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Schumpeter killed by the European Commission, once again

The new EU Directive on Public Procurement is about ready to go, soon to be approved by European institutions and to be transposed by national governments within 2 years in their legislations.

Much ado about (almost) nothing.

Nothing makes this Directive an instrument of revolution in the realm of that Sector, public procurement, which generates yearly almost one fifth of European GDP on average. Evolution? Maybe. We would have needed a revolution though.

Most of all, no news for SMEs. Oh yes, tons of bla bla bla, like this one: “given the potential of SMEs for job creation, growth and innovation it is important to encourage their participation in public procurement, both through appropriate provisions in this Directive as well as through initiatives at the national level. The new provisions provided for in this Directive should contribute towards an improvement of the level of success, by which is understood the share of SMEs in the total value of contracts awarded.

No way José. They won’t contrbute. And you know why? Because they absolutely forbid the only tool there is in the whole wide world to help SMES: restrict competition. Indeed the EU says: “It is not appropriate to impose obligatory shares of success, however, the national initiatives to enhance SME participation should be closely monitored given its importance“.

Sure. Let’s closely monitor how large firms have it all: in all of the world the total value added of SMEs in the economy is much larger than the value allocated to SME in public procurement. When it comes to demanding goods, services, works, the public sectors feels  … safe to buy … BIG.

This discrimination is the reason why small firms worldwide (Usa, China, India, Brazil, South Africa, Mexico, Tunisia) are protected by quotas.

Such is not the case in Europe: neither today, nor tomorrow.

Why is that? Protection, for the smart guns in Brussels, creates less competition today. Might it create more competition tomorrow because more small firms will have been allowed to survive? Too complicated for the EC bureaucracy worried only about today.

Yes, as “innovation” economist Joseph Schumpeter pointed out: “A system which is efficient in the static sense at every point in time can be inferior to a system which is never efficient in this sense, because the reason for its static inefficiency can be the driver for its long-term performance.”

Try teaching Schumpeter across the cozy rooms of Brussels bureacrats, another place in Europe where competition does not apply, since the more mistakes you make the more you rise in the ladder of success. Just try.

SMEs of Europe should unite to fight once and for all this battle for making the market for public demand in the continent  a fair and equitable one.

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L’insuperabile tabu’ di Alesina e Giavazzi. Parte 1.

Di tutto l’Italia ha bisogno tranne che di più spesa pubblica. I consumi delle famiglie sono scesi del 6% in due anni (2012-13). Nel medesimo periodo la spesa delle amministrazioni pubbliche al netto degli interessi è salita dal 45% del Prodotto interno lordo al 45,8 (era il 41,4% dieci anni fa). L’Italia ha bisogno di meno tasse sul lavoro per far crescere l’occupazione, e meno tasse sui consumi per far ripartire la domanda. Aumentare la spesa pubblica significa che prima o poi le tasse dovranno crescere ancora di più.

Alesina e Giavazzi, ieri sul Corriere, L’insuperabile tabù italiano.

Dal Dizionario online del Corriere della Sera; Tabù:Tutto ciò che è oggetto di un divieto senza fondamento oggettivo o ciò di cui si preferisce non parlare

*

I consumi delle famiglie sono scesi a causa della spesa pubblica? No, sono scesi per la mancanza di reddito e di aspettative nerissime sul futuro.

La spesa pubblica al netto d’interessi su PIL è salita? Vediamo. Il totale delle spese correnti al netto degli interessi dal 2010 al 2012 (lasciamo stare le stime sul 2013, non le voglio nemmeno vedere, tanto qui tutti fanno le stime che gli fa comodo)  è  SCESO in euro da 670 miliardi a 666 miliardi, da 43,2 a 42,6% del PIL. E la spesa per investimenti pubblici? Scesa da 52 miliardi a 37 miliardi!! Il totale della spesa al netto degli interessi (fonte MEF) è scesa complessivamente dal 46,5 al 45,6% del PIL:

L’Italia ha bisogno di meno tasse sul lavoro e meno tasse sui consumi? Possibile, ma parlate con gli imprenditori: non se ne fanno nulla degli abbattimenti di costo sul lavoro giovanile, perché non vogliono assumere, perché non c’è domanda! E la domanda delle famiglie in questo clima non crescerà con una riduzione dell’1%  dell’Irpef: famiglie con poco ottimismo risparmieranno, altro che consumare.

