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La regulation review? Dentro la spending review

Dice Squinzi, Presidente di Confindustria:

«A fianco della spending  review abbiamo bisogno come il pane di una regulation review», ossia, di «rimuovere una inutile, costosa e opaca massa di regole che rischiano di rendere vano ogni sforzo di riduzione della spesa e di rilancio della crescita».

*

Sono felice di questa attenzione ai costi della regolazione da parte delle grandi imprese. Eppure. Eppure c’era un tempo in cui in Italia ci si schierava per parlare di abbattere i costi della regolazione per le piccole imprese, e solo per loro.

Una battaglia liberale, come quella dei Viaggiatori. Tanto liberale che era pienamente sottoscritta da Luigi Einaudi con queste belle parole:

«Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. E’ la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno.»

Bella la piccola, bella. Così bella che come tutte le cose belle va protetta. Da «tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli». Con una politica liberale. Perché è illiberale tutto ciò che ostacola la libera scelta individuale che non danneggia altrui ma, anzi, lo avvantaggia. E’ dovere di una buona politica industriale, essere liberale, proteggere le piccole dalla regolazione costosa. Non le grandi, che da essa hanno tante armi per potersi difendere. Ma per la piccola in primis. Se poi a cascata ciò aiuta la grande, tanto meglio.

Ci fu un tempo, un tempo di titani in cui l’Italia aveva voglia di rinascimento, in cui un altro grande liberale del dopoguerra, malgrado fosse anche lui Presidente di Confindustria, non aveva dubbi nel sostenere che la battaglia della regolazione doveva essere a favore della piccola:

«Le piccole imprese hanno più di altre bisogno di appropriate facilitazioni legislative», diceva nel 1946 Angelo Costa.

Già, se solo l’avessimo ascoltato. Avremmo anticipato di 7 anni la rivoluzione liberale, non liberista, degli Stati Uniti che dichiaravano nel 1953 come “politica dichiarata del Congresso americano quella di … proteggere la piccola impresa statunitense“. Con la nascita dell’Agenzia indipendente, la Small Business Administration, riportante direttamente al Presidente degli Stati Uniti, volta a tutelare il bello che c’è nell’idea di generare impresa e dargli spazio vitale.

Politica, quella statunitense, mai abbandonata e rafforzata, nel 1980,  col rifiuto di approvare qualsiasi regolazione che avesse  un impatto economico negativo significativo su un numero sostanziale di piccole imprese. Perché “leggi e regolamentazioni disegnate per l’applicazione ad entità di grande dimensione sono state applicate uniformemente alle piccole imprese … anche se i problemi che hanno giustificato l’azione del governo possono anche non essere state causate dalle entità più piccole.”

Oggi in Italia siamo governati da piccoli leader che nemmeno si preoccupano se non danno corso, in mezzo alla rivolta della micro imprenditoria, a un disegno di legge, quello per la piccola impresa, che lo Statuto delle Imprese, approvato tra gli applausi ipocriti e  bipartisan del Parlamento nel 2011, richiedeva si portasse alla discussione ogni 30 giugno. Monti e Passera tacquero nel 2012, Letta e Zanonato nel 2013, “scordandosi” di portare la legge al Parlamento. A fine 2012 l’Italia è secondo l’Europa al di sotto della media UE in ben sette politiche su 10 per le piccole imprese.

Per cambiare veramente, per introdurre quell’analisi dei costi della regolazione che un governo liberale degno di questo nome dovrebbe attuare, ci vuole competenza. Ci vuole, come chiedono i Viaggiatori, un Ministero della Piccola che levi le competenze al Ministero dello Sviluppo Economico che tutela solo le grandi.  Che in questo Ministero lavorino raffinati economisti, statistici, giuristi che facciano bene il loro lavoro di valutazione, assieme e col sostegno delle Associazioni delle Piccole Imprese, come negli Stati Uniti.

Ma per avere queste competenze ci vogliono soldi, altro che i tagli stupidi del Governo Letta sulla spesa per stipendi pubblici.

Ma per avere quei soldi per remunerare le competenze dove li troviamo?

Che domande, in una intelligente spending review, che trovi le finanze per spendere meglio tagliando là dove spendiamo peggio, negli appalti pubblici così preziosi per il Paese ma con così tanto grasso da scartare.

Perché questa è la vera spending review: non i tagli, ma dove si vuole spendere, bene, e dove si trovano i soldi per spendere bene.

