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Giappone, Europa

Ieri ho scritto un tweet, sul Giappone. Diceva così, riferendosi ad un bell’articolo di Eichengreen sulle politiche attuali del Premier Abe:  ”Un buon resoconto della strategia economica dell’unico leader coraggioso al mondo in questo momento”.

Ho avuto molti (per i miei numeri) riscontri a questo tweet. Dagli anti-euristi in primis, felici. Come se le politiche di Abe, espansive sia nella moneta che nella spesa pubblica che nel tasso di cambio non fossero assolutamente a portata di mano anche all’interno di un’Europa che si tenga stretto l’euro. E perché mai? Una politica monetaria veramente espansiva potrebbe condurre ad una sana svalutazione dell’euro e toglierci da questa folle recessione che sempre più assomiglia a sabbie mobili mortali.

Ma non sono solo gli anti-euro a guardare al Giappone. Perché non c’è nulla che turba un macroeconomista di più del Giappone. In ogni dove. In parte perché c’è questo debito pubblico enorme che non salta mai e che non crea sconquassi sociali: questo non torna molto a coloro che dicono che il debito pubblico è una rovina.  Ecco perché  finiscono spesso per dire, un po’ per consolarsi, che è il debito pubblico ad avere generato questa orribile performance di crescita economica nell’ultimo ventennio giapponese.

Non è vero ovviamente: è la crisi economica che ha generato in Giappone questa strisciante crescita del debito, esattamente come in Italia oggi.

Francesco Daveri ieri sul Corriere della Sera, in un interessante articolo sui pericoli della deflazione, afferma come la ricetta giapponese contro la deflazione, la Abenomics, “prevede di ravvivare la domanda inondando di liquidità, di denaro, il sistema economico. Una strada utilizzata dalle banche centrali è quella di acquistare titoli del debito pubblico. Aggiungendo a questo un incremento della spesa sociale (in realtà c’è poco di sociale e molti di infrastrutturale nell’aumento di spesa di Abe, NdR). L’aumento di liquidità  – se non si ferma nelle banche o viene dirottata dalle famiglie in risparmio - dovrebbe tradursi in un aumento della domanda di beni di consumo e di investimento che potrebbe controbilanciare la deflazione. Ma è stata una strada finora inefficace nel tirare fuori l’economia del Sol Levante dalla deflazione ventennale in cui è caduta dai primi anni ’90…. In Giappone (il debito su PIL) era il 65% nel 1990. E oggi, dopo due decenni di politiche monetarie e fiscali super-espansive, ha raggiunto il 228 per cento.

Non è così, sempre se ascoltiamo uno dei maggiori esperti della recente storia economica giapponese, Richard C. Koh del Nomura Research Institute, che spiega che è l’austerità in queste recessioni da domanda – giapponesi e non – che uccide per decenni la crescita e le finanze pubbliche:

Sfortunatamente i proponenti del consolidamento fiscale … ripetono gli errori di consolidamento fiscale prematuro effettuato dai governi giapponesi nel 1997 e 2001, che ambedue scatenarono una spirale deflazionista ed in ultima analisi aumentarono il deficit. L’errore nel 1997, per esempio, risultò in 5 trimestri di crescita negativa e aumentò il deficit del 68 per cento, da 22.000 miliardi di yen nel 1996 a 38.000 miliardi di yen nel 1999. Ci vollero 10 anni al Giappone per uscire fuori dall’abisso creato da questo errore di politica economica. Il Giappone sarebbe uscito dalla sua … recessione molto più velocemente ed a costi significativamente inferiori … se non avesse attuato misure di austerità in queste due occasioni. Gli Stati Uniti commisero lo stesso errore di consolidamento fiscale prematuro nel 1937, con risultati analogamente disastrosi.

Sul concetto di prematuro ritorno all’austerità c’è chi proprio negli Stati Uniti la pensa similmente. E’ Christina Romer, la prima consigliera economica di Obama all’inizio del suo primo mandato, che di recente, dopo aver giudicato promettente l’approccio di Abe, ha scritto della recessione mondiale come:

Mi ricordo vividamente, ero all’incontro dei banchieri centrali al Simposio di Jackson Hole nel settembre del 2009. Tutti che dicevano: “abbiamo arrestato la crisi. Ora quello che dobbiamo fare è tornare a politiche monetarie e fiscali prudenti, e a preoccuparci dell’inflazione”. Eppure la disoccupazione continuava a crescere, avrebbe raggiunto il 10% nell’ottobre del 2009. Ogni centimetro del mio corpo voleva urlare ai responsabili di politica monetaria  al simposio: “oh no, non avete finito il vostro lavoro! (oh no, you are not done!)”. I banchieri centrali, sfortunatamente, smisero di aggredire l’economia nel 2010 e 2011. E ciò, probabilmente, rallentò il ritorno alla normalità dell’economia.

Eh già. In queste recessioni da domanda mancante, dove tutto si gioca su aspetti così volatili come ottimismo e pessimismo, sono poche e basilari le armi per la vittoria, oltre alla fine dell’austerità: la leadership che esalta l’ottimismo di cittadini e imprese (come con Roosevelt e forse Abe) e la determinatezza d’intenti. Ovviamente due qualità che mancano a tutti in Europa e certamente in Italia a questo governo.

Già, l’Italia. Francesco Daveri continua dicendo:

“In più la via giapponese è sostanzialmente vietata all’Italia, perché nell’eurozona è la Banca Centrale Europea e non la Banca d’Italia a stampare moneta e … la via italiana contro la deflazione è dunque necessariamente più stretta e richiede un’Europa molto più disponibile. Paesi come la Germania, ma anche tutta la parte Nord del Continente devono accelerare la crescita agendo sui salari ma anche sulla leva delle tasse… una più rapida crescita dei redditi dell’Europa che cresce, potrebbe tradursi  in maggiore domanda e maggiore inflazione di cui ha bisogno la zona Sud ancora in frenata.”

