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Quando nacquero gli Stati Finalmente Uniti d’America

Nel 1790 gli Stati di America non erano Uniti. Erano 13 stati. Ognuno con una sua autonomia fiscale, di cui era geloso. Attorno a loro un governo centrale, molto debole.

Questo preoccupava molto due grandi leader, visionari, americani: George Washington ed Alexander Hamilton. Che più di tutto sono preoccupati di 2 aspetti, legati tra loro.

Primo, è assolutamente fondamentale secondo loro convincere i mercati che gli stati americani, nuovi attori sui mercati finanziari, siano capaci di ripagare i debiti contratti. Il Nobel per l’economia Sargent, nel narrre magistralmente questa storia non raccontata sui libri di scuola americani, sa bene che ripagare i debiti è ovviamente costoso: distorce la tassazione verso il rimborso degli interessi piuttosto che verso la fornitura di beni pubblici. Come lo sanno i nostri due padri fondatori.  Che ritengono tuttavia che i vantaggi di ripagare superino i costi. E’ probabile che tale convinzione derivi anche dall’incertissimo futuro della giovane democrazia americana di allora, sottoposta a potenziali nuove guerre di indipendenza e alla necessità di farvi fronte con risorse che devono venire da chi avrà la certezza di essere adeguatamente rimborsato.

Eppure le convinzioni di Washington e Hamilton, leader capaci, non dovettero risultare sufficienti a convincere i mercati: perché di fatto la Costituzione di allora, commenta Sargent, non dava poteri sufficienti al Governo centrale (il debito era dei singoli stati e non centralizzato, e così la decisione se ripagarlo o meno spettava a questi). Poteri che rimanevano nelle mani dei singoli Stati, tentati dal default, e non così consci dell’interesse nazionale in gioco, forse convinti che un loro default sarebbe stato in ultima analisi evitato dall’aiuto esterno di qualche altro Stato o del governo stesso.

C’era all’epoca, sostiene Sargent, una ambiguità fondamentale nelle politiche economiche, che metteva in grande difficoltà il funzionamento dell’economia americana  – le cui famiglie, imprese, banche avevano come sempre bisogno di certezze sulle regole del gioco per investire nel futuro e così far crescere il Paese tutto. Washington ed Hamilton percepirono la necessità di rimuovere questa ambiguità “costituzionale” di fronte alla crisi fiscale e, rompendo gli indugi, decisero di mettere a punto una nuova, silenziosa, rivoluzione. Un colpo di stato, una circonvenzione delle regole ambigue, seppure scritte nella Costituzione di allora, che non davano poteri al Governo federale, lasciandolo in mano ai singoli Stati.

Una rivoluzione che aveva come singolo scopo quello di convincere i mercati che il debito sarebbe stato ripagato, credibilmente, e quindi da una sola entità. Il Governo federale. Per fare ciò, per far cedere il potere ai singoli Stati di emettere debito ci volle un quid pro quo. La garanzia che il Governo federale avrebbe lui ripagato il debito dei singoli Stati. Così facendo, otteneva anche il potere di espandere la propria capacità di tassare, levandola ai singoli Stati. Cosa non facile, nemmeno questa, ma una volta ottenuto il potere sul debito, non fu poi così difficile dice Sargent: i creditori degli stati divennero creditori del governo federale ed aiutarono Hamilton e Washington a modificare i poteri di tassazione a favore del Governo federale con una nuova legislazione. Hamilton e Washington crearono di fatto una lobby potente che si allineò ai loro interessi.

Cosa è una Costituzione secondo Sargent? “Chi sceglie cosa e quando”.

Ecco. Washington e Hamilton portarono a casa una nuova Costituzione. Per ottenere la certezza che quando un’altra occasione o emergenza si sarebbe presentata in cui ci fosse stato bisogno di emettere debito per finanziarsi, i mercati lo avrebbero fatto volentieri. Per esempio, nel 1803, quando Napoleone volle cedere la Louisiana per 50 milioni di dollari, cifra che non sarebbe stato possibile raggiungere senza l’accesso al mercato del credito.

Secondo Sargent la soluzione americana all’ambiguità che bloccava il Paese fu dunque quella di una modifica costituzionale nel modo in cui era governato lo stesso. Modifica che quasi non passò (la maggioranza delle persone forse non volevano questo passaggio di potere al Governo federale via dai singoli stati): Hamilton e Washington non seguirono le procedure previste per la modifica della Costituzione, un “grande dramma” una grande battaglia, che cambiò per sempre l’unione monetaria americana in unione politica, fino ai nostri giorni. Modifica che richiese un quid pro quo.

Rimossa l’ambiguità, con un colpo di stato illuminato e silenzioso, nacquero gli Stati finalmente Uniti d’America.

Ma fu proprio così? E l’Europa cosa può apprendere da tutto ciò?

(continua)

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Le domande superficiali e quelle profonde sull’euro del 1790

Ho ascoltato e riascoltato. Come quando si rivede un film molto amato. Cercando di afferrare tutti i dettagli, e di intuire se possibile di più di quanto lo stesso regista avesse in mente.

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La lezione del Premio Nobel per l’Economia Sargent è bella. Potente. Pesa le parole, divertendosi a volte. Non è facile scriverne, troppa la carne al fuoco, densa di stimoli. Ma così centrata. Che ne farò piccoli post successivi, per non stancarmi troppo.

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Centrata. Perché fa il raffronto giusto, quello che ritengo centrale dall’inizio di questo blog. Centrale perché, dice Sargent, per capire l’Europa e la sua unione monetaria, dice, dobbiamo paragonarla ad un’altra democrazia nascente, “debole”, quella degli Stati Uniti. Nel 1790.

Ma di unione monetaria paradossalmente parla poco, Sargent. Il focus è tutto sulla unione politica.

Nel 1790 nasce infatti “l’altro” grande progetto politico, fatto di tanti stati indipendenti che in qualche modo decidono di condividere un destino comune e, nel farlo, trovano anche naturale sigillarlo con una moneta comune. Moneta che è come una appendice, come un fiocco prezioso con cui s’incarta il regalo a cui teniamo.

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Perché uno dei punti più importanti e anche criptici del suo argomentare è proprio questo. La moneta comune non è il punto principale del progetto europeo, così come di quello americano. E’ una conseguenza logica, ma non così rilevante. Ogni progetto politico di comunione di intenti, di unione, tra stati richiede che il sigillo simbolico sia quello della moneta comune. Una simbolica, necessaria, conseguenza.

Se la moneta fosse stato veramente il punto rilevante della questione europea, argomenta sottilmente Sargent, lo potevano fare, gli stati europei, come hanno fatto Panama o lo Zimbabwe con gli Stati Uniti, agganciandosi al dollaro come moneta di riferimento, evento irrilevante e probabilmente poco noto allo stesso Obama, che infatti non se ne deve curare in alcun modo. Così l’Italia, se avesse voluto fare un progetto “monetario” di mera stabilità finanziaria, avrebbe potuto scegliere di passare al marco tedesco. Una unione monetaria che della parola “unione” non avrebbe avuto praticamente nulla.

