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La ripresina che uccide

I numeri dell’ultimo Bollettino Economico della Banca d’Italia?

I soliti.

Uno scenario roseo assai, trainato da una crescita che si fonda sulla delega al resto del mondo di salvarci (un export  che speriamo salga di 3% nel 2014 e di 4,4% nel 2015), l’unica fonte di domanda che spingerebbe le nostre imprese a ricominciare a credere nel futuro ed investire, con gli investimenti che ripartono alla grande (da -5,2% nel 2013 a +2,2% di quest’anno). Il perché la domanda pubblica è lasciata al palo rimane il segno ideologico di governi incompetenti che per paura di spendere male non provano a spendere bene.

Ci condannano, questi dati, ad esultare per una crescita economica 2014 del +0,7% (stima già più pessimista di quella finta governativa del +1%) che ben presto si tramuterà in numeri negativi (resto del mondo non permettendo), con il terzo anno di recessione consecutiva. La stima di Consensus, citata dalla Banca d’Italia, è già allo 0,5%. Aspettiamo rassegnati.

Ma c’è ovviamente una verità che nemmeno il finto ottimismo della burocrazia un tempo faro d’indipendenza riesce a nascondere: la disoccupazione sale addirittura ancora nel 2015, schiacciando i giovani. E con loro muoiono le altre giovani di quest’economia, le piccole imprese. Basta guardare ai numeri: è una ripresina monca che uccide chi potrebbe dare di più al Paese, le piccole imprese. Che non investono, manco morte, come mostra il grafico sottostante.

Le ragioni di questa ripresina monca? Basta leggerle nelle parole chiare di un passo del Bollettino:

Già, la domanda interna. E chissà perché, l’unico modo per far ripartire il volano (italiano ed europeo) della domanda interna da cui dipende una grande parte dell’economia, gli appalti pubblici, sono bistrattati. Mentre Obama elegge la nuova Presidente del Ministero della Piccola Impresa che riserva il 23% degli appalti alle piccole, facciamo trastullare leader incompetenti col gioco della ripresina monca che uccide il futuro. Quanto tempo sprecato, quanti giovani persi per strada, quante PMI morte per sempre. Leader pieni di parole per giovani e PMI, leader vuoti di fatti per giovani e PMI.

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La macchina infernale degli economisti

Ho letto con attenzione un importante saggio di 3 bravi economisti, tra cui un mio caro ex-collega di Tor Vergata, Luigi Guiso. Che cerca di spiegare perché l’Europa si è incartata in questo modo (a loro avviso, uno scontro culturale tra Germania e Grecia, simboli perfetti delle differenze endemiche del Continente) e prova a proporre come uscirne fuori (con un unico Ministro del Tesoro europeo, simbolo della c.d. “Unione fiscale”).

E’ un lavoro importante perché utilizza un modello teorico che mi aiuta effettivamente a comprendere il nocciolo della crisi in cui ci troviamo. E, come spesso accade in quella pericolosissima scienza chiamata economia, è anche un lavoro ingannevole (a livello di conseguenze di policy, non di ricerca) perché fa discendere da alcune assunzioni chiave – che tradiscono i giudizi di valore dei tre ricercatori –  delle opzioni di politica economica che si rivelerebbero drammaticamente sbagliate alla luce di una facile rivisitazione delle assunzioni di partenza.

Mi spetta dunque di portarvi all’interno della loro sceneggiatura con il distacco di un critico teatrale molto poco imparziale.

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Presentazione del modello: gli attori della tragedia europea.

I politici locali ed i loro elettori. Secondo i nostri 3 autori, i politici locali (greci o tedeschi) sono “vincolati da un obbligo di conformità”, ovvero non possono prendere decisioni lontane dal credo e dalla cultura del proprio elettorato (greco o tedesco). Mi pare un’assunzione legittima. Tuttavia loro lo descrivono, questo vincolo, come capace di impedire ai politici di raggiungere esiti migliori per la collettività, quest’ultima caratterizzata dunque da una qualche forma di miopia. Bene, avrete capito, siamo all’interno di un modello di “élite” che sanno meglio del popolo cosa va fatto. I leader tedeschi comprendono il costo dell’uscita dall’euro, i tedeschi no: ecco perché bisogna punire i greci, lo desidera la collettività tedesca, anche se è ovvio che questo rischia effettivamente di far uscire i greci dall’euro.

E comunque. Che rimane de “è la democrazia, bellezza” e del motto di Churchill che questa è “la forma peggiore di governo” eccezion fatta per tutte le altre? E che dire del rischio che l’illuminato politico senza “vincolo di conformità” persegua scelte disastrose (su questo la storia tedesca e la nostra hanno tanto da insegnarci credo) per tutti? Mi verrebbe ad esempio da dire che i leader greci non hanno mostrato una tale “visione” illuminata rispetto ai propri cittadini quando hanno truccato i conti pubblici nei primi anni del secolo, non sentendosi vincolati da nessun mandato anti-corruzione che i cittadini greci paiono avere nel loro DNA quanto i tedeschi, secondo l’ammissione degli stessi 3 autori.

Meglio sarebbe stato chiamarlo, visto che esiste, “vincolo democratico”. Ma siccome le parole contano, il tono leggermente spregiativo della parola “conformità” ci fa cominciare a capire dove andiamo a parare quanto a giudizi di valore.

Ma è troppo tardi. I semi della tragedia sono gettati e lasciamo il modello al suo destino così che si compia il fato terribile a cui è già predestinato dai giudizi di valore dei valenti 3 ricercatori.

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Atto I (parte 3): Il modello dell’unione monetaria europea.

Secondo il lavoro ci sono, in ogni società, due tipi di individui che interagiscono tra loro. Il primo, che fa la prima mossa: sceglie di essere “responsabile” o di “barare”. Tocca poi al secondo fare la propria scelta: punire il primo o perdonarlo.

Quante situazioni ci sono in ogni società di questo tipo? Concordo, non poche, mi piace l’approccio. I 3 ricercatori assumono ora quanto segue: il primo giocatore ritiene che sia sempre meglio barare ed essere perdonato che non essere responsabile. Il secondo giocatore ritiene che una volta che il primo abbia barato sia meglio perdonarlo che non punirlo, anche se sarebbe molto meglio se fosse stato responsabile. L’altra assunzione che  fanno i tre autori: una società dove tutti barano è peggio che una in cui tutti sono responsabili.

