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Quando la Fed condanna la BCE

Cosa ha causato questa doppia crisi europea a distanza così ravvicinata di pochi anni?

Ho sempre creduto che derivasse non dai comportamenti secondo alcuni “eccessivi ed immorali” di economie come la Grecia o l’Italia, ma da una subitanea ed inattesa carenza di domanda aggregata, sia nel 2008 che nel 2011. Trasformatasi poi in crollo del PIL, recessione, aumento del rapporto debito-PIL (effetto, non causa, della crisi).

Avevo attribuito questa carenza nel 2008 ad un panico dovuto ai timori delle ripercussioni di un crash finanziario di Lehman Bothers nell’autunno del 2008. Robert Hetzel, Senior Economist della FED (la BCE Usa) di Richmond e acuto pensatore, esperto di questioni monetarie,  mi mostra con dovizia di dati che così non fu, che la diminuzione dei redditi reali che generò tale calo di domanda (consumi ed investimenti) avvenne prima, a cavallo tra il 2007 ed il 2008, a causa di una subitanea e momentanea crescita dell’inflazione europea a seguito dell’aumento dei prezzi mondiali delle materie prime (vedi andamento nel grafico). Analogamente per la crisi del 2011, annunciata da un aumento dei prezzi mondiali già nel 2010.

Resta però un enigma, che tale non è. Resta da capire cosa non abbia permesso all’economia europea di riprendersi come è naturale che sia dopo una recessione (la prima) che ha per definizione carattere temporaneo, e di finire invece bloccata in una crisi di pessimismo (la seconda) che sembra avere assunto ora carattere quasi strutturale e permanente.

Sappiamo bene che la benzina sull’incendio non così vasto è stata la pessima politica economica europea. Ma Hetzel, da par suo, mette l’accento più sugli errori della BCE che non su quelli, che questo blog ha sempre evidenziato, di politica fiscale.

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Nel 2008 la politica monetaria della BCE, secondo Hetzel, fu disastrosa. Perché aumentò i tassi proprio quando l’Europa aveva bisogno che fossero diminuiti. Errore grave, quello di pensare di ridurre l’inflazione via recessione, in soli due casi: quando la banca centrale ha acquisito una solida reputazione anti-inflazionistica ed il mercato sa dunque riconoscere normali periodi di inflazione inattesa non dovuti alla disattenzione della banca centrale e, peggio ancora, quando l’economia è, in aggiunta, in difficoltà ciclica. Era in questa situazione che si trovava la BCE nel 2008, avendo raggiunto ormai credibilmente una reputazione anti-inflazionistica e confrontandosi con una crisi da carenza di domanda aggregata: avrebbe dovuto diminuire e non alzare i tassi. Ma aveva ancora il braccino, si sentiva piccola piccola – pensava che i mercati l’avrebbero punita per aver lasciato andare l’inflazione troppo su, mentre rapidamente poi declinò – voleva far vedere di essere grande grande. Come si dice in gergo, volle strafare, mostrandosi più realista del re.

Così facendo prolungò una recessione che solo una politica fiscale europea abbastanza intelligente riuscì allora a stemperare (opinione di Piga non necessariamente di Hetzel).

Beffa delle beffe, proprio quando l’economia mondiale cominciava a riprendersi, a metà del 2009, ecco i prezzi delle materie prime tirar su nuovamente la testa. E così l’inflazione riprende temporaneamente nell’area euro mentre cala la domanda aggregata e, nuovamente, la politica monetaria della BCE si muove come riflesso condizionato a cercare di correggere un apparente errore passato, aggiungendo un altro errore (il rialzo dei tassi quando la domanda aggregata del sistema cala) al primo (l’aumento dell’inflazione per fattori non in mano alla BCE) che errore non era. Politica monetaria che rimase ben più aggressiva e restrittiva del dovuto, contribuendo, secondo Hetzel in maniera decisiva, al coma prolungato europeo a cui assistiamo oggi.

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Non sempre condivido tutto del suo articolo. Hetzel non vede ad esempio come a questo stato di cose abbia anche contribuito la sparizione di una parvenza di politica fiscale espansiva, di meno tasse più spesa pubblica, ricette proibite qui da noi, dall’altra parte dell’Atlantico.

Ma le sue ultime parole sono un affondo forte e apprezzabilissimo. Oltre a raccomandare (lui banchiere centrale!) una politica monetaria della BCE meno ottusa e tranquillamente disposta a finanziare i debiti dei paesi euro con acquisto di titoli pubblici, è interessante citare la sua ultima frase: “la BCE deve cominciare a riconoscere che i problemi europei non sono esclusivamente strutturali. Deve smettere di usare la politica monetaria come leva per ottenere riforme strutturali e piuttosto cessare la sua contrazione monetaria”. Proprio così, contrazione.

E poi, le riforme. Quelle riforme che nessuna Fed si sognerebbe di chiedere al governo Usa ma di cui parla sempre la BCE.

Poche righe prima Hetzel aveva ricordato come le riforme, al fine di ristabilire equilibri dei conti con l’estero dei paesi euro, sono necessarie nei paesi dell’euro sud ma che i paesi dell’euro Nord dovevano darsi pace ed accettare una inflazione maggiore del 2% per prolungati periodi di tempo. Non mi è chiaro come questa inflazione non differenziata tra zone dell’euro possa essere utile al ripianamento degli squilibri commerciali e come non sia piuttosto tramite una politica fiscale espansiva ben più aggressiva nei paesi come la Germania che non in Italia che tale risultato possa essere raggiunto.

Ma non fossilizziamoci. Robert Hetzel ha generato un po’ di aria fresca nei saloni ovattati ed ammuffiti delle banche centrali europee. Sarebbe ampiamente tempo che l’Europa capisse come si debba procedere rapidamente ad: 1) un cambiamento dell’obiettivo della BCE a favore anche dell’occupazione, 2) abolire l’idiotico Fiscal Compact e 3) slegare il sostegno da parte della BCE a un Paese euro solo in caso di accettazione di ancor più stupidi piani di riforme ed austerità fiscale.