Non l’hanno fatto, i paesi europei. Come gli Stati Uniti nel 1790, hanno elaborato, i paesi dell’euro, un progetto politico. Come tale va studiato e giudicato.

E quindi non deve stupire se Sargent conclude che la domanda superficiale, la “superficial question”, è chiedersi se un paese “debba” lasciare o entrare in una unione monetaria.

Domanda superficiale perché adatta per lo Zimbabwe o Panama che, guardano solo agli aspetti monetari dell’unione di stati. Domanda a cui comunque Sargent dà una risposta, ovvia per un economista puro come lui – che è “dipende”, e dipende da come i cittadini dei paesi coinvolti ne valutano costi o benefici – ma che presto abbandona, disinteressandosene.

Per porsi ben altra domanda. Che questo blog si pone dall’inizio della sua vita, lo ripeto. La domanda “ben più profonda”, secondo Sargent, anzi le domande sono due, eccole:

“Un governo deve ripagare i propri debiti?” e “in un sistema federale, con un governo centrale di qualche tipo, con province o stati con qualche forma di sovranità, un governo centrale deve ripagare i debiti dei governi subordinati?”

Sono queste le domande, sostiene Sargent, più profonde che comporta l’unione dei paesi accomunati dall’euro. E su cui è utile ragionare.

Lo sono, le domande appropriate, perché furono le domande che si pose l’altra debole democrazia fatta di unione di stati nel 1790 – debole allora come la democrazia dell’unione europea di oggi - eppure divenuta una potenza geopolitica. Unione, quella statunitense, dalla moneta comune, certo, ma la cui potenza monetaria è figlia e conseguenza, e non causa, della sua potenza politica ed economica.

Lo sono, le domande appropriate, perché dalla risposta che vorremo dare a queste due domande dipende il destino del progetto europeo per come lo hanno inteso alcuni tra i più convinti assertori degli Stati Uniti d’Europa.

Non potrei essere più d’accordo.

E nei prossimi post vedremo come prosegue la sua analisi Sargent, e se e quanto le sue risposte, che ripescano dalle lezioni della storia americana  una via per l’Europa, siano corrette ed utili ai nostri fini.

(continua)

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I Had a Dream, Detroit

Dal banchiere Gerontius in vacanza nelle vicinanze di Detroit  ricevo e volentieri pubblico.

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I have a dream this afternoon that one day right here in Detroit, Negroes will be able to buy a house or rent a house anywhere that their money will carry them and they will be able to get a job. [Applause] (That’s right)

Detroit, 23 June 1963.

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Non ci sono dubbi. Non possiamo che essere nelle vicinanze della “Motor City”. Ci sorpassano continuamente scintillanti auto d’epoca, Mustang degli anni 60, “convertible” Cadillac degli anni 50, guidate da fieri e orgogliosi proprietari. La storia dell’auto e la storia di Detroit sono inseparabili e gli appassionati di macchine d’epoca che da questi parti non mancano sono qui a testimoniarlo. Il nostro ospite ci porta a Downtown Detroit. Siamo a pochi passi dal Renaissance Center, quartier generale della General Motors, una delle “Detroit Three”, le altre due sono naturalmente la Ford e la Chrysler.

E’ difficile immaginarsi cosa possano pensare i loro fondatori, William Durant, Henry Ford e Walter Chrysler, dall’alto del cielo, delle ultime vicende delle Big Three. Un salvataggio da parte del governo statunitense e canadese che complessivamente ammonta a circa 95 miliardi di dollari. La General Motors è oggi controllata al 75% dal governo americano e canadese e per il 17% dai dipendenti. La Chrysler ha come azionisti  per il 10% i due governi del Nord-America e per il 20% la Fiat. In contropartita del salvataggio sono stati chiusi numerosi luoghi di produzione e persi migliaia posti di lavoro e i sindacati hanno fatto concessioni in termini di flessibilità e costo del lavoro. Si, perché le Big Three si distinguevano in passato anche per un modello organizzativo altamente sindacalizzato che aveva garantito salari e benefici più elevati rispetto alla competizione. I lavoratori non sindacalizzati della Toyota sulle linee di produzione per esempio guadagnavano in media negli Stati Uniti dal 15 al 20%  in meno. La crisi ha riequilibrato queste differenze.

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Percorrendo le strade della Downtown si vedono molti locali chiusi ma allo stesso tempo si possono vedere anche attività che hanno aperto da poco. Ci dicono che questa è l’unica parte della città che si può percorrere a piedi in sicurezza.  Il 90% della popolazione di Detroit è afro-americana e una grossa porzione di questa vive in condizione di precarietà nella cintura intorno a Downtown.

Ci spostiamo a Greektown dove oltre dieci anni fa fu permesso di aprire tre casinò per contrastare la concorrenza della vicina città canadese di Windsor, famosa per le sue sale da gioco.  Detroit e Windsor sono separate da un canale e unite dal ponte Ambassador. Prima che aprissero i casinò a Detroit gli americani ogni sera migravano in massa per andare a giocare a Windsor. Per rendere più vivibile il centro della città è stato bonificato anche il fronte-canale una volta adibito ad usi commerciali e adesso trasformato in un piacevole camminamento che unisce il Reinessance Center con una piazza con anfiteatro dove si organizzano eventi musicali.

Nel nostro peregrinare senza metà ci troviamo davanti a Comerica Park, il suggestivo stadio dei Detroit Tigers in questo momento una delle più forti squadre della Major League di baseball.  I Tigers sono di proprietà di Mike Ilitch, come peraltro lo sono i Detroit Red Wings della Lega Nazionale di Hockey e anche molti dei palazzi storici che circondano Comerica Park. Ilich è un miliardario di origini macedoni che ha fatto fortuna vendendo pizza in tutta l’America  attraverso la catena Little Caesars Pizza.  Qui se ne parla come del vero padrone di Detroit. Gli interessi della famiglia si estendono oltre alle squadre sportive, ai casinò ed al settore immobiliare. Vicino a Comerica Park nella zona di Midtown si possono vedere lussuosi palazzi residenziali in costruzione destinati a giovani professionisti che stanno lentamente ripopolando la parte centrale della città.

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Siamo ormai arrivati vicino alla cintura che non si può più attraversare a piedi. E’ d’obbligo utilizzare l’auto e rimanere nelle strade di maggior scorrimento. Non ci vuole molto per rendersi conto del lungo declino che sta colpendo da decenni questa città. Si vedono imponenti cattedrali vicino a zone residenziali semideserte, una volta abitate dalla middle class: palazzi destinati ad uso pubblico abbandonati. Interi palazzi residenziali vuoti. Zone che sono state completamente de-urbanizzate e zone in cui si è raccolta di nuovo la gente.  Per le strade solo afro-americani.  Negli anni 50 la popolazione di Detroit era intorno a 1.8 milioni. Si stima che oggi superi di poco i 700.00 abitanti. I sociologi chiamano questo fenomemo “urban decline.” La crisi del 2008-10 e l’alta disoccupazione hanno esacerbato questo fenomeno. La popolazione bianca e la middle class si sono spostate nelle città limitrofe e Detroit è rimasta in mano al crimine e ai cani randagi che si dice siano più di 20mila. I valori delle proprietà si sono annullati o fortemente depressi. La base imponibile si è irrimediabilmente ridotta. Nel 2011 più della metà dei proprietari di case non hanno pagato le tasse causando una forte perdita di entrate per la città. Il marzo scorso lo Stato del Michigan ha nominato un commissario per la gestione straordinaria della città e a luglio la Città di Detroit ha portato i libri in tribunale per iniziare la procedura fallimentare.

