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Bonanotte popolo. I trucchi di sempre, raddoppiati.

Non può sfuggire ai più come vi debba essere una fortissima correlazione positiva tra spread sui tassi del debito e prospettive di crescita di un Paese. Un debito diventa più rischioso se peggiorano le aspettative dei creditori che questo venga ripagato. E ovviamente se un’economia non tira, non convince, non affascina gli investitori con le sue prospettive di dinamicità, lo spread sale perché sale il rischio che non vi siano risorse per ripagarlo.

Con una doppia botta, conseguenza inevitabile del ragionamento di cui sopra, sui conti pubblici: meno entrate e più spese dall’andamento negativo dell’economia, più spesa per interessi.

Governi che non hanno saputo, con la giusta politica economica e le giuste riforme (già, non quelle sbagliate!) di cui abbisogniamo veramente per la crescita, dare ossigeno all’economia hanno sempre cercato meccanismi artificiali per tenersi in vita coi loro conti pubblici. Tipicamente, con la sovrastima del PIL futuro, inserito sempre in maniera birichina nelle stime dei conti per l’anno che verrà. Un trucco seguito da quasi tutti i governi che ricordo, un trucco che addormenta il Paese, destinato l’anno successivo a risvegliarsi sempre con conti sempre peggiori che nel frattempo, come logica conseguenza, non sono stati messi in ordine da chi li ha truccati. Era troppo impegnato ad imbellettarli per pensare ad altro.

Ma ora il gioco è al rialzo. Nessun Governo ha mai osato quanto fatto da Saccomanni: non solo gonfiare il PIL, e passi (ma lo certificheremo solo l’anno prossimo, tranquilli), ma – e in un certo senso coerentemente, in una logica perversa – sgonfiare le spese per interessi. Dell’1% del PIL, 16 miliardi, una cifra colossale, argomentando che i tassi di mercato previsti dagli operatori sono troppo pessimisti (peccato che dal 95 usavamo sempre il loro parere!) e scommettendo che gli spread caleranno ben di più di quanto previsto oggi.

In effetti, si potrebbe dire, se si fosse governanti da strapazzo: se il PIL tira, grazie alle mie stime fasulle, allora anche lo spread scenderà. Peccato che da una crescita fasulla non potrà che discendere una discesa di spread …. anch’essa fasulla.

Una bugia da 16 miliardi fatta per evitare che impietosamente i conti pubblici raccontassero la vera sconfitta di questo Governo: la sua incapacità di governare i conti pubblici. Non riusciamo a stare nei conti che ci chiede di rispettare l’Europa? Semplice, abbattiamo “virtualmente” la spesa per interessi, così sembrerà che ce l’abbiamo fatta.

Ma da dove nasce questa incapacità? Ovvio, dalla incredibile incapacità di saper fare politica economica. Incapacità che a sua volta discende da un’altra incredibile incapacità: quella di non saper spiegare a Bruxelles quello che sa anche un bambino, ovvero che solo con maggiore domanda interna da vera spesa pubblica (finanziata senza addizionale debito) la ripresa sarà vera e non meramente una menzogna scritta e firmata sulla carta del DEF.

Ma le bugie hanno le gambe corte. Tenetevi forte: tra un paio d’anni Saccomanni, o un suo successore equivalente, vi diranno che ohibò, la spesa per interessi è stata sottostimata di 16 miliardi di euro e che, ohibò, bisognerà trovare 16 miliardi in più, magari rimettendo l’IMU e l’IVA e la Service Tax e la Patrimoniale, per far …. quadrare i conti.

Ma il crimine più grave non sarà stato quello di questa pietosa bugia: sarà stato quello di aver fatto perdere due anni al nostro Paese, nell’illusione che tutto andava bene, facendo fuggire tanti altri giovani all’estero, facendo scivolare tanti altri lavoratori verso la disoccupazione e l’abbandono della forza lavoro, facendo spegnere la fiammella del sogno di chi ancora crede che questo Paese può e deve meritare di più.

Bonanotte popolo.

 

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Al diavolo l’Italia e l’Europa dei giochi di prestigio

Non so come prenderla. Da un lato, ammirazione. Dall’altro confusione e scoramento. Ma anche una certezza: non ci siamo. Per nulla.

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Dicono in inglese: “the devil is in the details”, meglio ancora del nostro proverbio. Tutto si gioca nei dettagli. Per esempio, nella Nota di Aggiornamento del DEF del Governo Letta recentemente pubblicata, sulla nota 3 a pagina 2 della tabella I.1 si legge: “l’attuale scenario ipotizza una graduale chiusura degli spread di rendimento a dieci anni dei titoli di Stato italiani rispetto a quelli tedeschi a 200 punti base nel 2014, 150 nel 2015 e 100 nel 2016 e 2017.” Lo vedete nel cerchio blu.

E’ l’ipotesi sottostante al calcolo della spesa per interessi che, come potete ben immaginare, da sempre si deve basare su una stima (soggettiva? obiettiva?) sull’andamento futuro dei tassi d’interesse sul debito italiano.