E fin qui si può concordare, sono 2 anni che diciamo che l’Europa del Nord deve espandere la sua domanda interna per far uscire dalla crisi l’Europa del Sud. Ma non basta.

Daveri avverte: “pensare però che contro la deflazione possa bastare affidarsi agli altri è perlomeno ingenuo se non addirittura colpevole.” Giusto.

“A noi spetta avviare in tempi stretti quelle politiche nazionali che mirano a recuperare efficienza e produttività. Ulteriori rinvii sono oggi ancora più pericolosi di ieri.

Sbagliato.

A noi spetta rilanciare la nostra domanda interna, così evitando di far schizzare verso l’alto il debito pubblico italiano come è schizzato in questi anni di riforme inutili ed austerità e come schizzò nel Giappone pre-Abe. A noi spetta fare la nostra parte per generare ottimismo via domanda pubblica, nel contempo riuscendo dunque a migliorare i conti pubblici. A noi spetta rendere il compito dell’Europa del Nord meno difficile facendo riprendere in Italia occupazione, reddito, stabilità. E l’unico modo per farlo è mettere in cantiere l’esatto contrario di quello che hanno fatto i leader giapponesi nel 1997 e 2001, i leader mondiali nel 2009, Mario Monti ed Enrico Letta negli ultimi 2 anni.

Maggiori investimenti pubblici, maggiori stipendi pubblici ed assunzioni nelle scuole, nelle università, nelle forze dell’ordine. Più giovani al lavoro. Per ridare la speranza  e generare più ottimismo. Senza mai sforare dal 3% europeo. Aggredendo quell’insieme di sprechi negli appalti pubblici che nessun governo -Letta ovviamente incluso – vuole assolutamente sfiorare, come è chiaro dai dati di Roberto Perotti sulle spese in acquisti di beni e servizi alla Camera dei Deputati e dai miei dati sull’articolo su Panorama. E che costituirebbero la più enorme fonte di finanziamento per spesa vera e utile. Per l’Italia e dunque per l’Europa.

Il Giappone indica la via di salvezza per l’Europa, seguiamola.

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Spending Review: un uomo solo al comando? No grazie.

Dalla storia di copertina sul Panorama di oggi, mio articolo.

*

Un uomo solo al comando. Speriamo proprio di no. Carlo Cottarelli, economista esperto e persona dura ma pragmatica, ha accettato una sfida ben più ambiziosa di quella che gli hanno posto sinora i paesi emergenti di cui doveva esaminare i conti pubblici e stabilire se meritavano o meno i finanziamenti del Fondo Monetario Internazionale dove ha lavorato per una vita, con incarichi sempre più importanti: essere il capo della spending review italiana, con il compito di razionalizzare la nostra spesa pubblica senza farci cadere ulteriormente in recessione.

Perché funziona proprio così: se trovi lo spreco e lo abbatti, non causi dolore all’economia ed all’occupazione. Ma se tagli a casaccio, come è stato sinora, allora sì che son guai. Un esempio potrà bastare per comprendere questa semplice logica che spesso sfugge a chi chiede di “tagliare tagliare tagliare”, senza specificare come, la presenza dello Stato nell’economia. Immaginate due amministrazioni, A e B, che spendono in totale 600 euro per comprare 2 ambulanze, identiche, utili ambedue per il Paese. Tuttavia una, (A), l’acquista a 200 euro e l’altra, (B), l’acquista a 400. Essere così bravi da individuare lo spreco insito nei 400 euro e obbligare B a comprare a 200 riduce la spesa di 200 euro senza ridurre l’assistenza sanitaria sul territorio e senza creare più disoccupazione tra i lavoratori che producono ambulanze: sempre due ambulanze si acquistano. Anzi, si avranno a disposizione 200 euro con cui potremo comprare la terza ambulanza, se necessaria, o diminuire le tasse sui cittadini. Insomma, tagliare gli sprechi non è recessivo ma, al contrario, espansivo. Quello che viene a essere tagliato è un mero trasferimento che con lo spreco portava risorse dei contribuenti a imprenditori (e funzionari pubblici?) che si arricchivano indebitamente o più del necessario.

Vero è che se le nostra due amministrazioni erano brave e compravano già le due ambulanze a 200 ognuna, senza sprechi, il taglio a casaccio di 200 incide eccome: si potrà comprare solo  un’ambulanza, con minori servizi sul territorio, più disoccupazione nel settore delle ambulanze e un aggravamento della recessione con cui conviviamo da due anni.

Ecco la sfida che aspetta Cottarelli: non buttare il bambino con l’acqua sporca, evitare di ridurre la spesa in modo sbagliato inviluppandoci in una instabilità sociale che rischia di far saltare il banco.

Ma esistono questi sprechi? In abbondanza. Uno studio di tre economisti italiani, Oriana Bandiera, Andrea Prat e Tommaso Valletti  pubblicato sulla rivista scientifica internazionale più prestigiosa al mondo, ha dimostrato, sulla base di tutti gli appalti fatti in beni e servizi in Italia a metà del trascorso decennio, come, se tutte le amministrazioni comprassero lo stesso bene allo stesso prezzo potremmo ridurre la spesa del 2% circa del PIL, 30 miliardi di euro, senza ridurre la qualità dell’azione pubblica e senza ridurre l’occupazione nelle aziende che vendono alla Pubblica Amministrazione. 30 miliardi non sono noccioline (a cui andrebbero aggiunti gli sprechi sui lavori pubblici e quelli non solo di prezzo ma di quantità di beni inutili comprati).