Forti di queste due assunzioni gli autori dimostrano che una società nel tempo può evolversi fino a raggiungere due tipi di situazioni collettive: una, ideale, dove tutti si comportano responsabilmente, grazie alla presenza significativa di alcuni individui che moralmente sono pronti a “punire chi bara”; un’altra, peggiore, dove tutte le interazioni sono caratterizzate da “bari” e da chi li “perdona”.  Fin qui, tutto ok. Ma sentite un po’, anzi indovinate. Così, senza troppe preoccupazioni, i nostri 3 autori chiamano il primo Paese, ideale, … Germania. Ed il secondo … Grecia.

Come mai? Beh è semplice. Qual è il punto chiave? Ovviamente il significato della parola “responsabile” che porta il peso morale di un atto “giusto” e dell’assunzione che essere responsabili è “meglio” per la società. Nella mente dei nostri tre autori è lineare assumere che è responsabile un Paese dove i debiti vengono ripagati e dove vengono puniti coloro che non ripagano i debiti; come altro definire dunque le due situazioni se non attribuendo il Paradiso alla Germania e l’Inferno alla Grecia?

A questo punto è anche inevitabile  scoprire, come fanno, che unire con una moneta unica due paesi diversi come Grecia e Germania, in assenza di eventuali altri maggiori vantaggi dall’unione monetaria, rende l’unione stessa più svantaggiosa rispetto ad una situazione con ogni Paese con la sua moneta. E lo è, questo svantaggio dall’unirsi, tanto più grande quanto maggiore è la … differenza culturale tra i due paesi: troppe diventano le situazioni di mancata cooperazione con i “cattivi greci” che vanno puniti, visto che distraggono lo sviluppo dall’ordinato rispetto delle clausole contrattuali.

L’unione monetaria si è fatta? OK, era in un momento in cui i vantaggi parevano sopravanzare i costi delle diversità culturali. Oggi, la percezione è opposta. Da qui, i 3 autori si domandano: “che fare”?

Intervallo. Il critico rimugina a voce alta su quanto ha appena letto.

Ma se … ma se  invece fosse “responsabile”, se invece definissimo responsabilità l’attitudine in un Paese ad aiutare quando vi è una crisi chi è in difficoltà, cancellandone i debiti, cosa succederebbe al modello? Molto semplice. Il Paese subottimale è quello dove si è promesso un aiuto che in un momento di difficoltà non viene dato (“il baro” del contratto sociale). Difficile pensare che questo Paese sia la Grecia, o peraltro, la Germania stessa, società caratterizzate al loro interno da forti meccanismi di solidarietà sociale. Diversità culturali sì, ma tra Paesi che al loro interno dispiegano ambedue un forte senso di solidarietà per chi soffre.

Ma forse quel Paese è l’area euro di oggi. Perché quanto abbiamo detto sopra, la solidarietà, viene più facile verso chi ha lo stesso nostro passaporto. Nel momento in cui un’unione monetaria per sopravvivere, come oggi, abbia avuto bisogno di solidarietà tra culture diverse, è possibile che sia cresciuta (rispetto al mondo prima dell’euro) la percentuale di coloro che hanno sentito mancare la tanto attesa solidarietà europea, ovvero che i tedeschi abbiano “barato” e non cooperato. E che i greci abbiano, per usare il modello dei tre ricercatori, “perdonato” i tedeschi, non uscendo dall’euro, e facendo sì che i veri free-rider di questa crisi siano stati i tedeschi.

Stesso modello, risultati opposto a seconda delle assunzioni che si fanno.

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Atto II: la sentenza degli Dei.

Che destino per questa unione imperfetta durante una crisi che la scuote alla radice?

Per i  nostri 3 ricercatori c’è una sola soluzione: l’Unione fiscale, un solo Ministro del Tesoro per tutti, greci e tedeschi, miracolosamente capace di mostrare una capacità di perdono più ampia di quella che hanno i tedeschi all’interno della loro società. Un Ministro del Tesoro dunque … più greco che tedesco. Ma non troppo greco, altrimenti si rischierebbe di finire nuovamente nella “pessima” Grecia.

E’ buona questa unione fiscale? Beh, evidentemente c’è un costo dal perdere la sovranità fiscale, ma gli autori presumono, come i tanti che credono che le crisi sono un momento ottimale per accelerare nel creare nuove istituzioni europee,  che il costo di tale perdita di sovranità sia minore in una crisi (il perché non è chiaro).  Quindi farla e farla subito.

Finisce qui la tragedia europea. Il critico spende qualche parola sul secondo Atto di questa macchinazione infernale.

Come tale unione fiscale, tra culture assunte giustamente essere molto diverse, possa nascere non è dato di sapere. Forse con un “colpo di Stato” che aggiri ambedue i “vincoli di conformità/democrazia” del proprio elettorato? E chi garantisce che il Ministro del Tesoro europeo non sia piuttosto molto più tedesco che non greco, portando ad un peggioramento ulteriore, se possibile, per la Grecia?

La diversità di culture non è, come argomentano gli autori, la causa del fallimento europeo. Ne è piuttosto la sua forza. Rimane da comprendere piuttosto come si governa un’area che tutt’ad un tratto, a causa del passaggio all’euro, a fronte di vantaggi futuri da toccare con mano, aumenta le difficoltà di governare tale differenziazione culturale nel Continente.

La risposta sta forse nel comprendere in cosa consista la diversità di culture. Gli autori definiscono cultura “le strategie attuate dai cittadini”, senza affrontare per loro stessa ammissione “la fonte di questi valori culturali individuali”. E’ un peccato, perché magari avrebbero potuto scoprire, visto che ad esempio il disprezzo per la corruzione è simile tra Germania Grecia, la differenza di comportamenti tra greci e tedeschi può essere ricondotta, ancora prima che a differenze culturali, a una differenza di contesti, spesso più facili da influenzare che non le culture con l’azione politica. E che dunque non sarebbe tanto utile “levare potere alla Grecia” con una Unione fiscale quanto “indirizzare l’azione politica” verso una modifica del contesto. Su questo, per esempio, da tempo sul blog chiediamo, piuttosto che un’Agenzia Bancaria Europea, un’Autorità Anti Corruzione Europea, ben più utile per sostenere la volontà di tanti europei che vogliono restare insieme.    

