Ieri ho scritto un tweet, sul Giappone. Diceva così, riferendosi ad un bell’articolo di Eichengreen sulle politiche attuali del Premier Abe: ”Un buon resoconto della strategia economica dell’unico leader coraggioso al mondo in questo momento”.
Ho avuto molti (per i miei numeri) riscontri a questo tweet. Dagli anti-euristi in primis, felici. Come se le politiche di Abe, espansive sia nella moneta che nella spesa pubblica che nel tasso di cambio non fossero assolutamente a portata di mano anche all’interno di un’Europa che si tenga stretto l’euro. E perché mai? Una politica monetaria veramente espansiva potrebbe condurre ad una sana svalutazione dell’euro e toglierci da questa folle recessione che sempre più assomiglia a sabbie mobili mortali.
Ma non sono solo gli anti-euro a guardare al Giappone. Perché non c’è nulla che turba un macroeconomista di più del Giappone. In ogni dove. In parte perché c’è questo debito pubblico enorme che non salta mai e che non crea sconquassi sociali: questo non torna molto a coloro che dicono che il debito pubblico è una rovina. Ecco perché finiscono spesso per dire, un po’ per consolarsi, che è il debito pubblico ad avere generato questa orribile performance di crescita economica nell’ultimo ventennio giapponese.
Non è vero ovviamente: è la crisi economica che ha generato in Giappone questa strisciante crescita del debito, esattamente come in Italia oggi.
Francesco Daveri ieri sul Corriere della Sera, in un interessante articolo sui pericoli della deflazione, afferma come la ricetta giapponese contro la deflazione, la Abenomics, “prevede di ravvivare la domanda inondando di liquidità, di denaro, il sistema economico. Una strada utilizzata dalle banche centrali è quella di acquistare titoli del debito pubblico. Aggiungendo a questo un incremento della spesa sociale (in realtà c’è poco di sociale e molti di infrastrutturale nell’aumento di spesa di Abe, NdR). L’aumento di liquidità – se non si ferma nelle banche o viene dirottata dalle famiglie in risparmio - dovrebbe tradursi in un aumento della domanda di beni di consumo e di investimento che potrebbe controbilanciare la deflazione. Ma è stata una strada finora inefficace nel tirare fuori l’economia del Sol Levante dalla deflazione ventennale in cui è caduta dai primi anni ’90…. In Giappone (il debito su PIL) era il 65% nel 1990. E oggi, dopo due decenni di politiche monetarie e fiscali super-espansive, ha raggiunto il 228 per cento.“
Non è così, sempre se ascoltiamo uno dei maggiori esperti della recente storia economica giapponese, Richard C. Koh del Nomura Research Institute, che spiega che è l’austerità in queste recessioni da domanda – giapponesi e non – che uccide per decenni la crescita e le finanze pubbliche:
“Sfortunatamente i proponenti del consolidamento fiscale … ripetono gli errori di consolidamento fiscale prematuro effettuato dai governi giapponesi nel 1997 e 2001, che ambedue scatenarono una spirale deflazionista ed in ultima analisi aumentarono il deficit. L’errore nel 1997, per esempio, risultò in 5 trimestri di crescita negativa e aumentò il deficit del 68 per cento, da 22.000 miliardi di yen nel 1996 a 38.000 miliardi di yen nel 1999. Ci vollero 10 anni al Giappone per uscire fuori dall’abisso creato da questo errore di politica economica. Il Giappone sarebbe uscito dalla sua … recessione molto più velocemente ed a costi significativamente inferiori … se non avesse attuato misure di austerità in queste due occasioni. Gli Stati Uniti commisero lo stesso errore di consolidamento fiscale prematuro nel 1937, con risultati analogamente disastrosi.”