Sul sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze potrete trovare una serie incredibile di dati che confermano l’esistenza di questi sprechi, la cui eliminazione è dunque a portata di mano. Cominciamo dalle scrivanie direzionali? Perché no. Le amministrazioni statali sono obbligate ad acquistarle dalla Consip, la società delegata a tali acquisti, dove potevano trovarle a 282,71 euro. Eppure molte di queste invece le hanno acquistate per conto loro, contravvenendo al disposto normativo, a un prezzo medio di 723,63 euro! Le amministrazioni locali, libere di acquisirle in proprio ma obbligate ad avere come riferimento il prezzo Consip, le hanno  comprate a “solo” 470,03 euro. Come è stato possibile evadere le prescrizioni normative? Semplice: in assenza del gatto (i controlli), i topi ballano. PC desk-top? Prezzo Consip 493,97 euro ma qualcuno che avrà preferito una marca diversa ci deve pur essere stato, visto che il prezzo medio per le amministrazioni obbligate è stato di 671,18 euro. E così via.

Come farà Carlo Cottarelli a entrare in questa giungla di sprechi ed uscirne ancora vivo e vincitore? Domanda tanto più rilevante dato che il suo predecessore, Bondi, non l’ultimo arrivato quanto a capacità di tagliare, ha miseramente fallito durante il mandato ricevuto dal Governo Monti. La risposta è sì semplice, ma articolata.

Prima di tutto, dovrà avere un mandato forte ed esplicito dal Presidente Letta. Che lo difenda e lo sostenga in ogni dove, internamente e con appropriata comunicazione esterna. Certo non aiuta che Letta non abbia nemmeno menzionato la spending review nel suo discorso di investitura alle Camere, ma la nomina di Cottarelli potrebbe essere un segnale di ravvedimento. Un sostegno interno non può che passare per l’attribuzione a Cottarelli di una gigantesca squadra di esperti (un centinaio?) che lo sostengano nelle ispezioni a campione che da subito dovrà mettere in atto sul territorio se vuol far sentire alle amministrazioni pubbliche il sentore che la musica è cambiata. Non tanto giuristi dunque, ma persone esperte di audit e controlli, merceologici raffinati e ingegneri competenti. E poi il sostegno totale degli uomini e donne della Guardia di Finanza, della Consip stessa, dell’Autorità Anti Corruzione, dell’Antitrust. Saprà Letta mobilitarsi in questa direzione? Il buongiorno si vede dal mattino e sapremo presto: basterà vedere quanti spazi riserveranno a Cottarelli a Via XX Settembre nella sede del Ministero. E dove risiederà. Già, perché si dice che Bondi avesse chiesto una stanza presso il piano nel Ministero dove è localizzata l’istituzione che detiene l’elemento fondamentale per qualsiasi tipo di controllo, ovvero il dato: stiamo parlando della Ragioneria Generale dello Stato. Eppure Bondi quella stanza contigua non l’ha mai avuta, segno di un rapporto di totale chiusura tra l’amministrazione del Tesoro e il capo della spending review.   Problema che non dovrebbe più sussistere ora con il nuovo Ragioniere Generale dello Stato, Daniele Franco, amico e collega di Cottarelli da tanti anni.

E’ proprio dalla Ragioneria che potrebbe venire il più formidabile supporto informativo. Ma comunque non sarebbe mai sufficiente: nemmeno alla Ragioneria hanno una banca dati che in tempo reale dica al Primo Ministro chi compra cosa, quando, come – vero incomprensibile scandalo a cui nessun sembra voler rimediare – ed in assenza della quale  siamo destinati a chiudere le porte della stalla quando i buoi sono già scappati, come è sempre avvenuto sinora. Riuscirà Cottarelli ad ottenere un mini finanziamento per ottenere per qualche milione quella piattaforma informatica dove centralizzare tutte le gare delle singole stazioni appaltanti italiane e che genererebbe miliardi di risparmi?  Perché è di questo che si tratta: non centralizzare le gare, fenomeno che uccide le piccole e medie imprese, ma centralizzare il dato, così che appena una scrivania direzionale verrà offerta a 700 euro l’affare verrà bloccato. Semplice no?

No, non è semplice. Richiede uno sforzo organizzativo notevole e, val la pena ripeterlo, tutta la forza di volontà dell’esecutivo a sostegno. Un uomo solo non potrà mai farcela. Una squadra di intoccabili come quelli che sconfissero Al Capone nemmeno. Ma un leader intelligente, sì.

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Lo spread tra Alesina-Giavazzi e Stiglitz(-Piga) è a 181 punti base

Ascolto Giuseppe Pisauro descrivere lo stato dell’economia italiana e poi vedo questa sua magnifica tabella riassuntiva (basata su dati del Fondo Monetario Internazionale) sui moltiplicatori dell’impatto della politica fiscale.

E mi viene in mente che Stiglitz (e Piga che l’ha seguito da sempre) battono Alesina e Giavazzi di 0,82 punti contro -0,99.  Uno spread di 181 punti a nostro favore.

La proposta A&G di abbassare la spesa ed al contempo abbassare le tasse è, come da sempre diciamo, ampiamente recessiva e probabilmente dannosa pe le finanze pubbliche. Dare alla gente soldi (minori tasse) quando non li vogliono spendere e levare a casaccio spesa che fa domanda interna e occupazione via appalti pubblici è recessivo. Provate a farlo dando un euro di tasse in meno finanziato da un euro di spesa in meno: l’economia produrrà un euro (0,99) in meno (con minori entrate fiscali, maggiore deficit ecc.): lo vedete in rosso nella tabella.

La (nostra) proposta di prendere le tasse già applicate ai cittadini che non spendono e usarli per fare appalti (e non sprechi) genera un aumento di PIL di 0,82 euro (in verde). Con effetti positivi sul bilancio pubblico in termini di maggiori entrate e quindi anche la possibilità aggiuntiva di abbassare le aliquote fiscali ulteriormente senza causare problemi di disavanzo. Quando la manina invisibile del privato si ritrae, quelle rare volte, la mano visibile dello Stato salva imprese e lavoro.Quanto tempo sprecato in questi 2 anni di blog, ad ascoltare chi ha proposto sempre le misure sbagliate.