Questo non significa che non vi siano, così come suppongono giustamente i 3 autori, differenze culturali. Solo che queste non risiedono in una qualche forma di “superiorità morale” dei “cooperatori” tedeschi.

La verità è che i leader tedeschi hanno già mostrato la capacità di essere solidali, e proprio in quel momento  gli spread sono crollati. La verità che gli stessi leader tedeschi hanno spesso e volentieri condonato e partecipato allo sviluppo greco in senso sbagliato degli anni 2000. Il problema non sono le culture di riferimento. Il problema è l’incapacità dei leader di fare quel mestiere che la democrazia consente loro di fare, rappresentare un mandato popolare con intelligenza, leadership  e competenza.

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Letterine di inizio anno

Ecco la lettera al Direttore del Foglio di Giuliano Cazzola, e la mia risposta pubblicata sullo stesso giornale.

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Al direttore – Fioriscono le iniziative di economisti che prendono di mira i capisaldi delle politiche di risanamento europee ( da ultimo il fiscal compact) a loro dire imposte dalla Germania. Ricordo solo che Paul Volcker, il presidente della Fed all’inizio degli anni ’80 – colui che con le misure adottate “uccise il drago dell’inflazione” – a chi lo accusava di comportarsi come un membro della Banca centrale tedesca, replicava: “Non la considero una critica, ma un complimento: li’ sono in ottima compagnia”.
Giuliano Cazzola

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Caro Direttore,

il 10 prossimo venturo I Viaggiatori in Movimento si incontreranno con insigni giuristi per discutere della possibilità tecnica di un referendum che – coerente con l’euro e la sostenibilità del debito pubblico sancita dalla costituzione – dismetta il fiscal compact che ucciderà la stabilità dei conti pubblici e la pace europea tra Germania ed Italia.  A Giuliano Cazzola che ricorda il ruolo prezioso della Bundesbank, ricordo a mia volta che proprio su questioni valutarie interne, l’unificazione monetaria tedesca, Karl Otto Pöhl, allora Presidente della banca centrale tedesca e ad essa contrario, ebbe modo di essere esautorato a causa dell’intransigenza al riguardo di Helmut Kohl, politico a cui siamo ancora grati come europei e liberali. Ci sono momenti nella storia in cui la preziosa tecnica deve lasciare spazio alla visione politica. E’ di quest’ultima di cui abbiamo disperatamente bisogno oggi.

Un caro saluto,

Gustavo Piga

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Lo spread peggiora. Che fare?

Cosa celebriamo con uno spread al di sotto di 200 punti base (2%) rispetto alla quota 400 (4%) circa di inizio 2012? Non un più basso costo reale del debito, cioè quanto potere d’acquisto devono cedere i contribuenti italiani al Tesoro via tassazione per finanziare il rimborso delle cedole per interessi ai detentori di debito pubblico italiano.  Né un più basso costo del credito in termini reali da parte delle imprese, cioè quanta parte dei loro ricavi queste devono dedicare al rimborso delle spese per interessi su finanziamenti.

Anzi, rispetto ad allora le cose sono un po’ peggiorate. Anche rispetto ai valori di estate 2012, poco prima di quando Draghi, autorizzato dalla Merkel, avviò un salvataggio parziale della Grecia via politica monetaria, e gli spread dell’euro sud impazzivano, l’Italia in termini reali non sta oggi poi così meglio.

Prendiamo il primo trimestre 2012 rispetto ad oggi: gli spread erano di circa 200 punti superiori, se calcolati in base al tasso nominale dei BTP e Bund, ovvero degli euro che i rispettivi governi si impegnavano a restituire ai detentori dei titoli, chiedendoli appunto ai contribuenti.

Ma né ai detentori dei titoli né ai contribuenti interessa quanti euro ricevono o devono pagare: interessa piuttosto il potere di acquisto di quegli euro di cui entrano in possesso o a cui devono rinunciare. Tutte le zucchine, patate, vacanze, autovetture che possono ora acquistare o a cui  devono rinunciare.

E qui le cose si fanno gravi assai. L’inflazione tedesca ad inizio 2012 (riga verde) viaggiava attorno a quota 2,5%, la nostra al 4%. Insomma un euro valeva molto meno in Italia che non in Germania rispetto all’anno prima. Oggi invece l’inflazione tedesca è all’1,5% circa, quella italiana allo 0,8% circa, se devo dare ragione ai grafici sotto. Quando lo stato chiede un euro ai contribuenti per pagare un euro ai detentori dei titoli, quell’euro costa (vale) molto di più in Italia che non in Germania.

La differenza tra tassi reali nel 2012 era di circa 2,5% (allo spread di 4% andava sottratto il nostro “vantaggio” inflazionistico di allora di circa 1,5%) a sfavore (favore) dei contribuenti (detentori di titoli) italiani. La differenza tra tassi reali oggi è di circa 2,7% (allo spread di 2% va aggiunto il nostro “svantaggio” inflazionistico di allora di circa 0,7%) a sfavore (favore) dei contribuenti (detentori di titoli) italiani.

Siccome i tassi reali governativi finiscono per impattare sui costi bancari nazionali – anche a causa dei titoli di Stato nazionali e dunque del rischio analogo che le banche hanno in portafoglio  - questo maggiore svantaggio non è solo a danno dei contribuenti italiani: è anche a danno delle imprese italiane che devono restituire alla banca, per ogni euro che ricevono in prestito, più profitti di quanto non ne debbano restituire le imprese tedesche, minando la nostra competitività relativa.

Lo spread è la misura della paura che hanno i mercati di una eliminazione del debito via default e non via inflazione. Come accennato da Reinhart e Rogoff di recente in un lavoro per il Fondo Monetario Internazionale, si materializza più concretamente lo spettro di un consolidamento per risolvere l’impasse europea.

L’ingenuità politica di R&R e forse del FMI? Pensare che un consolidamento non equivale di fatto allo sfascio della giovane ed immatura Unione europea. Le tensioni sociali a cui questo porterà sono equivalenti o simili a quelle che genera oggi un mercato del lavoro asfittico per assenza di domanda interna; e dunque analoga è la vera minaccia finale: l’abbandono dell’euro da parte dei paesi più deboli e l’arresto totale del progetto europeo.