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Se si salvano le Pmi son salve anche le banche

di Stefano Manzocchi e Gustavo Piga – Il Sole 24 Ore di oggi

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Banche e imprese sono legate a doppio filo in Italia, specie le Pmi. Inutile sognare un Paese non “banco-centrico” che per ora non c’è, immaginando che l’urgenza finanziaria delle aziende si possa risolvere con mini-bond, agenzia europea di cartolarizzazione dei crediti delle Pa, o altro: magari tra qualche tempo sì, ma non ora. Il filo tra imprese e banche si è andato sfilacciando negli ultimi anni, e che si deve di fronteggiare l’emergenza.

Ancor più impellente se qualche segnale di maggior fiducia si intravede per i prossimi mesi. Servono investimenti sulla qualità del capitale fisico e immateriale delle aziende che possono sperare di vendere i loro prodotti sul mercato nazionale ed estero. Sono imprese che possono contenere il calo occupazionale, e in futuro invertire la tendenza che ci ha visto perdere un milione di posti di lavoro dal 2008.   I dati dell’osservatorio Cerved presentati dal Sole 24 Ore documentano il deteriorarsi del rapporto banche-imprese. Visto dalla parte delle società non finanziarie, il peso del debito sul Mol è passato dal 4,5 al 6% tra 2009 e 2012; la percentuale di aziende con oneri creditizi superiori alla metà del margine lordo è passata dal 26 al 29%. La linea di resistenza delle imprese è consistita nell’aumento della capitalizzazione: gli imprenditori hanno investito i loro patrimoni nell’azienda o hanno trovato soci disposti a farlo. Le difficoltà delle aziende si ripercuotono sui bilanci delle banche: come ricostituire un nesso virtuoso tra le due parti? Alessandrini e Fratianni (Il Sole del 27 luglio) suggeriscono che le banche dovrebbero ottenere più capitale (pubblico), più tempo, più flessibilità nei requisiti patrimoniali. Sugli ultimi due punti siamo d’accordo, il primo non ci persuade.

D’accordo sull’esigenza di evitare che banche italiane poco capitalizzate divengano preda di intermediari stranieri, sussidiati dallo Stato. Nessun rigurgito autarchico, ma le banche non sono produttori di cioccolata o tessuti, sono l’infrastruttura principale e la “rete neurale” del capitalismo. Le risorse pubbliche in Italia sono scarse, e i nostri dubbi sono due. Primo, natura e contesto delle possibili operazioni. Per evitare che si alimenti l’avversione civile rispetto a risorse pubbliche a sostegno delle banche, occorre un radicale rinnovamento e trasparenza nella gestione degli istituti di credito. Questo non sempre avviene, anche a livello locale dove all’ombra della specificità dei territori si perseguono interessi di consorterie poco aperte a merito e innovazione. Non è pensabile che l’attore pubblico mobiliti risorse e sia “distratto” rispetto a controllo e management degli istituti che capitalizza. Non è possibile che un gruppo ristretto di manager gestisca il rinnovamento, né che si ripetano gli episodi del passato riguardo a compensi o buonuscite degli amministratori.

Il secondo dubbio riguarda l’efficacia relativa dei possibili, diversi interventi volti a rivitalizzare l’economia italiana e a “riparare” il legame banche-imprese. La priorità è salvare le imprese non finanziarie: da qui occorre partire. Gli effetti positivi sul sistema bancario ne discenderanno. Le risorse che si rendessero disponibili con un negoziato sui tavoli europei, o con nuove funzioni attribuibili alla Cassa depositi e prestiti, andrebbero destinate alle imprese specie piccole e medie, “disintermediando” le banche. Sarebbe un segnale coerente in tal direzione concludere entro fine anno il pagamento dei crediti arretrati della Pa. Molte Pmi non sarebbero costrette a chiedere crediti ma potrebbero realizzarli con risorse proprie se lo Stato pagasse. Oppure si potrebbe avviare un piano per riportare l’edilizia scolastica e carceraria a livelli degni di un Paese civile, finanziandolo con la leva pubblica e la Cdp. L’edilizia ne trarrebbe beneficio immediato, e anche il lavoro. Le banche aspetterebbero un po’, ma anche i loro bilanci ne trarrebbero vantaggio.

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L’Europa che consuma la sua classe media

Obama, datemi un Obama europeo. Ma non perché tutto quello che dice è giusto, ma perché tutto quello che di giusto dice non trova ospitalità nel Continente Vecchio. Le sue parole si inabissano nell’Oceano Atlantico, o forse oramai si dirigono, baldanzose e accolte con fiducia, verso l’Oceano Pacifico, abbracciate dal Continente Giovane, l’Asia di Abe.

Lo ascolto dire giustamente come non sia solo moralmente sbagliato che gli aumenti di reddito finiscano oggi solo nelle tasche dell’1% più ricco, che l’America continui a rimanere una “winner take all economy” dove quasi nulla viene lasciato alla larga maggioranza degli Americani; ma come sia anche una sciocchezza quanto a ricetta di politica economica.

“Perché quando le famiglie della classe media hanno meno da spendere, indovinate che succede? Le imprese hanno meno clienti che consumano.” Finendo per uccidere l’economia americana.

Obama rilancia, con un discorso forte, la centralità della classe media per le prospettive di crescita di lungo periodo dell’economia a stelle e strisce.

E poi arriva l’economista, un bravo economista, Casey Mulligan, che si scaglia contro Obama. Afferma di non avere mai letto in tutta la sua vita un modello economico in cui la crescita di lungo periodo di un paese dipenda dai consumi e non dagli investimenti. “I consumi crescono se crescono i redditi, non viceversa, sono gli investimenti che generano la crescita di lungo periodo”.