Crescerà con domanda pubblica, vera domanda pubblica di cui il sistema economico è avido. Non sprechi, che spesa pubblica non sono. Appalti, lavoro, PIL. Lì sì che ripartiranno consumi e investimenti privati.

Aumentare la spesa pubblica significa maggiori tasse? Per ora constatiamo che la spesa è scesa e le tasse sono aumentate, dal 46,6% al 48,1% del PIL dal 2010 al 2012. E perché? Perché l’equazione è stata l’inevitabile conclusione della lezione errata di A&G - fate meno spesa e fate equilibro dei conti pubblici  – portata avanti sulla prima pagina del Corriere per anni. Meno spesa in recessione, meno PIL; meno PIL, meno entrate; meno entrate, più deficit; più deficit, meno spesa in maggiore recessione; ….. devo continuare?

E’ triste vedere i tabù di quegli economisti, che non hanno voglia di guardare i dati, ma sono solo capaci di reiterare formule ideologiche che hanno un impatto doloroso sulla vita di tante persone. E’ triste vedere che il Corriere si ostini a dargli spazio.

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L’insuperabile tabu’ di Alesina e Giavazzi. Parte 2.

Dall’esperienza dei Paesi europei che negli ultimi tre anni hanno cercato di uscire dalla crisi tagliando il debito e ricominciando a crescere, si impara una lezione molto chiara. L’Irlanda, che ha corretto i conti soprattutto riducendo le spese, ha ricominciato a crescere: la stima per quest’anno è un aumento del prodotto pari all’1,3%. L’Italia invece si è limitata ad aumentare la pressione fiscale senza far nulla per ridurre le spese delle amministrazioni pubbliche, che anzi continuano a crescere.

Da Alesina e Giavazzi, ieri sul Corriere della Sera. L’insuperabile tabù dell’Italia.

Interessante. L’Irlanda.

Andiamola a vedere, l’Irlanda.

Che cresce (si fa per dire) dello 0,7% nel 2012. Ben poca roba, pare proprio un “non” modello, ma comunque ben più dell’Italia.

Vediamo allora perché cresce. Per i consumi privati? Oh no, come in Italia crollano, dell’1,8%.

Ohibò che strano. Beh allora crescerà perché gli imprenditori fanno più investimenti privati. Oh no, crollano del 2%.

Ohibò che strano. Ma allora Alesina e Giavazzi sbagliano quando dicono che c’è meno spesa pubblica? Sarà la spesa pubblica ad aver salvato l’Irlanda? No, A&G hanno ragione, anche gli irlandesi usano stupidamente la politica economica (in fondo fanno parte dell’area euro): la domanda di beni, servizi e lavori pubblici è scesa del 3,6%.

Insomma la domanda interna è scesa del 2,3% generando disoccupazione e minor PIL. Bella performance! Altro che effetto positivo delle minori spese pubbliche!

Mi direte, ohibò, ma allora cosa è che fa sì che l’Irlanda cresca? Avete indovinato: ciò che in mano all’Irlanda non è, ovvero la domanda da parte del resto del mondo.  L’export irlandese complessivamente cresce del 2,6%. Esattamente come in Italia, sono, siamo, ”salvati” dall’export, non dalla minore spesa pubblica, il cui andamento anzi ci mette tutti in grave difficoltà.

Ma allora perché noi crolliamo mentre l’Irlanda resiste? Una differenza con l’Italia c’è. Quando il resto del mondo tira, l’Irlanda sale molto di più di noi. Perché il suo export supera … il 100% del PIL. E’ una piccola economia aperta il cui destino è totalmente nelle mani altrui. La domanda interna in Italia è ben più rilevante per l’andamento dell’economia ed ecco spiegato perché soffriamo così tanto di più per le stesse stupide politiche europee.

(detto questo, abbiamo anche la fortuna che se il mondo va male – e se facciamo politiche intelligenti - siamo meno esposti (anche se sempre molto esposti) dell’Irlanda a crisi economiche).

Il destino italiano e dell’Europa tutta, invece, è nelle nostre mani. E avere rinunciato a gestire il proprio destino è il crimine più grande di questi anni scellerati.

La responsabilità?

E’ duplice. E’ di tutti quegli stregoni, politici, europei e non, ed accademici, che ci hanno inculcato i loro tabù. Ed è nostra che non abbiamo il coraggio di unirci per sbarazzarci dei tabù mandando a casa tutti gli stregoni.