Dove si nasconde “il diavolo”? Oh, molto semplice. Nel fatto che nel DEF di 6 mesi fa approvato dal Governo Monti la spesa per interessi era stata calcolata, come sempre si è fatto da 15 (!) anni e più a questa parte, basandosi sui tassi di mercato impliciti nelle curve dei rendimenti dei titoli di Stato italiani. Sul DEF Monti di soli 6 mesi fa a pagina 46 troverete la classica frase:  “le stime circa la spesa per interessi relativa agli anni 2013-2017, formulate utilizzando i tassi impliciti nella curva dei rendimenti italiana rilevati a metà marzo 2013, prevedono….

Non più. Game over, new game. Un ennesimo gioco di prestigio.

Il Governo Letta ha (con trasparenza, gliene va dato atto anche se in una noticina) deciso che, da ora in poi, per stimare l’andamento dei tassi d’interesse italiani non ci baseremo più sulle aspettative del mercato, ma su di una visione “soggettiva” del Tesoro. Pessimista o ottimista? Molto ottimista. Di fatto (cerchio blu) il Tesoro italiano scommette, contro i mercati, che i tassi d’interesse crolleranno ben più di quanto atteso, con uno spread che torna a quota 100 nel 2016.

Fosse uno speculatore, il Tesoro di Saccomanni, ci si chiederebbe come mai non chieda ai suoi funzionari addetti alla gestione del debito pubblico di precipitarsi a comprare a termine il suo debito, dato che secondo le sue stesse valutazioni, è destinato a aumentare incredibilmente di prezzo nei prossimi anni. Sarebbe un bel risparmio per il contribuente, il guadagno in conto capitale di questa operazione. Oppure gli andrebbe chiesto come mai, malgrado questa sua incredibile stima così diversa da quella di mercato, non emetta solo titoli a breve termine, BOT, e smetta di emetterne a lungo termine, BTP, evitando di bloccarci oggi con tassi alti visto che “sa” già caleranno nel tempo ben più di quanto si aspetta il mercato. Un altro bel risparmio derivante da una gestione del debito pubblico coerente con le stime del Tesoro.

La verità è un’altra. E’ che con questa mossa è destinata a crollare, sulla carta, la spesa per interessi sul debito pubblico italiano prevista per i prossimi anni. Per trovare una conferma basta confrontare la spesa prevista dal 2014 dal DEF Monti e quella del DEF aggiornato da Letta (i tassi non sono poi cambiati così tanto da giustificare analisi più sofisticate). Ebbene uno scopre che con questo piccolo “dettaglio” deliberato nella nota 3, la spesa nel 2014 scenderà da 90,377 mld di euro a 86,087 (0,25% circa di PIL), da 97,465 a 88,827 nel 2015 (0,5% circa di PIL), da 104,387 a 91,858 nel 2016 (0,75% circa di PIL), da 109,289 a 92,5 nel 2017 (1% di PIL).

Wow. 1% di PIL. Beh, questa nota 3 non è certo un dettaglio!

Il coniglio fuori dal cilindro è geniale e per questo nutro una buona dose di ammirazione per i nostri governanti: se non l’avessero scovato si sarebbero dovuti arrampicare con la Commissione europea a cercare di ridurre il deficit con maggiori tasse o minori spese di ammontari simili, generando ulteriore recessione. E poi, siccome questo Governo non riesce a trovare la quadra nemmeno su 0,1% di PIL, capite bene quanto sia d’aiuto una tale ipotesi.  Chissà cosa ne dirà la Commissione europea: non è escluso che chiuda benignamente un occhio capendo le difficoltà politiche del Governo Letta ed avendone a cuore la stabilità.

Eppure tutto ciò mi risulta intollerabile. Per due motivi, a seconda che le ragioni dell’ottimismo del Governo siano state motivate da pessimi “artifici contabili” oppure da una ottima “volontà di Europa”.

Se fosse stata, la nota 3, mero artificio contabile, saremmo di fronte all’ennesimo gioco delle tre carte con la (complice) burocrazia europea, dove chi perde è il popolo europeo. Perché scrivere cose “false” (ma tornerò a breve su questo aggettivo) non è che mero sonnifero dato al paziente per rinviare al domani le scelte difficili e affrontare la dura realtà della situazione con vigore e decisione.  Pietoso esercizio di vigliaccheria.

Ma.

Ma la nota 3 si potrebbe giustificare con ben altra motivazione. Una ben più nobile e comprensibile. “La stima dei tassi che noi facciamo” potrebbe dire il Tesoro in conferenza stampa, “è l’unica compatibile con la salvezza dell’Europa”. “Perché”, continuerebbe Saccomanni, “spread a 250 per altri 4 anni, come paiono attendersi i mercati, implicherebbero l’insostenibilità della situazione e la fine del progetto europeo in comune”.

Sarebbe bello leggere un comunicato di questo tipo. Perché sarebbe la prima volta che un esecutivo europeo confessa la sua impotenza in caso di protrarsi di questa crisi.

Ma.

Perché mai lo spread dovrebbe calare, ci verrebbe da chiedere al Ministro in conferenza stampa? E la risposta dovrebbe essere, in tutta onestà, una sola, quella ovvia: perché, per allora, avremo risolto la crisi. Ovvero, perché abbiamo finalmente attuato le politiche giuste che faranno credere fermamente ai mercati che nessuno deve più temere la frantumazione dell’area euro. Ovvero, che abbiamo ritrovato la via della crescita.