Stiamo peggio di ieri, per un pessimo governo dell’economia da parte dei leader italiani da un lato e tedeschi dall’altro. Siamo più vicini di ieri alla disfatta. Le parole di Renzi sull’irrilevanza del deficit al 3% sono un raggio di sole che illumina il buio totale di questa politica economica. Abbiamo bisogno di ben di più di un raggio per riscaldarci e ritrovare fiducia: gli accenni renziani sono ancora privi di un progetto complessivo, nazionale ed europeo, che sostenga la ripresa. I Viaggiatori in Movimento hanno indicato il sentiero, l’unico sentiero, per salvarci da 30 anni di ulteriore declino con una politica economica che si tiene attorno ad un progetto coerente, stabile, espansivo, capace di far tornare il sole a regnare sul Vecchio Continente.

Grazie ad Edoardo Narduzzi.

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La regolazione in vendita. Non a tutti.

C’è il vantaggio del conflitto d’interessi in politica che deriva dallo scriversi leggi a vantaggio del proprio business. C’è poi quello di ottenere, in quanto politico e imprenditore, favori resi al proprio ramo di business nel settore Y da parte di imprese del settore X che sperano in tal modo che il politico possa restituire il favore con una regolazione più accondiscendente del settore X stesso.

Stefano Della Vigna, Ruben Durante, Brian Knight ed Eliana La Ferrara analizzano cosa è avvenuto ai ricavi Mediaset da pubblicità negli anni in cui Berlusconi è divenuto attivo in politica, in particolare quelli in cui era Presidente del Consiglio. Verificando che non solo sono cresciuti, ma che sono cresciuti maggiormente grazie alla pubblicità pagata da imprese in settori più regolati dalla politica. Possibilmente, chissà, nella speranza da parte delle aziende clienti di Mediaset di ottenere il favore in ritorno di una minore regolazione da parte della politica?

Secondo gli autori: 1 miliardo di euro su di un orizzonte di 9 anni i maggiori profitti dal qui pro quo per il gruppo Mediaset; 2 miliardi i profitti attesi dalla regolazione più favorevole per le imprese clienti di Mediaset.  Un ritorno per entrambe.

Non tutti settori hanno investito di più, durante gli anni del Governo Berlusconi, in pubblicità in Mediaset (in ordinata leggete quanto cambia la spesa su canali Mediaset da quando arriva Berlusconi in politica, in ascissa il grado di regolazione del settore) . La finanza sì, la telecomunicazione sì, la sanità sì (in rosso). D’altronde, erano i più regolati. I giocattoli (in verde) no. Poco regolati, hanno disdegnato il ricorso a queste forma indiretta e in conflitto d’interessi di lobbying e hanno addirittura diminuito la pubblicità sui canali Mediaset.

I giocattoli. Ho una grande simpatia per i giocattoli.

 

C’è un’altra dimensione che il grafico non cattura. Chi è che non si fa pubblicità sui canali televisivi perché non ha le risorse per farlo? Esatto, le PMI. Non le vedrete mai su  un grafico come questo. Ma soffrono certamente anche loro, di più anzi, di regolazione avversa, costosa, che le rende più oneroso il competere sui mercati. Se le grandi ne escono alla grande, da questo qui pro quo, le piccole ne escono ancora più in difficoltà di prima.

Che ci ricorda più in generale che la regolazione, direttamente o indirettamente, sarà sempre a svantaggio delle PMI. Troppo piccole per difendersi da sole. Troppo piccole per attaccare da sole. Troppo brave le grandi ad accedere al potere, accordandosi con esso.

E’ tempo che le PMI vengano esplicitamente aiutate. Ma senza trucchi né furbate: con la forza di una politica industriale espressamente dedicata alla loro protezione e crescita.

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The wrong reverse causality of European Fiscal Unionists

Gentle LSE economist Pissarides gave a nice speech on whether Europe is working. A rhetorical question – obviously it is not – playing on the word “working”, a word he loves, given his life spent researching what makes promoting employment and fighting unemployment easier, especially what he calls fighting the largest waste of all, youth unemployment.

His main point, suggested by many others: let us move toward a fiscal union to solve Europe’s problems. A Eurobond. A transfer from countries feeling  today the warmth of the sun toward the ones under a severe cold weather.

California was built with money from the East coast of the country at the end of the XIX century, financing infrastructure, canals and roads. China is moving the ample resources of its East coast, again, to inland so as to provide infrastructure. West Germany with East Germany …

Why don’t we do that in Europe, he asks? “They (California and New York, Eastern and Inland China, West and East Germany) feel part of a single unit, but in Europe we don’t.”

So? So we need to restore trust, by creating a central mechanism that provides for transfers, even if those “are not palatable to European voters like they are to the American voters”. Trust, in his scheme, would thus be created going against the wishes of voters across Europe, a strange solution indeed.

The weakness in the argument is the usual reversion of causality of european fiscal unionists: “we need a fiscal union to obtain a political union” instead of “we need a political union to create a fiscal union”, which is the paradigm followed by Germany, China and the United States, the latter having waited at least 100 years to move to a centralized system of revenues, spending and debt, once States felt at ease with surrendering their fiscal sovereignty to outside Washington politicians.

Pissarides himself highlights involuntarily his own contradictions when he beautifully reminds us why the migration of young workers toward the current sunshine belt of Europe, Germany, suggested by Merkel herself would not work:

This lost generation of youths… Mrs. Merkel herself suggested that maybe they should migrate but if they want to come to Germany first they should learn German and get into their apprentice training programs… But the point is you don’t want emigration to be the corrective mechanism yet, because you are going to lose your best young people…. We don’t want to see Greece and Spain be emptied of all their  highly trained people and go work in Germany or wherever else because these countries need what they can contribute to in the future, you want to nurture them there, not outside their own countries”.

Splendid statement. Which in itself is a fundamental cry for stopping the crisis: stopping the slowly increasing migration bleeding from the South to the North of the euro area. But it is also a statement where what I underline (the possessives used by the economist are astonishingly powerful) clarifies the central issue of Europe today: when we speak freely in a conversation  we do have our national interest at heart, and even Pissarides – who criticizes the absence of a European interest in European voters – cannot resist lamenting phenomena that go against national interest.