Che errore.

Certo che (anche se non sempre) gli investimenti generano crescita, quelli produttivi in un contesto produttivo. Ma mi ricordo dei bellissimi lavori – fine anni 80 – di tre economisti, Murphy, Schleifer e Vishny che ricordavano come spesso la Grande Spinta, the Big Push, la Grande Industrializzazione, in tanti Paesi è derivata da un’equa divisione dei maggiori redditi (provenienti ad esempio da un boom di export agricolo) che, finendo nelle tasche della classe media, dominante in termine di numeri, con la sua enorme domanda di consumi di beni manifatturieri prodotti internamente, ha stimolato invenzioni ed investimenti che non sarebbero mai stati altrimenti effettuati dalle imprese locali, permettendo, in un circolo virtuoso, a queste di crescere ed imporsi poi sui mercati stranieri.

Obama lo ha capito. L’Europa no.

Così muore l’Europa. A forza di tartassare la classe media europea, con maggiori tasse, e a forza di affermare il mantra della necessità di minore domanda pubblica, l’enorme potenziale domanda interna per i beni prodotti dalle imprese locali sparisce, e con essa le nostre imprese locali e la nostra manifattura. Un danno irreparabile.

Consumata, l’Europa muore.

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Di Richard (Burton) e Riccardo (Fiorito) e dell’euro-divorzio

Giusto 1 anno fa un amico ed economista della pasta di Riccardo Fiorito andò ad arricchire, con un articolo sul Foglio, le fila del gruppo degli anti-euro. Immagino non abbia cambiato idea. Fu un grande dispiacere. Superiore, per un romanista come me, al lasciar andare via Marquinhos, un pezzo da 90, al nemico. Anche perché Riccardo era colui che più di qualsiasi altro poteva testimoniare della validità dell’unica alternativa che rimane per salvare l’euro. Visto che quel partito si accresce mi si lasci ragionare, per la n-sima volta, sulla debolezza del pensiero anti-euro.

Gli studi scientifici di Riccardo dimostrano inequivocabilmente quello che negli Stati Uniti è “common knowledge” ed in Europa parte del dibattito proibito: che in una recessione l’unica variabile significativa per uccidere la stessa sono gli acquisti di beni e servizi della Pubblica Amministrazione.  Sebbene lo ammettesse, assieme al suo coautore Schwartz, quando ricordava che le minori spese pubbliche possono essere utili proprio ora, ovvero in quelle “recessioni che sono meno frequenti e più devastanti dei semplici cicli negativi”, identiche a quella in cui ci troviamo, fece cadere tale considerazione nel vuoto con fretta inusitata che non è tipica del suo metodico ragionare.

Lo stimolo degli acquisti pubblici alla domanda interna in Italia ed in Europa tutta, fatta in deficit nei Paesi creditori e finanziato dal taglio degli sprechi nei Paesi debitori dell’area euro, è il modo per tornare tutti a crescere, sostenendo vicendevolmente le proprie esportazioni, riducendo al contempo gli squilibri commerciali tra aree dell’euro e migliorando la competitività italiana rispetto a quella tedesca, grazie alla maggiore inflazione che si creerebbe in Germania.

Se qualcuno può rinfacciarmi che la proposta di cui sopra, che porto avanti da due anni sempre meno inascoltato, sia utopistica per questa Europa, ancora più lo è, quanto a opposizione che genererebbe nell’establishment europeo, quella da lui proposta.

Più di tutto, la politica conta. Pensare, come faceva Riccardo con Schwartz, che “la costituzione … di due aree dell’euro” sia “sperabilmente temporanea” era ed è un wishful thinking che tradisce una sottovalutazione del DNA di questo Continente e delle ragioni della costituzione dell’euro. La mattina dopo che le due aree euro siano costituite esse saranno radicalmente nemiche, pronte a rinfacciarsi senza ritegno, inesorabilmente, anni di soppressi stereotipi che echeggeranno da vicino quelli di epoche in cui l’Europa si preparava con inesorabile cecità alla seconda Guerra mondiale. Un divorzio non può essere seguito da un nuovo fidanzamento, Richard Burton e Elizabeth Taylor sono l’appassionata eccezione che conferma la regola.

E anche a seguire la loro improbabile ipotesi che possa esistere ancora una improbabilissima BCE unica comune alle due aree divorziate, questa imporrebbe ai Paesi dell’euro Sud una tale austerità da rendere impossibile qualsiasi ripresa, da loro auspicata, delle esportazioni via tasso di cambio.

“Chi non è al tavolo è sul menu”, dice un mio collega catalano. Chi è contro l’euro va ad arricchire il partito di quelli che ci faranno mangiare da Stati Uniti e Cina, pronti a godere delle divisioni interne europee.

Apprezzo del loro ragionare l’intuizione corretta dell’impossibilità di proseguire sotto queste condizioni di austerità, per l’evidente stress che la recessione causa al tessuto sociale del Paese, disoccupazione e morte d’imprese in primis. Hanno dunque il merito di proporre qualcosa che impedisce che, al tavolo dei grandi, si sia divorati con troppa sofferenza come sarà perseguendo le politiche dell’austerità che porteranno, come giustamente fanno notare i nostri due, alla dissoluzione inevitabile dell’euro tra massimo un paio di anni. Ma che consolazione è una morte rapida rispetto ad una poco più lenta?

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Panebianco sa cosa è la spesa pubblica, ma non ne parla

Articoli come quelli di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera fanno grande male alla causa dell’Europa.

Per due ordini di motivi.

E’ vero che, come lui dice, esiste un partito della spesa pubblica, che si oppone al taglio degli sprechi, ma è largamente sbagliato pensare che la sua causa prima sia all’interno dell’infrastruttura amministrativa (alta burocrazia, magistratura amministrative) che indubbiamente gode di rendite di posizione considerevoli. La sua causa prima è là dove si trova il denaro che la alimenta. Ovverosia, nel mondo degli appalti pubblici che arriva a sfiorare il 20% del PIL. Esattamente come, all’incirca, in qualsiasi altro Paese europeo.