E come avremmo fatto a ritrovarla?

Ecco, qui cascherebbe l’asino e, rovinosamente, il castello di carte del Tesoro italiano così abilmente costruito: con una politica diversa da quella seguita sinora di austerità, decrescita ed instabilità dei conti pubblici, ossia con esattamente l’opposto di quanto previsto dal Governo Letta con il suo DEF aggiornato, fatto di austerità maggiore di quella montiana, calo degli investimenti pubblici (-0,9% di PIL dal 2013 al 2017) e degli investimenti in capitale umano (-1,3% di PIL in stipendi pubblici, che impediscono aumenti di salari a ricercatori e maestri di scuola). Politiche che non hanno mai riportato lo spread a 100, ma che, al contrario, lo hanno portato via, verso l’alto, da quel livello.

La coperta è corta ed i giochi di prestigio sanno di stantio: il Paese ha bisogno di un vero Ministro del Tesoro e di un vero Governo. E ne ha bisogno anche questa Europa che guarda altrove, su tutto, bella addormentata nel mondo che corre senza di lei e che non l’aspetta.

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Fatto: questo Governo è piu’ austero di quello Monti.

Tratto dal Sole 24 Ore di oggi.

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La nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza è il primo documento ufficiale che permette di misurare credibilmente il segno della politica economica del Governo Letta. Non solo. Pubblicata a meno di 6 mesi di distanza dall’ultimo documento ufficiale del Governo Monti (il DEF stesso), abbiamo ora modo di ottenere informazioni preziose su due ulteriori dimensioni delle bontà delle scelte adottate dagli ultimi due Governi: 1) gli ulteriori scostamenti ed errori di previsione del Governo del Professore nell’ultimo trascorso semestre e 2) se e come la Grande coalizione italiana attualmente in carica intende discostarsi dalle politiche (giudicate fallimentari da circa il 90% dei votanti alle recenti elezioni politiche) del predecessore bocconiano.

I conti sono presto fatti. In soli 6 mesi l’outlook sul 2013 dell’economia italiana è cambiato in peggio su tutti i fronti: con un aumento del rapporto debito su PIL di ben 2,4 punti percentuali, un rapporto spesa pubblica su PIL maggiore di quanto affermato 6 mesi fa di ben 0,8 punti percentuali ed un peso delle entrate fiscali su PIL ancora maggiore, di 0,5% di PIL. Il fatto che – malgrado l’ammissione del Dicastero di Via XX Settembre che i “moltiplicatori fiscali si sono mostrati ben più reattivi di quanto inizialmente stimato dalle principali istituzioni internazionali” – questi errori di previsione del Tesoro continuino imperterriti da anni fa dubitare fortemente della bontà e della credibilità delle nuove proiezioni da poco elaborate. La colpa, si direbbe, è di una (de)crescita economica che è stata nuovamente sottostimata (da -1,3 oggi a -1,7% per il 2013). Ma, evidentemente, la minore crescita ha a sua volta una sola causa:  l’aumento della tassazione e soprattutto la diminuzione della spesa, quella spesa capace di generare ricchezza e ripresa in una fase di ciclo in cui la domanda interna privata è scomparsa.

Spicca in questo senso l’incredibile decisione programmatica sugli investimenti pubblici, che Monti già prevedeva di ridurre, dal 2013 al 2017, dello 0,4% di PIL (da un livello di partenza storicamente già bassissimo) e che Letta addirittura accentua con una riduzione, nello stesso periodo, di 0,9% di PIL. Su tutte le altre dimensioni di bilancio rimane, nel Governo attuale, la stessa traccia di austerità che aveva caratterizzato la visione di lungo periodo del Governo Monti: sulla spesa per dipendenti pubblici è prevista la stessa riduzione di ben 1,3% di PIL in 4 anni (difficile immaginare in tal senso una ricomposizione dai settori pubblici meno strategici verso la scuola, la ricerca e l’università), mentre entrate e spese totali paiono ormai scolpite nella pietra, con una identica convergenza al 2017, oggi come 6 mesi fa, verso valori minori di quelli odierni, almeno sulla carta.

Il tempo passa, e dunque nulla cambia, anzi se possibile l’austerità peggiora. Val la pena chiedersi da dove derivi questa rigidità ed apparente incapacità del Tesoro di “rivoluzionare” le leve del bilancio pubblico per portare l’economia fuori dalla recessione. E’ semplice. Basta leggersi con attenzione i due DEF del Ministero per rendersi conto che quest’ultimo non segue, come dovrebbe, l’elementare regola della crescita economica ma piuttosto due “nuove” regole imposte da Bruxelles: quella della spesa pubblica e quella del debito, ideate per porre vincoli stringenti alla crescita di queste variabili. L’Italia non soltanto ha ubbidito a queste nuove regole; i recenti Governi si sono addirittura mostrati più realisti del re e, così facendo, hanno tolto spazio vitale alla ripresa economica.