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Bergamo alta e le grandi PMI

Bergamo Alta, vista nella notte con in sottofondo il brusio dei tantissimi piccoli imprenditori che ci hanno invitato a parlare poco prima, in occasione dell’assemblea annuale di Apindustria e Confimi, la Confederazione dell’Industria Manifatturiera Italiana.

Copyright: Antonio Polito

Mi piace ascoltare il tono appassionato e tranquillo di Michele Tiraboschi, giuslavorista, che smonta pezzo per pezzo la retorica del fare, delle riforme del lavoro di questi anni, votate senza sentire le parti sociali, riforme rigide calate dall’alto uguali per tutti i settori dell’economia, con l’80% dei provvedimenti del decreto lavoro che non è ancora operativo, la cui realizzazione è là da venire, avviata dal centro e da mettere a punto a livello locale, dei regolamenti attuativi che mancano. Del ricordo di una Fornero per la quale “piccolo è brutto”.

Ascoltano gli imprenditori, i piccoli imprenditori venuti un po’ da tutte le parti del Nord-Est, Vicenza, Mantova, Bergamo …. Ascoltano e non tollerano che gli si dica dall’alto che “non ci sono più alibi” se ora non assumono personale, ora che forse hanno alcuni piccoli sconti sulle assunzioni, come se potessero assumere in questo quadro senza domanda interna e senza speranza.

Ma soprattutto parlano tra loro, del credito non c’è più. Sono d’accordo con me quando gli dico che a Draghi che ha detto che “non ci può essere ripresa sostenuta senza un sistema bancario sano” bisogna replicare che “non ci può essere un sistema bancario sano senza una ripresa sostenuta”!

Parlano tra di loro, dei loro valori. Li emoziona come emoziona il sottoscritto la mia slide dove c’è scritto “Piccolo è bello”. “Grande è brutto” mi dice uno di loro, “grandi che ancora non capiscono come lavorare con la catena di fornitura delle piccole”.

Dobbiamo cacciare la grande impresa dal Ministero dell’Industria (che bisogno ne ha la grande del Ministero?) o creare il Ministero della Piccola come chiedono i Viaggiatori in Movimento (anche se Antonio Polito trema al pensiero di chi possa esserne il sottosegretario): siamo tutti d’accordo.

Poi la sera la conversazione di fronte alla bellezza della notte con due lune come nei libri di Murakami si fa più preoccupata o più triste. A pensare a quelli che se ne sono andati per sempre, perché erano doppiamente preoccupati, per la loro situazione e per quella dei loro dipendenti e dei loro fornitori, amici, in realtà, con cui avevano condiviso una vita insieme. E a cui non tolleravano di procurare sofferenza.

C’è un’Italia forte e degna, davvero, che dobbiamo rappresentare. Lasciata sola, a se stessa, presto se ne andrà anch’essa. Chi a Roma, Bruxelles, Francoforte perora ottimismo, finto ottimismo, dovrebbe venire qui, a Bergamo, dove si toccano con mano le due lune, il sogno e l’incubo, dove i verbi che dominano sono “preservare, salvaguardare, tutelare, non abbandonare”, verbi forti, non in difesa, come parrebbe,  ma di chi chiede a questo Governo di attaccare, di schierarsi, di dire qualcosa. Qualcosa di forte. Che lasci una traccia, che alla fine vada bene o male è poco importante, ma che si provi a fare altro che non il mero triste sopravvivere.

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La comunicazione spuntata della BCE

Curiosa questa BCE.

Che ogni 6 mesi pubblica il report sullo stato delle piccole imprese europee. E che giustamente ci ricorda come il problema più pressante per le piccole imprese non è tanto il credito e l’accesso alla finanza (cerchio verde) quanto… la mancanza di clienti (cerchio rosso), dovuto – questa ovvietà la aggiungiamo noi - alla incredibile carenza di domanda interna europea. Eppure eccoci qua, tutti qua a leggere le parole del Governatore Draghi oggi al Parlamento europeo, che parla giustamente del grande problema delle PMI, che soffrono, ben più delle grandi imprese.

Bene. Ma qual è il loro problema? E che soluzioni propone Draghi?