Ed ecco dove arriva il secondo errore di Panebianco: nel fare di tutta l’erba un fascio e di pensare che quel 20% di PIL sia tutto spreco e non, piuttosto, che una gran parte (circa l’80% di essa, secondo studi scientifici rigorosi) sia essenziale, come in ogni Paese del mondo, per il rilancio del settore privato.

Non insegna forse Panebianco presso l’Università di Bologna, uno dei bastioni della qualità dell’insegnamento e della ricerca italiani? Non è forse conscio che la spesa per acquisto di beni e servizi nel suo Ateneo permette a quest’ultimo di competere da pari a pari con gli altri luoghi internazionali della formazione, attraendo migliaia di studenti vogliosi di pagare per formarsi a Bologna, e così sostenendo il valore delle nostre esportazioni tramite la vendita di servizi intellettuali a cittadini non italiani? E non si rende forse conto che una spending review che, come quella attuale, blocca a praticamente zero la spesa per l’ammodernamento delle aule, comporta un crollo dell’entrata di risorse da parte di giovani che preferiranno andare in quelle Università fuori dall’Italia che queste aule ammodernano costantemente?

La soluzione contemporanea a questi due problemi è semplice: pretendere immediatamente quello che si fa in ogni Paese del mondo. Fare sì che la quota di sprechi all’interno di quel 20% di PIL (il 20% di spesa circa in Italia) sia minimizzata. E qui le responsabilità non sono più da addebitare a una fantomatica infrastruttura amministrativa ma a tutti coloro che non la sanno governare e dominare, indicando con leadership, coraggio e continuità la via per la riorganizzazione del sistema degli appalti con una spending review che è rivoluzione basata su competenze, performance, riconoscimento dei risultati raggiunti.

I risparmi derivanti dal taglio di quella che incorrettamente Panebianco chiama spesa pubblica ma che è solo trasferimento di denaro dai contribuenti alle “sue” infrastrutture amministrative ed agli imprenditori conniventi, verrebbe usato senza toccare le figure contabili che tanto spaventano i burocrati della politica europea, deficit e debito, e messe a disposizione di addizionale spesa che può far tornare a splendere il nostro Paese, aule dell’Università di Bologna comprese, con una crescita economica che ridarà fiducia anche al settore privato e ci permetterà di restare nell’euro, uniti e forti per affrontare la globalizzazione e le sue immense sfide, abbassando sì a quel punto la pressione fiscale grazie alla riduzione delle aliquote che il maggiore gettito permetterà.

Che il Governo non abbia ancora nominato Mr. Spending Review e non gli abbia ancora allocato poteri  e risorse straordinarie non per tagliare la spesa ma per riqualificarla la dice lunga sul percorso durissimo che ci attende nell’autunno caldissimo che seguirà il caldo di Agosto.

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L’euro in via di sviluppo di Obama ha bisogno di un Democratic Party (che non c’è)

Tratto da Formiche, http://www.formiche.net/2013/07/28/cosi-obama-vede-leuropa/

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Ed una delle cose interessanti di cui non parliamo abbastanza è il contrasto tra quanto avvenuto negli Stati Uniti e quanto avvenuto in molti altri paesi in via di sviluppo, in Europa (sic) in particolare. Succede raramente di avere la fortuna di esaminare due approcci di politica economica, seguendoli lungo l’arco di molti anni e di vedere quale ha funzionato. E il fatto è che ci sono molti paesi europei che hanno seguito le prescrizioni che i Repubblicani della Camera stanno chiedendo ora, e questi paesi non solo stanno ben più indietro di noi in termini di crescita, in molti di casi i loro debiti e deficit sono attualmente aumentati perché le loro economie sono effettivamente in recessione. E malgrado noi non siamo cresciuti velocemente quanto desideravamo, abbiamo consistentemente fatto meglio di quei paesi che hanno seguito le politiche che raccomandano ora i membri Repubblicani della Camera.

Ora, io sono più solidale con quei paesi europei perché, in alcuni casi, non avevano alternative. Loro non hanno la valuta mondiale dominante. Non hanno persone che vogliono investire nei loro paesi quanto invece gente di tutto il mondo ancora vuole fare da noi. Ma, in qualche modo, abbiamo qui una prova, un’evidenza. Non si tratta di argomenti astratti. Noi sappiamo cosa è necessario per far crescere la nostra economia ora e subito. E se facciamo crescere la nostra economia, e le famiglie della classe media stanno meglio, e crescono i prezzi delle case, e i giovani avviano famiglie e ci sono lavori a salari buoni, ecco cosa abbatterà i deficit nel modo più veloce possibile.”

A parlare così non è un economista qualsiasi proveniente dall’altra parte dell’Atlantico. Nossignore. E’ il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che ha rilasciato una lunga intervista al New York Times il 24 luglio, pubblicata ieri.

Nel suo straordinario argomentare meramente a fini di politica interna, nell’intento di dare un colpo alla maggioranza repubblicana prevalente alla Camera dei rappresentanti (al Senato i Democratici mantengono il controllo) che ha come motto “il sentiero verso la prosperità passa per un responsabile bilancio pubblico in pareggio”, il Presidente Obama si avventura in un inusitato paragone tra un programma di un partito politico e il programma prevalente nei Paesi europei.

E’, subliminalmente, un involontario capolavoro di comunicazione, rivelatore del modo in cui gli Stati Uniti percepiscono il momento storico europeo.