La regola della spesa pubblica, che pone limiti severi alla crescita di questo aggregato, ed è la ragione per la quale i governi di Monti e soprattutto di Letta hanno deciso di sacrificare addirittura la leva strategica degli investimenti pubblici, richiedeva  che l’Italia nel triennio 2012-2014 diminuisse la spesa reale dello 0,8% nei primi due anni e la mantenesse stabile nell’ultimo. Niente di più. Eppure, incredibilmente, questa è invece scesa di ben più di quanto non fosse necessario: rispettivamente del 4,7, dell’1,4 e del 2,3%; diminuzioni ultronee, capaci di farci comprendere le ragioni della contestuale recessione ed instabilità dei conti pubblici che sono il segno della politica economica di questi ultimi Governi.

Purtroppo, a sua volta, la recente nota d’aggiornamento al DEF ci ricorda che l’Europa delle regole stupide è sempre al lavoro. Così apprendiamo che è de facto partito il meccanismo del Fiscal Compact che già ci obbliga a convergere verso valori del debito su PIL in rapida riduzione (un paradosso, se pensiamo che le soluzioni europee sinora adottate per l’Italia non hanno fatto che aumentarlo). Ma anche qui, scopriamo che il nostro Governo è stato più conservatore dell’Europa stessa: mentre l’aggiustamento fiscale richiesto da questa regola per il 2013 era pari allo 0,1% di PIL, leggiamo, “tuttavia, (che) lo sforzo fiscale attuato dal Governo nell’anno in corso, pari a 0.9 punti percentuali di PIL, risulta essere nettamente superiore alla correzione fiscale richiesta per il rispetto della regola del debito”. Un masochismo senza pari.

Spazi per un’espansione fiscale autorizzata dall’Europa c’erano e ci sono. Ci si deve chiedere piuttosto se ci sia un Governo nazionale capace di comprenderlo e di negoziare con coraggio in questa direzione.

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Amazing Race, la Corsa Meravigliosa verso l’Università del Domani

Letter from an American student with no name whose father is a dear friend of mine and who this year starts his University adventure. In Singapore.

Lettera (in inglese) del figlio di un mio caro amico americano al suo primo anno di un programma universitario di eccellenza a Singapore assieme alla University of Yale. Il mondo marcia, vola nella sua offerta di una nuova Università anche basata sull’interdisciplinarità. E noi?

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Dear Gustavo,

… first, some boring stuff: I spent most of my senior year applying for college and fooling around until I got admissions replies back. Eventually I had to decide between three different schools: Duke, Dartmouth, and Yale-NUS. I’m not sure if you’ve heard about Yale-NUS before; its a new liberal arts college that is jointly established by Yale and the National University of Singapore to be the first of its kind in Asia (its not a branch campus of Yale and offers its own degree) and this year was the inagural year for the college. After striking Dartmouth off the list pretty fast, it took many hours of thought before I finally submitted my confirmation to join the first class of Yale-NUS.

Why, you might ask, did I decide to fly halfway across the world to attend college? Most of it goes back to the Experience Yale-NUS weekend (EYW), where they flew a bunch of us down to Singapore just to check out the country and the college itself, where I met the most amazing group of students I had ever met in my life. Every one of them possessed a level of analytic thought, global awareness, and genuine curiosity that I had never seen before. In just a few short days I explored deep political and philosophical questions with each student offering a unique viewpoint. I realized that this is what I really wanted in future classmates and I didn’t have anywhere near the same level of conversation when I visited the American colleges. In the end, it came down to this: If I attended Duke, I could see myself constantly clicking to the Yale-NUS page and see what the students over there were doing and regret not attending out of uncertainty. And as its turned out so far, coming to Singapore has been an amazing experience.

I could write for pages and pages and still not go over everything that has happened since I left the United States (I’m still struggling to write it all down in my own), so I’ll just go over a few points. The first week we came to Singapore, the main event was the Amazing Race, which was a full two day race around various landmarks, with an overnight stay at a beach. It was a lot of fun and gave me a chance to bond with my classmates, especially the Singaporean ones who arrived at the college later than the internationals. Right after the race, they flew all of our class off the Yale, where we spent three weeks attending different lectures from a variety of topics including sustainability and epics. The Yale Summer Immersion acted as a great bridge between summer and the school year: we were starting to ease back into classes, but in a very relaxed fashion. There were many different events offered during the three weekends at Yale; I spent the first in New York City, the second going home for my mom’s birthday, and the third listening to Ban-Ki Moon speak at the UN and attending a dinner at the Yale Alumni club. The three weeks passed incredibly quickly and before I knew it we were on a plane back to Singapore.

After we got back, there was a week off before classes started for the Singapore students to home and everyone to recharge. I spent most of this week just getting some general affairs settled – setting up phone, bank, etc. School officially started five weeks ago. Everyone is currently taking four classes together, Scientific Inquiry (SI), Comparative Social Institutions (CSI), Philosophy and Political Thought (PPT), and Literature and Humanities (LitHum). Admittedly, SI is my least favorite course, but that’s only because I enjoy the other ones so much. We’ve explored a number of different concepts in SI, such as cosmology and atomic theory, but the most exciting thing about my other courses is how well they’ve build in both Eastern and Western ways of thinking.