Leggiamo: “... il difficile accesso al credito da parte delle PMI è un problema per gli investimenti e la crescita in parti dell’area euro, specie nei paesi in difficoltà“. E poi un susseguirsi di indicazioni di policy per curare questo male, comprese la fornitura di garanzie ed altre operazioni finanziarie mirate alle PMI.

La finanza? Il credito?

Forse c’è un errore: non è forse vero che la BCE ci ha detto che è la mancanza di domanda interna quello di cui soffrono le PMI? E veramente pensiamo che con maggiori garanzie le PMI riprendano a investire e crescere?

Per favore …

Senza domanda interna tutte le politiche che stimolano il credito sono inutili: le banche non prestano a nessuno perché nessuno vuole prendere a prestito. Tanto meno alle “rischiose” PMI.

Ma la BCE fa orecchie da mercante di fronte alle sue stesse considerazioni. Ed è ovvio, perché riconoscere la verità significherebbe chiedere maggiore domanda interna, ovvero maggiori spese pubbliche, nella forma di domanda di beni, servizi, lavori pubblici al settore privato, PMI comprese.

Solo così riusciremmo ad abbattere debito pubblico e disoccupazione. Una parola, quest’ultima, che Draghi non menziona mai nel suo discorso. Altro che BCE che ha “affinato la sua comunicazione”, come dice il suo Governatore. Una BCE che ha messo fine all’unica comunicazione che conta, quella che mette al centro le vere parole chiave per uscire dalla crisi.

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Il consulente per l’espatrio Gustavo Piga

Non vorrei scordarmi di quella importantissima cosa chiamata Università, al centro del “Programma per l’Italia” dei Viaggiatori in Movimento, scordata da tutti. Eppure solo le cattive notizie me la fanno ricordare. Leggere di Messina e dello scandalo universitario oggi sul giornale non fa bene. Ma è un’anomalia che non rappresenta il vero problema dell’Università italiana.

Il vero problema me lo ricorda molto meglio un mio studente appena tornato dall’estero, con una sua mail oggi. E’ una delle tante mail o delle tante conversazioni sul tema durante questi tempi bui. Mail e conversazioni e realtà che fanno sì che voterei per 50 anni di seguito chi risolvesse il problema.  Siccome nessuno la fa, nessun partito intendo, tanto vale continuare a spingere assieme ai Viaggiatori per ottenere la possibilità di farlo noi. Ecco cosa dice il mio (bravissimo) studente:

“… sono appena tornato da questo anno meraviglioso in Inghilterra, felice di essere di nuovo nel mio paese ma rassegnato all’idea di dover partire di nuovo in cerca di un futuro meno incerto. La ringrazio per avermi sostenuto ed incoraggiato a partire, è stata un’esperienza molto costruttiva. Non nego però che il contrasto tra il sistema universitario italiano e quello inglese è in alcuni aspetti deprimente. Le scrivo perché mi piacerebbe incontrarla di persona per darle un feedback sulla mia esperienza e per chiederle un consiglio/ aiuto per il futuro prossimo. Pensa di potermi dedicare 5 minuti questa settimana?”

Ecco, io lavoro come consulente per l’espatrio. Non ho più armi per trattenerlo. E’ bravo, se lo merita. Sono migliaia come lui. Migliaia. Nessuno, dico nessuno, nel Governo e nei partiti, lavora per loro e per il paese: per tenerli, esaltarne le caratteristiche e l’intelligenza, premiarli. E così generare idee, formazione di qualità per i giovanissimi, sviluppo culturale ed economico, pari opportunità.

E’ ovvio cosa dovremmo fare. Una rivoluzione potente e bellissima. E fattibile. Ma siamo bloccati, a pensare ad altro, a pensare all’Imu per i villini.

Io non mollo, mai, ma oggi lasciatemi stare.

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Il coraggio, dov’è?

Ecco stasera mi ricordavano che la politica industriale, specie nell’Italia delle piccole, o è per le piccole imprese o non è. Che le grandi sanno fare da sole.

Forse per questo due anni fa avevano approvato tra gli applausi in Parlamento lo Statuto delle Imprese, legge che riservava grande attenzione teorica alle piccole.

Che prevedeva, tra le tante cose mai applicate, che …

Il 30 giugno 2013 è passato e, come avvenuto con il Governo Monti nel 2012, invano: nessun disegno di legge è stato presentato  per la piccola, per la seconda volta. Monti mi confessò in televisione di non aver mai saputo che esistesse un tale obbligo di legge. Forse anche Letta lo dirà un giorno?