Prima di tutti, il paragone fra un partito ed un gruppo di Paesi svela quanto ho sempre ritenuto terribilmente vero: in Europa, non esiste un partito che si basi su  politiche alternative all’austerità. O almeno non è considerato, da nessuno. Ho sempre creduto che chi portasse avanti, in Italia, in Olanda, in Portogallo, in Francia, in Germania, le politiche economiche del partito Democratico Usa sarebbe stato considerato appartenente ad un partito estremo, tentativamente comunista. Quando un partito europeo vince le elezioni nazionali con un qualche accenno a combattere e mettere fine all’austerità, ben presto si trasforma, al primo viaggio del suo Primo Ministro a Bruxelles, in una mansueta pecora che ribadisce il mantra prevalente. Hollande non è che il caso più evidente, ma non unico, di questo inconsueto fenomeno; chiarissimo, ora lo sappiamo, anche ai cittadini americani più capaci di afferrare cosa avviene nello strano Vecchio, vecchissimo, Continente. Quello che Fitoussi a suo tempo chiamò il “dibattito proibito” è oggi a tutti gli effetti il “partito proibito”. Esiste solo un partito, in Europa, quello per il quale “il sentiero verso la prosperità passa per un responsabile bilancio pubblico in pareggio”

Secondo poi. E’ clamoroso che giornalisti del “più importante quotidiano al mondo” qual è il New York Times abbiano mal catturato le parole del loro Presidente e riportato che i paesi europei a cui si riferiva fossero stati da lui definiti “in via di sviluppo”. Eppure la possibilità che abbia detto proprio così c’è. Nel contesto della politica economica, ecco che cosa noi europei sembriamo al nostro partner economico e politico più importante: un semplice nano, che deve ancora crescere e svilupparsi per arrivare a poter essere paragonabile agli Stati Uniti. Ma è interessante il contesto che fa emergere dal pensiero nascosto di Obama una simile degradante valutazione: nasce dalla valutazione delle politiche economiche di cui si è innamorata l’Europa e delle istituzioni che gli ha voluto affiancare: “(loro)  non hanno una valuta mondiale dominante”; coinvolgendo così tutti i paesi dell’euro, Germania compresa, nel suo argomentare, ci ricorda con parole brutali il fallimento del progetto euro, ridicolizzato senza se e senza ma, ridotto ad un progetto di serie B che non scalfisce la potenza Usa. Incapaci di attirare “investimenti” dal resto del mondo, al tavolo mondiale che conta siamo solo sul menù.

Terzo e più grave. “We have evidence here”. Come se lo capisse anche un bambino, il Presidente Obama ci ricorda che una sola cosa sappiamo: che le politiche dell’austerità hanno fallito. Ma è interessante notare due aspetti del suo argomentare. Primo il perché hanno fallito, secondo qual è il test che deve superare una politica economica per considerarsi di successo. E’ fallita, l’austerità, perché generando minore crescita grazie al tentativo di imporre (addirittura costituzionalmente!) bilanci in pareggio, “i nostri debiti e deficit sono attualmente aumentati perché le nostre economie” si sono masochisticamente autoimposte una recessione. Come in Italia, dove il debito continua a crescere a causa delle maggiori tasse e minori spese che fanno crollare il PIL.

Cosa farà sì che si possa evitare la trappola “euro-repubblicana”? Una sola cosa: far crescere l’economia. Invertendo il nesso causale, Obama ricorda al bambinetto europeo, quello che dovrebbe essere ovvio a tutti: in una recessione i conti pubblici e la stabilità si ottengono con la crescita economica, non è vero che la crescita economica deriverà dal tentativo di generare conti pubblici in pareggio, questo farà solo crollare il PIL. Invertendo il nesso semantico, parlando prima dei giovani, delle famiglie, della classe media, e poi di deficit e debito.

A me pare evidente che la chiamata ai paesi europei  di Obama alle armi sia evidente: anche dall’altra parte dell’Oceano si aspettano e sperano che venga a costituirsi un Democratic Party. Non un Partito Democratico, un Democratic Party.

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Banche o carceri?

Vi propongo di scegliere come usare i soldi della spending review.

Ecco due possibilità. Fare come chiedono i miei cari amici Alessandrini e Fratianni, sul Sole 24 ore, “basterebbe fare un modesto catching-up dell’1% del Pil (portandoci cioè all’1,3% del Pil, livello molto inferiore a quello della Germania), per risanare il patrimonio delle banche italiane in crisi e rilanciare l’economia con maggiori prestiti“. 16 miliardi per le banche.

Oppure?

Oppure tenere conto di quanto citato in questo studio della Banca d’Italia sulle costruzioni in Italia dal 2009 ad oggi quanto ad occupazione, produzione ed investimenti pubblici.

Guardateli. Guardateli tutti quei meno, quel disastro che ci siamo in parte auto-inflitti facendo le politiche economiche sbagliate.

Ecco, avete 16 miliardi, 1% di PIL. Non potete usarli per abbattere il debito, perché non serve a nulla per ridare fiato all’economia: tra 1 anno il rapporto debito-PIL è risalito di nuovo e pure di più, sopra al livello precedente perché nessuno cambierà i propri programmi di spesa se il debito su PIL inizialmente scende; e l’economia non si riprenderà. Non potete usarli per abbassare la pressione fiscale, perché la gente li risparmia o tesoreggia e non aiutano l’economia a ripartire. Non ne avete bisogno per ripagare i debiti delle pubbliche amministrazioni, quei soldi li potete ottenere semplicemente emettendo BTP e trasformando un debito commerciale in un debito di mercato. Sarebbe un peccato sprecarli.

Come li usereste?

Li usereste per darli a banche, magari come MPS e Banca Marche che hanno causato la loro crisi con comportamenti sbagliati, che non hanno nessuno a cui prestarli perché non esiste domanda di credito perché nessuno vede ragione di credere nel futuro?