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536 grazie ai firmatari dell’appello a Enrico Letta

 

Gianpaolo Abatecola
Anna Achiola
Nicola Acocella
Massimiliano Aita
Giovanni Aliverti
Jacopo Altamura
Roberta Aluffi
Riccardo Amici
Giovanni Anania
Alessandro Andriola
Giuseppe Anile
Andrea Apolloni
Amedeo Argentiero
Fernanda Arrius
Antonio Ascenzi
Elenamaria Attolico
Jacopo Avogadro
Antonietta Baccari
Cristiano Baffigi
Michele Bagella
Rolando Bagnoli
Arnaldo Balassi
Anna Baldazzi
Gregorio Barberio
Alessandra Barbieri
Ornella Barile
Antonio Bariletti
Livio Barnabò
Emilio Barone
Nirvana Bassi
Anna Maria Battisti
Carlotta Battistoni
Leonardo Becchetti
Tommaso Bechini
Sara Belisari
Giovanni Benedetti
Giacomo Bertacchi
Maria Cristina Berti
Giuseppe Bertoncello
Claudio Bertoni
Mauro Beschi
Alessandro Bessi
Elisa Betta
Federico Betteni
Luigi Biagini
Carluccio Bianchi
Paola Boco
Francesco Bogliacino
Giorgio Bolesan
Carlo Andrea Bollino
Bruno Bolognani
Massimo Bondanza
Giovanna Bonfili
Melania Boni
Silvia Borelli
Bruno Borghi
Sergio Bottacci
Stefano Bottaro
Giorgio Bottiglioni
Roberto Brambilla
Emiliano Brancaccio
Mariano Brandoli
Eugenio Bravetti
Margherita Bravo
Giulio Breglia
Alberto Bricca
Claudio Bronzini
Sandro Brunelli
Bruno Bruner
Flaviano Bruno
Sergio Bruno
Antonella Bucci
Paolo Buccirossi
Riccardo Bucella
Giorgio Budassi
Bogdan Bultrini
Catalin Burada
Stefano Caiazza
Marco Calabrò
Gabriella Caldarone Di Minni
Andrea Camaiora
Enrico Campion
Inasio Canal
Rosaria Rita Canale
Elvira Cangiano
Antonio Capitano
Alessio Capuano
Enrica Carbone
Angela Cardarelli
Alessia Cardella
Daniele Cardinali
Mauro Cardone
Alessandra Cari
Alessandra Caricato
Francesco Carlucci
Francesca Carnovale
Anna Carrelli
Alessandro Casartelli
Simone Cascione
Alfonso Cascone
Lorenzo Caselli
Sabrina Cassar
Manuel Casteletti
Rosella Castellano
Marco Castellanza
Annalisa Castelli
Lorenzo Castelli
Antonio Castiglia
Simona Cavalieri
Marco Cecchini
Giuseppina Celentano
Silvia Cerlenco
Maria Chiacchieri
Michele Chiarlo
Alessandro Cianci
Fabio Ciccone
Michela Cignarella
Marco Cilli
Davide Cimardi
Leonardo Cisaria
Guido Citoni
Lucia Civino
Enrico Claps
Carlo Clericetti
Giulio Codognato
Davide Colasante
Fulvio Coltorti
Tiziana Cometa
Maria Concetta
Daniela Condò
Liliana Consolati
Santino Consorti
Andrea Contini
Raffaella Coppier
Giovanni Andrea Cornia
Andrea Maria Cosentino
Barbara Costa
Salvatore Cresce
Innocente Curci
Giovanni Curcio
Caterina D’Alitto
Bruno Dallago
Georges Dalle
Jean-Baptiste Dalle
Luca D’Andria
Luca De Benedictis
Fabrizio De Filippis
Anna De Giorgio
Lucia De Luca
Carlo De Michele
Piero De Padova
Vincenzo De Pinto
Primo De Vecchis
Domenico Del Sorbo
Orietta Delfino
Giuseppe Dell’Erba
Marop Denni
Giovanni Di Bartolomeo
Andrea Di Biasi
Carmine Di Dato
Adriano Di Domenicoantonio
Simone Di Fazio
Valerio Di Fazio
Nicolò Di Gaetano
Andrea Di Giandomenico
Angela Di Iorio
Nicola Di Lascio
Claudio Di Lazzaro
Cataldo Di Leo
Andrea Di Pasquale
Giulia Di Pierro
Maria Antonietta Di Pino
Benedetta Di Primio
Andrea Di Tommaso
Alessandro Di Vascio
Carmine Didato
David Donadio
Andrea Donato
Carlo D’Orta
Vittorio Dringoli
Lorenzo Echeoni
Federico Effe
Giorgio Einaudi
Aldo Enrietti
Simone Erbani
Giuliana Esposito
Massimiliano Esposito
Alessandro Fabris
Stefano Fabrizi
Matteo Falconi
Alessandra Farina
Mario Farinelli
Carlo Farsetti
Andrea Farsetti
Armando Fascia
Angelo Favale
Alessio Favata
Ilaria Fazio
Arianna Federici
Francesca Federoni
Graziano Felci
Rocco Femia
Carola Fenicchia
Gerardo Ferrara
Tony Ferrara
Walter Ferrari
Teresa Ferrari
Nicola Ferraro
Concetto Ferrarotto
Sergio Ferrero
Edoardo Ferri
Margherita Ferri
Domenico Ferro
Enrico Ferrucci
Francesco Filippini
Rugero Floricel
Maria Francesca Foderoni
Manuel Foglietta
Claudio Fortuna
Marco Franco
Bonifacio Franzese
Fabio Fraternali
Gianluca Frattini
Manuela Frinelli
Ezio Fronterotta
Valerio Furiani
Serena Gaballo
Edoardo Gaffeo
Francesco Gagliardi
Giovanni Galvan
Eugenia Gambaro
Rosario Gambera
Alessia Gambino
Teresa Gambuli
Valentina Gangai
Mara Gasbarrone
Simone Gasperin
Piergiorgio Gawronski
Marco Genco
Simonetta Gentili
Viola Germani
Annalisa Giachi
Paolo Giacomino
Andrea Giacomino
Silvia Giancotti
Eusebio Giandomenico
Antonello Gianfreda
Maurizio Giannella
Francesco Gianotti
Giammarco Giardi
Marika Giovannetti
David Giovannucci
Sara Girombelli
Alessandra Marina Giugliano
Carola Giuseppetti
Serena Giuseppone
Walter Giuzio
Cesare Gizzi
Jacopo Gnessi
Claudio Gnesutta
Giuseppe Gori
Laura Gramaccini
Luca Gramatica
Nicola Graziani
Nicola Graziani