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Basta uscire dalla Città di Detroit ed entrare nelle città limitrofe e la situazione cambia drasticamente. Qui vivono i white collars e anche i blue collars più fortunati che hanno mantenuto il posto di lavoro. Le città sono ordinate, ci sono grandi spazi comuni per le attività sportive, scuole ben organizzate. I bambini che nascono in queste aree potranno dedicarsi allo sport che preferiscono (soccer, baseball, football) e avranno accesso gratuito a scuole pubbliche di prim’ordine. I bambini che nascono nei quartieri di Detroit avranno invece una chance di potersi iscrivere ad una “high school” pari a quella di finire in prigione. E questa non è una battuta, ma il risultato di un recente studio.

L’America ha dimostrato di avere una grande capacità di reagire alla crisi usando in maniera estensiva la mano pubblica quando è stato necessario, ma i benefici di queste azioni non si estendono a tutti. Ci sono settori della società che non sembrano trarne nessun beneficio, in particolare la popolazione afro-americana. C’è da chiedersi perché non si sia intervenuti per tempo per evitare o mitigare il disastro della città di Detroit.  Detroit è la città dove cinquanta anni fa Martin Luther King anticipò il discorso di agosto “I have a dream” presso il Lincoln Memorial di Washington facendone “le prove generali” a giugno a Detroit. A quanto pare non basta nemmeno un presidente afro-americano perché quel sogno diventi realtà.

Gerontius

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Recessione finita? Questione di persone, non di PIL. E di morte all’austerità, non di riforme

Sergio De Nardis ed io oggi sul Sole 24 Ore.

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L’enfasi rivolta in questi ultimi giorni ai primi dati positivi del PIL dell’area euro,  sebbene comprensibile, rischia di rivelarsi ingannevole. Primo, perché per capire se siamo capaci di camminare sulle nostre gambe è bene attendere dati più precisi e capire se questa ripresina sia dovuta alla domanda estera extra euro o dalla domanda interna. La seconda sarebbe preferibile: indice di una indipendenza dalle fortune altrui e di una presa d’atto europea della necessità di mettere termine all’austerità con le proprie mani.

Secondo poi, è dalla gravità della crisi economica che rischia di avvenire quello che gli spread – in discesa o in salita non importa – ci rammentano  quotidianamente: la fine dell’euro e dunque del progetto europeo. Una fine che potrà avvenire solo se lo stress e la disperazione delle condizioni lavorative in qualche Paese dell’area si protrarranno troppo a lungo e forzeranno i cittadini a pretendere dal Parlamento locale una uscita dalla moneta unica che dia una qualche, anche minima, maggiore parvenza di speranza.

Non sarà dunque tanto una ripresa del PIL a scacciare questi timori:  da tempo e non solo in Europa si parla di “jobless recoveries”, riprese senza nuovi posti di lavoro. Sarà dunque essenziale, per tornare a sperare e capire se l’Europa sta facendo abbastanza per se stessa, osservare le dinamiche non tanto del PIL ma ancor prima del lavoro. Cercando di capire quali sono le cause di queste, così da suggerire le giuste politiche senza indugi e senza falsi ottimismi. A cominciare da quelle italiane.

Per la quale colpiscono, tra il gennaio 2012 ed il giugno 2013: a) la riduzione di quasi 500.000 occupati e b) l’aumento di circa 660.000 unità di persone in cerca di occupazione.

Una larga parte dei 500.000 occupati in meno sono persone che ora cercano lavoro ed è cifra, quindi, che fa parte anche dei numeri dei disoccupati. Si tratta principalmente di lavoratori appartenenti alle classi centrali di età (tra i 25 e i 54 anni), che costituiscono l’ossatura portante della struttura occupazionale del Paese. Difficile attribuire per questo segmento a mancanza di riforme strutturali un simile calo: qui c’è una sola spiegazione dominante ed è la mancanza di domanda interna all’area euro, solo in parte compensata dalla ripresa del resto del mondo. Tra i 500.000 occupati in meno ci sono poi i giovani con meno di 25 anni, che per una gran parte detenevano contratti flessibili, non più rinnovati a scadenza. Su di loro si è abbattuto l’impatto immediato della recessione, per la maggiore facilità e  il costo nullo che comportava la cessazione del rapporto di lavoro. Quindi sono tutte perdite di posti di lavoro per Malgoverno, europeo. Non attribuibili a mancanze di riforme.

E non è detto che le riforme abbiano aiutato questi numeri a migliorare. Le flessioni soprattutto degli occupati giovani sono state in una certa misura amplificate dalla permanenza nei luoghi di lavoro degli occupati più anziani, a seguito della riforma previdenziale: dato il vincolo occupazionale venutosi a creare per questo segmento, risultato addirittura in crescita in piena recessione, la contrazione dei posti di lavoro imposta dalla caduta della domanda ha teso verosimilmente a scaricarsi sulla parte meno protetta degli occupati.

Infine un’ultima parte dei 500.000 occupati in meno, non va dimenticato, è ora fuori delle forze di lavoro perché  scoraggiata oppure perché, in pensione, non è stata rimpiazzata. Che le aziende o le istituzioni non le abbiano sostituite può essere dovuto sia a mancanza di fiducia sulla ripresa (forse per motivi di competitività che non c’è più o anche qui per motivi legati all’austerità), oltre che a riforme rivelatesi pessime per la congiuntura del mercato del lavoro (si pensi all’Università dove ormai ci vogliono 4 professori in pensione per autorizzare un giovane ad entrarvi).

Insomma indirettamente con riforme sbagliate o direttamente deprimendo la domanda interna, numeri significativi di occupati sono spariti e solo una piccola parte di questi può essere attribuita a ritardi strutturali del Paese.

Poi ci sono i 660.000 disoccupati in più, solo per una parte spiegata da ex-occupati in cerca di lavoro di cui sopra. Ad essi  dobbiamo aggiungervi tutti i nuovi entranti sul mercato del lavoro che cercano un posto e non lo trovano. Sono per lo più giovani o persone entrate nella forza lavoro per tentare di sopperire alla crescente precarietà del lavoro del capofamiglia (che l’abbia perso o visto reso più flessibile). Questi nuovi disoccupati non trovano lavoro principalmente per la mancanza di domanda europea e, di nuovo, per riforme fatte che bloccano il loro ingresso: la riforma delle pensioni essendo la più rilevante di tutte, visto che ha portato le imprese a rinviare piani di assunzione spesso già previsti per mantenere al lavoro anziani in procinto di andare in pensione e invece trattenuti. Anche qui, un combinato di austerità e riforme rivelatesi sbagliate per modalità e momento di attuazione spiega pressoché tutto.