Quindi caro Presidente Squinzi, le direi, no, non a fianco, la regulation review. Va fatta all’interno della spending review: perché per farla bene ci vogliono soldi e per trovare i soldi ci vogliono i risparmi.

Tutto si tiene. Questo Stato uccide il Paese e senza un grande Stato non si rilancia il Paese. E questa generazione di politici è incapace di combattere per questo nuovo Paese a portata di mano.

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Le riforme sbagliate di Alesina e Giavazzi e le non riforme di Letta

Da tempo ripetiamo che il problema dei nostri atenei non è la mancanza di fondi pubblici, ma la loro cattiva distribuzione, che differenzia troppo poco fra i dipartimenti eccellenti e quelli mediocri e non meritocratici. Lo strumento per differenziare esiste: è la valutazione effettuata dal ministero lo scorso anno. Ma invece di utilizzarla, il governo si appresta a distribuire il taglio di 300 milioni su tutti, indipendentemente dai risultati. Questo perché si ritiene che anche le università peggiori debbano essere salvate. Pensa il presidente del Consiglio che ce lo possiamo permettere? Che possiamo sacrificare l’università di Padova (la migliore, secondo queste valutazioni) per salvare la peggiore, Messina? Non è forse giunto il momento di dare più autonomia alle università premiando le migliori e costringendo le peggiori a impegnarsi di più, oppure chiudere? Altrimenti, dove sta la meritocrazia tanto sbandierata da Enrico Letta?

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, oggi, sul Corriere della Sera.

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Nel condividere le perplessità di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi per un governo che galleggia e basta (specie quelle sulla spending review), mi interessa qui dissentire, come spesso mi capita, stavolta sulla loro visione di cosa sia università. Ovvero un campionato di serie A e B, con tanto di retrocessioni e dove le squadre più forti se la cantano e se la suonano da sempre al comando.

Dissentiamo.

Primo, perché le attuali classifiche a cui fanno riferimento, tutte tarate sul merito della ricerca e con zero enfasi sulla qualità della didattica, sono largamente imperfette. Eppure imperterrite imperano. Con l’ovvia conseguenza di far sì che è sempre più costoso per i nostri giovani ricercatori investire nell’insegnamento, ritirandosi da una missione fondamentale, la trasmissione del loro sapere agli studenti, lasciandola ai più anziani, meno appassionati e meno vicini alle novità della frontiera della ricerca scientifica. In tutte le Università americane più prestigiose i giovani ricercatori, obbligati a produrre in poco meno di 10 anni ottimi lavori se vogliono rimanervi, sono altresì obbligati ad insegnare intensamente nelle classi affollate dei giovani immatricolati del primo anno. Sì, dormono poco, molto poco, in quei primi anni.

Secondo perché ogni università che migliora in maniera oggettiva ed inequivocabile va premiata. Non abbiamo bisogno di meno università, ma di università migliori, su tutto il territorio: ecco perché non ha senso di parlare di chiusura. E per migliorare, c’è bisogno di incentivi per ognuna di esse (altro che “costringere”), non solo per la più brava: per chi parte da livelli bassi e per chi parte da livelli più alti.

Certo è vero che maggiori finanziamenti vanno dedicati a quelle istituzioni che eccellono nella ricerca. Ma anche qui, con attenzione massima ai dettagli. Evitando per esempio di generare dei “monopoli dell’eccellenza” che finiscono per rafforzare rendite di posizione e  per escludere o scoraggiare nuovi filoni di esplorazione scientifica “diversi” e “non di moda”. E facendo sì che ogni area territoriale del Paese possa avere il suo centro di eccellenza, perché sappiamo bene che i frutti della buona ricerca al Nord affluirebbero con enorme difficoltà in Meridione, esigenza fondamentale per lo sviluppo del Paese.

Sotto leggete, se volete, la proposta dei Viaggiatori in Movimento per questi super atenei. E’ basata su 5 macroaree regionali dove localizzare i 5 grandi atenei di ricerca del Paese per ogni disciplina.

La questione di fondo è una sola: non basta fare riforme, come chiedono giustamente A&G, bisogna saper proporre quelle giuste, come ricordarono loro stessi tante volte a Monti. Meglio a volte l’inazione che perder tempo (infinito) a far chiudere l’ateneo di Messina. Il Paese ha ben altre priorità.