Salvatore Grilletta
Elona Guga
Francesco Gurrieri
Alessandra Imperiali
Davide Infante
Elena Innocenzi
Stefano Intini
Guido Iodice
Luis Iurcovich
Rosario La Rosa
Paolo Labombarda
Chiara Lacava
Sara Landi
Lucio Laureti
Lorenzo Lavagno
Luca Lazzaro
Paolo Leon
Guido Leonardi
Riccardo Leoni
Silvia Lezzi
Marco Listorti
Francesco Lobello
Giovanni Davide Locicero
Flavia Loconte
Umberto Lombardi
Claudio Longari
Giulio Longo
Alessandro Longo
Angelo Lopez
Francesco Lordi
Paolo Lorenzoni
Franco Losurdo
Emanuela Lozzi
Pietro Luongo
Alessandra Macchioni
Mathieu Maggi
Alessandra Malerba
Marco Malgarini
Valeria Mancini
Fabio Manenti
Andrea Maneschi
Vincenzo Manfredi
Laura Manfredonia
Maria Vittoria Manfredonia
Giuseppe Manganelli
Gianluca Mangone
Beny Mantin
Alfonso Manzo
Gerardo Manzo
Vincenzo Manzo
Raffaella Manzo
Stefano Manzocchi
Anna Lia Marangio
Ugo Marani
Marco Marcantoni
Giorgio Marcellitto
Alessio Marchetti
Alessandro Marchetti
Anita Marchica
Cristina Marcuzzo
Mariana Mariani
Vanessa Mariani
Claudia Marini
Veronica Marotta
Giovanni Marra
Paolo Marra
Emanuele Marsiglia
Marzia Marsili
Roberta Marta
Patrizia Marta
Paola Marta
Alessandro Martello
Samuel Martin
Gabriele Martinelli
Simone Martinelli
Marcello Martinelli
Ivar Massabo
Edegardo Massimi
Sabino Maurelli
Angelo Mele
Federica Meo
Federica Mezzatesta
Domenico Mezzatesta
Paolo Mezzetti
Tiziano Micci
Lorenzo Migliaccio
Alessandro Milesi
Paola Milizia
Marco Milizia
Andrea Milo
  Milone
Marcello Minenna
Margherita Minniti
Stefano Mogliazzi
Betty Molin
Maria Romana Mongiello
Flavio Monosilio
Paola Monti
Mauro Morelli
Serena Moretti
Matteo Moroni
Francesco Moscatelli
Oreste Napolitano
Francesca Nardini
Roberto Nastri
Palazzi Natale
Roberto Natale
Stefano Nizzola
Barbara Nocco
Serena Novero
Antonio Nudo
Domenico Mario Nuti
Ferdinando Ofria
Giovanni Onofri
Mario Ori
Francesca Pacini
Massimiliano Paderi
Fabrizio Padua
Ruggero Paladini
Roberto Pali
Giada Palma
Francesco Palumbo
Lorena Panariello
Matteo Paoli
Guido Paolucci
Roberto Parchi
Fabrizio Pederiva
Maruse Pelletteria
Giuseppe Pellitteri
Fabiana Pepe
Franco Perona
Stefano Perri
Cosimo Perrotta
Stefano Perruzzi
Stefano Pesci
Gabriella Simona Peta
Andrea Pezzoli
Paolo Piacentini
Massimiliano Piacenza
Luisa Piazza
Massimo Pica
Alessandro Piergallini
Fabio Massimo Piersanti
Giovanni Piersanti
Gustavo Piga
Simone Piga
Eleonora Pillitteri
Emanuele Pimpini
Paolo Pini
Silvano Pintani
Eugenio Pirozzi
Anna Adriana Polesello
Valeria Ponis
Matteo Pradella
Mattia Prezzi
Giannina Puddu
Riccardo Pudis
Giovanni Puggione
Lionello Punzo
Leonardo Quagliata
Antonio Quercia
Nicola Quero
Marco Raberto
Rosario Rabuano
Tiziano Raffaelli
Paolo Raffone
Paolo Ramazzotti
Piercarlo Ravazzi
Gabriele Ricci
Stefano Rocchi
Antonio Rodo
Donato Romano
Marco Rossi
Annamaria Rossi Bufo
Chiara Rubino
Cristiano Rudelli
Patrizio Rudelli
Salvatore Ruocco
Franco Russo
Fabio Sabatini
Gianfranco Sabattini
Giulio Salerno
Gianfranco Salgo
Dominick Salvatore
Gianfranco Salvo
Fabio Sansoni
Rita Santoro
Riccardo Santoro
Luigi Sarnataro
Maria Carla Sarrecchia
Giulia Sbrega
Patrizia Sbrega
Stefano Scaccia
Gabriella Scalisi
Diego Scarbolo
Eva Schettini
Alessandra Schiavina
Karl Schuyler
Getano Scognamiglio
Antonio Scotti
Federica Scotto
Maurizio Seghetti
Rosa Serafino
Alberto Severini
Giuseppe Sica
Renato Sicca
Maria Letizia Sicigliano
Paola Sinibaldi
Alessandro Sirinna
Licia Soncini
Riccardo Sorbara
Elide Sorrenti
Concetta Sorropago
Laura Sossi
Dimitri Stagnitto
Alessandro Staino
Valentina Strammiello
Laura Strazzullo
Livio Sviben
Davoud Taghawinejad
Roberto Tamborini
Alessandro Tamborrino
Franco Tanzini
Maria Concetta Tarantino
Gionata Taurino
Serena Fiona Taurino
Ernesto Tavoletti
Noemi Tempesta
Simona Tenaglia
Pietro Terna
Vittoria Tesei
Mario Tiberi
Donatella Tinti
Massimo Tivegna
Maria Toffoletti
Christian Tognarelli
Alessandra Tonazzi
Daniele Tori
Chiara Tranquilli
Luca Trentini
Umberto Triacca
Egon Tripodi
Domenica Tropeano
Corrado Truffi
Veronica Tuni
Francesco Tupone
Raffaello Ugo
Patrizia Ugolotti
Pasquale Vaccaro
Mauro Valiani
Vittorio Valli
Marisa Vallocchia
Maurizio Vasciarelli
Luigi Vecchi
Francesca Velani
Alessandro Verginelli
Simone Vero
Antonio Vicentino
Agnese Viele
Antonio Vini
Maria Vittoria
Genesio Volpato
Gabriel Wanduragala
Ilir Xaka
Bruno Zagarese
Marco Zagari
Ugo Zannini
Giancarlo Zanon
Giorgio Zintu
Valentino Zoldan
Eleonora Zuppello
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Firmato l’appello da 418 cittadini: domani al Consiglio europeo per dire NO al Commissariamento europeo

