sommando un altro errore marchiano, assurdo. Spendiamo con il settore pubblico di meno, molto di meno, proprio ora che avremmo bisogno di spendere di più per venire incontro alla scomparsa della domanda privata dall’economia. I numeri, sempre esposti dal Ragioniere Generale, sono chiarissimi. Dal 2010 ad oggi la spesa primaria corrente senza tener conto delle pensioni (altro trasferimento che non incide sul PIL, quindi è bene fare i conti senza) è scesa in valore nominale (senza tener conto dell’inflazione) da 432 a 420 miliardi (di 6 miliardi in meno quella per beni e servizi, di 10 quella per stipendi pubblici). Ma per comprendere bene le dinamiche di questa crisi è meglio citare dei numeri che uniscano passato recente e futuro prossimo, inserendoli nel contesto di quanto promesso all’Europa dai nostri Governi, così da far comprendere come stiamo influenzando le aspettative, già cupe, di famiglie ed imprese. Ecco a voi  i numeri 2010-2018, variazione complessiva: spesa corrente, -3,3% in termini reali; spesa in conto capitale, -31,3% in termini reali.

Ecco l’Italia non spende tanto, ma spende male. Spende male due volte: nella qualità, sprecando e non facendo quanto necessario per evitarlo,  e nel timing, spendendo tanto quando non ce n’è bisogno e poco quando ce n’è l’assoluta necessità.

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Di errori Carlo Cottarelli ne ha fatti tanti. Non ha reclamato quando sin dall’inizio gli sono stati dati solo 5 dipendenti a tempo non pieno e senza competenze specifiche per fare un lavoro che ne meritava 500 specializzati. Ha fatto scrivere nel DEF numeri (i 17 miliardi del 2015) di tagli di spesa assolutamente disastrosi per l’economia perché di fatto tagli lineari a casaccio: una cifra di quel genere si raggiunge soltanto in svariati anni di testardo lavoro, come dimostra l’esperienza britannica, e non in pochi mesi. Ed, in ultimo, ha fatto passare l’idea che non si possono spendere i risparmi eventuali di spesa per fare investimenti pubblici (come fa il Regno Unito) ma solo per ridurre le tasse, cosa di cui l’economia italiana non si gioverà in questa crisi, come non si è giovata del bonus di 80 euro.

Ma a pensarci bene non sono errori di Carlo Cottarelli. Sono gli errori di chi non ha dato personale a Cottarelli, di chi ha detto in Europa che pur di seguire quanto richiesto dal Fiscal Compact si sarebbe ridotta di 17 miliardi la spesa, senza nemmeno sapere da dove cominciare, di chi continua a pensare che abbattendo stipendi pubblici, investimenti pubblici e domanda pubblica di beni e servizi l’economia in questa crisi da domanda si risollevi.

Sono gli errori di tre governi, Monti, Letta e, ormai pare sia così, Renzi che paiono vederla in fondo allo stesso modo su quanto (poco) sostenere effettivamente un  lungo e complesso progetto di spending review tramite la loro leadership ed il loro appoggio incondizionato; su quanto (poco) combattere effettivamente delle regole europee assolutamente astruse e recessive; su quanto (poco) resistere all’ideologia che la spesa pubblica è il male assoluto e solo le minori tasse (mai attuate in realtà) ci salveranno da questa crisi, contro ogni evidenza empirica.

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Rovesciare la sequenza di politica economica è essenziale

Dal Garantista di ieri.