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LE AREE DI ALTA RICERCA, AL NORD E AL SUD. I Viaggiatori in Movimento propongono di identificare i 5 migliori atenei (uno per ogni macro area regionale di università) per ognuna delle 14 aree disciplinari (CUN) tra le università statali (c.d. “università di alta ricerca”) sulla base della qualità della ricerca, valutata su indicatori quantitativi tesi a validare giudizi qualitativi, basati su “valutazione tra pari”. A questi Atenei sull’area di eccellenza, per un quinquennio, sono riservate risorse ingenti, pari al 10% del Fondo Nazionale. Tali risorse sono destinate per l’80% ai dipartimenti che afferiscono all’area premiata all’interno dell’Ateneo.

La valutazione di aree disciplinari più estese, e non dei singoli dipartimenti, permetterà di premiare la ricerca interdisciplinare e stimolare una didattica che eviti la costosa duplicazione dei corsi di base.

Oltre ad effettuare didattica a livello triennale e magistrale,  nelle aree di alta ricerca  gli atenei sono i soli in cui rendere obbligatori i programmi di dottorato nella disciplina.

I dipartimenti rilevanti (di area) di questi Atenei, con i maggiori fondi a disposizione, possono selezionare liberamente i loro docenti senza concorsi pubblici e far variare il loro compenso all’interno di una forchetta. Possono, inoltre, riequilibrare il salario d’ingresso minimo per i giovani ricercatori con contratti a tempo determinato con un raddoppio della cifra attuale, per facilitare ingresso e rientro dei più giovani negli atenei italiani.

Ogni 5 anni la migliore area CUN di ciascuna macro area regionale può essere sostituita dalla medesima area di altro Ateneo, sulla base di valutazione quinquennale.

Alla didattica triennale e biennale, nonché ai dottorati, in quegli atenei in cui si ha un’area di alta ricerca, si deve riservare almeno il 20% dei posti a studenti meritevoli in condizioni disagiate ai quali assegnare anche borse di studio e residenze.

AL SERVIZIO DELLO STUDENTE. La qualità della didattica viene rafforzata dall’introduzione di tre meccanismi:

a) possibilità per studenti di segnalare via sms ad un numero dedicato l’assenza ingiustificata del docente e, dopo verifica di organi ministeriali, emissione di un “cartellino rosso” con sospensione del contratto in caso di ripetuta assenza non giustificata.

b) la creazione obbligatoria della figura di uno o più “consulenti”, all’interno di ogni Dipartimento, per supportare gli studenti nell’accesso al mondo del lavoro (preparazione del CV, colloqui di selezione del personale, ecc.).

c)obbligo numero minimo di 90 ore di didattica  nelle lauree triennali e magistrali da parte di tutti i docenti.

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Basta di parlare di unione fiscale please

Ho appena terminato di leggere un rapporto sulle Unioni fiscali del Fondo Monetario Internazionale, voluto per suggerire una uscita dalla crisi europea diversa dalla stupida austerità. Via unione fiscale appunto. Quella bellissima invenzione che tiene in piedi l’altro grande progetto geopolitico con moneta unica a cui aspiriamo paragonarci, gli Stati Uniti d’America. Che trasferiscono ogni anno da uno Stato ricco ad uno Stato povero cifre significative, riducendo la sofferenza di chi sta peggio. Quel progetto che unì Germania Ovest e Germania Est al termine della Guerra Fredda.

Tanti suggerimenti, nell’articolo. Anche qualche intuizione. Come quando si afferma che “l’obiettivo e la forma finale dell’unione fiscale (europea, NdR) rimarrà tema di preferenze politiche e sociali”. Perché in effetti alla fine, la decisione di unirsi e cedere sovranità sulla politica fiscale significa cedere sovranità culturale, visto che la politica fiscale null’altro è che come e dove tassare, come e dove spendere quelle tasse, e dunque non fa altro che riflettere le nostre culture di riferimento, la nostra storia, i nostri desideri di come vivere all’interno di una comunità, che differiscono ovviamente da area ad area. La Germania la fece, quando poté, in un minuto, perché vicinissime erano le culture delle due nazioni. Gli stati degli Stati Uniti ci misero 150 anni (al contrario di quanto suggerisce il rapporto), tanto lontane erano in partenza le culture del Sud e del Nord.

Ti aspetteresti dunque un concentrato di analisi politiche e culturali. Macché. Alla fine leggiamo pagine e pagine di suggerimenti tecnico-economici su come implementarla nel breve periodo, questa Unione. E leggiamo scorati a fine saggio come “mentre il tema di che tipo di istituzioni politiche alla fine debba prevalere per l’area euro va al di là degli obiettivi di questo lavoro” … “sarà essenziale assicurarsi che le istituzioni politiche a livello centrale … che perseguiranno ed attueranno politiche fiscali … abbiano a cuore gli interessi collettivi dell’area euro, piuttosto che quelli nazionali dei singoli stati membri”.