In CSI this week, we examined South Indian family relationships and how they relate to the current debate in the US about gay marriage. In PPT, we spent the past few weeks learning about the great Chinese Philosophers before transitioning today into Plato’s Republic. In LitHum, we first studied the Indian epic Ramayana and just recently started reading the Odyssey; it is remarkable how many similarities can be drawn between the two epics across such different cultures. The best thing about Yale-NUS though is still the students, who come from so many different countries with distinct cultural backgrounds. Every class discussion looks at issues from an amazingly vast array of viewpoints. When an American student tried to put forth the notion that love was a key feature in the ideal marriage in CSI, there were instant rebuttals from many different people about how arranged marriages had been an important part of their culture.

These classes and people have exposed me to so many different ways of thinking that I had never experienced before and are a truly unique feature of my new college. At the risk of sounding very cliched, coming to Yale-NUS has shown me a whole new world.

Classes and learning aside, its been a ton of fun as well! Since starting the school year, I’ve done everything from joining a business case competition to attending the Ramadan Night Festival to sitting and talking on Arab Street until 2 AM. And the future holds much in store. At the end of next week, I’ll be flying to Indonesia with four friends to go mountain climbing up an active volcano during our week-long break. And the following week, I’ll be returning to Indonesia again for another week to work on a school project: Reconstruction in Banda Aceh, a region that was devastated by a tsunami back in 2005 and some of my other friends are heading off to Greece to study the history of some of our texts. I’ve even already made plans to stay with a new friend of mine in New Delhi for a week at the start of the winter break. At this rate, I’ll probably be back in Italy visiting you before long!

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Il miglior attacco, a volte, è la difesa

Dario Di Vico, in un articolo non proprio chiarissimo, chiede maggiore domanda interna assieme a sostegno alle nostre imprese. Ma ammette che ridurre il cuneo fiscale è servito a poco a stimolare l’economia già in un’altra occasione. Chiede anche che le piccole imprese esprimano rivendicazioni comuni e non vadano sparse ognuna a richiedere favori per la propria ridotta platea di associati. Tanti desideri corretti, quelli di Di Vico, poche soluzioni concrete. Abbiamo una soluzione da proporgli che accontenta tutte le sue richieste.

Richiede una strategia nuova. Giocare in difesa.

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Che le piccole d’Italia si uniscano. Per essere finalmente protette e non distrutte. Non chiedano risorse, nemmeno una. Solo di essere esplicitamente protette.

Chiedano semplicemente:

- l’applicazione di una moratoria regolatoria, come quella nel Regno Unito, per 3 anni per tutte le aziende con meno di 10 dipendenti;

- la riserva di tutte le gare sotto soglia di appalti pubblici alle imprese con meno di 25 dipendenti (a meno che non vadano a vuoto come partecipazione), liberando risorse per domanda interna (quella pubblica) che oggi finisce a volte per rivolgersi a grandi imprese straniere;

- l’analisi di tutte le regolazioni locali e statali esistenti ai sensi del (non applicato) Statuto delle Imprese approvato in Parlamento nel 2011, e la cancellazione per le piccole di tutte quelle che dimostrano di generare impatti negativi sproporzionati sulla competitività delle PMI.

Trattasi di protezione. Delle piccole imprese. Come previsto negli Stati Uniti dal 1953: protezione, non protezionismo.

Trattasi di protezione, del nostro Paese che soffre e che vuole restare in Europa se solo si fanno le cose giuste.

Perché il miglior attacco, a volte, è la difesa.

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Chi vogliamo che acceda all’università italiana?

A liceo ero uno studente pessimo. Alla Sapienza, con accesso aperto a tutti, fui molto bravo. Chissà se avrei mai superato un test d’accesso all’università. Ne dubito.

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Il Ministro Carrozza ha deciso: niente uso da ora in poi dei voti di scuola nei test universitari. Ora i test rimangono, ma senza peso per i voti di scuola.

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“Da oggi invece per essere ammessi alle facoltà a numero chiuso sarà decisivo esclusivamente l’andamento che si avrà nei 100 minuti di test”. Così Virgilio Falco, portavoce nazionale di StudiCentro, commenta la sua abolizione. “Riteniamo- ha continuato- che sia più rilevante ai fini dell’ammissione avere alle spalle un buon percorso scolastico rispetto al conoscere o meno Dominique Strauss-Kahn, protagonista quest’anno dei test d’ingresso di medicina”.

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Eppure mi chiedo se restringere l’accesso all’Università sia qualcosa di intelligente, voto di scuola o test che sia. Ne dubito.

Tanti studenti che entrano via test abbandonano gli studi dopo uno o due anni. Hanno dunque levato dei posti a qualcun altro, che non è stato ammesso dopo il test d’ingresso.

Chi non è stato ammesso, per un voto a scuola o una performance al test peggiore (o ambedue), avrebbe anch’egli abbandonato gli studi universitari? Qualcuno certamente, ma non credo tutti.

Perché è possibile che alcuni studenti bravi a scuola o ai test non abbiano una delle qualità più utili per completare con successo l’università: la voglia di emergere e la capacità di non mollare che, come sappiamo dai lavori del Nobel Spence, è spesso la vera qualità che cercano nei giovani laureati le imprese. Qualità che potrebbero ben rivelare di avere studenti che oggi non superano il test d’ingresso.