We are, at heart, Italian, Greek, Germans. And any solution that one puts forward should make sure to take that into account. Any solution uniformly resisted by voters at large should be rejected. So much for the Fiscal Union, which will be an available option only when and if we will feel at ease with Italian and Greek young migrating away from (what at that point will be considered useless) national borders, when we  will not consider migration across states a loss anymore, as it happens today in United States. When cultures will have found an irresistible common bond, the true and only Eurobond that matters, culture.

As for now, European electoral consensus is growing elsewhere, against the euro.  As Pissarides says, it makes no sense defending it just for the sake of keeping it alive. “Decisions don’t seem to be made” and if this keeps on going, “we might as well give up, there would be no point in continuing” the senseless stupidity of anti-growth policies. But which decisions are needed?

His fiscal union solution lacks coherence, his spirit is the right one. The only policy coherent with his European spirit is the one that is in the direct interest of all countries involved, without requiring non credible transfers across countries: reversing the timing of the so-far politically proposed solutions. Stopping austerity now, canceling now those parts of the Fiscal Compact that require absurd levels of debt reduction for recession-stricken countries, asking for a timing of reforms that is coherent with the economic cycle, allowing them to be run and tried only when the sunshine-belt will have extended there where it naturally used to be, across the South, i.e. only when we will all be out of the recession.

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Sì all’euro dell’Europa Unita, no al Fiscal Compact. Prove tecniche di referendum.

Il 10 gennaio alle ore 18 presso l’Avvocatura dello Stato, Via dei Portoghesi 12, i Viaggiatori in Movimento incontrano giuristi insegni. Ed ascoltano. Ascoltano le loro opinioni. Per capire quanto sia possibile immaginare un referendum abrogativo del Fiscal Compact così come inserito nelle nostre leggi ordinarie. Senza toccare una virgola degli articoli costituzionali che richiedono la sostenibilità del debito pubblico. Senza immaginare di venire contro i Trattati internazionali. Qui sotto leggete le ragioni della nostra scelta di avviare un percorso di questo tipo.

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I Viaggiatori credono nell’Europa Unita, ancor prima dell’Unione europea, strumento essenziale per raggiungerla. Ci credono perché non ritengono sopiti gli stereotipi che attraversano il Continente come esattamente 100 anni orsono. Ci credono perché ritengono che la divisione del mondo tra Cina e Stati Uniti che appare formarsi all’orizzonte del XXI secolo è monca di una etica sociale ed individuale che fa bene, molto bene, all’umanità, arricchendola: quella europea. “Se non sei al tavolo, sei sul menù”, dicono i Viaggiatori: Germania ed Italia da sole non potranno mai partecipare alle decisioni geopolitiche mondiali che influenzano la vita di ognuno di noi: saranno sul menù. Unite, sì: saranno al tavolo delle decisioni, influenzandole.

I Viaggiatori ritengono l’euro lo strumento appropriato per accelerare la costruzione di un’Europa unita. Come gli Stati Uniti alla fine del 700, stati molto diversi quanto a cultura, religione ed economia,  decisero di darsi nella un simbolo comune, che li aggregasse, così molti stati europei. L’euro ha forzato questi Paesi a parlarsi di fronte alle difficoltà; senza di esso, ognuno sarebbe già per conto suo con la propria “liretta” a pensare in proprio, fuori da quel tavolo delle decisioni, preda di rancori e recriminazioni che bloccherebbero il dialogo europeo per decenni, mentre il mondo va avanti senza aspettare, a danno delle future generazioni.

I Viaggiatori sanno bene che non è l’euro ad avere generato queste difficoltà, e sanno altrettanto bene che senza l’euro l’austerità che causa la crisi oggi non svanirebbe, anzi si rafforzerebbe, come quando, nel 1992, svalutando la lira, sentimmo l’urgente bisogno di fare una enorme manovra fiscale disperatamente recessiva pur di riguadagnare consensi in Europa.

La crisi in cui si inviluppa disperatamente l’Italia oggi è al contempo una crisi strutturale di lungo periodo, causata da una serie di riforme che abbiamo evitato di fare a causa di una pigrizia ed incompetenza di gran parte della classe politica di questi ultimi due decenni, e una crisi delle politiche europee, votate ad una stupida austerità che distrugge l’economia sottraendole domanda interna, stabilità dei conti, occupazione e speranza. Piccole imprese e giovani, i nostri germogli più importanti, vengono sradicati per sempre da una società che da loro poteva vedere invece ripartire la speranza e lo sviluppo. L’austerità che andava fatta in estate, mettendo da parte un po’ del raccolto per i tempi bui,  viene fatta ora, in tempi bui, uccidendo quel poco di vitalità che rimane quando si è deboli. I Viaggiatori sanno bene che le riforme essenziali di cui il Paese ha bisogno non si possono fare quando la gente soffre, ma quando torna il bel tempo. Ecco perché riteniamo essenziale arrestare questa austerità in tempi di crisi che serve solo a slabbrare la coesione europea e la sua unità di intenti fino a, spaccando l’area dell’euro, decretarne la sua fine.

I Viaggiatori concordano nel rispetto dell’articolo della Costituzione recentemente introdotto che richiede la sostenibilità del debito pubblico e il bilancio in pareggio tenendo conto del ciclo economico. E tuttavia ritiene scellerate ed ottuse le normative ordinarie a cui la Costituzione rimanda, che declinano questi concetti con formule matematiche rigide e arbitrarie derivanti da regole europee che non hanno valenza di Trattato internazionale perché approvate senza l’accordo di alcuni Stati membri come Regno Unito e Repubblica Ceca. La stabilità dei conti pubblici in questa crisi – che così tanto assomiglia a quella degli anni Trenta – si nutre di crescita e l’austerità uccide dunque sia la crescita che la stabilità.

E’ tempo di risvegliare l’Europa dell’euro dal suo sonno di ignavia ed incompetenza, mettendo al centro del progetto europeo crescita e conti pubblici finalmente sostenibili. Il nostro incontro con insigni giuristi che credono nel progetto europeo ha questo scopo: quello di comprendere quanto sia percorribile un percorso referendario volto, nel rispetto dei Trattati europei e della valuta unica, a abolire quelle parti più ottuse delle leggi come quella che richiede all’Italia dal 2015 di ridurre del 5% del PIL (80 miliardi!) il debito pubblico italiano, condannando il Paese ed il continente ad una inevitabile morte del progetto dell’Europa Unita.