Mi chiedo come si possa parlare di unione fiscale in termini tecnici senza affrontare alla radice prima di tutto se esistano le precondizioni politiche per farlo. Mi chiedo un po’ sconvolto come si possa pensare di attuare una unione fiscale senza avere a cuore gli interessi nazionali dei singoli stati membri, ma solo non meglio identificati “interessi collettivi”.

Il fallimento dell’Europa è tutto qui, nella pervicace e malefica coazione a ripetere gli errori del passato per una banale “economicizzazione” di un progetto che o è politico o non è. Ad aggiungere un nuovo livello al nostro castello di carte, una costruzione sempre più fragile in cui la mano dell’ingegnere diviene sempre meno sicura, senza invece solidificare le fondamenta di una casa che sappia resistere alle tempeste, altro che al vento.

Parliamo e parleremo (già mi immagino i prossimi 2 anni quanti ricercatori di economia se ne occuperanno pubblicando i loro lavori con il fior fiore di equazioni) di unione fiscale quando ci si rifiuta culturalmente di fare il passo ben minore ma ben più significativo di trovare l’accordo per sostenere le economie in difficoltà tramite politiche fiscali più espansive da parte di quelle che si trovano in una forma migliore: che unione fiscale è possibile senza prima concentrarci a dimostrare nei fatti la fattibilità di una unione di intenti?

L’euro, come il dollaro nel 1790, sta facendo il suo dovere: ci obbliga a dialogare e a dimostrare di avere veramente tra di noi quella comunione di intenti che rende vincente il progetto di area geopolitica comune.  Per ora deve solo prendere atto che i leader di questo progetto sono incapaci persino di avviarlo.

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E se dicono di no? Paghiamo la multina.

Di nuovo dalla relazione di Enrico Quintavalle di Confartigianato. La conferma che la politica monetaria, che ha fatto quanto poteva, non ci tirerà fuori da questa crisi da domanda. Là dove la crisi non c’è, come in Germania, abbassamenti del tasso della Banca Centrale Europea abbassano il costo del credito alle imprese tedesche. Ma non a noi: le nostre banche non prestano ma investono in titoli di Stato (bilanci della banche italiane da settembre 2012 a settembre 2013: +20,4%, 66 miliardi, in portafoglio titoli di stato, -43 miliardi di prestiti alle imprese, -4,5%, sempre dati Confartigianato) e non si contendono un mercato anemico di progetti di investimento (chi ha voglia, col pessimismo che circola, di domandare credito?) e comunque rischioso (la recessione fa crescere i crediti incagliati).

Risultato?  Lo spread con il tasso BCE dei tassi attivi delle banche italiane, quelli che praticano alle imprese, cresce, non cala.

L’unica leva vera a disposizione? La politica fiscale espansiva, in modo da riavviare aspettative positive su ordini e clienti, via domanda pubblica.

Come può pensare il Presidente Letta che le imprese possano tornare ad investire di fronte ad un documento, il DEF, firmato di suo pugno, dove, nel giro di 4 anni, 2014-2017, si promette (sarebbe meglio dire si minaccia) di far scendere il deficit in rapporto al PIL dal 2,5% allo 0% di PIL, ovvero di 40 miliardi? Lo sanno tutti come, se mai veritiero, verrà raggiunto questo risultato: bene che vada per 2/3 con aumenti di tasse e 1/3 con tagli lineari di spesa, facendo collassare la domanda interna.

Chi mai investe in questo contesto? Chi?

La soluzione proposta dai Viaggiatori, di prossima uscita, è tanto semplice quanto ovvia: bloccare al 3% il deficit su PIL per i prossimi 4 anni e finanziare maggiore spesa in appalti con tagli agli sprechi negli stessi. In questo modo il contesto sarà quello giusto: quello che inciterà le imprese a scommettere su investimenti e alle famiglie sui consumi.

Rimane l’interrogativo leggerino che va tanto di moda nei circoli dei lirettanti: ”e se i tedeschi dicono di no?” Si accomodino: ci sono due anni davanti a noi per che deliberino le famose multe pecuniarie. Che costeranno, se mai si azzardassero a comminarle, molto meno dei benefici che trarremo (e che l’Europa trarrà) da una nostra ripresa.