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Un Paese, pare l’Italia, che ha perso la bussola della crescita economica. Qual è la strada giusta da prendere? Sono alcuni anni che abbondano le formule più svariate per far ripartire il motore dell’economia italiana. Da un lato ci sono gli “emergenzialisti” che suggeriscono proposte straordinarie dalle magiche proprietà taumaturgiche: uscire dall’euro, abbattere il debito pubblico vendendo gli immobili, abbattere il debito con una patrimoniale, abbattere il debito rifiutandosi di ripagarne una parte. Come se i problemi italiani non avessero una componente strutturale destinata a perdurare in assenza di un cambio di marcia profondo. Dall’altro ci sono i c.d. riformisti, che suggeriscono, non sempre in maniera convincente e a seconda delle sensibilità di ognuno, una modifica a: costo del lavoro, lotta all’evasione, dinamiche della produttività, peso della burocrazia, rigidità a licenziare o assumere, costo dell’energia. Come se i problemi italiani non avessero una componente legata all’andamento ciclico dell’economia europea e delle regole che questa si è data per gestirlo.

Ci si soffermi a studiare gli ultimi quindici anni che sono stati, quanto a performance economica del nostro paese, il peggior periodo dall’Unità d’Italia ad oggi. Siccome la crisi internazionale è arrivata solo a metà di questo quindicennio, è ovvio che questa si è sommata in maniera tragica a delle carenze tutte nostrane, figlie di una ritardata percezione dei cambiamenti globali in corso successivi a due eventi epocali: il crollo del muro di Berlino e l’avvio della marcia capitalistica cinese.

Riforme e sostegno ciclico all’economia sembrano dunque ambedue necessari per riavviare la crescita in Italia. Ma vi è un’altra dimensione fondamentale della strategia di ripresa che pare sfuggire ai più: la sequenza temporale di queste due esigenze. L’impianto istituzionale europeo è ormai indirizzato a condizionare eventuali sostegni all’economia alla adozione preventiva di “riforme” da parte dei singoli governi nazionali e spesso a politiche di conti pubblici sempre più in equilibrio. Così la BCE di Draghi condiziona gli aiuti da Francoforte a deficit pubblici sempre più bassi a forza di maggiori tasse e minori spese, mentre la Commissione europea fa intravedere  un qualche margine di flessibilità, ma solo a “riforme ben avviate” e senza deviare da un processo di risanamento delle finanze pubbliche. E’ una sequenza che si è rivelata fallimentare: la politica monetaria della BCE con questo suo approccio non muta le aspettative cupe degli operatori economici (se io so che con una mano mi dai e con l’altra mi levi non sento certo sollievo) mentre la politica fiscale fa esattamente l’opposto di quanto si insegna al primo anno di università, levando risorse all’economia proprio quando sono più necessarie. Ingenerando in primis un clima di sfiducia, stagnazione, declino, le riforme non potranno mai avviarsi; proprio perché queste, per avere successo, hanno bisogno di un clima sereno e di risorse per compensare i perdenti.

E’ ovvio che il timing strategico del cambiamento in Europa debba essere rovesciato: prima si interviene a sostegno di chi soffre, riportando il sereno nei Paesi in difficoltà, e prima si rivelerà semplice e fruttuoso il cammino delle riforme. Al “whatever it takes” di Draghi, frase celebre per indicare che si farà tutto quanto il necessario per non affondare, deve ora seguire una nuova fase, quella del “wherever it aches”, del sostegno dovunque ci sia sofferenza. Anche perché, lo sappiamo bene, il migliore credito, quello che viene sempre rimborsato, è quello che nasce da un gesto di solidarietà, che l’Europa purtroppo sembra non avere ancora fatto proprio nel suo DNA.

Per intervenire ovunque vi sia sofferenza c’è bisogno di rimuovere il tappo principale all’avvio di una fase di aiuto concreto alle economie in maggiore difficoltà come l’Italia. Se l’Europa si è dotata di un pilota automatico, chiamato Fiscal Compact, che indica senza se e senza ma il percorso di riduzione del debito pubblico a forza di maggiori tasse e minori spese (anche a casaccio e non chirurgiche, non mirandole ai veri sprechi) è evidente che nell’attuale turbolenza l’aereo europeo rischia di schiantarsi contro la montagna. A meno che non si ridiano le leve del comando al pilota. Il che significa permettere ad ogni Paese membro dell’area euro di adeguare la sua rotta tramite la moratoria a monte sulle riduzioni acritiche di debito e deficit che impone il Fiscal Compact. Non è pensabile, sfida qualsiasi logica, che l’Italia in questa fase in cui rischia di generare il suo terzo anno di recessione consecutiva, si leghi le mani a colpi di manovre finanziarie che aumentano gli avanzi primari (tasse meno spese al netto degli interessi) dell’1% di PIL annuali (15-16 miliardi). E a nulla varranno le richieste di maggiore flessibilità invocate qui e lì: si parla al più di bruscolini, morfina al paziente che per sopravvivere sotto le macerie della crisi necessita di ossigeno.