Cessata la stupida austerità, il Paese potrà finalmente concentrarsi sulle sue priorità. La prima delle quali, indicata da tempo dai Viaggiatori come la pietra miliare della ripresa dell’economia e della credibilità del Paese, quella dell’eliminazione dei 30 miliardi di sprechi presenti negli appalti pubblici, così da generare le risorse, senza un euro di deficit in più, per finanziare – via investimenti materiali ed immateriali – con competenza ed onestà la ricostruzione del nostro Paese.

Il Viaggio verso un nuovo Rinascimento del Paese  è iniziato. Va solo innaffiato con la nostra passione civile di massicce dosi di speranza e volontà.

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Cuneo e credito, le illusioni. Via dall’euro o dall’austerità?

Starebbero meglio fuori dall’euro i paesi che soffrono della recessione, grazie alla ampia svalutazione che ne seguirebbe?

Mamma mia quante volte se ne parla di questa rilevantissima questione.

I lettori di questo blog già sanno la mia posizione. Ma è ovvio che vedere questa frase all’inizio dell’ultimo lavoro di un grande economista dei miei tempi, Guillermo Calvo, con due coautori, il bravo italiano Fabrizio Coricelli e lo studente di Dottorato Pablo Ottonello, attira naturalmente la mia attenzione e curiosità.

Il loro lavoro, basato sull’esame di svariate passate crisi – finanziarie e non – e successive riprese economiche,  in estrema sintesi, dice quanto segue.

1)    Crisi finanziarie come quelle sperimentate nel 2008 (caratterizzate secondo gli autori da una chiusura drastica del rubinetto del credito all’economia) generano – più di altri tipi di crisi, non finanziarie – delle susseguenti riprese “senza lavoro” (jobless recoveries).

2)   Se a queste crisi finanziarie seguono politiche che generano forti episodi inflazionistici, le riprese in termini di occupazione sono decisamente più rapide;

3)   Tuttavia l’inflazione di cui sopra non è inequivocabilmente favorevole alla classe lavoratrice: è vero che l’occupazione riprende, ma grazie ad un forte abbassamento dei salari reali spettanti ai dipendenti, lasciando il monte salari largamente immutato rispetto a quello all’avvio della crisi;

4)   E dunque, la svalutazione del cambio aiuta in queste crisi finanziarie? Non di per sé: solo nei limiti in cui genera maggiore inflazione e, comunque, anch’essa a scapito dei salari reali.

Ci sono due ostacoli alla realizzazione di questa maggiore inflazione, sia che la si voglia fare direttamente con una politica monetaria espansiva, sia indirettamente via svalutazione (uscita dall’euro).

Primo. Di quanta inflazione avremmo bisogno? “Un aumento piccolo del tasso d’inflazione potrebbe non dare nessun aiuto nel combattere una ripresa senza occupazione”. Più del 30%, ci vorrebbe.  Un valore, secondo gli autori stessi, “superiore a quanto le maggior parte delle banche centrali sarebbero disposte ad accettare”. Un valore, aggiungo io, simile a quello ingegnerizzato, con decisioni rivoluzionarie, da Franklin Delano Roosevelt negli anni 30, che portò la variazione della crescita dei prezzi Usa dal -26% al +13%! Quando le banche centrali ascoltavano i Governi, ci verrebbe da dire.

Secondo. Le svalutazioni che loro esaminano sono capaci sia di generare alta inflazione che di generarla bassa. Detto in altro modo, non vi è garanzia che una svalutazione generi la necessaria inflazione. Dipende anche da altri fattori. Il punto chiave, che a loro avviso è necessario in questa crisi per riavviare l’occupazione, è una diminuzione del salario reale, che non sempre le svalutazioni assicurano. Basterà ricordare, aggiungo io, l’episodio della grande svalutazione italiana del 1992 che, con grande sorpresa di tutti, non si scaricò sui prezzi. Uno dei possibili motivi? La grande manovra austera e deflazionistica, immediatamente scatenata dal Governo Amato per rassicurare che i mercati che sì, l’Italia era stata monella con la sua svalutazione, ma non lo sarebbe più stata. Quello che da sempre ammonisco avverrebbe se uscissimo dall’euro: nessuno mi toglie dalla testa che, con un governo che non abbia voglia di combattere l’austerità direttamente, fuori dall’euro faremmo immediatamente una durissima manovra come allora per rassicurare i mercati. E che, se invece avessimo un governo che capisce quanto sia importante far cessare l’austerità, allora non avremmo bisogno di uscire dall’euro, basterebbe essere attivi con la leva fiscale per combatterla.

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In realtà Calvo ed i suoi coautori, dopo avere escluso l’inflazione diretta (la BCE non acconsentirebbe) e la svalutazione (non genera con certezza l’inflazione necessaria per riavviare le assunzioni di lavoratori), offrono le loro soluzioni: cuneo fiscale che abbatte il costo del lavoro o ripresa del credito, che durante e subito dopo una crisi finanziaria vede le imprese sotto patrimonializzate e dunque la banca prestare solo a quelle aziende che investono il denaro ricevuto in capitale fisico, recuperabile, e non in tecnologie che utilizzano lavoro, non recuperabile dalla banca.

Peccato. Che all’ultimo miglio il loro ragionamento non funziona, offrendo la ricetta sbagliata.

E’ vero, questa crisi è nata come crisi finanziaria, nel 2008. Non lo è più oggi. Oggi è una vera e propria crisi da domanda, dove il settore privato dei Paesi dell’euro in difficoltà è in preda a un pessimismo che non lo porterebbe né a domandare lavoro (in caso di abbassamento del cuneo) né a domandare credito (in caso di abbassamento dei tassi o sussidi nei prestiti), perché non si vede perché si debbano fare investimenti in un contesto così grigio. Lo mostra senza ombra di dubbi il grafico dell’importante rapporto ABI che ho discusso venerdì scorso: oggi lo scarso credito che circola nell’economia è dovuto alla scarsa domanda, non alla scarsa offerta di esso.