Se allarghiamo la prospettiva, vediamo che queste dinamiche del mercato del lavoro ci hanno ricondotto ai tassi di occupazione del 2000, annullando il miglioramento che si era avuto fino allo scoppio della crisi. E’ stata la caduta della domanda, non un malfunzionamento strutturale, a riportarci indietro di 13 anni. E la ripresa, di cui si comincia a parlare con qualche entusiasmo di troppo, andrà misurata col termometro del mercato del lavoro: non saremo mai veramente usciti dalla recessione e dal rischio di fine dell’euro e dell’Europa finché non ci saremo riportati sui livelli di occupazione e disoccupazione che avevamo nel 2007.

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I tagli lineari di Monti, Saccomanni e Giavazzi: 3 fallimenti di politica economica

E’ apprezzabile il tentativo di Francesco Giavazzi di sottolineare il fallimento della politica dei tagli lineari di spesa pubblica.

Menziona la riorganizzazione degli uffici pubblici come cartina di tornasole della sconfitta del Governo Monti. Cripticamente suggerisce che per tali riforme “diversamente dai tagli lineari, la riduzione della spesa che ciò comporta è davanti agli occhi di tutti“, come se ci fosse in tale maggiore visibilità un che di positivo: ma non si vede perché un taglio pessimo davanti agli occhi di tutti sia meglio di un taglio ottimo che sfugge ai più.

Ma è proprio su quest’ultima sfumatura che l’articolo di Francesco porta finalmente qualcosa di nuovo nel dibattito sul taglio della spesa: l’idea che la spesa si tagli meglio e con più intelligenza se i nostri leader si spendessero quotidianamente per difendere nella pubblica piazza, di fronte ai cittadini, la bontà delle loro scelte.

“I nostri presidenti del Consiglio trascorrono anche le vacanze e i fine settimana a Palazzo Chigi. Durante la difficilissima battaglia per l’approvazione della sua riforma sanitaria, il presidente Obama trascorreva poche ore alla Casa Bianca. Per mesi ha viaggiato da un lato all’altro degli Stati Uniti cercando di convincere gli americani in ogni città, scuola e associazione che le aziende farmaceutiche mentivano e quella legge era nel loro interesse.”

C’è una parte di vero in tutto ciò: se un leader si schiera pubblicamente, convintamente, dialetticamente contro la spesa sbagliata e ingaggia una costante comunicazione intelligente su tale tema, il lavoro di ogni dirigente pubblico che vive ogni giorno la sua difficilissima battaglia per migliorare la qualità della spesa potrà acquisire più legittimità e qualità.

Ma su cosa si impegna e comunica un leader se non ha dietro l’informazione giusta? Sulla chiusura dell’Università di Urbino, colpevole secondo Giavazzi di essere “in fondo alla classifica Anvur” della ricerca, come se l’Università fosse un campionato di serie A da cui le ultime 3 devono retrocedere? Senza ricordarsi che 1) abbiamo troppo pochi laureati in Italia, 2) pochissime università rispetto agli obiettivi di laureati che ci poniamo e 3) che in America accanto a Harvard e Stanford fioriscono centinaia e centinaia di università di minor valore sulla ricerca ma ottime nella didattica o nella formazione professionale? Le Università si incoraggiano a migliorare, non si chiudono come locali notturni dove si schiamazza troppo di sabato sera, specie se comunque formano ad un livello ben superiore a quello minimo, come è certamente il caso di Urbino.

Tutto questo per dire che ci vuole competenza per fare bene la spesa pubblica che serve al Paese e non i tagli lineari formato Giavazzi, che non differiscono molto da quelli di Monti.

Non basta proprio un leader che si spenda. Obama fece ben altro e di più rilevante di quello che ricorda Giavazzi: face spesa pubblica per appalti in tutto il Paese per risollevarlo dalla crisi da domanda che attanagliava gli Stati Uniti nel 2009 e accanto a quella spesa pubblica aumentò la spesa per ispettori che controllassero la qualità delle commesse. Funzionò a giudicare da dove stanno loro oggi e dove stiamo noi con la stupida austerità.

E noi siamo qui, ad aspettare che il Governo Letta, prima ancora che di andare per le strade a spiegare i tagli, si operi per individuare con precisione chirurgica quali sono i tagli da fare. Ci vuole un piano. Basato esclusivamente sulla professionalità - una squadra di stazioni appaltanti competenti e sul pezzo, ben remunerate sulla base dei risparmi e della qualità raggiunti – e sulla disponibilità d’informazione di chi compra cosa, quanto e quando. E che con quei soldi, quei tantissimi soldi, li usi per ringiovanire il nostro Paese e le sue fatiscenti infrastrutture che limitano la capacità delle nostre imprese di competere.

Dov’è il progetto? Dov’è la volontà di cambiare il Paese? Ed il coraggio?  Questo manca al Paese, prima ancora di una utilissima discesa in piazza per parlare con i cittadini.

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L’infelicità insostenibile

Il mio carissimo amico e grande economista Leonardo Becchetti, tra i suoi tantissimi lavori, ne ha scritto uno molto bello edito da Donzelli  dal titolo “La Felicità sostenibile”.

Per prenderlo in giro, gli chiedevo di farne ora uno dal titolo “l’infelicità insostenibile”.

Avrei fatto meglio a non scherzare. Dietro un titolo così assurdo c’è ormai tanta sostanza, come mostra un lavoro interessante (non ancora accettato per la pubblicazione) di una ricercatrice presso lo European Centre di Vienna.

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Che parte dall’enorme mole di dati che abbiamo ormai a disposizione su cosa rende soddisfatta o non soddisfatta una persona nella vita.

E da questo grafico, dove si mostra la percentuale di persone molto soddisfatte (celeste) o molto insoddisfatte (blu scuro) rispetto alla media complessiva del campione tra particolari categorie di persone. In ordine dall’alto al basso: i portatori di handicap, i disoccupati, i single, i poveri, gli appartenenti a minoranze etniche, coloro senza titoli di studio, gli inattivi, gli over 65, gli immigranti, i praticanti religiosi, gli attivi politicamente, i giovani, i laureati, gli studenti, i ricchi.

Per esempio nei disoccupati (unemployed) c’è una percentuale molto più alta di molto insoddisfatti che non nel campione generale, mentre c’è una percentuale un po’ inferiore di molto soddisfatti che non nel campione generale.

I molto insoddisfatti prevalgono, oltre che tra i disoccupati, tra i portatori di handicap, i single, i più poveri. Ovvio? Sì. Ma quello che più rileva ai nostri fini, è che come vedete la soddisfazione varia molto meno tra gruppi sociali e/o condizioni oggettive che non l’insoddisfazione. Anche tra i ricchi, la quota di persone che hanno la massima soddisfazione è presente pressoché quanto nella media, mentre quello che i soldi comprano veramente è l’uscita da uno stato di forte insoddisfazione.