Una volta ripreso il controllo dell’aereo, lo ripetiamo, avremo bisogna anche di un buon pilota: sarà quello il momento di avviare le riforme per riportare la società e l’economia italiana al centro del mondo globalizzato, come la precedente generazione ha fatto (sì, è possibile!) con orgoglio, entusiasmo e sacrifici comuni e condivisi all’uscita della seconda guerra mondiale.

Di fronte tuttavia al silenzio che circonda da anni questa ovvia prospettiva per salvare la costruzione europea, abbiamo deciso di non attendere più a lungo che Europa ed Italia sciogliessero la loro ambiguità fatta di ripetute e vuote rassicurazioni. Un gruppo di economisti e giuristi di estrazione culturale diversissima si è trovato unito all’interno di un Comitato Promotore, di cui ho l’onore di essere il responsabile, per una iniziativa referendaria volta ad abrogare delle parti di quella legge (la 243 del 2012) voluta dall’Europa e da Monti che importa il Fiscal Compact in Italia. Siamo in questi giorni e fino alla fine di settembre in tutte le piazze d’Italia e nei Comuni a raccogliere le 500.000 firme sui 4 quesiti che i nostri costituzionalisti hanno individuato all’interno della legge come abrogabili perché chiedono addirittura maggiore austerità di quanta non ce ne richiede il Fiscal Compact (più informazioni su www.referendumstopausterita.it) . Siamo certi che riusciremo con la nostra iniziativa non solo a rimuovere l’eccesso di zelo montiano che ha voluto più austerità di quanta richiesta dall’Europa ma anche a avviare un dibattito in tutto il Paese e speriamo nel continente su quale tipo di politiche siano la più appropriate per rilanciare il sogno europeo. Nulla di meno è quanto riteniamo necessario.

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Che ci piaccia o no, l’Europa siamo noi

Difficilmente viene naturale riprendere quasi nella sua interezza un articolo di giornale. Ma trattandosi di Guido Tabellini, uno dei nostri migliori economisti, e avendo svolto lui un ragionamento di una linearità ammirevole che condivido QUASI in toto e che è in gran parte quanto da quasi 3 anni ripetiamo su questo blog, beh, val la pena citarlo (in corsivo) ad ampie mani dal Sole 24 Ore (grazie a Paolo per avermelo segnalato) e commentarlo.

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Gli ultimi dati deludenti sulla crescita nell’area euro e in Italia confermano, se ancora ce ne fosse bisogno, l’inadeguatezza della strategia di politica economica seguita finora in Europa. Ogni Paese deve risollevarsi da solo, con riforme dal lato dell’offerta per riacquistare competitività, e con politiche di bilancio restrittive per riassorbire il debito pubblico. Ma il problema oggi nell’area euro è la carenza di domanda interna, non la competitività, e la stagnazione impedisce il rientro dal debito.

Nulla da aggiungere, perfetto!

Questo problema può essere risolto solo a livello europeo: i governi nazionali non hanno strumenti efficaci per stimolare la domanda aggregata, perché hanno le mani legate dal patto di stabilità e non hanno sovranità monetaria.

Qui leggo i prodomi del fallimento del ragionamento di Guido. Hanno le mani legate? Sleghiamole! Non abbiamo sovranità monetaria? Riprendiamocela! Ma ci torniamo più avanti, l’analisi di Guido si fa sempre più interessante.