Sarebbe stata, la presentazione di questa legge, questa sì, ragione di esultare, altro che spiccioli europei come quelli appena ottenuti.

Ci vuole coraggio per fare le cose semplici; coraggio e persistenza; coraggio, persistenza e passione; coraggio, persistenza, passione e leadership.

Ma il coraggio, e tutto il resto, tutto ciò che non ci fa temere la sconfitta e l’andare a casa pur di cercare la vittoria e non la mediocrità, non il pareggio con melina, non s’inventa.

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Derivati come diamanti

Sia la Cassazione che il Tribunale di Milano si sono espressi in modo adamantino sull’argomento” dei derivati dei governi. Fabrizio Saccomanni, Audizione alle Camere del 3 luglio 2013.

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Adamantino è un termine usato per indicare le qualità tipiche del diamante in particolare la durezza e la purezza ma spesso trasportate anche sulle qualità morali di una persona come la fermezza, l’integrità o la irreprensibilità“. Wikipedia.

Aver scudo e corazza adamantina. Bisogna ben, che le percosse schivi” (Ariosto).

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E lei Ministro Saccomanni? Come si è espresso oggi? In maniera adamantina per integrità o per schivare le percosse? In attacco o in difesa?

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“Non vorrei apparire elusivo sul tema dei derivati”.

Lo è stato Ministro Saccomanni.

Ed ha perso una grande occasione per mettere al riparo l’Italia da ulteriori crisi di fiducia. Si è preso una grande responsabilità e non dubitiamo che ne sia conscio.

Perché ben altro lei voleva dire oggi nella sua relazione sui derivati. Ma ha finito per non parlarne. Come mai ha cambiato idea all’ultimo momento?

Ne ha parlato alla fine del question time, dopo il suo discorso, sollecitato dai parlamentari. Quindi, sulla difensiva. Addirittura ha tenuto la risposta ai derivati come ultima: mi ha ricordato un pugile all’angolo, sotto pressione, in attesa di essere salvato dalla campanella della fine dell’incontro. E salvato è stato. Ma non ha salvato il principio della trasparenza dei conti pubblici.

Addirittura ha detto che le clausole di “risoluzione anticipata”, quelle condizioni particolari che hanno riguardato costose ristrutturazioni del portafoglio derivati,  non sono “più presenti se non in misura minima”.

Peccato che solo pochi mesi il sottosegretario Rossi Doria aveva detto che “Per quanto riguarda, in particolare, la vicenda relativa alla Morgan Stanley, …  si fa presente che alla fine del 2011 e con regolamento il Ministero dell’economia e delle finanze, in data 3 gennaio 2012, ha proceduto alla chiusura di alcuni derivati in essere con Morgan Stanley (due interest rate swap e due swaption) in conseguenza di una clausola di «Additional Termination Event» presente nel contratto quadro (ISDA Master Agreement) che regolava i rapporti tra la Repubblica Italiana e la banca in questione. Tale clausola, risalente alla data di stipula del contratto, nel 1994, era unica e non presente in nessun altro contratto quadro vigente tra il Ministero e le sue controparti, e non è stato possibile, nel corso degli ultimi anni, rinegoziare la stessa. In virtù di tale clausola, si è proceduto alla chiusura anticipata di alcuni derivati con Morgan Stanley, regolandone il controvalore in 2,567 miliardi senza il coinvolgimento di terze parti.”

Unica e non presente? E come mai ora lei parla invece di “misura minima”? Quanto minima?

Lei dice che la trasparenza non è cosa per i derivati. Che nessun Paese è trasparente al fine di evitare comportamenti speculativi che potrebbero insorgere con troppa informazione. Non è vero. Paesi scandinavi pubblicano queste transazioni, con un ritardo (a fine anno i danesi) che permette di rendere irrilevante il fenomeno del “front-running” che pare preoccuparla, e che, nel mio libro nel 2001 sul tema, demolivo come una scusa che da sempre si oppone in maniera strumentale per non dare trasparenza, come mi dicevano gli stessi operatori di mercato che intervistavo.