Così l’uscire dalla condizione di disoccupato permette di  “comprare” molta più felicità complessiva per il Paese  (pensate anche alle esternalità per dei genitori non disoccupati di avere un figlio occupato, quanto meno stress avrebbero) che non manovre volte a redistribuire il reddito tra chi non è in condizioni di disagio (pensate al dibattito sull’IMU).

Politiche volte a massimizzare la soddisfazione paiono dunque avere ritorni molto minori che politiche volte a eliminare l’insoddisfazione, sostiene l’autrice.

In particolare lottare contro la disoccupazione o il disagio dovrebbe, oggi che tali variabili sono a livelli altissimi per l’Italia, essere una priorità ben maggiore del dibattito sull’IMU: la prima compra, (se di successo e quindi con la lotta all’austerità, non con le riforme à la Fornero) tantissima minore insoddisfazione, la seconda poca maggiore soddisfazione a qualcuno (chi dovrà pagare di meno di IMU) e poca maggiore insoddisfazione a qualcun altro (chi subirà più di altre tasse o meno di spesa pubblica per finanziare la minore IMU).

Ma questo Governo pare non averne preso atto.

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1 fiorino? No 1 € per il rilancio del Paese

Da Patte Lourde riceviamo e come sempre volentieri pubblichiamo.

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Passeggiando per Roma come un turista insieme a turisti, ho notato come la città sia ancora splendida.

Mi sono reso conto, però, che senza una guida i turisti non riescono ad apprezzare la bellezza e la storia della città eterna. Mi sono reso conto che le espressioni più usate sono  ’che bello” oppure ‘stupendo” ma anche ‘meraviglioso’.

Purtroppo la loro osservazione si limitava all’aspetto esteriore, senza alcuna spiegazione del perché, di chi, avesse costruito quel momunmento e come si inserisse nella lunga storia di Roma.

Immagino che la stessa cosa sia per tutte le altre città, stupende, nella nostra penisola. Monumenti che raccontano storie, ma anche luoghi, piazze, chiese, che fanno del nostro Paese un posto unico da visitare.

Ecco allora una proposta, anche un po’ provocatoria, un’idea non originale, ma che se messa in atto potrebbe creare quel circuito economico di cui l’Italia ha molto bisogno.

Iniziare a far pagare 1 euro per la visita ai monumenti più belli del nostro paese. Come contropartita, offrire un servizio che spieghi la storia di quel monumento, della città in cui ci si trova, del tessuto sociale che lo circonda. Sarebbe una buona occasione di impiego per i nostri giovani, sarebbe una buona occasione per il nostro Paese. Vi spiego il perché.

Già vedo, però, gridare allo scandalo: come? Far pagare per vedere i  monumenti?  Attenzione, calma. Non si tratta di far pagare per  ’vedere i monumenti’. Si tratta di spiegare l’arte e la cultura del nostro Paese. Si tratta di far crescere l’amore verso il nostro Paese. Si tratta di far crescere la cultura nel nostro Paese.

Pensate alla creazione di un ‘ROMA PASS’  a pagamento o di un VENEZIA o un NAPOLI, o un PALERMO PASS che dia ai turisti la possibilità di visitare i nostri monumenti all’aperto e di trovare guide in grado di spiegare, nella loro lingua,  la storia e la vita di quel ‘pezzo’ di storia che si trovano a guardare. Forse  queste guide potrebbero anche suggerire la visita di musei o luoghi oggi poco noti. Il PASS potrebbe anche essere integrato con i mezzi di trasporto anche extraurbani e facilitare così lo spostamento dei turisti verso le mete da visitare. Pensate che questo servizio non faccia parlare bene del nostro Paese ed non invogli gli altri turisti a venire in Italia?

Pensiamo poi di istituire  un PASS gratuito per le giovani coppie di sposi di tutto il mondo che vogliono ricordare il loro matrimonio, avendo come sfondo  le più belle città d’Italia. Pensate che poi non tornino, magari con i figli, per celebrare un anniversario in Italia, per rivedere i luoghi in cui hanno scattato le immagini di un bel giorno della loro vita?

Pensiamo infine ad un programma per ospitare,  presso famiglie italiane, giovani provenienti da tutto il mondo, dando un  sussidio alle famiglie,  in modo da favorire la conoscenza del nostro Paese. A questi giovani potremmo proporre corsi di lingua italiana, magari di passare un trimestre nella nostra scuola e regalare loro un PASS per far conoscere il nostro Paese.

Soltanto conoscendo la storia della cultura del nostro Paese, condividendo la nostra cultura, ‘assaporando’ le nostre specialità non solo culinarie, gli stranieri non saranno più tali. Aumenterà il rispetto verso il nostro paese e crescerà anche la considerazione che di noi hanno all’estero. Il guadagno di tutto questo? Lo sviluppo del Paese!

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Alle grandi imprese non serve un Ministero, alle piccole sì

tratto da un articolo con Stefano Manzocchi oggi sul Sole 24 Ore.

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Il Consiglio dei Ministri ha approvato, su proposta del Presidente del Consiglio, Enrico Letta, e del Ministro dello Sviluppo Economico, Flavio Zanonato, l’esame preliminare del decreto presidenziale di un regolamento riguardante una riorganizzazione del Ministero dello Sviluppo Economico … (che) si fonda sulla eliminazione della articolazione per Dipartimenti (attualmente il Ministero si articola in 4 dipartimenti: Impresa; Comunicazioni; Energia e Coesione) e sulla istituzione, quale figura di coordinamento organizzativo e funzionale, del Segretario Generale… (che) coordinerà 17 direzioni generali operative.” Così recita il comunicato sul web legato al 19mo consiglio dei Ministri del Governo Letta, di qualche giorno fa.

Si è trattato dell’ennesima occasione persa per creare, come di fatto è il caso dal 1953 per gli Stati Uniti, un Ministero o un’Agenzia indipendente per la Piccole e Medie Imprese che risponda direttamente al Capo del Governo? Tutto purtroppo lascia intendere che sia cosi.

Le grandi imprese non hanno bisogno di un Ministero che si occupi di loro: trattano da pari a pari con le banche, anzi sovente dettano le loro condizioni agli istituti di credito  e intervengono nella governance. Hanno semmai bisogno di un fisco meno vorace e di pochi interlocutori ben definiti e chiare regole per definire i loro investimenti. Sono le Piccole, invece, che hanno bisogno di una agenzia pubblica che le protegga dagli abusi di posizioni dominanti sul mercato e dagli abusi della PA, e le coordini per cogliere meglio le opportunità di affari ove necessario. E’ abbastanza scontato che gli interessi della grande impresa prevarranno sempre su quelli delle PMI fino a quando queste ultime non avranno un loro difensore specifico solo ad esse dedicato.

Eppure questa è anche l’occasione giusta, in attesa di vedere chiarite le ripartizioni delle competenze e l’importanza del peso specifico dei singoli uffici e direzioni all’interno del nuovo organigramma del MISE, per chiedersi cosa se ne vuole fare, e cosa va orientato nella loro direzione, delle piccole e medie imprese italiane.