Ecco perché sarebbe ben più utile pensare ad un test di mero orientamento che non impedisca l’accesso a nessuno e piuttosto, come in tantissimi sistemi europei, un passaggio agli anni successivi dell’università condizionato al superamento di tutti gli esami dell’anno precedente con la media del sufficiente (eliminando contemporaneamente il folle trend italiano dei fuori corso ed il potere del singolo docente di bocciare uno studente): cosa a tutt’oggi impossibile in Italia.

Certo, avremmo delle aule dei primi anni un po’ più affollate, ma una minore misallocazione dei talenti e un minore spreco di risorse.

Certo ci si sarebbe una corsa per accedere al primo anno alle migliori università, ma non sovrastimerei questo problema. Le migliori università sono anche quelle che faranno corsi più impegnativi, corsi che scoraggeranno l’accesso di studenti meno bravi che sanno di rischiare di non superare gli esami del primo anno e preferiranno studiare in università meno impegnative.

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Il sogno che abbatte le barriere

Peccato, oggi da Barisoni non sono riuscito a finire il mio pensiero, c’era poco tempo ma mi sa che forse parlo troppo. :-)

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Ma chi crede al Direttore Napoletano nella sua battaglia contro la burocrazia? Come credere che questa ci salverà? Lo sappiamo bene che ci vogliono anni per, se proprio lo si vuole, vedere i frutti di una lotta contro una burocrazia che uccide un Paese, il nostro Paese.

Lo sappiamo bene che ci salverà solo l’espansione dell’economia e che l’unico motore che può sostenere questa è la domanda pubblica. Ma ecco dove ci ritroviamo con Napoletano.

A Bruxelles, per ottenere il via ad un piano di spesa pubblica stile Giappone, vorranno qualcosa in cambio. E noi gliela daremo, la lotta alla burocrazia che piacerà a tutti a quel tavolo di “27 fannulloni che non sanno sognare l’Europa”. Ecco, la lotta contro la burocrazia, saggia nel lungo termine, diventa di fatto essenziale anche per il breve termine.

Ma.

Noi sappiamo come spendere. Basta fare gare di appalti che danno lavoro a tante imprese. Ma come si combatte la burocrazia?

Oh, semplice. 4 cose. Ognuna precondizione dell’altra!

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Primo. Lo dice Napoletano: “avviando concretamente con gli uomini giusti (ci sono) la ristrutturazione della macchina dello Stato“. Eh già. Senza gli uomini giusti non si parte nemmeno. Lo sanno tutti che il pesce puzza dalla testa. Eh già, ci sono, senza parentesi, gli uomini giusti. Sappiamo nomi e cognomi, indirizzi, degli uomini giusti. Non li scegli? E va bene, vuol dire che ti stanno bene le cose come stanno. Game over.

Secondo. Hai scelto gli uomini giusti? Allora fai che questi indirizzino al meglio le risorse a disposizione. Crea regole ed organizzazione al servizio del successo. Assicurati che là dove ci sono gli uomini giusti ci siano anche i soldi che si meritano coloro che lavoreranno con entusiasmo, ben coordinati, per gli uomini giusti, per il Paese. Che dove ci siano quelli bravi, ci siano le risorse per compensarli e stimolarli a fare ancora di più. Ma proprio tanti soldi. Non li premi? Game over.

Terzo. Le risorse saranno allocate secondo le regole giuste? Ora non ti resta che individuare i più bravi da premiare e stimolare. Come? Beh per prima cosa devi avere i dati, tanti dati, milioni di dati, miliardi di dati per poter verificare, misurare, indicare la via. Non misuri? Game over.

Quarto. Con quei dati, indicata la via, e solo allora, parte la spending review. Per capire dove aumentare, dove diminuire, dove modificare la spesa, per un Paese migliore. Non sogni? Game over.

Ecco, I need a dream.

Questo sogno richiede una quinta condizione. Un leader, un vero leader, un leader qualsiasi, ma non uno che veda nella stabilità un valore in un tempo di così profonda crisi. Uno che veda il sogno per il Paese. Tutto qui. Tutto comincia da qui, dal sogno.

I Viaggiatori domenica a Subiaco, per quel sogno.

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Invertendo l’ordine dei fattori il Prodotto Interno Lordo cambia

Da due anni su questo blog abbiamo chiesto, ai vari Ministri e Presidenti che si sono succeduti sullo scranno della politica economica, di usare i costanti incrementi di tasse a cui hanno fatto ricorso – per abbattere un debito che invece si nutriva proprio dei frutti di questi aumenti recessivi delle imposte per crescere – per finanziare nel sistema economico quella domanda di beni e servizi che non appare volersi materializzare con la mano invisibile, né via famiglie italiane via consumi né Via imprese italiane via investimenti.

Una manovra, quella della nostra proposta, espansiva e a saldo zero di bilancio: le tasse sottratte  a cittadini e imprese restii a domandare vengono ridate a cittadini ed imprese via domanda pubblica, uscendo dal tunnel buio e permettendo di creare lavoro e reddito.

Quindi aumento di tasse prima, da usare poi per un aumento di spese e di PIL e occupazione. Certo meno espansivo di un mero aumento di spesa pubblica, ma sempre utile per un Paese dal debito alto di cui i mercati temono l’esplosione (che in realtà c’è stata sì, ma a causa dell’austerità montiana o lettiana).

Una idea vecchia come il cucco. Poco capita o che poco si vuole capire (Monti non la capì, credo, quando gliela spiegò Stiglitz a Roma; dubito che Letta la abbraccerebbe).

