Ogni dove. Ogni dove vado. Sempre la stessa storia. Le riforme, nel lungo periodo, cureranno tutto. Il problema dell’Italia è un problema strutturale, dalle radici lontane, bisogna fare le riforme, e pazientare.
Basta vedere i dati dell’Ocse, l’Italia ultima tra paesi Ocse tra 2001 e 2011 quanto a crescita del reddito reale pro-capite. Un dato disastroso: gli unici ad avere crescita negativa, gli italiani. Negativa.
Eppure questo dato è irrilevante. Irrilevante. Perché il lungo termine in un certo senso, deve in questo momento divenire irrilevante, passare in secondo piano. Come per un malato colpito da un infarto non interessa sentirsi dire della dieta che dovrà fare per ridurre in futuro la possibilità di altri infarti.
In realtà non è esattamente così. Ma per ora, per far tacere i teorici delle riforme, diciamo così.
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Ecco il mio ragionamento. Soprattutto ecco le mie assunzioni, i miei giudizi di valore, che lo sottintendono.
“Chi non è al tavolo, è sul menu”. Mi rimbomba questa frase del mio collega catalano Jordi Vaquer da quando l’ho ascoltata a Creta. Nella mia testa, rimbomba, e spiega perché oggi la politica domina sull’economia, perché l’euro è essenziale (“un divorzio non ci fa tornare fidanzati, un divorzio è un divorzio”) per non fermare un progetto geopolitico e umanistico europeo che c’è nei dettagli burocratici e manca totalmente nelle ambizioni, nel coraggio e nei dettagli psicologici, e perché dunque per non uccidere il progetto europeo dobbiamo uccidere la recessione.
Questo mostro, la recessione, è l’unico fattore economico che prevarrà sulla politica, forzando alcuni governi a uscire dall’euro: perché capro espiatorio perfetto e perché l’uscita sarà momentanea morfina ad un dolore insopportabile.
Chi crede nell’eurobond come soluzione, nella voglia dei tedeschi di solidarizzare con tale dolore trasferendo risorse al “Sud” dell’area euro, illude la gente, come la illude proponendo riforme. Anzi mostra di non avere capito cosa sia una unione monetaria: una precondizione di dialogo per arrivare un giorno, ma non oggi, ad una unione fiscale. Non è vero che i tedeschi non sanno fare unioni monetarie: ne hanno fatta una, grandiosa e solidale, pochi decenni fa. Con chi ritenevano essere i loro cugini di primo grado, se non fratelli. Quello che noi non siamo per i tedeschi, quello che i tedeschi non sono per noi. Tra cinque generazioni, lo saranno. Se manteniamo intatto il progetto, se combattiamo la recessione.
Riassumendo: 1) non c’è tempo e 2) si deve uscire dalla recessione senza solidarietà esterna.
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Ma di solidarietà, interna, ce ne sarà bisogno, per ridurre la tentazione di uscire dall’euro e fermare per decenni l’Europa. Solidarietà interna e ripresa rapida si ottengono tuttavia in un solo modo: con una combinazione perfetta e attenta di politiche macroeconomiche credibili e di riforme giuste.
Perché se c’è una cosa che sappiamo dell’austerità è che ha combinato esattamente l’opposto: politiche macroeconomiche non credibili, vorrei dire incredibili, e riforme sbagliate.
Le politiche macroeconomiche dell’austerità non sono state credibili nel senso letterale del termine: non erano credibili agli occhi di chi le raccomandava, come ci testimoniano le confessioni quasi postume del Fondo Monetario Internazionale sulla Grecia e sulle politiche forzate dalla Troika. E come mostra bene Roberto Tamborini, non credibili agli occhi dei mercati. Sono stati imbarazzanti gli errori nelle previsioni della Commissione europea, dell’Ocse, della Banca d’Italia, del Tesoro. Imbarazzanti ed incredibili. Non credibile sbagliare di così tanto le stime di crescita del PIL in così poco tempo. Così tanto che non è questione di modello di previsione sbagliato, è questione di aver voluto piegare i modelli econometrici alle esigenze politiche di chi credeva nelle virtù dell’austerità. Un falso in bilancio? Certamente, ma accompagnato da un falso democratico, di mancata rappresentanza politica volta a sostenere le esigenze reali delle persone.