Non è poi così difficile comprendere cosa serva, quali siano le urgenze di questa componente cosi rilevante e dinamica del nostro tessuto produttivo. Basta leggersi ogni 6 mesi il prezioso contributo che proviene dalla pubblicazione da parte della BCE del Rapporto sulle condizioni dell’accesso al credito per le PMI. Ogni volta, tra le prime tabella, si trova la domanda di quale sia il problema più pressante per le piccole imprese all’interno dell’area dell’euro. Ed è da quando esiste questa pubblicazione, dallo scatenarsi della prima recessione del 2008-2009, che la risposta dominante è: la mancanza di clienti. Lo è anche oggi che il resto del mondo ha ripreso a tirare, a conferma che la vera soluzione ai problemi delle nostre piccole imprese non può che passare, obbligatoriamente, anche per una riqualificazione della spesa pubblica italiana, che abolisca gli sprechi (stimati attorno al 20 percento del bilancio dello Stato dalle analisi di alti funzionari del Senato) e che rilanci capitoli “intelligenti” di spesa. Ne abbiamo scritto sul Sole del 2 agosto: un piano straordinario di edilizia scolastica e carceraria, che riporti l’Italia ad un livello degno del suo rango e che attivi la produzione di Pmi dell’edilizia in grado di sostenere occupazione e salari. E si può continuare oltre: ogni esitazione, ogni pausa, ogni ripensamento su questo tema continuerà a uccidere pezzi strategici del nostro tessuto imprenditoriale, rendendo meno significativo l’aiuto proveniente dalla domanda extra europea in potenziale ripresa.

Evidentemente quello della domanda interna non è l’unico problema di cui soffrono le nostre PMI. E’ crescente per l’Italia, rivela sempre lo studio BCE, un tema chiave che continua ad essere irrisolto: quello degli oneri della regolazione. E sì che alla riduzione di questi avevamo pensato con una legge dal potenziale enorme, lo Statuto delle Imprese, che avrebbe dovuto misurare l’impatto economico della regolazione prima di attuarla, un po’ come negli Stati Uniti dal 1980, dove con il Regulatory Flexibility Act si è voluto restaurare un terreno equo di sfida tra piccole e grandi, bloccando qualsiasi regolazione che impatta in maniera superiore per le piccole che per le grandi e negoziando con le associazioni delle PMI il loro adeguamento. Peccato che nessuno se ne sia accorto: sia il Governo Monti che quello Letta hanno lasciato passare inosservata, per due anni consecutivi, la scadenza del 30 giugno entro la quale andava, secondo lo Statuto delle Imprese, presentato un disegno di legge annuale per le piccole.

Infine l’altro grave vincolo per le Pmi  rilevato dalla BCE: l’accesso al credito. Qui il dibattito italiano sembra un po’ in stallo, tra soluzioni ad hoc a favore delle Pmi che però sembrano più prefigurare un sistema di finanziamento per poche, elette, aziende oppure per un futuro che speriamo  prossimo (mini bond, ecc.), e misure urgenti per sostenere le banche. Occorre invece favorire, da subito, ogni misura che aumenti la liquidità e per quella via gli investimenti delle Pmi. Bene quindi potenziare ed estendere la missione del Fondo di garanzia, che del nuovo MISE votato alle Pmi dovrebbe diventare strumento potente. Ma, oltre a questo, il nuovo MSPMI (Ministero per lo sviluppo della Pmi) dovrebbe battersi in Consiglio dei Ministri per ottenere il totale rimborso dei crediti pregressi vantati presso la PA entro il 2013. Così farebbe negli Usa la Small Business Administration, così servirebbe fare da noi, il Paese industriale con la più alta densità di Pmi manifatturiere.

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Non basta dire Eureka. Le colpe del braccino italiano

Il punto vero del fallimento europeo è il fallimento politico che avviene a Bruxelles quando le preferenze degli elettori non vengono rappresentate durante gli incontri e le deliberazioni del Consiglio europeo, in maniera tale da modificare la politica economica nella direzione giusta. Le elezioni francesi, greche, italiane hanno dato ai vincitori un chiaro mandato anti-austerità: perché questo non è stato mai rappresentato con forza al tavolo europeo?

Ho spesso parlato di incapacità dei paesi dell’area dell’euro-sud di unirsi per parlare con una sola voce, di mancanza di coraggio.

Non mi ero mai interrogato in maniera scientifica sulle ragioni del deliberare così errato a Bruxelles, di un gruppo di Paesi (dell’UE o dell’euro) con un obiettivo apparentemente comune. Dopo aver letto l’importante lavoro di Cass Sunstein (Harvard) e Reid Hastie (Chicago University), lo farò con più solerzia e sistematicità.

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Cosa fanno i nostri 2 autori? Passano in rassegna tutti i possibili fallimenti deliberativi di un gruppo decisionale composto da rappresentanti di diversa provenienza.

E cosa scoprono? Semplice: che il gruppo finisce spesso per commettere errori non “malgrado il fatto di avere deliberato (a maggioranza, NdR), ma proprio a causa di ciò”. Le deliberazioni portano a tendere verso “l’uniformità e la censura” e verso la perdita di informazione utile per tutti, che viene a non essere rivelata da quei rappresentanti del gruppo che la detengono.

Solo a scorrere queste prime parole del loro lavoro mi sono subito detto che avrei proseguito nella lettura, tanto mi sembrava importante l’argomento per capire i fallimenti del Consiglio europeo, un gruppo – appunto – di rappresentanti incapace di deliberare contro l’austerità e così mettendo tutti i paesi dell’euro a rischio di rottura dell’area.

Eccoli ancora: di fronte ad “un gruppo fiducioso, coeso ma prono all’errore, non c’è niente da festeggiare. Al contrario, può rivelarsi estremamente pericoloso, sia per se stesso che per gli altri”. Non vi ricorda, questa frase, proprio il maggiore rischio del funzionamento del mediocre e coeso decisionismo del nostro Consiglio europeo?

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E come mai, direte? In fondo, verrebbe da dire, tanti che pensano e decidono insieme è meglio di uno solo. Certo, sostengono Sunstein e Hastie. Ci sono almeno tre casi che possono far sperare in tal senso.

Primo: la migliore soluzione proposta la spunta, ed i gruppi seguono di fatto l’opinione dei loro rappresentanti migliori quanto a competenza sulla questione.  E’ la situazione c.d. “Eureka”: quando la persona che conosce la risposta la menziona, tutti ne vedono la correttezza e vi si adeguano.

Secondo: il tutto coincide con la somma delle parti, i gruppi aggregano tutte le informazioni disponibili così che il gruppo sa più dei membri (paesi?) singolarmente. Immaginate tante persone curvate su un cruciverba: alla fine il cruciverba sarà terminato con più probabilità se ognuno contribuisce con il proprio sapere.