Ministro lei promette, per fortuna, in chiusura al suo intervento, una maggiore trasparenza (ed una poco comprensibile “revisione della normativa”). Lo faccia subito. Non si faccia turbare da chi le dice che troppa trasparenza rivelerà transazioni passate che metteranno in difficoltà la reputazione del Governo italiano. Non  è vero. Se mai transazioni “anomale” furono fatte, lo furono quando erano compatibili con (non vietate da) la normativa europea. Da quando furono vietate siamo certi che il Tesoro si è adeguato alle nuove regole.

Quello che la deve turbare è di mantenere questo assurdo muro di gomma che fa male all’Italia, che fa presagire chissà quale segreto che non esiste, ma che anche i suoi silenzi ingigantiscono come un’ombra su quei muri di gomma, ombra gigantesca di figura in realtà ben più piccola.

La Corte dei Conti non ha le competenze per valutare questi portafogli dei derivati del Tesoro. Banca d’Italia e Tesoro hanno un conflitto d’interessi potenziale a farlo. Le do un consiglio. Alla University of Chicago esiste un grande economista italiano, bravissimo, che si occupa di derivati. Si chiama Pietro Veronesi. Lo chiami, gli dia un giusto compenso, gli faccia esaminare tutte le transazioni degli ultimi 20 anni e gli chieda di pubblicare una relazione indipendente. Nessuno più di lui potrà garantire la correttezza dell’informazione nonché la chiarezza interpretativa dato il contesto normativo dell’epoca.

Sarà, mi creda, una relazione, quella di Veronesi, adamantina, come un diamante. Gli italiani le saranno grati: la montagna partorirà un topolino e potremo finalmente  mettere un punto finale a questa pagliacciata che ci distrae da più di 10 anni e ci permetterà di concentrarci su quello che conta: combattere la disoccupazione, la sofferenza e la preoccupazione di tante famiglie in questa crisi economica.

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Dateci gli intoccabili nella spesa pubblica

Si riparla di centralizzazione degli acquisti. E di Giarda successore di Bondi, a capo della struttura della razionalizzazione della spesa pubblica.

Io non credo che Giarda, persona stimatissima, sia la persona giusta. C’è bisogno di forze nuove, capacità organizzative e giovani, con conoscenze operative ed ispettive. Lasciate a casa il bravissimo Giarda e trovate piuttosto 100 persone, strapagate, da dedicare al compito di monitorare gli appalti pubblici e la loro qualità. 100 persone nuove, che non abbiano mai lavorato presso la Ragioneria Generale dello Stato, ormai troppo cinica e vecchia per combattere con passione questa battaglia, malgrado l’arrivo del bravo Daniele Franco come nuovo Ragioniere dello Stato. 100 persone competenti e toste, statistici, poliziotti, merceologi, tecnici e periti. 100 persone lontane dalle stanze piene di polvere dell’Autorità dei Contratti Pubblici che non sa fare questo di mestiere.

Chiamateli gli Intoccabili.

E per favore non fate la centralizzazione degli acquisti. Ucciderebbe le piccole imprese e non garantirebbe il risparmio di spesa. Malgrado Consip sia tra le migliori stazioni appaltanti che l’Italia abbia mai avuto, e vada rafforzata, il suo merito non sta nella centralizzazione ma nella competenza del suo staff e nei benchmark che crea per altre stazioni appaltanti. Senza scordare, per esempio, che anche il suo mercato elettronico per gli acquisti sotto soglia è stato apparentemente violato da accordi corrotti tra fornitori e acquirenti pubblici che usavano la piattaforma, a scapito del prezzo finale del bene o servizio pagato dal cittadino contribuente. Consip non può monitorare questi abusi e reati.

Per vincere la battaglia degli sprechi negli appalti pubblici, c’è bisogno di centralizzare i dati delle gare, non le gare! Che il Comune di Milano continui ad avere autonomia, ma che tutto quello che fa sia obbligatoriamente gestito da e disponibile su una piattaforma on line comune per tutto il Paese, dove immediatamente sono visibili gli scostamenti di prezzi, immediatamente calcolabili le quantità acquistate in funzione della dimensione dell’acquirente pubblico, facilitando anche la scoperta di cartelli tra imprese su più gare, più territori, nel tempo. Magari scoprendo anche che quei cartelli si reggevano grazie alla complicità di funzionari corrotti, come è spesso il caso.

Come diceva Sean Connery a Kevin Costner in una delle scene più belle del film degli Intoccabili: “E adesso, cosa sei disposto a fare?”.