Dal punto di vista tecnico, la soluzione sarebbe semplice e non avrebbe grosse controindicazioni. Ogni Paese dell’area euro dovrebbe tagliare le imposte di un ammontare rilevante (ad esempio del 5% del reddito nazionale), finanziandosi con l’emissione di debito a lungo termine (30 anni), e impegnandosi a ridurre i disavanzi nell’arco di cinque o sei anni, attraverso una combinazione di maggiore crescita e tagli di spesa. Il debito emesso dovrebbe essere acquistato dalla Bce, senza sterilizzarne gli effetti sull’espansione di moneta.

Il coordinamento tra politica monetaria e fiscale sarebbe essenziale per il successo dell’operazione: l’espansione monetaria farebbe svalutare il cambio e arresterebbe le spinte deflazionistiche; l’acquisto di titoli di Stato da parte della Bce eviterebbe l’aumento del costo del debito e, restituendo gli interessi sotto forma di signoraggio, ne alleggerirebbe il peso. E il taglio delle imposte darebbe uno stimolo diretto alla domanda aggregata, in un momento in cui i tassi di interesse sono già a zero e il canale del credito è bloccato dalle sofferenze bancarie.

E va beh, non si può avere tutto dalla vita. Tabellini, come Perotti, Alesina e Giavazzi, credono che l’abbassamento delle tasse e la riduzione della spesa (non degli sprechi, della spesa, ma ci torniamo dopo) siano espansivi. Non sarebbe difficile fargli vedere che tutti i dati scientifici a disposizione mostrano che tagli di spesa sono molto recessivi e diminuzioni di imposte poco efficaci in una recessione da domanda di questo tipo perché famiglie ed imprese non spendono le minori tasse ma le tesoreggiano in attesa che torni il bel tempo. Ma sostituite con “maggiori investimenti pubblici” le sue “minori imposte” e con “tagli di sprechi” il suo “tagli di spesa” (e già, non sono la stessa cosa) e ci ritroviamo perfettamente. Anche se mi domando: non sta Guido in questo passaggio chiedendo proprio di slegare le mani legate dal Patto di Stabilità e dalla mancata sovranità monetaria, cosa che poco prima dichiarava impossibile?

Questo è sostanzialmente quanto hanno fatto o stanno facendo, con modalità diverse, Stati Uniti, Inghilterra e Giappone per uscire dalla crisi. Eppure un’ipotesi del genere nell’area euro è pura fantascienza, perché si scontra con i vincoli istituzionali di Maastricht e con il veto politico della Germania che teme l’azzardo morale. Di qui a sei o nove mesi probabilmente la Bce sarà comunque costretta ad acquistare i titoli di Stato, per cercare di contrastare la deflazione. Ma l’intervento sarà ancora una volta timido e tardivo, e soprattutto, senza l’aiuto della politica fiscale, poco efficace. In questo disarmante quadro europeo, cosa può fare la politica economica italiana?

Ah ecco. Quindi il problema è effettivamente il disarmante quadro europeo. E allora perché non far qualcosa al riguardo? Non capiamo. Ma seguiamo il ragionamento sull’Italia per un attimo.

Innanzitutto, non deve fare errori. Questo vuol dire soprattutto non aggravare la carenza di domanda aggregata attraverso aumenti della pressione fiscale. La cosa è tutt’altro che scontata, perché l’assenza di crescita mette a rischio gli obiettivi di bilancio, sia per l’anno in corso che per il 2015 (dove manca qualche decina di miliardi). Per il 2014 probabilmente non c’è più nulla da fare, ed è meglio avere un disavanzo sopra il 3% e se necessario rientrare nella procedura di disavanzo eccessivo, piuttosto che aumentare il prelievo.

Mmmmm. OK, quindi dobbiamo slegarci le mani dal Patto di Stabilità. Possiamo concordare, ma non è il contrario di quanto detto sopra? Andiamo avanti.