Terzo: il tutto è superiore alla somma delle parti. E’ il caso fantastico delle sinergie, dove il discutere insieme porta all’elaborazione di nuove idee, migliori, che non erano disponibili nemmeno se avessimo esaminato tutte le informazioni disponibili presso ognuno dei membri del gruppo.

Bella. Questa convergenza verso il giusto, verso il successo del gruppo.

Eppure spesso non funziona così. Perché? Perché si finisce per convergere (a maggioranza), sì, ma verso la decisione più sbagliata per tutti. Come mai? Chiedetelo a Sunstein e Hastie.

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Perché chi spesso ha le informazioni più rilevanti per il benessere del gruppo finisce per … non rivelarle. Pensate forse anche voi all’Italia e la Grecia che … si tacciono al tavolo di Bruxelles contro l’austerità? E come è mai possibile, direste, se sono loro a sapere meglio di qualsiasi altro paese che è proprio questa austerità che farà saltare l’euro? Perché dovrebbero tacere i loro primi ministri?

Due le motivazioni individuate da Sunstein e Hastie:

a)   “se la maggioranza del gruppo credo che X sia vero (per esempio: l’austerità non fa male all’euro)  c’è ragione di credere che X sia effettivamente vero ed è una ragione così forte da poter dominare la ragione individuale di un singolo membro del gruppo che porta questo a credere che X sia invece falso. E se molti membri condividono una particolare opinione, altri membri isolati o in minoranza forse decideranno di non esporsi, lasciando che parlino gli altri, magari nel dubbio che la loro informazione (per esempio: l’austerità fa male all’euro) sia sbagliata. Questo è tanto più vero quanto più deferenza impone il membro più importante o con più reputazione del gruppo di maggioranza.” Perché rischiare di alienarselo, si chiedono i due scienziati?

E a voi non pare proprio paro paro quello che è successo nella recente storia europea in cui il moraleggiare tedesco e la sua superiore crescita economica gli hanno conferito quell’aura di vincitore che azzittisce gli altri partner più in difficoltà?

Eppure, proprio quei partner sono quelli che dovrebbero denunciare a voce alta, perché conoscono meglio di qualsiasi altro Paese, guardando in casa propria e sentendo vicina la pressione politica che proviene dalla sofferenza, i rischi che corrono tutti insieme a proseguire ancora con l’austerità.

b)   La seconda ragione non ha tanto a che vedere con la sensazione di sbagliarsi quando si ha ragione, quanto con il timore di essere isolati e messi da parte se ci si mette in opposizione con il consenso dominante. E tanto più ampio è questo consenso, tanto più chi sa … tacerà.

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Le conseguenze di deliberare così, a maggioranza? Oh possono essere svariate a seconda del contesto, tutte spesso tragiche per il gruppo: gli errori di valutazione si propagheranno piuttosto che spegnersi; un’idea potrà essere perseguita anche se è sbagliata e se (molti) sanno che lo è; idee giuste saranno messe da parte perché in altri contesti – diversi – non hanno funzionato;  il gruppo si polarizzerà al suo interno ancor di più, in gruppi opposti e la decisione finale a maggioranza (potenzialmente sbagliata) sarà ancora più estrema di quella che da solo avrebbe scelto il più estremo dei membri della maggioranza;  l’informazione condivisa all’interno del gruppo sarà solo quella nota a tutti (“i conti pubblici vanno spesso male perché si è spendaccioni”) e non quella disponibile da pochi membri (“i  conti pubblici stavolta vanno male perché l’economia va male a causa dell’austerità”).

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Periferici. “Periferici” sono quei membri del gruppo che hanno informazione che nessun altro membro del gruppo ha: secondo i due scienziati, i periferici del gruppo sono quelli che più possono aiutare il gruppo stesso a deliberare bene, se sono incoraggiati ad esprimersi e argomentare. Sì, l’Italia è periferica, per fortuna in questo caso. Se solo sapesse sfruttarla, tale posizione.

Ma, ed ecco l’ultimo tocco che spiega meglio di qualsiasi altro fattore l’incartarsi crescente del Vecchio Continente: “l’attenzione del gruppo a quelle informazioni che sono note a tutti (pochi) cresce (decresce) al crescere della dimensione del gruppo”. Ovvero: mano a mano che cresce l’Europa quanto a numero di Paesi membri, tanto più cresce la “(auto)censura” dei paesi potenzialmente più importanti da ascoltare nei momenti decisionali più rilevanti. Esatto, i paesi periferici.

Così muore l’Europa: per auto-censura.

Così muore l’Europa, in un assurdo circolo vizioso: “il nostro lavoro suggerisce come i membri di un gruppo, e specialmente quelli che hanno meno status, sono riluttanti a comunicare informazione che la maggior parte degli altri membri del gruppo non ha. Di fatto, questi membri dal minore status probabilmente faranno cadere queste informativa così rilevante come una patata bollente, in parte perché hanno difficoltà a crearsi una credibilità e rilevanza e in parte perché non vogliono arrischiarsi a subire la disapprovazione del gruppo se spingono per una posizione che gli altri rigettano”.

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Sarebbe bello dire “Eureka, l’austerità uccide l’Europa” e vedere tutti acconsentire e darsi da fare per farla fuori. Ma non sarà così.

E allora? Come sperare che il continuo sbagliare decisioni e deliberazioni nel Consiglio europeo cessi?

Fino a quando? Fino a quando non avremo dei leader straordinari che non temano di dirsi italiani e di denunciare, mettendosi a capo di un’alleanza della … periferia, la miopia di chi non vede e dunque non può sapere.

Fino ad allora, fino a quando ci terremo leader dal braccino corto, sarà proprio … la timida Italia  a portare alla morte l’Europa. L’Europa che aspetta solo un nostro sussulto d’orgoglio per tornare a vivere.

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La peste europea di questo secolo

Che ne dite di questo grafico su un periodo di 25 anni? Sì, avete ragione, riguarda l’Italia. Sì avete ragione, riguarda indici di produzione. Parla di crisi economica.

Lo ho trovato all’interno di un lavoro molto interessante di un professore della Bocconi, Guido Alfani.

Eppure no. Non racconta la crisi italiana di questo ultimo quarto di secolo. Ma di un altro tempo, tra il 1620 ed il 1645, misurando la produzione di lana e tessuti di lino a Venezia e Firenze negli anni di quella che fu, secondo Alfani, una disastrosa e pervasiva diffusione della peste nelle città e campagne italiane.

Così tanto devastante da lasciare una traccia permanente sulla competitività dell’industria italiana, che per lungo tempo non ha saputo più recuperare il ritardo dalle altre nazioni.

Le due epidemie che colpirono l’Italia nel XVII secolo secondo Alfani furono caratterizzate da tassi di mortalità molto alti se paragonati a quelli del secolo anteriore o a quelli di altri paesi europei: “se una tipica epidemia inglese ebbe tassi di mortalità tra i 100-120 per mille, in Italia era comunemente di 300-400, con picchi di 500-600 per mille”. Poche le eccezioni, come Biella, protetta dalle Alpi da un lato e dalle colline Serra dall’altro.