Abbiamo ricevuto sinora, in esattamente 24 ore, 418 firme al nostro appello al Presidente Letta. Grazie!

Non smettete di mandarle tuttavia, indipendentemente da come andrà domani e dopodomani al Consiglio europeo, teniamo alta la pressione.

Abbiamo bisogno di aiutare i tedeschi a capire come si salva l’Europa insieme. Solo dicendo NO possiamo sperare di riuscirci.

*

Al Presidente del Consiglio dei Ministri Enrico Letta.

 Ill. mo Presidente,

 «Il nostro destino può essere quello che vogliamo solo se l’Europa farà scelte diverse da quelle fatte finora». Queste sue parole, così importanti, furono pronunciate poco prima dell’insediamento del governo da Lei presieduto e del suo tempestivo e immediatamente successivo tour europeo.

Tra meno di 24 ore lei si recherà nuovamente a Bruxelles per un Consiglio Europeo che si annuncia decisivo per il destino dell’Europa, il primo dallo svolgimento delle elezioni tedesche.

Sono sempre più frequenti i riferimenti ad una richiesta proprio dalla Germania di accelerare sul fronte dei c.d. “contractual arrangements” ovvero degli accordi contrattuali che dovrebbero limitare ulteriormente la flessibilità dell’ultimo strumento di politica economica che i singoli Stati hanno  ancora a disposizione, quello della politica fiscale, per fronteggiare una recessione che rischia di far esplodere tensioni sociali ed economiche insostenibili, mettendo a repentaglio la permanenza nell’area euro e dunque il progetto europeo.

Come da Lei stesso comunicato alla Camera dei deputati ieri 22 ottobre, “la strada per uscire dalla crisi non è costruire nuove gabbie di procedure, monitoraggi, sanzioni”.

Con questo appello la preghiamo di porre dunque senza indugi il veto, all’interno della riunione del Consiglio europeo, a qualsiasi proposta di ulteriore riduzione dell’autonomia fiscale dei singoli Paesi Stati membri dell’area euro.

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Appello al Presidente Letta in vista del Consiglio Europeo

Apprendiamo ora che al prossimo Consiglio Europeo di giovedì il Presidente Letta potrebbe incontrare una forte pressione ad approvare un irrigidimento ulteriore della politica economica europea in una direzione gradita alla Germania e che leverebbe ai paesi in difficoltà anche l’ultima fonte di (limitata) autonomia di politica economica rimasta.

Potrebbe rivelarsi un momento cruciale per l’Europa ed il nostro Paese. Per questo vi chiedo di firmare questo appello e di farlo girare al maggior numero possibile di persone stanotte e domani, chiedendogli l’assenso a firmarlo, mandando tutti una mail a

piga.gustavo@gmail.com

Cercheremo di dargli massima visibilità via agenzie di stampa.

Grazie

Gustavo Piga

 

Al Presidente del Consiglio dei Ministri Enrico Letta.

 Ill. mo Presidente,

 «Il nostro destino può essere quello che vogliamo solo se l’Europa farà scelte diverse da quelle fatte finora». Queste sue parole, così importanti, furono pronunciate poco prima dell’insediamento del governo da Lei presieduto e del suo tempestivo e immediatamente successivo tour europeo.

Tra meno di 24 ore lei si recherà nuovamente a Bruxelles per un Consiglio Europeo che si annuncia decisivo per il destino dell’Europa, il primo dallo svolgimento delle elezioni tedesche.

Sono sempre più frequenti i riferimenti ad una richiesta proprio dalla Germania di accelerare sul fronte dei c.d. “contractual arrangements” ovvero degli accordi contrattuali che dovrebbero limitare ulteriormente la flessibilità dell’ultimo strumento di politica economica che i singoli Stati hanno  ancora a disposizione, quello della politica fiscale, per fronteggiare una recessione che rischia di far esplodere tensioni sociali ed economiche insostenibili, mettendo a repentaglio la permanenza nell’area euro e dunque il progetto europeo.