O li usereste per fare il più grande piano carceri dal dopoguerra, costruendo carceri di bassa e alta sicurezza, ristrutturando caserme se del caso  e cambiandone la destinazione d’uso, mettendo fine ad una delle più scandalose violazioni dei diritti umani che si conosca in Europa, quella che subiscono ogni giorno uomini e donne – a cui spetta la possibilità di riabilitarsi – vivendo ammassati in luoghi insalubri e pericolosi? Carceri costruiti secondo le più avanzate norme ambientali? Dando lavoro a tantissime piccole imprese di costruzioni che stanno chiudendo a migliaia, con perdite di posti di lavoro che generano sofferenza e difficoltà?  Generando reddito che farà riprendere la spesa per consumi, la domanda interna, l’occupazione, la speranza, la fiducia, gli investimenti in Italia, come avviene oggi in Corea del Sud e Giappone, paesi che hanno scommesso sugli investimenti pubblici?

Vedete un po’ voi.

Grazie a M.A.

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Il buono, il nullo ed il cattivo: l’esempio della politica economica in Italia

Ora è giusto criticare le agenzie di rating. Sbagliano, sono preda di pregiudizi. Ma …

Ferruccio De Bortoli, Corriere della sera, 24 luglio 2013.

Che le agenzie di rating abbiano perduto molta della loro credibilità è un fatto da almeno un decennio … E tuttavia …

Francesco Giavazzi, Corriere della Sera, oggi

Il rating del debito pubblico italiano è ormai solo un paio di linee sopra il livello oltre il quale i titoli non sono più accettati come collaterale della BCE. Tuttavia …

Lorenzo Bini Smaghi, Corriere della Sera, oggi.

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Scherzavo ieri con un mio amico che a un certo punto mi ha detto “concordo con te al 100%”, “eppure?” ho chiesto, interrompendolo. E lui mi guarda sorpreso e mi dice “eppure cosa? Sono d’accordo con te al 100%”. Gli spiego che il più delle volte dire “concordo con te al 100%” è un’interlocuzione volta a stemperare la tensione o rafforzare la percezione di non faziosità del proprio argomentare quando ci si prepara a contraddire il nostro interlocutore. E che l’”eppure”, il “ma”, il “tuttavia” sono l’inizio della nostra vis retorica, l’unica con la quale veramente concordiamo al 100%.

Ha riso ed ha ammesso che era così, anche se stavolta, caso raro, era proprio d’accordo con me ed un sano silenzio ha sancito la nostra omogeneità di vedute.

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Mala tempora currunt.

E’ in arrivo un downgrading ulteriore del Sistema italiano? Non lo sappiamo, ma- a leggere il Corriere della Sera ed i suoi autorevoli opinion-makers – pare proprio che ci si debba preoccupare al riguardo e venire incontro al più presto alle richieste di queste agenzie, malgrado l’evidente inaffidabilità delle loro valutazioni, con un convinto ritorno della politica economica alle c.d. “riforme” e delle politiche dell’austerità.

Lo dice Giavazzi, preoccupandosi oggi di cosa penserà un investitore estero della sana decisione italica di avvisare i nostri gestori del risparmio nazionali di “non dare peso eccessivo al giudizio delle agenzie di rating”, così che questi non siano obbligati a liquidare titoli di Stato o di imprese nel caso in cui il loro rating scenda al di sotto di sogli critiche. Non penserà nulla, rispondo io, visto che la circolare si indirizza ai gestori nazionali e quindi non riguarda i gestori esteri ed è basata proprio sull’inaffidabilità, da Giavazzi stesso ammessa, dei giudizi di queste agenzie. Eppure sulla base di ciò Giavazzi chiede al Governo, con un salto logico fenomenale, di procedere con una “scossa … (di) riduzioni delle spese pubbliche”.

Lo dice De Bortoli quando afferma che “ancora due piccoli gradini in giù nel voto sull’affidabilità del debito e, con la perdita del cosiddetto investment grade , molti investitori internazionali sarebbero costretti, per regole interne, a liberarsi delle attività italiane. E un serio imbarazzo lo avrebbe anche la Bce di Draghi, che non potrebbe più accettare come collaterali titoli italiani nel finanziamento del sistema bancario”. A cui fa da perfetto controcanto l’ex membro della BCE Bini Smaghi quando rassicura De Bortoli ricordandogli, in un post scriptum che vale l’intero articolo, come si potrà rimuovere l’impatto negativo del downgrading  di quei due piccoli gradini “se il Paese adotta un programma di aggiustamento con l’Unione europea e il FMI”.

Ovvero: austerità à la Giavazzi, stabilita “internamente”, o à la Bini Smaghi, stabilita “esternamente”, sono le sole soluzioni che possiamo dare in pasto alle fauci sempre più affamate delle agenzie di rating e dei mercati.

Eppure? Nessun eppure, siamo d’accordo allo 0%.

La verità è che non sono le agenzie di rating che devono guidare le nostre decisioni: lo hanno fatto sinora ed ecco dove siamo arrivati. La verità è che i mercati non ambiscono a guidare le nostre decisioni ma a farsi guidare, da politiche per la crescita: guardate quanto hanno esultato in Giappone quando Abe ha preso in mano con coraggio la politica economica, rivoltandola contro l’austerità.

I mercati sono come i bambini, desiderano farsi guidare autorevolmente, con l’esempio.

Il problema è che quando i genitori non danno l’esempio, i bambini prendono il bastone del comando, con esiti spesso disastrosi per tutti, bambini e genitori.

Quindi alla fine, su una cosa concordo al 100% con i tre opinionisti: il ritorno della retorica del “ce l’impongono i mercati” sottolinea che, in fondo, il genitore “Governo” continua a non dare nessun esempio. Ma bisogna che l’esempio sia effettivamente “buono”: ci manca solo che il Governo in carica si metta a dare il cattivo esempio ascoltando i tifosi sconsiderati dell’austerità o delle riforme che non servono.