Vi raccomando di leggere il lavoro per il suo valore storico e i tanti dati che sono in esso contenuti. Vi scrivo questo blog per fare una similitudine. Alfani stesso al termine del suo lavoro non resiste a farne un’altra, ben più rigorosa della mia, quando chiude dicendo: “questo lavoro sulle epidemie del XVII secolo ha molto da insegnare anche a tutti coloro che studiano periodi antecedenti.”

E io invece non ho potuto resistere, leggendo il suo lavoro, a ritrovare in alcuni passaggi una lezione per il suo futuro, per l’oggi europeo. La peste: una similitudine, una metafora dell’attuale recessione e stato di crisi politica?

Una peste quella attuale? Chissà forse sì. In fondo, a prendere un qualunque sito su citazioni tratte dal meraviglioso romanzo di Camus, La Peste, una qualsiasi di queste si attaglia perfettamente alla situazione attuale del nostro continente, senza tema di esagerazione. Quale scegliereste ad esempio tra queste per descrivere i dilemmi che attanagliano la felice Germania e la disperata Grecia, accomunate dal fatto di far parte della stessa “città”?

Il n’y a pas de honte à préférer le bonheur.

La bêtise insiste toujours.

Une manière commode de faire la connaissance d’une ville est de chercher comment on y travaille, comment on y aime et comment on y meurt.

On croit difficilement aux fléaux lorsqu’ils vous tombent sur la tête.

On se fatigue de la pitié quand la pitié est inutile.

Le mal qui est dans le monde vient presque toujours de l’ignorance, et la bonne volonté peut faire autant de dégâts que la méchanceté, si elle n’est pas éclairée.

Rien n’est moins spectaculaire qu’un fléau et, par leur durée même, les grands malheurs sont monotones.

L’habitude du désespoir est pire que le désespoir lui-même.

Il peut y avoir de la honte à être heureux tout seul.

Le bien public est fait du bonheur de chacun.

Il s’agissait seulement de donner pendant quelque temps les preuves de sa compétence dans les questions délicates que posait l’administration de notre cité.

Ma mi e vi distraggo. Torniamo ad Alfani. E citiamolo, anche a lui. Citiamolo pensando alla sua Europa, ed alla nostra Europa, quella di oggi.

… (noi) mostriamo come, mentre l’Europa del XVII secolo in generale era pressoché liberata dalla peste, l’epidemia colpì diverse parti del Continente in modi molto diversi. Il sud fu più colpito del nord, e l’Italia conobbe le pesti più violente dalla Peste Nera. La variabile chiave non risulta essere il tasso di mortalità, visto che mortalità da epidemia avvenne in molte parti d’Europa, ma la capacità della peste di infettare pervasivamente un’area vasta, villaggi e borghi così come città.”

E ancora:

La popolazione colpita fu incapace di riprendersi rapidamente, e l’effetto dell’epidemia non fu una semplice perturbazione di breve periodo, ma un danno di lungo periodo in termini di livelli di prodotto totale e di capacità fiscale del Paese. Questo articolo formulerà l’ipotesi che la gravità eccezionale dell’epidemia che colpì l’Italia durante il XVII secolo, non tale nel resto d’Europa, va considerato come uno dei fattori principali nel declino relativo che sperimentarono gli stati italiani in quel periodo”.

La pervasività delle due epidemie del XVII secolo, che toccarono le campagne come le città a distanza di pochi anni l’una dall’altra (come le due recessioni consecutive di questi anni?), impedì il tipico meccanismo riequilibratore delle epidemia urbane: l’influsso rurale. Un ostacolo drammatico alla ripresa.

Era l’Italia “meritevole” di una simile epidemia a causa delle sue condizioni arretrate di partenza, fossero esse economiche o istituzionali?  No, afferma Alfani: “le istituzioni anti-epidemia durante il periodo moderno erano le migliori nel continente” e così la sua ricchezza. Insomma, una vera peste à la Camus, “cadutaci in testa”. Che avrebbe meritato solidarietà?

Al contrario di altre pesti, questa del XVII secolo secondo Alfani fu una “epidemia dei giovani”.  Che colpì ricchi e poveri, anche questo fattore poco comune, con gravi implicazioni di ritardo di accumulazione nel paese di capitale umano.

Il declino economico italiano di allora non fu dunque causa di declino demografico. Piuttosto, la peste fu causa subitanea, esogena e con effetti duraturi del declino economico del Paese.

Da un punto di vista macroeconomico, “il drastico declino nella popolazione favorì il declino di potere e di influenza internazionale dell’Italia”, seppur già avviato nei decenni precedenti. Fu nel XVII secolo che i nostri stati persero la loro residua “capacità di autonomia militare, sempre più a sua volta dipendente dalla capacità fiscale dello Stato. Le pandemie, riducendo il prodotto totale, ridussero drasticamente anche la possibilità per gli stati italiani di competere nelle battaglie di potere europee… E la perdita di potere militare e diplomatico non fu senza conseguenze per le condizioni del  commercio internazionale” non traendo vantaggio dalla crescita di questo.

Più dell’aumento dei salari reali dovuti alla scarsità di offerta di lavoro (una interpretazione sposata anche dallo storico economico Cipolla) Alfani suggerisce come l’impatto vero del ritardo secolare che acquisì l’Italia rispetto agli paesi europei a causa della pandemia fu dovuto a due fattori: il crollo della domanda interna e del livello di capitale umano.

Nell’epoca del mercantilismo, la (scarsa, NdR) domanda aggregata interna può avere avuto un’importanza chiave nell’impedire alla proudzione manifattueirra italiana di raggiungere il volume di prodotto necessario a competere eficacemnte all’estero… La peste colpì l’Italia nel momento peggiore: le economie italiane furono forzate a rallentare mentre altre acceleravano”.

E ancora: “tassi di mortalità del 300-500 per cento non avrebbero potuto essere raggiunti senza che l’epidemia fosse un killer universale”, causando una mancanza di abilità a causa della mortalità tra i giovani.

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 2013, Italia, Europa.

La storia delle pesti europee del 600 ha una differenza con quella di oggi che mi colpisce più di altre. Le barriere naturali che protessero Biella ed altre città, sono all’interno della costruzione della fortezza europea. Non sono barriere naturali, sono barriere di solidarietà alla base dell’antico progetto europeo. Abbiamo costruito questa fortezza per combattere le pesti insieme.

Molti dei miei lettori, specie i più giovani, non vedono questa virtuosa fortezza europea, ma solo un impero del Male. Criticano il mio ottimismo, tacciandolo al meglio di ingenuità.

Beh, io sono cresciuto sui libri di Camus. E sono figlio di una generazione a cui devo tanto, specie avermi risparmiato da pesti e guerre. Costruendo la fortezza.

Sposo questa citazione di Camus: “il y a dans les hommes plus de choses à admirer que de choses à mépriser”, “vi sono negli uomini più cose da ammirare che cose da disprezzare”. Come Camus nella Peste, una resistenza che vinca i ratti è alla nostra portata. Non è facile, ma è nella nostra natura. Ecco perché credo che alla fine vinceremo la peste.