Svegliate il Governo in coma. O staccategli la luce.

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Il governo delle grandi imprese

Da quando tempo con il movimento dei Viaggiatori chiediamo un Ministero per la Piccola Impresa, separato dal Ministero attuale per lo Sviluppo Economico dove solo le grandi imprese ricevono attenzioni e cure?

Ieri sera a Terni, grazie ai preziosi dati messi a disposizione da Enrico Quintavalle del Servizio Studi di Confartigianato che mi ospitava, ho avuto la conferma della bontà delle nostre convinzioni. E di quanto tutti gli altri partiti in Italia siano assolutamente incapaci di rappresentare le istanze corrette dei piccoli, perché fondamentalmente non interessati.

Guardate questi dati. Che ci rammentano quanto i rimborsi dei crediti alle pubbliche amministrazioni, liquidità essenziale in tempo di recessione, siano … più essenziali per le piccole imprese che per le grandi. A cui l’accesso al credito risulta ovviamente facilitato rispetto alle prime. Infatti, tra le  imprese che sono state rimborsate, la destinazione che fanno delle somme ricevute le piccole è ben diverso di quella delle più grandi: pagamento degli stipendi e capitale circolante le prime, investimenti le seconde. A testimonianza di un grado di sofferenza e di priorità ben diverse, che dovrebbe sensibilizzare il policy-maker verso le piccole piuttosto che verso le grandi.

E invece …

E invece guardate qui sotto quest’altro grafico di Confartigianato. Tra quelle che potevano beneficiare dei rimborsi, le imprese tra 20 e 49 addetti sono quelle “che meno hanno avuto nel 2013 un rimborso anche parziale”: 51,6% contro l’85,6% delle imprese con più di 500 addetti.

Le grandi imprese si tutelano da sole. Le piccole no. Un governo veramente liberale – capace di tutelare le pari opportunità – si preoccuperebbe, come negli Stati Uniti, di proteggere, in primis, le piccole. In Italia, un governo che, contrariamente a quanto previsto dalla normativa il 30 giugno si è … dimenticato di presentare la legge per le piccole imprese e continua a non presentarla, protegge solo la sua sopravvivenza facendosi catturare dalle grandi imprese.

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Hayek in Europa oggi? Un keynesiano.

Alcuni di voi avranno visto i geniali video Youtube di sfida tra i rapper Keynes ed Hayek, “There’s a boom and bust cycle”, “il ciclo del boom e della crisi”.

Agli antipodi paiono, ascoltando i testi della musica, le teorie dei due grandi economisti. E così dunque appaiono anche i due personaggi. Ma lo furono veramente?

Il mio bravo collega Antonio Magliulo ha scovato alcuni brani significativi di un Hayek che in vecchiaia, intervistato nel 1975, si scopriva più keynesiano di quanto non era mai stato in vita sua. Un Hayek che oggi, nel mezzo della crisi europea, si schiererebbe senza dubbio ( :-) ) con “noi” keynesiani.

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Primo perché quando nel 1930 (inizio della Lunga Depressione) era in procinto di pubblicare un articolo contro l’espansione del credito a sostegno dell’economia, a suo avviso pericolosa, ebbe un subitaneo ripensamento, confessò in tarda età. “Prescindendo da considerazioni politiche, io penso che non si dovrebbe – non ora perlomeno – iniziare ad espandere il credito. Ma se la situazione politica è così seria che la continua disoccupazione porterebbe ad una rivoluzione politica, per favore, non pubblicare il mio articolo.” Che non fu pubblicato.

Straordinaria concezione, profonda direi, di come analizzare una crisi. Ci sono “piccole” crisi, che si risolvono con strumenti tecnici da economista e poi ci sono “grandi” crisi, che si risolvono con mezzi straordinari, non disponibili nella scatola degli utensili del tecnico, ma di un leader. Chissà perché i nostri tecnici, tutti al governo dei paesi europei, non sentono il pericolo della rivoluzione che si avvicina?

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Hayek, poi, la Grande Depressione nel 1930 l’avrebbe combattuta in un modo. 45 anni dopo in un altro. L’Hayek del 1930 credeva che la deflazione era l’unico strumento per rimediare agli eccessi espansivi di una crisi di sovra-consumi. L’Hayek del 1975 confessava che non aveva cambiato opinione sulle origini di una crisi, l’eccesso di  spesa, ma sul suo prolungamento sì: la deflazione era ora il nemico ed andava combattuta, possibilmente con politiche della domanda, guidate da un governo interventista. Cosa che, negli anni 30 come oggi, non fu fatta a sufficienza. Due errori consecutivi, il secondo che amplificò il primo, di politica economica: prolungare il boom prima e la recessione poi.