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Merkel e Letta siano come Pitt ed Abe e sconfiggano gli Zombie

Bellissimo il film sugli Zombie con Brad Pitt, per chi riesca a tollerare scene disgustose assai di morsi e mutazioni. Tante le cose belle, magari un giorno ci rifletto su in un post, mi interessa solo ricordare qui che alla fine il virus che salverà la razza umana (anche se il punto è che questi Zombie sono “molto” umani) è quello considerato il peggiore e più letale, il nemico. Ma in condizioni straordinarie, soluzioni straordinarie.  

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Certo, dovremmo festeggiare se il problema del debito delle Pubbliche Amministrazioni con le imprese volge a soluzione. Sono 2 anni che l’avevamo messo al centro di questo blog, subito messo nel Programma dei Viaggiatori in Movimento come tema prioritario di riforma, altro che mercato del lavoro della Fornero.

Ma in questo Paese non si è ancora capito che la globalizzazione richiede una politica molto ma molto più veloce e competente per allenare le imprese a competere in un mercato così grande che è impossibile possano percorrerlo senza sostegno, suggerimenti e regole intelligenti. Finché si voteranno partiti fatti di persone poco capaci o poco interessate alle esigenze di persone e imprese, difficile battersi da pari a pari con Germania e Cina.

Risolvere la questione dei debiti delle P.A. in questo contesto in cui il problema finanziario, specie per le piccole, diventa tra i più importanti, è rilevante eccome.

2 cose sappiamo. Sappiamo che stanno crescendo le imprese con ritardi commerciali nei pagamenti. E sappiamo anche (vedi Bollettino economico recente della Banca d’Italia) che l’offerta di credito si restringe e aumentano le sofferenze bancarie in rapporto ai prestiti.

E’ ovvio che sono due fenomeni che si infiammano grazie alla benzina dei ritardati pagamenti della pubblica amministrazione:  se lo Stato mi paga in ritardo, io pago i miei fornitori in ritardo. Circolo vizioso numero 1. E poi. E poi prendiamo il settore delle costruzioni, quello che soffre di più dei debiti P.A. non pagati. Lo stesso settore i cui investimenti stanno crollando (-3,9% nell’ultimo trimestre contro il -3% nazionale). In parte perché non trovano credito, e non lo trovano perché hanno maggiori sofferenze, dovuti ai mancati rimborsi del settore pubblico. Circolo vizioso numero 2.

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Veniamo alle parole sulla restituzione di quanto loro dovuto alle imprese. Quelle di Saccomanni. Parole positive perché denotano perlomeno una sensibilità che il precedente Governo non ha avuto. D’altronde il problema è diventato sempre più grave, era inevitabile che se ne accorgessero anche i muri.

Leggiamole in codice le sue parole (Adnkronos) – ”Al momento attuale, la cifra che abbiamo materialmente messo a disposizione nei confronti degli enti…”  e poi “ “non vedo ostacoli di carattere politico – ha affermato – ma solo ostacoli di carattere tecnico operativo“.

Poi ci sono i fatti. E così, scordandoci per un attimo che i 40 miliardi che il Ministro dice di voler affrontare entro fine anno sono probabilmente (non sappiamo ancora quanti sono!) solo un terzo della massa dei crediti, scordandoci anche che nulla sappiamo di cosa sta avvenendo ai nuovi crediti che dovrebbero per legge essere pagati in 30-60 giorni (ma chi sta controllando?) non possiamo però scordarci che non si è scelto di fare come la Spagna (che ha centralizzato il processo dei pagamenti nelle mani dello Stato che ha anticipato il denaro dovuto dagli enti locali) e dunque ecco spiegato perché Saccomanni parla di somme “messe a disposizione” e non necessariamente pagate. Le “difficoltà operative” di cui parla Saccomanni sono il contrario di quanto chiedeva Daniele Franco, oggi Ragioniere Generale dello Stato, quando vestiva i panni di alto dirigente della Banca d’Italia e parlava al Parlamento spiegando: “procedure automatiche ed indipendenti dalle capacità amministrative e dalla discrezionalità dei singoli enti”.

E oggi che non è più in Banca d’Italia, ora che ha il pallino in mano, sarebbe bello se riuscisse a imporre quella linea che raccomandava allora. Per ora prendiamo atto che la stessa Banca d’Italia afferma nel suo ultimo Bollettino che sul pagamento dei debiti sussiste un “ampio margine di incertezza… per possibile ritardo erogazioni” che “condiziona” l’efficacia delle manovre di politica economica di questo Governo.

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E infine, oltre a parole e fatti, rimane IL DUBBIO, quello principe. Supponiamo anche che tutto andasse bene, che i debiti fossero ripagati … in tempo, chi ci garantisce che verranno utilizzati per trasformare questa liquidità nei necessari investimenti che rilanciano l’economia e l’occupazione? Nessuno.

Perché, come dice di nuovo Banca d’Italia, “l’ampio margine di incertezza” è anche legato all’”uso che ne faranno imprese” prendendo atto del rischio che “a fronte di elevati margini di capacità inutilizzata e di una domanda debole accantonassero per scopi precauzionali una quota rilevante della liquidità ricevuta”.

Già la maledetta domanda interna, debole, a causa del pessimismo imperante, che resiste a qualsiasi antidoto e uccide il paziente. Uno solo è il vaccino che può ristabilire l’organismo e renderlo sensibile a tutte le altre medicine rinvigorenti: la maggiore domanda di beni, servizi e appalti da parte del settore pubblico. Finanziata con i tagli degli sprechi imperanti.

Talvolta gli antidoti migliori vengono dal nemico apparente. E’ bene farsene una ragione.

Lo zombie della recessione si abbatte con l’antidoto della spesa pubblica, che in tempi normali è spesso una disgrazia per il settore privato, ma che oggi è, accettiamolo prima che sia troppo tardi, la sola via di salvezza. Letta e la Cancelliera Merkel, come Brad Pitt che si inietta su se stesso il virus potenzialmente letale per poi invece riuscire prima a sopravvivere e poi a sconfiggere gli zombie, dovrebbero iniettarlo – il virus salvifico della spesa pubblica – in tutto il Continente, con un gesto di coraggio che, per ora, riconosciamo (noi ed i mercati) solo al Premier giapponese Abe.