Caro Presidente Letta, cosa sei disposto veramente a fare sulla spesa per acquisti di beni, servizi e lavori? Non ritocchi di facciata, ma vera rivoluzione organizzativa? Tutti sanno cosa va fatto se veramente vogliamo cambiare il Paese. Avanti!

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Mai commettere due volte lo stesso errore

Le recenti previsioni del Centro Studi Confindustria (CSC) sono più positive sul futuro dell’Europa e dell’Italia. Molto dipenderà, come al solito, dal resto del mondo, avendo l’Europa deciso masochisticamente di rinunciare a stimolare la domanda interna. Una crisi inattesa fuori dai confini europei ed ecco che tutto crollerebbe, perché siamo con questa logica nelle mani altrui.

Ma al di là di ciò, le previsioni dei vari istituti di ricerca differiscono marcatamente, prevedendo per il 2014 da un -0,6% (Citigroup, nel qual caso avremmo il terzo anno di recessione consecutiva, mai sinora conosciuta nel dopoguerra) ad un massimo di +0,9% di Deutsche Bank. Differenze enormi.

A cosa sono dovute queste variazioni di previsione? A diversa visione di come funziona l’economia? A maggiore o minore competenza? A maggiore o minore necessità politica di stare vicini alle stime governative? Non è dato sapere.

Ma la ottima pratica del CSC di riportare, ogni anno, assieme alle proprie previsioni quelle altrui ci permette di fare un giochino un po’ azzardato. E cioè di tornare indietro di un anno e di esaminare nel giugno del 2012 che previsioni gli stessi uffici di ricerca fecero per il 2013, la cui crescita oggi possiamo stimare con quasi certezza. In realtà non siamo ancora certi di come finirà il 2013: per esempio il CSC dice con un bel meno 1,9% mentre la Commissione Europea si tiene su di un più … ottimistico meno 1,3%. Diciamo allora che, senza prender partito, la crescita del 2013 sarà del -1,6%.

Ma nel 2012, a giugno, a quanto veniva stimata la crescita 2013?

Beh, c’era chi come Citigroup c’è andato molto vicino con un pizzico di pessimismo in più (-2%), e chi come l’Istat, secondo i dati del CSC di allora, stimava troppo ottimisticamente un +0,5%.

Ecco allora cosa abbiamo fatto. Abbiamo applicato (prendendoci qualche licenza, lo so) l’errore fatto da ogni istituto di previsione allora nel 2012 sul 2013 alle stime fatte ora nel 2013 per il 2014. Quindi, per esempio, se la sempre pessimista ma lo scorso anno accurata Citigroup ha stimato ora per il 2014 il -0,6% e lo scorso anno è stata troppo pessimista nel 2012 del -0,3%, allora diremo che dovremo aspettarci una crescita per il 2014 a partire dal modello Citigroup del -0,3%. La Commissione europea che si aspetta per il 2014 per l’Italia un +0,7% e lo scorso anno fece un errore di ottimismo di ben 1,2% (rispetto a -1,6% effettivo per il 2013 stimava invece -0,4%)? Allora noi crediamo che in realtà il suo modello dica che la crescita italiana del 2014 sarà di -0,5% (+0,7-1,2).

Nella tabella vedete riassunti i risultati.

Insomma, da una forchetta “apparente” sul PIL 2014 che va da -0,6 a +0,9, se tanto mi da tanto, dovremmo aspettarci invece tassi di crescita 2014 tra il -0,3 di Citigroup (che da più pessimista diviene la più ottimista!) al -2,1% dell’Istat.

Ovviamente gli istituti di ricerca che sbagliano nelle loro previsioni dovrebbero affinare i loro modelli e non commettere più due volte lo stesso errore (aspettative razionali le chiamavamo ai miei tempi a Columbia): in tal caso la mia logica si dimostrerà errata.

Ma se negli istituti di ricerca prevalgono i bias politici o modellistici, le distorsioni permarranno. Ed allora ecco che i numeri corretti che vi propongo dipingono un quadro tutt’altro che roseo per il nostro Paese, anche in presenza di crescita dell’export mondiale.

Sarebbero stime , quelle che leggiamo in questo periodo, che agiscono come droghe, per assuefarci all’idea che tutto andrà bene l’anno prossimo, così facendoci perdere un altro anno di benessere nazionale perché “tanto non c’è bisogno di fare le politiche di rilancio di domanda interna” che sappiamo invece servire?

L’avete detto voi, mica io.