Il titolo non è mio, è del Sole 24 Ore. Ma sì, dopo tanti tramonti invisibili, come quello sull’euro, ci sta bene. Oggi sul quotidiano finanziario.
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Eppur si muove. Sarà la coincidenza con l’appuntamento elettorale, sarà la presa d’atto di un fallimento evidente nella struttura della politica fiscale europea, sta di fatto che la quasi totalità delle forze parlamentari ha espresso, lo scorso 7 febbraio a Commissioni della Camera dei Deputati riunite (Bilancio e politiche dell’UE), un forte e quasi unanime parere contrario al documento della Commissione europea volto a inserire, a cinque anni dalla sua nascita, l’accordo intergovernativo europeo del c.d. Fiscal Compact tra le Direttive europee. La proposta non è dunque passata ed è stata ribaltata la decisione di sole poche settimane orsono della Commissione Bilancio del Senato, che aveva invece deliberato favorevolmente, con l’appoggio del Governo medesimo.
L’assenso del PD ha permesso invece l’approvazione di 4 ulteriori decisioni relative ad altre proposte di riforma della governance dell’Unione, provenienti dalla Commissione europea e dal Parlamento europeo, ponendo tuttavia una serie di condizioni che appaiono fortemente vincolanti per il loro effettivo dispiegamento. In particolare, la tabella di marcia accelerata verso un approfondimento dell’Unione proposta dalla Commissione viene condizionata ad uno scorporo degli investimenti pubblici dal calcolo del deficit del 3%; mentre l’istituzione della figura del Ministro europeo dell’Economia e delle Finanze verrà accettata dall’Italia solo quando avverrà l’attribuzione al medesimo Ministro di un bilancio dell’area euro, evitando così che tale figura si limiti ad essere uno “strumento di mero rafforzamento dei controlli e delle regole senza … una logica di sviluppo e di crescita”. Infine, piena approvazione invece (con il voto contrario dei restanti partiti all’opposizione) per il Fondo Monetario europeo che dovrebbe svolgere funzioni di rilievo a sostegno della stabilità finanziaria del sistema comune, specie in caso di crisi bancarie.
La decisione della Camera, che impegna l’Italia (ed il suo futuro governo) nei prossimi negoziati europei, rappresenta un passo fondamentale, seppur non sufficiente, nel determinare la nostra strategia a quel tavolo. Particolarmente silenzioso in tutti questi ultimi 5 anni, malgrado il Fiscal Compact ci avesse danneggiato forse più di qualsiasi altro Paese dell’Unione ad eccezione della Grecia, l’establishment politico italiano ha finalmente battuto un pugno sul tavolo che non passerà inosservato nelle stanze ovattate di Bruxelles, tanto più che esso ha la forza del peso della pressoché totale unanimità delle forze politiche nazionali e che l’Italia ha, in tale circostanza, potere di veto.
Val la pena chiedersi tuttavia: chi dovrà rappresentare, a quel tavolo, il prossimo Governo italiano? Solo i propri elettori? No, dovrà con lungimiranza allargare la platea. Certamente ai tanti colpiti dalla crisi, specie ai micro e piccoli imprenditori ed ai giovani anche se alcuni di questi oggi non ci sono più nell’agorà della democrazia italiana: sono quelli fuggiti all’estero e che forse non torneranno a votare il 4 marzo, mentre altri hanno rinunciato a intraprendere e/o lavorare e forse si asterranno dal voto, delusi e scoraggiati. Altri invece, con la piccola ripresa trainata dall’andamento mondiale, hanno ritrovato un lavoro, una speranza: eppure anche loro sentono che questa battaglia sul futuro della politica fiscale europea li riguarda ancora, come riguarda quelle future generazioni che non votano ancora o quelle che devono ancora nascere.
Si sente spesso dire che la ripres(in)a in corso ha reso irrilevante il dibattito sulla nostra costituzione fiscale europea e che è inutile continuare a parlare di combattere l’austerità in questi periodi di vacche grasse (sic). Non è così. La battaglia contro il Fiscal Compact deve continuare perché, lezione drammaticamente evidente che ci ha lasciato il passato decennio, esso non è stato costruito per fronteggiare le crisi. Anzi, le peggiora, mettendo a rischio non solo la costruzione europea ma la vita e la felicità di tantissimi individui, specie i più fragili ed indifesi, aggravando le ineguaglianze e sfibrando il tessuto sociale di un Paese. Non è dunque una battaglia per migliorare il presente, ma per costruire il futuro.
La politica italiana, con ritardo, ha fatto il suo primo passo per rientrare al centro della costruzione di un’Europa dell’euro più giusta e dunque più duratura. Al prossimo Governo la responsabilità di contribuire a portarla a termine con coraggio e determinazione.