Anche qui mettere al centro la politica, negli anni finali di Hayek, dovette avere il meglio sul suo filosofeggiare meramente economico degli anni ’30: aggiustamenti dei salari verso il basso erano impossibili a causa delle resistenze dei lavoratori e la deflazione, aumentando i salari reali, non avrebbe fatto altro che aggravare la disoccupazione.

Racconta Hayek, in un’intervista del 1977: “prima prolungano il boom e causano una depressione peggiore e poi permettono alla deflazione di protrarsi e prolungano la Depressione”.

Certamente parlava, senza saperlo, dei nostri piccoli leader al governo dell’Europa.

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The only problems of Europe? Internal demand and European institutions

The new ECB report on the access to finance of SMEs in Europe is out. It depicts the usual bleak scenario, albeit slightly improved on average, vastly different across countries of the euro area.

The most striking feature? The report usually asks small and large firms what their largest problem is right now. It has always been only one: not competition, not finance, not labor costs, not regulation. The lack of clients, i.e. demand (internal demand one would dare to say).

However never had it been so high for large firms.

One wonders why European institutions are oblivious to the problems of firms and do not react by instilling the only solution to this crisis in the economy: more public spending through procurement, in deficit in the North, financed by cuts in public waste in the South.

Instead one has to read the delirious recommendations of the EC to, for example, Italy: your debt-GDP ratio is too high because of low GDP, thus please do more austerity to fix it, with no seemingly rational understanding that austerity will drive the debt-GDP ratio even higher.

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Lettera aperta da una cittadina filippina ed italiana

Ricevo e pubblico, condividendo.

Lettera aperta agli Italiani

Ci siamo sentiti profondamente insultati dalla gag messa in atto dal conduttore televisivo Paolo Bonolis. Lo spettacolo che abbiamo visto non aveva nulla di divertente denotando una totale insensibilità ai sacrifici e al duro lavoro che la comunità filippina da decenni svolge qui in Italia. Molto irritante per noi è stato soprattutto l’utilizzo fuori luogo del nostro inno nazionale che rendeva la parodia una grave offesa a tutto il popolo filippino.

Il fatto è ancora più increscioso in quanto avviene in un momento difficile per la comunità filippina che sta affrontando un grave lutto nazionale ed è impegnata ad aiutare i sopravvissuti del tifone Haiyan. Non di offese ha bisogno ma di supporto e solidarietà.

Crediamo che simili sentimenti vengano provati anche dagli italiani quando sono rappresentati in paesi stranieri attraverso stupidi stereotipi che sconfinano nel razzismo. I nostri popoli sono legati ormai da decenni da una forte reciproca collaborazione ed amicizia. In questo lungo periodo molti italiani hanno potuto riconoscere e apprezzare le qualità del popolo filippino come l’onestà e la dedizione al lavoro. Altrettanto, i filippini hanno apprezzato la generosità e la bontà d’animo che caratterizzano gli italiani.

Molti filippini hanno avuto figli che sono cresciuti in Italia e si sono integrati nella società italiana pur non disconoscendo le loro radici.

Per continuare questo percorso insieme è importante che ci sia sempre ciò che sta alla base di tutte le amicizie: un forte e sincero rispetto reciproco.

Merila Murillo-Pecchi

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Incompetenza comune, sadismo burocratico e masochismo italico

Non deve essere facile fare il Ministro dell’Economia di questi giorni, ma certo si potrebbe far meglio. Certo è che Saccomanni non è in buona compagnia in Europa. Mi sono andato a rileggere la nota della Commissione europea (più succinta, qui) che ha incastrato – in ordine di importanza – il Paese, Letta e Saccomanni bocciando la legge di Stabilità.

Riassumendola e ridicolizzandola un po’ come merita, fa così. L’Italia è rientrata dalla procedura di disavanzi eccessivi. Bravi. Siete anche bravi a mantenervi sotto il limite “benchmark” del tasso di crescita della spesa pubblica. Complimenti. Però, vi siete scordati la terza regola, quella del debito. Che, comunque, bravi, avete rispettato per il 2013. Però, però, per il 2014 la regola del debito sul PIL (chiamata significativamente dalla Commissione europea la regola del solo “debito”), spiacenti non la rispettate. E dunque, carissimi italiani, mancano 5 miliardi circa, lo 0,3% di PIL all’appello.