Ad esse si sono accompagnate le riforme sbagliate, quelle che hanno contribuito alla recessione. Sono state di 3 categorie: quelle inutili (i taxi a Roma quando nessuno in recessione prende i taxi) costose perché hanno fatto perdere tempo e consenso ai politici; quelle dannose (le riforme Fornero su lavoro e, sì, anche su pensioni) perché oltre ai costi di cui sopra hanno aumentato la paura e la mancanza di fiducia nel futuro di imprese e famiglie, deprimendo la domanda e le assunzioni dei giovani; quelle sempre strombettate e mai attuate nella sostanza (anti corruzione, pagamenti dei debiti della P.A., spending review sugli sprechi).
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Quali sono le politiche macroeconomiche credibili? Non quelle che passano per la ripresa del credito prima di tutto (perché le banche non vogliono prestare a chi non vuole prendere a prestito, come avviene in questa crisi da domanda). Quelle che ammettono, come fa il Fondo Monetario Internazionale, che trattasi di attivare politica economica espansiva. Perché i moltiplicatori della spesa privata derivanti dalla politica economica espansiva esistono e sono attivabili rapidamente. Ma quale politica espansiva? Quella, appunto, credibile, intesa come capace di far crollare gli spread e non complicare piuttosto che rimuovere l’agonia. Come in Giappone, se questo Paese continuerà con convinzione.
Non aspettatevi troppo dalla politica monetaria europea espansiva: essa è inefficace (i tassi sono vicini allo zero e la deflazione non è ancora arrivata), contraddittoria (è condizionata all’accettazione di un piano di … austerità, differenza chiave col Giappone), ineguale (basta leggersi chi è andata a beneficiare negli Usa: il top 1% nella scala dei redditi, secondo il Washington Post).
E’ inevitabile che la responsabilità piena se la deve prendere dunque la politica fiscale espansiva. Ma deve essere credibile, cioè capace di far scendere gli spread. Per esserlo deve soddisfare tre condizioni:
a) Deve essere coordinata a livello europeo: di più (espansivi) i tedeschi, un po’ di meno noi (così risolvendo anche squilibri di bilancia dei pagamenti senza imporre all’area dell’euro Sud una deflazione che ci ucciderebbe);
b) Deve essere controciclica: e con ciò non intendo l’ovvio, ovvero che deve essere espansiva ora, ma che deve essere restrittiva domani, quando saremo usciti dalla crisi. I mercati devono sapere che quando il sole tornerà a splendere non si giocherà più come dei bambini golosi con la marmellata, e che si metteranno piuttosto in cascina le risorse per una possibile nuova crisi domani.
c) Deve essere calibrata: in Italia niente riduzione di imposte ora, inutili a stimolare una domanda di famiglie ed imprese paralizzata, non un aumento di spesa a casaccio che spaventerebbe comunque, ma un aumento di spesa basato sul taglio degli sprechi, che spesa e domanda pubblica non sono e non aiutano l’occupazione. In Germania i gradi di libertà sulla sua composizione sono maggiori.
Domani, col bel tempo, si potrà lottare contro l’evasione e abbassare permanentemente la pressione fiscale a parità di qualità di servizi pubblici.
Ad essa, alla politica macroeconomica europea credibile, vanno legate le riforme, quelle giuste, che stemperano i dolori causati della recessione e possono riattivare più rapidamente la fiducia delle persone.
Non trattasi dunque della mera, ed essenziale, spending review vera che è determinante per il punto c) sopra. Si tratta dei crediti da rimborsare tutti e subito alle imprese, specie le più piccole che non hanno aiuti dalle banche, si tratta del servizio civile del nostro appello, per 1000 euro al mese per 1 o 2 anni in cambio di lavoro nei gangli vitali della nostra Pubblica Amministrazione così vecchia, stanca, incompetente rispetto al mondo che cambia, corrotta dal cinismo. Si tratta anche di ridurre e da subito alcune regolazioni insopportabili ed inutili che sfibrano maggiormente le piccole delle grandi nel momento peggiore della loro storia aziendale.
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Ho iniziato dicendo, basta col lungo periodo. Lo credo fortemente, oggi.
Ma senza dimenticare che quello che oggi dobbiamo fare per il breve periodo deve ancorare solidamente al terreno sociale una aspettativa di un futuro migliore, deve generare ottimismo, sicurezza, tranquillità, speranza. Per questo in fondo, una politica per il breve come quella descritta sopra, se ben congegnata come descritto sopra, è una politica di lungo periodo, per il nostro avvenire. Il progetto europeo a quel punto, e solo a quel punto, seguirà, docile e felice.
Estratto da intervento a Convegno Internazionale di Economia Reale, “Quo Vadis?” Roma, 7 giugno 2013, Tempio di Adriano, Roma.