Possiamo dunque tranquillamente affermare che l’Unione monetaria europea è una unione più stabile oggi che un anno fa. E i mercati sono pienamente convinti che l’euro è una valuta forte e stabile.
Ma le condizioni economiche nell’area euro restano sfidanti. La scelta (che spetta all’Europa) è tra adattarsi alle nuove condizioni o non fare nulla e rischiare la dissoluzione.
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Christina Romer, ex-capo economista di Obama, nell’ultimo suo lavoro, ricorda come sia importante la politica espansiva per stimolare la domanda in periodi rari ma drammatici come questi, e come sia altrettanto importante influenzare le aspettative di imprese e famiglie affinché possa avere pieno effetto il moltiplicatore della spesa avviato da tali politiche, monetarie e fiscali, espansive.
Non a caso cita come esempio positivo l’incredibile assalto comunicativo di Franklin Delano Roosevelt nel 1933 (vedi lo splendido film del 1933, da lei citato, della casa MGM dal significativo titolo Inflation, postato poco fa sul blog, strumento di propaganda dell’Amministrazione Usa che prende in mano la politica monetaria ordinando alla Fed di aumentare drasticamente la base monetaria del Paese) per influenzare le aspettative d’inflazione, così da incitare alla spesa famiglie ed imprese indebitate.
Con successo: nel giro di tre trimestri, nel 1933, dal -6% atteso di deflazione al +7% di inflazione. E, altra faccia della medaglia dell’uscita da una crisi di domanda interna, un aumento del 57% della produzione industriale!
Simultaneamente, godetevi l’andamento del cambio del dollaro rispetto alla sterlina nel 1933, che si deprezza sostenendo la domanda estera, e la parallela ripresa del prezzo di un bene da export come il cotone, nuovamente ampiamente domandato grazie alla sua ritrovata convenienza.
E’ un grafico, quello del cambio dollaro-sterlina susseguente agli annunci di FDR, straordinariamente simile a quello dell’andamento recente dello yen rispetto all’euro a seguito della rivoluzione di politica economica da parte del Primo Ministro giapponese Abe. Un altro politico che non ha esitato a comunicare (la stessa politica: più moneta, più spesa pubblica) con forza la volontà di cambiare e rischiare pur di avere successo.
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La Romer se la prende invece con gli ambigui messaggi dei nostri giorni di Bernanke, troppo poco aggressivi e incapaci di influenzare le aspettative: “piccoli passi”, quelli del Governatore della Fed, li chiama. Piccoli, inutili, passi.
E che dire allora noi dei messaggi ambigui di cui sopra di Draghi che da un lato parla di fiducia piena dei mercati e poche righe dopo parla di “rischio di dissoluzione” se non facciamo nulla?
Bene, allora facciamo qualcosa. Facciamo. Facciamo, come dice Christina Romer. Ma spesso non si fa. Perché? Ascoltiamola quando parla dei due tipi di umiltà che possono caratterizzare le scelte dei politici.
“C’è l’umiltà dei decisori di politica economica che porta spesso alla paralisi. Se questi sono insicuri sull’efficacia di una politica o temono che possa avere alti costi, finiranno per non fare nulla o muoversi a piccoli passi. Perché assumere dei rischi quando non sappiamo se una politica funzionerà? … Il timore che tali politiche possano non funzionare o possano essere costose portò (nel passato, anche nella Grande Depressione) costoro a concludere che la cosa più prudente da fare era di non far nulla. Eppure c’è ampio consenso oggi che agire allora sarebbe stato efficace”.
“Ma c’è anche un altro tipo di umiltà ben più positiva … L’umiltà … di ammettere quando qualcosa non sta funzionando. Questo tipo positivo di umiltà porta a sperimentare. Piuttosto che assumere che non fare nulla sia la cosa migliore da fare, i responsabili delle politiche possono scegliere di agire aggressivamente sulla base della migliore, seppure imperfetta, evidenza disponibile.”
Ecco quando leggo Draghi parlare di rischi di non fare nulla, non vedo quella umiltà positiva che porta a rischiare. Vedo in lui, nella Germania e in tutti i nostri politici che alla Germania nulla dicono, l’umiltà di chi ha paura. Paura di rischiare per il bene del Paese.
Si chiama leadership. La stiamo ancora cercando.
27/05/2013 @ 09:31
Sono d’accordo: il problema, in buona parte, è anche quello della statura della classe politica europea, ma come se ne esce? Forse qualche piccolo passa avanti lo potremo fare dopo le elezioni tedesche? Certo il punto centrale è la politica economica europea, di cui quella monetaria dovrebbe essere solo una parte, mentre oggi è quasi l’unico elemento reale. Ma chi ha la forza culturale e politica per rilanciare il “sogno europeo”? Con tutto il rispetto non mi sembrano all’altezza, anche se per ragioni differenti, né Hollande, né Letta. Forse abbiamo avuto troppa fretta di “allargare” l’Unione, forse avremmo fatto meglio a consolidare il nucleo originale, chissà. Certo oggi registriamo una profonda crisi della rappresentanza in Europa e, ancor più, nella nostra dimensione nazionale. Comunque accanto a una politica di allargamento della base monetaria, a me pare ci siano altri due punti non trascurabili in termini strategici: a) la redistribuzione della ricchezza (politica dei redditi e politica fiscale anche in termini patrimoniali -per esempio politica per la casa-) b) efficienza del sistema pubblico, sia sotto il profilo del sistema normativo (di una complessità ormai da torre di babele) che sotto il profilo della “struttura mentale” della Pubblica Amministrazione (forse la casta meno identificabile e più sfuggente, ma sicuramente condizionante e spesso ottusamente chiusa nella propria autoreferenzialità corporativa). In pratica in questi anni abbiamo preso il peggio sia della cultura di destra (politica dei redditi e fiscale, allargamento della forbice retributiva, ecc.), sia della cultura di sinistra (statalismo, visione “onnivora” del pubblico, ecc.).