E’ un passo significativo, da non sottostimare. Avevo già scritto sul Sole 24 ore che “è de facto partito il meccanismo del Fiscal Compact che già ci obbliga a convergere verso valori del debito su PIL in rapida riduzione (un paradosso, se pensiamo che le soluzioni europee sinora adottate per l’Italia non hanno fatto che aumentarlo).” Siamo entrati in una nuova era burocratica, quella del Fiscal Compact.

Assestatosi a 132,9% nel 2013 dal 127% del 2012, il Governo proietta il debito su PIL per il 2014 al 133%, stabile. La Commissione europea al 134%. Dunque in crescita. Dunque in sforamento. Dunque fermi tutti.

Perché sale secondo la Commissione europea? Qui non c’è dubbio che la responsabilità è in prima battuta tutta di Saccomanni. Non aver presentato dove si troveranno i soldi da privatizzazioni, avendo detto che le si facevano, è un mero errore interno. Aver previsto una crescita non credibile, combinata con una deflazione crescente che abbatte il denominatore del rapporto, il PIL, era sotto gli occhi di tutti, addirittura dell’Istat che ha detto a voce alta (complimenti per il coraggio) che con questa manovra il PIL sarebbe cresciuto non dell’1,1% ma dello 0,7%. Al punto che io avevo creduto che il tutto fosse stato già negoziato con la Commissione europea per dare una goccia di respiro all’economia italiana, in un gioco delle parti in cui ci si accorda per dire “io so, io so che tu sai, io so che tu sia che io so”. Ma a quanto pare Saccomanni non aveva negoziato un bel nulla.

E’ vero che il Governo italiano non ha l’obbligo di adeguarsi a queste raccomandazioni della Commissione (in fondo siamo vicini ad una campagna elettorale europea), ma quello a cui stiamo assistendo, siatene certi, sono le prove generali per generare un atteggiamento di intransigenza verso questi sforamenti, che già dall’anno prossimi non saranno più tollerati.

Ma la vera colpa è tutta europea. E nell’Europa includo la timida Italia e la timidissima Francia che abbozzano di fronte a queste idiozie di raccomandazioni della Commissione europea, permettendole.

Se è vero che il debito su PIL sale, per la Commissione, per una “minore crescita ed una minore inflazione di quella prevista dal Governo italiano”, è bene chiedersi da dove vengono questi elementi che portano la Commissione a chiedere più austerità di quanto già non se ne faccia già. Nella Tabella 1 si legge a chiare lettere dove divergono le vedute: per la Commissione ci saranno meno esportazioni e consumi ma più investimenti privati di quanto non ne preveda il Governo europeo. Siccome i primi hanno maggiore effetto dei secondi, eccoti spiegata la crescita minore di 0,4% di PIL della Commissione, che spiega lo sforamento nel rapporto debito su PIL che ci condanna.

Il balletto di cifre nasconde un convitato di pietra: è possibile che la differenza di 0,4% sia credibile, ma perché nessuno si chiede come mai l’Italia cresce, anche nelle previsioni più ottimistiche del Governo italiano “solo” dell’1,1% quando il resto dell’area euro cresce (leggermente) di più? In parte per ragioni strutturali, la risposta è, ed in parte perché lo stesso Governo ha rinunciato a stimolare la domanda interna, riducendo ulteriormente la spesa in appalti e per stipendi, ben più di quanto richiesto dall’Europa, come la Commissione stessa ammette.

Avevo scritto allora sul Sole 24 Ore: “la regola della spesa pubblica, che pone limiti severi alla crescita di questo aggregato, ed è la ragione per la quale i governi di Monti e soprattutto di Letta hanno deciso di sacrificare addirittura la leva strategica degli investimenti pubblici, richiedeva che l’Italia nel triennio 2012-2014 diminuisse la spesa reale dello 0,8% nei primi due anni e la mantenesse stabile nell’ultimo. Niente di più. Eppure, incredibilmente, questa è invece scesa di ben più di quanto non fosse necessario: rispettivamente del 4,7, dell’1,4 e del 2,3%; diminuzioni ultronee, capaci di farci comprendere le ragioni della contestuale recessione ed instabilità dei conti pubblici che sono il segno della politica economica di questi ultimi Governi.”