Per il 2015 non ci sono alternative al dare piena attuazione ai tagli di spesa identificati dal rapporto Cottarelli, accelerandone i tempi. È inutile illudersi che esistano imposte innocue; in questa situazione qualunque forma di maggior prelievo avrebbe effetti negativi sulla fiducia e sulla spesa privata.

Bene, siamo d’accordo. Ma attenzione, non chiamiamoli tagli di spesa, se non vogliamo incappare in tagli lineari che ammazzano ulteriormente l’economia. Devono essere solo tagli di sprechi, un po’ come ha fatto il Regno Unito di cui oggi molti celebrano il successo.

In secondo luogo, è importante fare tutto il possibile per evitare ulteriori aumenti del debito pubblico. Non tanto perché lo impongono i vincoli europei, ma per non perdere la fiducia dei mercati. Le privatizzazioni devono ripartire, andando oltre i modesti obiettivi indicati dal programma di stabilità del governo Letta e confermati da questo governo (1% del PIL ogni anno), e finora disattesi. La situazione sui mercati finanziari non è sfavorevole, e qualunque ritardo o esitazione sarebbe del tutto incomprensibile.

Un po’ banale questo passaggio (anche ricordando che le privatizzazioni sono previste per 0,7% l’anno): il debito su PIL sale perché il PIL scende. E continuerà a salire quando le privatizzazioni saranno finite (presto); non saranno certo loro a rassicurare i mercati che esigono crescita dall’Italia. Il che ci porta naturalmente alla proposta di Guido sulle famose riforme: come potevano mancare anche se all’inizio aveva detto che l’offerta non c’entra niente con questa crisi da domanda?

E le politiche dell’offerta per ridare competitività all’economia italiana? Anche se il loro effetto sulla crescita è dilazionato nel tempo, sono comunque urgenti e essenziali, per due ragioni. Primo, per rinforzare la fiducia delle imprese e dei mercati finanziari sulle prospettive future dell’economia italiana. Secondo, per vincere le resistenze europee ad adottare politiche macroeconomiche più espansive.

Ecco, le riforme non incidono ora sul PIL (quindi come abbattiamo il debito su PIL se non con politiche della domanda?). Ma servono per convincere la Germania a farci fare politiche più espansive (quanto espansive?). Può darsi. Ma quali riforme? Io penso per esempio che una buona spending review, assieme ad un abbattimento dei vincoli regolatori per le PMI, sia l’unica cosa di cui abbiamo veramente bisogno come riforma.

In altre parole: la crisi economica non potrà essere superata senza una svolta nelle politiche macroeconomiche di tutta l’area euro. Ma questa svolta non ci sarà senza riforme radicali nei paesi del Sud Europa. Che ci piaccia o no, questa è la realtà della moneta comune.

Insomma, capiamoci. Le riforme non servono a risolvere la crisi, la crisi si risolve con politiche fiscali che rinnegano il Fiscal Compact e che levano indipendenza alla BCE quando questa come oggi non rispetta il suo mandato, eppure… facciamo le riforme perché non possiamo fare altro e così forse ci permettono un pochino di fare la cosa giusta. Che ragionamento convoluto e poco efficace (se abbiamo bisogno di tanto spazio per la politica monetaria e fiscale come pensare che ne otterremo tanto a parità di regole?).

“Che ci piaccia o no, questa è la realtà della moneta comune”? Evidentemente Guido non ci piace, né a te né a me, ed allora perché non cambiarla? Per esempio battendosi contro il Fiscal Compact come stiamo facendo noi oggi con il Referendum contro l’austerità?

Quello che sfugge a Guido Tabellini è che l’EUROPA SIAMO NOI e se qualcosa non ci piace, la possiamo cambiare noi perché è cosa nostra, non altrui. Altrimenti, negandolo, Guido Tabellini avrà servito su un piatto d’argento la migliore ragione per la morte del progetto europeo: la sua mancanza di democrazia. E siccome Guido di studi sulla democrazia importanti ne ha fatti tanti si candida naturalmente come primo esponente degli economisti Bocconi a firmare il nostro referendum.