Come da Lei stesso comunicato alla Camera dei deputati ieri 22 ottobre, “la strada per uscire dalla crisi non è costruire nuove gabbie di procedure, monitoraggi, sanzioni”.

Con questo appello la preghiamo di porre dunque senza indugi il veto, all’interno della riunione del Consiglio europeo, a qualsiasi proposta di ulteriore riduzione dell’autonomia fiscale dei singoli Paesi Stati membri dell’area euro.

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Spending Review in tempi di crisi in cui dire no alla Germania – Il video di Porta a Porta (2)

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La doppia arma negoziale in Europa per un deficit del 4%

Dal Sole 24 ore di oggi il mio articolo.

“Hai letto la nota di aggiornamento al DEF. Ma come è possibile? La spesa pubblica è programmata aumentare dal 2012 al 2017 di 50 miliardi di euro?”. E’ così, rispondo al mio interlocutore. Da un totale di 800 a 854 miliardi di euro. E a poco vale precisare che in percentuale del PIL atteso in questo sessennio la quota scende dal 51,2% al 48%, 50 miliardi son sempre 50 miliardi e fanno impressione e poi il PIL futuro, direbbe il cinico, è sempre sovrastimato nelle stime ufficiali.

Sono numeri che creano scompensi a chi odia la spesa pubblica, ovviamente. Crea problemi anche nel campo opposto, a chi dice che questo Governo è quello dell’austerità. Meglio allora vedere da cosa viene questo aumento di 50 miliardi.

Non da lavoro dipendente e da appalti di beni e servizi, la spesa corrente, che complessivamente aumenta di soli 5 miliardi (un netto calo in termini reali ed in termini di PIL, addirittura del 2%). Aumento che poi si cancella, clamorosamente, con la diminuzione addirittura in valore assoluto della spesa programmata in conto capitale. La spesa per interessi è proiettata aumentare di poco più di 5 miliardi e qui l’ottimismo ufficiale si spreca, avendo il Governo modificato il suo modo di stimare l’andamento dei tassi d’interesse in maniera che fa alzare più di un sopracciglio. Comunque sia, rimangono all’appello 45 miliardi. Dove sono? Semplice. Nelle prestazioni sociali. 35 miliardi dei quali in pensioni. Che restano stabili in termini di PIL al 16%, divenendo nel 2017 un terzo della spesa totale.

Insomma, per capirci. I tifosi dell’anti-austerità non saranno felici dell’aumento di spesa in questione: sono meri trasferimenti, non domanda pubblica, quelli che spiegano l’aumento di spesa, non c’è dunque contenuto espansivo in questi numeri. Ai tifosi dell’anti-spesa, consolazione seppur magra, invece si potrà dire che non c’è un aumento della presenza dello Stato ma solo l’inevitabile conseguenza di un patto intergenerazionale da rispettare.

Più importante, sono numeri che paiono dirci che l’ingessamento del bilancio pubblico italiano, nel quale si rifugiano tutti coloro che sostengono come non vi siano risorse per finanziare azioni pubbliche  favore dell’economia, è effettivo, proprio a causa dell’andamento delle pensioni italiane. O forse no. Forse, rovesciando la prospettiva, potremmo affermare che proprio dal gestire quell’aggregato pensionistico intelligentemente si potrebbe trovare una soluzione alla crisi di fondi pubblici per la crescita che attanaglia il Paese in recessione.

Una possibile proposta potrebbe essere quella del taglio delle pensioni d’oro. Presto fatta, presto ritirata. A guardare i numeri dell’INPS si constaterebbe che più dell’87% della spesa pensionistica riguarda pensioni inferiori ai 3000 euro mensili, per lo più intoccabili anche da chi è mosso da forte senso di equità redistributiva. Ridurre anche del 20% il rimanente ammontare (se mai autorizzato costituzionalmente) porterebbe a benefici di minori spese di meno di mezzo punto di PIL, un ammontare quanto mai irrilevante per rilanciare l’economia, specie se tenessimo conto del caos politico e sociale in cui ci incastreremmo con un simile provvedimento.

Un’altra riforma delle pensioni? Per carità, abbiamo già dato. E lo sanno tutti in Europa. Rileggiamo ad esempio l’interessante discorso in Grecia del Vice Presidente della BCE, Vítor Constâncio, sulla crisi dell’area euro. Questi afferma, correttamente, come “nell’ipotesi di assenza di nuove riforme pensionistiche, il Rapporto della Commissione europea sull’invecchiamento stima le spese pubbliche legate all’età crescere del 3,6% del PIL nell’area dell’euro tra il 2010 ed il 2060, 1,4% di PIL solo per quelle pensionistiche. Tuttavia è proprio nel campo delle riforme per contenere il peso di lungo termine delle popolazioni che invecchiano che i paesi oggi più in difficoltà hanno fatto di più. L’Italia ed il Portogallo, ad esempio, hanno aumenti stimati in tali spese irrilevanti.” Al contrario di altri Paesi, come ben mostra il grafico sottostante.

E’ un punto importante, che la nota di aggiornamento del DEF riprende per conto proprio, mostrando un declino del peso delle pensioni italiane fino al 2030, di quasi 1,5% di PIL e del 2,5% al 2060, sulla base delle riforme intraprese e degli andamenti demografici.

Ecco, come, mi chiedo, abbiamo fatto tesoro di queste nostri sforzi ben superiori a quelli del resto d’Europa? Piuttosto che parlare di tagli ulteriori alle pensioni italiane, perché non usarne l’andamento virtuoso per creare una leva negoziale al tavolo europeo di non poco conto per ottenere maggiore spazio fiscale oggi, in fase di recessione?