Un rischio certo. Ma meglio rischiare e forse abbandonare la nave per non esserci riusciti che portare in porto, sereni, una barca piena di Zombie.

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Vittime ieri, sado-maso oggi, salvati, ancora per poco, dalla spesa pubblica di Abe

Il Bollettino economico della Banca d’Italia da poco uscito permette un utile raffronto. Quello tra il picco della prima crisi della fine del 2008-inizio 2009 trasmessa dal Continente americano e quella odierna. Riassumibile in un drammatico: “stiamo come allora, stiamo peggio di allora”.

Che stiamo come allora lo si vede da svariate affermazioni e grafici contenuti nel Bollettino.

A cominciare dagli investimenti delle imprese: nel primo trimestre 2013 siamo a -3,3% (-3,9% nelle costruzioni), così male solo a fine 2008.

Poi è necessario guardare il grafico della produzione industriale: è al livello, minimo, del picco negativo della primavera del 2009 (seguite la linea blu e notate i cerchi arancioni).

Per chiudere con un dato che preoccupa più di tutti, quello sull’export: per la prima volta dal 2009 la crescita trimestrale è negativa, -1,9%. Le cause? Tutte europee: il -1% nell’export italiano di beni è tutto dovuto alla carenza di domanda interna nei paesi dell’Unione. La differenza con gli ultimi dati più recenti? Che stavolta la domanda, che continua a tirare, dal resto del mondo non euro non è sufficiente a compensare gli effetti dell’idiozia delle politiche restrittive europee sulla domanda interna all’area europea. Insomma i giapponesi continuano a domandare i nostri beni, ma i francesi ne domandano così pochi che l’effetto negativo dei secondi è per la prima volta superiore a quello positivo dei primi.

Ecco che il quadro si chiude: questa crisi, a differenza della prima, non ci è più imposta dall’esterno ma da noi stessi; vittime ieri, sado-maso oggi.

Eppure, incredibile, non stiamo come allora: stiamo peggio di allora.

Lo dimostrano alcuni dati incontrovertibili, quelli sull’occupazione e sul credito.

Guardatela l’occupazione, ben più bassa che allora (di nuovo, i cerchi arancioni). Come è possibile? Non era forse più grave il picco recessivo del 2009? Come possiamo avere meno occupati di allora? Ancora una volta il Bollettino ci fornisce informazioni significative al riguardo. L’occupazione ovviamente cresce con le assunzioni e diminuisce con le cessazioni di rapporti. Così, analogamente, decresce quando le assunzioni sono superate dalle cessazioni. Ovviamente in ambedue le recessioni, quella odierna e quella del 2008-2009, sono aumentate le cessazioni e diminuite le assunzioni, ma, ed ecco la spiegazione, oggi, dice la Banca d’Italia che “il calo sarebbe dovuto più ad una flessione delle assunzioni che ad un aumento delle cessazioni”. Ecco la differenza col 2009: certo ci sono sempre cessazioni, ma le imprese hanno smesso più di allora di assumere.

Le maggiori cessazioni ci parlano dell’urgenza dell’oggi, le  minori assunzioni del pessimismo sul domani. Un segno incontrovertibile di una sfiducia nel futuro che caratterizza questa crisi più di quella di allora.

E a parlare di fiducia non può sfuggire l’altro drammatico dato, quello sul credito. Anche qui, come per la domanda di lavoro, è la domanda di credito che manca, più di allora.

Guardate al grafico di sopra, quello del tasso di crescita dei prestiti bancari: è entrato in zona di crescita negativa, per la prima volta, in questa crisi. Malgrado i tassi d’interesse (grafico sotto) non abbiano conosciuto una dinamica così negativa come allora nel 2008-2009. Segno inequivocabile che sono le imprese a non domandare malgrado un’offerta in parte disponibile. Segno inequivocabile di un crollo nella fiducia nel futuro rispetto ad allora da parte delle imprese.

 

Ecco dove siamo, ecco cosa dobbiamo combattere.

Come?

La soluzione della Banca d’Italia, come ormai accade da anni, non è all’altezza della sua analisi:  “Il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica è condizione necessaria per il contenimento degli spread.” Imbarazzante.

Per fortuna che non ci dicono che meno domanda pubblica è condizione “sufficiente” per risolvere la crisi: di questo se ne sono resi conto anche loro. Ma il taglio della domanda pubblica e l’aumento delle tasse non solo non è condizione sufficiente, non è nemmeno necessaria, anzi!

Che non sia necessaria ce lo dice lo stesso Bollettino quando ci ricorda che siamo, in parte, anche se sempre meno, salvati dal resto del mondo, dal fuori Europa, che tira. E come mai tira? Come mai cresce il nostro export verso il Giappone, per esempio? Perché il Giappone ha voluto tirarsi fuori dalle secche della crisi (o sta apparentemente riuscendo a uscirne) grazie allo stimolo alla domanda interna dall’unico attore che può farlo in un momento di recessione come questa: il settore pubblico. Con tanto di esultante reazione dei mercati azionari giapponesi. Insomma, siamo salvati … dalla spesa pubblica giapponese.

Ma non basta. Bisogna salvarci con la nostra spesa pubblica, quella buona, quella fatta di competenza e  acquisti mirati, che generano reddito ed occupazione nel settore privato.

L’alternativa?

Siamo vicini ad una crisi europea senza se e senza ma che rischia di spazzare via l’euro e con esso la geopolitica europea e dunque la forza contrattuale del nostro Continente al tavolo delle negoziazioni mondiali. Ovvero i prossimi 30 anni di sviluppo. Quando vorremo capirlo, forse, sarà troppo tardi. Ma salvarci da soli, non  mettendoci nelle mani del resto del mondo, è alla nostra portata.