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E allora? Che fare? Se non si può generare inflazione via BCE, se non si può generare occupazione via svalutazione perché questa sarà seguita da austerità, se non servono le politiche dal lato dell’offerta come cuneo o credito perché imprese e famiglie rimangono cupemente assorte e spaventate, che rimane?

Come che rimane. L’unica soluzione che stimola domanda interna e porta i prezzi a crescere rendendo più interessante per le imprese l’assumere e l’investire: più domanda pubblica di beni, servizi e lavori. Come 80 anni fa.

Ma questa classe politica, Renzi compreso, non lo capisce, direte voi. Beh? Non votateli.

D’altronde anche 80 anni fa, negli Stati Uniti, c’era chi non capiva e proponeva soluzioni inutili. Bastò mandarli a casa e eleggere un vero leader. Tutto qui. Trovatelo e fatemelo sapere.

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Il capitale della Banca d’Italia è il frutto del lavoro degli italiani

Ringrazio Formiche per avere voluto pubblicare questo mio articolo. Ringrazio PR per essersi esposto fino al limite massimo insieme a me, è una battaglia che condividiamo insieme da anni: questo articolo è tanto tuo quanto mio.

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Recentemente (sabato 27/11/13) il Governo ha approvato un decreto legge, attualmente al vaglio del Parlamento per la conversione in legge, che stabilisce nuove norme riguardanti il capitale e gli organi dell’istituto di Via Nazionale con l’obiettivo di rafforzarne l’autonomia e l’indipendenza. La Banca d’Italia viene quindi autorizzata ad aumentare il proprio capitale mediante utilizzo delle riserve statutarie sino a euro 7,5 miliardi e a distribuire dividendi annuali per un importo non superiore al 6% del capitale. Ciascun partecipante al capitale non potrà possedere – direttamente o indirettamente – una quota di capitale superiore al 5% e la Banca potrà acquistare temporaneamente le quote di partecipazione in possesso di altri soggetti per favorire il rispetto di tale limite. Il decreto inoltre amplia il novero dei soggetti italiani ed europei che possono detenere quote del capitale, potendosi autorizzare le banche, le fondazioni, le assicurazioni, e gli enti ed istituti di previdenza, inclusi i fondi pensione. Per effetto di questa modifica normativa, le banche azioniste potranno essere autorizzate ad includere le quote nel patrimonio di vigilanza, rafforzandone la base di capitale.

Tale riforma prende le mosse da uno studio reso pubblico lo scorso 9 novembre sull’aggiornamento del valore delle quote di capitale della Banca d’Italia redatto dallo stesso Istituto di Via Nazionale su richiesta del Dicastero di Via XX Settembre. Il tema è di quelli tra i più affascinanti per un economista, stabilire il valore di un ente economico unico per funzione e caratteristiche, sempre che sia possibile. La Banca d’Italia è difatti un istituto di diritto pubblico che persegue finalità d’interesse generale nel settore monetario e finanziario.

Per tale arduo compito Palazzo Koch si é avvalsa di un comitato di esperti composto dai professori Franco Gallo, Lucas Papademos e Andrea Sironi. Tuttavia prima di individuare il metodo di valutazione, l’istituto di Via Nazionale affronta la controversa questione della proprietà del proprio capitale, chiarendo subito che per garantire la propria piena indipendenza occorre preservarne la proprietà privata, citando il caso della Federal Reserve. Strano, dato che è anche vero che la Bank of England, la Banque de France e la Bundesbank (non citate nella memoria assai poco imparziale della Banca d’Italia) sono di proprietà esclusivamente pubblica, come pubbliche sono pure le altre Autorità italiane (ISVAP, CONSOB, AVCP, L’Autorità per l’energia elettrica e il gas, ecc.) che svolgono egregiamente le proprie funzioni pur non essendo possedute dagli enti vigilati. La memoria continua ribadendo come “… l’equilibrio che per anni ha assicurato l’indipendenza dell’istituto, preservandone la capacità di resistere alle pressioni politiche, non va alterato.”

Per Palazzo Koch da una proprietà pubblica non possono che aversi effetti negativi, di fatto censurando addirittura le decisioni del legislatore che con la legge n. 262 del 2005 ha previsto il trasferimento allo Stato delle quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia in possesso di soggetti diversi dallo Stato o da altri enti pubblici, mediante l’adozione di un regolamento entro tre anni dalla data di entrata in vigore della legge, ad oggi mai emanato. Tuttavia il Governo ha recepito in pieno tale censura proveniente da chi avrebbe dovuto, piuttosto, attendere in rispettoso silenzio le determinazioni governative. Tra le pieghe del decreto, all’art. 6 comma 4, si nasconde infatti l’ulteriore previsione di grande impatto, l’abrogazione del noto comma 10 articolo 19 della legge, che prevedeva la cosiddetta “rinazionalizzazione” di Bankitalia.

A fronte di questo enorme conflitto d’interessi non gestito, la memoria della Banca d’Italia si preoccupa poi di gestirne un altro, ben minore. Per “evitare la possibile (erronea) percezione che la Banca possa essere influenzata dai suoi maggiori azionisti” -   una più equilibrata distribuzione delle quote, a fronte dell’attuale livello di concentrazione, ereditato storicamente dal possesso del 20%, per un totale pari al 60%, da parte di ciascuna delle tre vecchie Banche di Interesse Nazionale (Banco di Roma, Credito Italiano, Commerciale Italiana) oggi confluite in Unicredit e Intesa.

Al di là del problema del conflitto di interessi, che peraltro non si risolve con una minore concentrazione delle quote, gli assunti da cui partono gli estensori della riforma sono incompatibili con la natura (istituto di diritto pubblico) e la funzione di una banca centrale (gestire il bene pubblico per eccellenza: la moneta). L’attivo e il passivo di una banca centrale sono lo specchio della ricchezza e dell’economia di un paese. L’oro e le riserve accumulate nell’attivo – che consentono alle banche di ricevere oggi dividendi alla base del calcolo del nuovo valore possibile del capitale della Banca – sono il frutto del lavoro degli italiani, che hanno consentito alla Banca di accumulare oro cambiando le riserve estere accumulate con surplus della bilancia commerciale che hanno caratterizzato per anni lo sviluppo italiano. Colpisce dunque il testo stonato della nota della Banca dove addirittura si parla di riforma che “risarcirebbe appieno i partecipanti” bancari.