Questo andamento strutturale declinante, unico in Europa, di una componente sostanziosa e apparentemente rigida del nostro bilancio è il nostro migliore chip negoziale al tavolo delle trattative. Possiamo chiedere all’Europa di permettere un deficit in aumento al 4% oggi, fino al termine della recessione, perché siamo strutturalmente meglio equipaggiati rispetto agli altri Paesi per recuperare il maggiore deficit odierno senza effetti di lungo periodo sul debito pubblico e anzi rilanciando crescita e stabilità all’interno di tutta l’area euro. Rigida in una ottica statica, la spesa per pensioni italiane può essere un elemento strategico flessibile in ottica dinamica.

Il che non ci esenta dal trovare altre fonti di finanziamento per la maggiore domanda pubblica che sola ci porterà fuori da questa crisi: in particolare la spending review vera, quella non ancora avviata su quell’enorme mole di appalti pubblici che facciamo come tutto il resto del mondo. Una spending review volta a buttare l’acqua sporca degli sprechi senza buttare il bambino della domanda pubblica che crea occupazione, rimane a tutt’oggi la più importante arma inutilizzata nel generare fondi per la crescita senza mettere a repentaglio i nostri conti pubblici e la nostra credibilità in Europa.  Ma un Governo che si rispetti può e deve muoversi con coraggio ed astuzia negoziale su ambedue i fronti.

 

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La manovra recessiva del Governo Letta-Saccomanni – Il video di Porta a Porta

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La manovra recessiva del Governo Letta-Saccomanni che uccide la speranza

Mi chiedono da dove traggo la mia convinzione che quella per il 2014 del Governo Letta sia una azione di politica economica recessiva.

Andiamo per passi successivi. Partendo dalla Legge di Stabilità così come presentata dalla Presidenza del Consiglio.

Fronte entrate. 3,7 miliardi di sgravi fiscali. Sono finanziati per metà con aumenti di altre tasse. Quindi: complessivamente 1,8 miliardi di minori tasse, un +0,1% circa di PIL, espansivo.

Fronte uscite. 7,9 miliardi di maggiori spese pubbliche. Finanziate con 3,5 miliardi di tagli alle spese, 1,4 con misure una tantum che qui non consideriamo per semplicità e 3 miliardi di aumento di deficit. Quindi: complessivamente un aumento di spese di 4,4 miliardi, un altro + 0,3% circa di PIL, espansivo.

Se facciamo la somma di queste minori tasse e maggiori spese in totale una legge di stabilità espansiva dello 0,4% di PIL. Poco, certo, ma sempre espansivo per l’economia.

Oops no.

No per due ordini di motivi.

Il deficit di 2,5% di PIL che comunichiamo alla Commissione europea è in realtà un 2,7% mascherato.  La “falsificazione ottimistica” di cui vi ho già parlato della spesa per interessi incide nel 2014 per lo 0,2% di PIL. Quando a fine 2014 tutti ne prenderemo beatamente atto, notando una maggiore spesa per interessi di quanto stimato, la Commissione europea ci chiederà una bella manovrina da 0,2 di PIL% per riportare i conti al promesso 2,5% di PIL.  Quindi, in realtà la manovra è espansiva non dello 0,4% di PIL ma dello 0,2%. E va beh. Sempre espansiva direte.

Eh no.

Si dà il caso che la legge di stabilità sia solo l’ultimo tassello della politica economica di Letta. Il piatto forte, preparato solo poche settimane fa è quello contenuto nella nota di aggiornamento del DEF dove si leggevano le grandezze tendenziali (prima della manovra) che questo Governo sottoscriveva come quelle più appropriate per il 2014 e gli anni a seguire.

Immaginate questa legge di stabilità come il parmigiano che il cuoco mette alla fine sul piatto di pasta (il DEF). Valutereste la bravura del cuoco solo dal parmigiano o dal tutto?

E allora vediamolo questo tutto. Della legge di stabilità abbiamo già detto: +0,2% di PIL o +0,4% di PIL a seconda che crediate o meno alle super ottimistiche stime del Tesoro sulla spesa per interessi. Vediamo ora cosa contiene il DEF.

Il DEF lasciava di fatto la pressione fiscale 2014 immutata rispetto al 2013. Ma nelle spese pubbliche il DEF Letta era duro assai. Prevede un calo degli stipendi pubblici dal 10,5% del PIL al 10,1%. Recessivo dunque per 0,4% di PIL (in parte sarà composto anche da un disinvestimento in capitale umano che toccherà scuole ed università). In più se ci aggiungete il calo delle spese in conto capitale di cui vi abbiamo già parlato, dal 3,3% di PIL al 2,8%, – 0,5% di PIL in meno di investimenti pubblici – arriviamo a quota -0,9% di PIL.

Non mollate, ci siamo quasi: insomma la legge di stabilità Letta è espansiva di 0,2-0,4% di PIL, il DEF recessivo di 0,9% di PIL; complessivamente una manovra 2014 recessiva come minimo di 0,5% di PIL, come massimo di 0,7% di PIL.

Per capire meglio la logica, facciamo un esempio. Ma non ha detto Letta con la legge di stabilità che ci saranno 3 miliardi in più per le infrastrutture (Mose compreso)? Vero, ma nel DEF aveva scritto che avrebbe diminuito gli investimenti pubblici 2014 di 8 miliardi, quindi effettivamente il taglio finale sarà di 5 miliardi di euro nella spesa in conto capitale.

Mi chiederete. Come può dunque questo Governo stimare una crescita economica del +1% nel 2014? Semplice. Con due “trucchi” del mestiere. Ma di questo parliamo domani.

L’oggi è dedicato a dire tutto il male possibile di una manovra che leva speranza per il futuro e non fa ripartire consumi ed investimenti privati perché non incide (in senso ottimistico) sulle aspettative dei cittadini. Cosa c’è di più triste di un Governo che taglia investimenti, in infrastrutture e capitale umano, ovvero la base su cui si radica e cresce la ripresa della speranza di un Paese?