Rinunciando ad utilizzare di più la leva della spesa pubblica – cosa non vietata dalla Commissione! – che ha un moltiplicatore superiore ad 1 in questa recessione, abbiamo rinunciato a generare domanda interna e PIL più di quanto non sarebbe aumentato il deficit, dunque abbattendo il rapporto deficit PIL e diminuendo, e non aumentando, il rapporto debito su PIL.

L’incompetenza e masochismo del Tesoro ci hanno portato a questo punto. Il sadismo ed incompetenza della Commissione la portano a chiedere di rimediare a questo aumento del debito da minore crescita chiedendo maggiore austerità, e dunque minore crescita e maggiore debito su PIL.

A meno che. A meno che l’Italia non si imbarchi rapidamente, pur di dire sì alla Commissione europea, in una rapida riduzione del debito su PIL con privatizzazioni a casaccio di 0,3% di PIL. Come nel 1993, 20 anni dopo, metteremo in moto politiche che finiremmo per rimpiangere, inutili per il Paese, inutili per sconfiggere la recessione, utili a chi si arricchisce spartendosi le quote dei tesori di famiglia strategici del Paese.

Basta con questa manfrina.

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Arrestate l’incubo dei giovani. Arrestate il Grande Spreco

Giovannini ci prova, almeno lui. Il tentativo mirava a 200.000 assunzioni (di giovani) in tre anni.

Ma il bilancio sinora è veramente magro: 9284 domande di cui, secondo il bell’articolo di Marro sul Corriere, ben 8.308 si riferiscono ad assunzioni concluse prima, che sarebbero avvenute comunque.

Lasciamo parlare Marro e , soprattutto, gli imprenditori:

Un mezzo flop, insomma. O una goccia nel mare, come preferite, considerando che, per esempio, i giovani che non studiano e non lavorano sono più di due milioni e che quelli disoccupati (hanno perso un lavoro o lo cercano senza trovarlo) sono 654 mila, in aumento di 34 mila nell’ultimo anno. Paolo Agnelli, 62 anni, bergamasco, re dell’alluminio in Italia e presidente di Confimi, associazione delle piccole imprese: «Un imprenditore assume un giovane se gli serve, cioè se ha lavoro», ma se per fare questo supera la soglia dei 15 dipendenti e finisce sotto i vincoli dello Statuto dei lavoratori in materia di rapporti sindacali e licenziamenti ci pensa su due volte «perché uno con 16 dipendenti non è mica la Fiat».

E il sottosegretario Dell’Aringa:

I primi incentivi stanziati a giugno sono stati poco utilizzati e sulle assunzioni dei giovani le imprese vanno con i piedi di piombo. Senza una ripresa dei consumi, le aziende non investono. Per questo dobbiamo cercare di dare alle famiglie qualche soldo di più da spendere“.

Ma va.

Come abbiamo sempre detto: bassi tassi d’interesse, abbattimento del cuneo fiscale, bonus per assunzioni a poco servono in una crisi da domanda di cui questo Governo e l’intera Europa persistono a non capire la causa. Che i tassi scendano serve a poco se la gente non domanda credito perché non crede nel futuro e si rifiuta di investire. Idem con il cuneo: chi mai assumerà se il costo del lavoro scende se poi non crede nel domani? E i bonus per giovani? Idem.

I giovani vanno salvati ora, sono 2 anni che chiediamo al Governo Monti e Letta di guardare in faccia alla realtà (chi pagherà per questa inazione e per i danni che ha causato, quello che il Premio Nobel Stiglitz, ammonendo Monti guardandolo negli occhi, chiamò il Grande Spreco?)  e comprendere che l’unico modo per ridare ottimismo e reddito per i consumi ai giovani è quello di assumerli per due anni, non rinnovabili, per non fargli perdere ottimismo e competenze.

Nei pronto soccorsi.

Nei musei.

Nelle scuole.

Nelle forze dell’ordine.

Nella Protezione Civile.

Nei tribunali.

Nelle carceri.

Negli uffici dei Ministeri dove il vecchiume domina.

Nelle università.

Nella protezione dei parchi e dei luoghi ad alta densità di turismo.

Nelle nostre ambasciate e consolati.

1000 euro al mese per 24 mesi e ne vedrete delle belle, altro che questi risultati. Basta fare finta di parlare di giovani senza lottare per metterli al centro della nostra vecchia società. Sveglia, sveglia, sveglia, ascoltate i Viaggiatori in Movimento, unitevi a loro, e comunque date la sveglia se non vi va di unirvi a noi.