Ma il Sig. Abe, premier giapponese, adesso spiega a Stiglitz qualcos’altro, non così tanto vecchio come il cucco. Anzi di nuovissima ideazione, per un Paese anch’esso con un altissimo debito pubblico. Un’inversione dell’ordine dei fattori: un aumento di spesa pubblica (già fatto) prima e, una volta misuratone l’impatto formidabilmente espansivo, calmierato poi da un aumento di tassazione. E quindi, di nuovo, a saldo di bilancio pubblico zero.

Uguale? Non credo proprio. Aumentare tasse prima e spesa pubblica poi rischia di generare un entusiasmo ridotto (“ma veramente l’aumenteranno poi questa spesa e domanda pubblica? e se alla fine non fanno che aumentare le tasse?”) e viene lanciata comunque con una prima parte che riduce il PIL (l’aumento di tasse). Aumentare la spesa pubblica prima permette di generare entusiasmo (se è spesa buona) e PIL da subito, rinvigorendo le aspettative. A quel punto l’aumento delle tasse sarà solo un dolcetto per quegli operatori di mercato che si preoccupano dell’aumento di debito successivo alla crescita.

Ed infatti…

In Giappone hanno aumentato la spesa pubblica, le stime per la crescita del primo trimestre sono state clamorosamente riviste dal 3,8% ad un enorme 4,1% e l’annuncio di un aumento dell’IVA dal 5 all’8% ha buone chance di non influenzare più di tanto le aspettative oramai entusiastiche degli operatori.

In Italia? Non cito nemmeno i numeri per la tristezza che fanno. Comunque si parla di giocare con tasse in più, tasse in meno, da subito, confondendo gli operatori e certamente non stimolando fiducia. Per di più senza pensare mai a stimolare la domanda interna con più spesa buona.

Può darsi che la manovra giapponese fallirà. Può darsi che il braccino italico sarà salvato da una ripresa mondiale straordinaria. Eppure non posso che ammirare il gioco rischioso ma visionario dei nipponici. Si vive una volta sola, ed è meglio rischiare di perdere la poltrona ma salvare il Paese che salvare la prima e perdere il secondo.

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A maggio 2014 si vota per il Parlamento europeo. Ricordiamoci di votare per il futuro dell’Europa.

Da Patte Lourde riceviamo e volentieri pubblichiamo

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La storia è fatta di cicli. Giambattista Vico  avrebbe  detto di ‘corsi e di ricorsi’. È finito anche il ciclo dell’Europa colonialista, il modello nel quale pensavamo di poter insegnare tutto a tutti. Non lo vogliamo ammettere. Chi ha costruito l’Europa così fragile alla crisi, nella convinzione che il modello europeo fosse immune alle crisi, oggi cerca di guidarci fuori dalla crisi.

Da troppo tempo sentiamo parlare di austerità e crisi, di riforme strutturali necessarie per rilanciare l’economia e ridurre la spesa pubblica; contemporaneamente  si parla di salvataggi delle banche, di investire in infrastrutture, di pagare i debiti pregressi delle amministrazioni, di riformare le istituzioni pubbliche, nazionali ed europee.

Nel dibattito sembra evidente la riproposizione di vecchi problemi e di vecchie ricette,  con parole nuove. È inoltre chiara la difficoltà a riconoscere che il nostro modello di crescita non può essere comparato con quello cinese o dell’America Latina, così come non è più adeguato alla situazione economica e sociale.

Ricordiamo la legge del consumo di Engel. Man mano che il reddito cresce, le spese destinate alle diverse voci di bilancio familiare cambiano in percentuale; quelle che erano destinate ai bisogni essenziali (l’alimentazione, per esempio) diminuiranno, mentre aumenteranno le spese per gli ‘articoli di lusso’. A questo concetto di beni di lusso diamo qui il significato di “tutti quei beni che non sono per bisogni essenziali”. Se si guarda la pendenza della curva che descrive il comportamento dei consumatori all’aumentare del reddito disponibile, si nota che  è fortemente positiva, ovvero a una data percentuale di aumento del reddito corrisponderà un aumento più che proporzionale del consumo del bene.

Ora però proviamo a porci due domande.

1. Cosa succede se non ci sono più beni di lusso da comprare?

2. Cosa succede se per gli acquisti di beni di lusso se si è raggiunto un elevato livello di consumi, basandosi sul debito?

Risposta: il sistema si ferma. Nel nostro modello di crescita abbiamo pensato che potessimo vivere senza industria, semplicemente basando la nostra produzione sui servizi.  La crescita dei fattori produttivi, i vantaggi della divisione internazionale del lavoro conferiti all’occidente, le massicce migrazioni e gli spostamenti hanno permesso un aumento delle disponibilità e della scelta di prodotti. Parallelamente il potere di acquisto è  aumentato come conseguenza del rialzo dei salari e della diminuzione dei prezzi, grazie ai guadagni di produttività dovuti alla divisione internazionale del lavoro. Questo ci ha illusi.

Non c’è stata attenzione alle esigenze delle imprese: istruzione, ricerca, internazionalizzazione. Non c’è stata attenzione alle grida di aiuto che le PMI mandavano. Si è lasciato scivolare nel buio istruzione e ricerca.