Tanto premesso, il rapporto arriva quindi ad individuare il metodo sovrano utilizzato in finanza per valutare un’attività finanziaria, il cosiddetto metodo dei flussi di cassa attualizzati (DCF), come se la Banca d’Italia fosse un qualsiasi ente economico e non considerando come la privatizzazione delle quote è avvenuta. Quando infatti, implicitamente, la proprietà della Banca è stata privatizzata tra il ’92 e il ’97 con la vendita delle tre BIN, al Tesoro qualcuno ha per caso effettuato il DCF sulle quote della Banca che le tre BIN avevano in pancia (circa il 60%, ossia 20% ciascuna)? E, soprattutto, quanto era l’ammontare del debito italiano sul bilancio della BdI che da un giorno all’altro, con la privatizzazione, da “fittizio” è diventato “reale”? .

Più che fermarsi sulla correttezza dei parametri utilizzati per arrivare alla stima con il DCF del valore aggiornato delle quote, occorre infine chiedersi se sia corretto valutare una banca centrale con tale metodo. Quale sarebbe il rischio di impresa di un ente che per il nome stesso, il prestatore di ultima istanza, non potrebbe fallire? Quale quindi il giusto tasso di ritorno? E come si può affermare che la sola parte di proventi pubblica al 100% – e quindi non soggetta a dividendi – è quella del signoraggio, come se le altre funzioni non fossero pubbliche? E questo in presenza di un ente che paradossalmente potrebbe operare senza capitale proprio!

Come non sorridere di fronte alle conclusioni tautologiche degli esperti, che fanno affermare alla Banca d’Italia nella sua memoria: “la riforma non modificherebbe i diritti economici dei partecipanti, garantendo loro un flusso di dividendi il cui valore attuale netto è pari al valore corrente stimato delle azioni della Banca”, quando il valore del dividendo per gli azionisti bancari – in teoria sorvegliati quanto a vigilanza dalla Banca d’Italia stessa – verrebbe a quintuplicarsi, come riportato dal rapporto, da 74 a 360/420 milioni di euro?

I più cinici diranno che l’obiettivo della riforma è quello di aiutare le nostre principali banche a rafforzare il proprio capitale mediante la vendita delle quote e lo Stato a reperire un miliardo in tasse sulla plusvalenza. A questi ribattiamo che finalità di questo tipo possono essere portate a termine senza calpestare, in poco più di tre pagine, la percezione di indipendenza reale delle nostre istituzioni più prestigiose come è a tutt’oggi la Banca d’Italia.

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Stati Uniti d’America e d’Europa: mele e pere.

Appena tornato da Berlino, dove commentavo un lavoro di Michael Emerson e Alessandro Giovannini. Circondati da moltissimi funzionari dell’amministrazione tedesca, in netta minoranza l’area Sud d’Europa (lo spagnolo era malato).

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Tante cose interessanti nel loro lavoro. Uno è il grafico dove fanno vedere come la variazione dei tassi di disoccupazione tra stati degli Stati Uniti è decisamente minore di quella degli Stati europei, a conferma che abbiamo meno “strumenti” per far fronte a shock a singole aree dell’unione monetaria. Troppo ancora diversi culturalmente, gli europei, per decidere di migrare in caso di maggiori prospettive in un altro Stato quando disoccupati. Usando le loro parole (da me tradotte): “strutture sociali e tradizioni molto radicate sono alla base delle incredibili differenze nei tassi di disoccupazione. Per armonizzare queste più rapidamente che non tramite un lento processo di apprendimento sociale appare come un’impresa politica azzardata. Le ovvie ragioni di una mobilità del lavoro tra stati europei limitata sono le barriere di linguaggio e le identità/culture nazionali. Ciò contrasta con il “melting pot’ americano, dove la migrazione tra stati è problema ben minore di quello tra paesi europei.”

Quindi, fomentano gli anti-euristi, ecco la prova che non possiamo funzionare come area monetaria comune. Che dobbiamo abbandonare l’euro. Peccato che il grafico così fatto è giusto ma ingannevole. Paragona in un certo senso mele con pere: una unione monetaria e culturale che ha più di due secoli all’attivo, la loro, ed una, la nostra, con nemmeno due decenni trascorsi dalla nascita.

Paragonereste le performance sportive di un bambino con quelle di un adulto? Che senso avrebbe?

E’ ovvio che il grafico corretto sarebbe quello che mostra la statistica Usa tra il 1800 ed il 1810 confrontata con quella europea attuale. Non l’abbiamo. Ma siamo certi che mostrerebbe inequivocabilmente una cosa: un tasso di variazione dei tassi di disoccupazione tra stati degli Stati Uniti molto più alto di quello odierno, probabilmente molto superiore a quello odierno europeo. Perché non c’era il treno, né Easy Jet, né la radio, perché le culture del Sud e del Nord erano per certi versi agi antipodi. Anche la lingua dominante era spesso diversa tra aree geografiche, in attesa che l’inglese vincesse la battaglia. Insomma, una unione monetaria altamente subottimale, come amerebbero chiamarla coloro che pensano che il metro economico sia l’unico per giudicare la bontà delle scelte politiche.

Eppure ce l’hanno fatta. Perché? Certo. Perché una guerra di secessione. Ma limitarsi a dire che ciò fu la ragione principale è non conoscere gli Stati Uniti. Li unì un desiderio comune di affrancarsi dal Vecchio Continente, dai suoi monarchi e dalla sua scarsa mobilità sociale. Lì unì una leadership pragmatica che seppe capire quando accelerare e quando rallentare il processo di unificazione, che fu possibile, fiscalmente, solo nel 1930, più di 1 secolo dopo l’avvio dell’unione monetaria.

Questo è ovviamente un momento per rallentare. Non per fare ancora gli architetti di una ulteriore sovra-struttura, ma i pompieri di una gravissima crisi sociale in alcuni stati, resa più forte dal benessere di un’altra area.

Che si spenga l’incendio in quelle aree, invece che criticare le scarse precauzioni anti-incendio che queste hanno preso negli ultimi anni (le c.d. mancate riforme), è essenziale per il benessere dello stesso Nord Europa. Perché molti degli incendi lasciati crescere, spesso, annientano tutto.