Sul concetto di prematuro ritorno all’austerità c’è chi proprio negli Stati Uniti la pensa similmente. E’ Christina Romer, la prima consigliera economica di Obama all’inizio del suo primo mandato, che di recente, dopo aver giudicato promettente l’approccio di Abe, ha scritto della recessione mondiale come:
“Mi ricordo vividamente, ero all’incontro dei banchieri centrali al Simposio di Jackson Hole nel settembre del 2009. Tutti che dicevano: “abbiamo arrestato la crisi. Ora quello che dobbiamo fare è tornare a politiche monetarie e fiscali prudenti, e a preoccuparci dell’inflazione”. Eppure la disoccupazione continuava a crescere, avrebbe raggiunto il 10% nell’ottobre del 2009. Ogni centimetro del mio corpo voleva urlare ai responsabili di politica monetaria al simposio: “oh no, non avete finito il vostro lavoro! (oh no, you are not done!)”. I banchieri centrali, sfortunatamente, smisero di aggredire l’economia nel 2010 e 2011. E ciò, probabilmente, rallentò il ritorno alla normalità dell’economia.”
Eh già. In queste recessioni da domanda mancante, dove tutto si gioca su aspetti così volatili come ottimismo e pessimismo, sono poche e basilari le armi per la vittoria, oltre alla fine dell’austerità: la leadership che esalta l’ottimismo di cittadini e imprese (come con Roosevelt e forse Abe) e la determinatezza d’intenti. Ovviamente due qualità che mancano a tutti in Europa e certamente in Italia a questo governo.
Già, l’Italia. Francesco Daveri continua dicendo:
“In più la via giapponese è sostanzialmente vietata all’Italia, perché nell’eurozona è la Banca Centrale Europea e non la Banca d’Italia a stampare moneta e … la via italiana contro la deflazione è dunque necessariamente più stretta e richiede un’Europa molto più disponibile. Paesi come la Germania, ma anche tutta la parte Nord del Continente devono accelerare la crescita agendo sui salari ma anche sulla leva delle tasse… una più rapida crescita dei redditi dell’Europa che cresce, potrebbe tradursi in maggiore domanda e maggiore inflazione di cui ha bisogno la zona Sud ancora in frenata.”
E fin qui si può concordare, sono 2 anni che diciamo che l’Europa del Nord deve espandere la sua domanda interna per far uscire dalla crisi l’Europa del Sud. Ma non basta.
Daveri avverte: “pensare però che contro la deflazione possa bastare affidarsi agli altri è perlomeno ingenuo se non addirittura colpevole.” Giusto.
“A noi spetta avviare in tempi stretti quelle politiche nazionali che mirano a recuperare efficienza e produttività. Ulteriori rinvii sono oggi ancora più pericolosi di ieri.”
Sbagliato.
A noi spetta rilanciare la nostra domanda interna, così evitando di far schizzare verso l’alto il debito pubblico italiano come è schizzato in questi anni di riforme inutili ed austerità e come schizzò nel Giappone pre-Abe. A noi spetta fare la nostra parte per generare ottimismo via domanda pubblica, nel contempo riuscendo dunque a migliorare i conti pubblici. A noi spetta rendere il compito dell’Europa del Nord meno difficile facendo riprendere in Italia occupazione, reddito, stabilità. E l’unico modo per farlo è mettere in cantiere l’esatto contrario di quello che hanno fatto i leader giapponesi nel 1997 e 2001, i leader mondiali nel 2009, Mario Monti ed Enrico Letta negli ultimi 2 anni.
Maggiori investimenti pubblici, maggiori stipendi pubblici ed assunzioni nelle scuole, nelle università, nelle forze dell’ordine. Più giovani al lavoro. Per ridare la speranza e generare più ottimismo. Senza mai sforare dal 3% europeo. Aggredendo quell’insieme di sprechi negli appalti pubblici che nessun governo -Letta ovviamente incluso – vuole assolutamente sfiorare, come è chiaro dai dati di Roberto Perotti sulle spese in acquisti di beni e servizi alla Camera dei Deputati e dai miei dati sull’articolo su Panorama. E che costituirebbero la più enorme fonte di finanziamento per spesa vera e utile. Per l’Italia e dunque per l’Europa.
Il Giappone indica la via di salvezza per l’Europa, seguiamola.