Ora chi ha scritto le regole di quest’Europa, che non ha fatto attenzione alla deindustrializzazione, parla di dotare l’Europa di politica industriale, senza lasciare l’austerità, fissando delle percentuali target.

Non possiamo basare la ‘riscossa europea’ sugli automatismi e sulle regole matematiche. Dobbiamo riappropriarci della politica economica, capire cosa non funziona più nel sistema e reagire.

Dobbiamo ritrovare un nuovo modello di crescita, non più basato sul debito pubblico, ma sull’iniziativa privata, senza aspettare la prossima rivoluzione industriale.

Forse con le politiche di austerità è stato salvato l’euro, ma  l’economia è stata messa nello stato stazionario che Smith vide per la Cina a fine 800.

La disoccupazione giovanile è il principale problema da affrontare; sono i giovani a portare innovazione. L’Innovazione porta crescita economica.

A maggio 2014 si vota per il Parlamento europeo. Ricordiamoci di votare per il futuro dell’Europa.

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We need a dream

L’articolo di oggi su Corriere Economia.

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Come fare a non essere d’accordo con Gian Santonio Stella quando ci ricorda che la scuola è malata di incuria? E quanti articoli potremmo scrivere simili a quello in questione su altri settori pubblici che il 90% di noi saremmo d’accordo nel definite strategici per il Paese? E l’università? E la sanità? E la tutela dell’ambiente? Ed la valorizzazione del patrimonio culturale? E le infrastrutture logistiche? E il presidio del territorio contro mafie e corruzione?

A ben guardare, tutte aree che esigono una medesima risposta di quella suggerita per la scuola.

Primo, molti, molti di più ispettori e controlli sulla qualità dell’impegno delle risorse, quelle che già spendiamo, fisiche ed intellettuali. Secondo, con un utilizzo certosino di nuove banche dati informatizzate efficaci, che esistono sul mercato, che sanno indirizzare a campione tali controlli con rapidità, purché via sia anche un management autorevole che sappia effettuare tali verifiche senza timori di essere esautorato nel momento decisivo del rimedio e del cambiamento.

Terzo, premiare le risorse, ben di più di quanto non lo si faccia oggi. Prenda i (futuri) possibili giovani ricercatori universitari, che ormai non fanno nemmeno più domanda ai nostri pochi, rigidi e lenti concorsi universitari, di fronte alla scarsa remunerazione prospettata rispetto ad altre offerte di lavoro, qui a casa come fuori dal Paese. E preveda per loro il raddoppio dello stipendio attuale, sì il raddoppio, a fronte di una valutazione oggettiva (sono tanti i modi per farla e sì, si possono fare se solo lo si vuole) delle loro competenze dopo un settennato di prova.

Quarto, guerra a tutti gli abbandoni, sì quelli dei giovani a scuola ed all’università, ma compresi quelli riguardanti anche lo svilimento delle nostre Pompei, che rafforzano l’idea nel mondo, non sempre vera, che il bello nel nostro Paese è in mano alla criminalità, piccola e grande ed alla burocrazia, anch’essa piccola o grande che sia.

Quinto, tagli ai veri sprechi, quelli di acquisti sbagliati sia per prezzo, che per quantità che per qualità, così da trovare le risorse, che ci sono eccome.

Eppure siamo ancora qua. A dibattere dopo mesi su una redistribuzione di risorse tra inquilini e proprietari che non genera maggiore sviluppo ma solo maggiore incertezza e causa dunque il rinvio di piani di investimento per il futuro o, peggio ancora, la loro realizzazione al di fuori dei confini nazionali.

Eppure siamo ancora qua. Senza un commissario per una spending review seria, come da dieci anni a questa parte rischiamo di fare tagli a casaccio nel periodo in cui questi, lo sostiene il Fondo Monetario Internazionale, fanno più male: una recessione. Senza una banca dati che in tempo reale dice al leader del Paese chi compra cosa, quando, come – vero incomprensibile scandalo a cui nessun sembra voler rimediare -  siamo destinati a chiudere le porte della stalla quando i buoi sono già scappati, come è sempre avvenuto sinora.

Siamo ancora qua, e rinviamo assunzioni in settori strategici del Paese, come per le forze dell’ordine, aumentandone l’età media (vera differenza, altro che numero di dipendenti, con il resto d’Europa) che ne inficia la produttività (come pensa di far inseguire un ladruncolo in motorino ad un valoroso maresciallo di 60 anni?) e generando crescente disoccupazione giovanile che, paradosso dei paradossi, in parte va ad arricchire la manovalanza della criminalità organizzata.

Il Paese ha bisogno di sognare. “I need a dream”, sarebbero le parole che il Paese rivolge ad un leader che non c’è ma di cui è assetato. Difficile? No. C’è bisogno di un leader che non faccia una rivoluzione, ma che disegni una “evoluzione” verso un mondo che c’è, a portata di mano, realizzato da quasi tutti i paesi con cui amiamo paragonarci, con un settore pubblico che sia il puntello e la molla propulsiva per la competitività del nostro settore privato, fatto di centinaia di migliaia di piccole imprese, molte delle quali in attesa di materializzarsi al primo segnale vero di Rinascimento del Paese.