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L’alibi ed il tango

“E ora le imprese non hanno più alibi per non assumere i giovani”. Così avrebbe detto Enrico Letta ai giornalisti a Bruxelles dopo l’esito del vertice che ha visti stanziati (un po’) di fondi addizionali per i giovani. Operazione di successo negoziale, senza dubbio, anche grazie all’attenzione data al problema della disoccupazione giovanile dal nuovo Ministro del Lavoro: chiedetevi se con il precedente capo del Dicastero, che sul problema non aveva mostrato sensibilità così ampia, avremmo ottenuto un risultato identico.

Eppure l’alibi delle imprese è di ferro. Come domandargli di assumere, giovani e non giovani, in un clima recessivo come questo? Senza speranza per l’andamento dell’economia dei prossimi 12-18 mesi, difficile che in un’economia di mercato si sentano “obbligate” a farlo.

In questa economia in cui la mano invisibile troppo visibilmente è scomparsa, affetta da sfiducia e timore, come durante il New Deal americano degli anni 30, c’è bisogno della mano visibile della domanda pubblica. Anche di lavoro.

Ecco perché è una vera e propria follia che l’Europa si rifiuti di permettere di utilizzare queste sacrosante risorse stanziate anche per un servizio civile pubblico dedicato ad assumere temporaneamente, per non più di un biennio, giovani disoccupati e scoraggiati nei gangli della Pubblica Amministrazione così che non perdano ulteriormente fiducia, speranza, competenze. E anzi ne trasmettano, di fiducia, ad un settore pubblico vecchio e cadente.

Leggete i giornali? Leggete delle risorse disponibili per Colosseo e Pompei? E non vi pare naturale mettere in divisa tantissimi ragazzi affinché possano aiutare a far rivivere questi capolavori europei, grazie alla loro capacità ed energia, così da sorvegliare, promuovere, sostenere le necessarie attività di gestione che questi richiedono? Sarebbe probabilmente possibile anche chiamare a raccolta i disoccupati di altri Paesi, tanto alta dovrebbe essere la sensibilità europea sulla salvaguardia di queste meraviglie.

Abbiamo paura, paura, paura di sognare. Temiamo che questi giovani poi chiedano un lavoro a vita, siamo diffidenti, cinici, non sappiamo generare in noi prima che in loro nemmeno una goccia di entusiasmo. Eppure sarebbe così facile. Basterebbe dirlo non a voce alta non sbattendo i pugni, ma così, con un tango.

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Italian and European public derivatives: time to go public

Several foreign journalist are calling me to ask for an interview, on the issue of the use of derivatives by the Italian government.

I have nothing to tell them.

For a basic simple reason. That I don’t know what to tell them, because I have no idea of where Italy stands in its management of its derivative book. Nor, for that matter, do I know what does the ECB know about the infamous Greek derivative transaction with Goldman Sachs in its possession, since, starting with Trichet and continuing with Draghi, it has resisted a fierce and commendable battle for the freedom of information by press agency Bloomberg News.

The European authorities are to be blamed for this lack of information to the public that has been going on for more than a decade now and is responsible not only for contributing decisevely to the Greek crisis, but at least also for many crises in municipalities and for the reckless behavior of some banks (Monte dei Paschi being one) that felt that since the ECB hides its knowledge of derivatives so could it do the same, destroying in the process shareholders’ value.

It would take a simple European decree that would make transparency on derivatives mandatory and everything would fall into place.

Italy has nothing to hide: its operations before murky off-market rate swaps were forbidden, at the end of the first decade of this century, were by definition legal. Mr. Letta and Mr. Saccomanni should announce worldwide that all the Republic’s derivative contracts are to be found on the Treasury’s website and that from now new contracts will be posted on the same web after 1 month of their signing.

Yes, maybe (but we are yet to discover them, so forgive the vagueness of this) for a few days the Italian government’s boat will rock over high waves of European indignation. But that will not last. First because Italy’s powerful Prime Minister’s office will remind everyone  that France and Germany have done some creative accounting too over these euro years. Secondly, because the transactions were cleared by Eurostat at the time.

The advantage of coming … clean?  Oh, peanuts. Mr. Letta will end up not being hampered anymore, when negotiating in Brussels to kill austerity, by the accusation of sitting over an explosive bomb that is instead only the fruit of some public debt mismanagement of the past. And markets may learn that after all the big mistery of the Italian derivatives was way overstated.

At that point, it might well be that even the enlightened ECB may find it useful to reveal its own secrets on the Greek deal and, in so doing, end up helping euro financial markets regain the credibility that they lost with investors worldwide by making lack of transparency an overriding principle of European financial affairs.

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Errata Corrige, il mio errore e le mie scuse

Sul mio post in italiano sui derivati di oggi, ho cancellato pochi minuti fa un mio riferimento alla maggiore competenza dei giornalisti del Financial Times rispetto a quelli di Repubblica nel riportare sulla materia in questione.

Era un commento sbagliato ed ingiusto e mi scuso con la testata Repubblica e soprattutto con l’autore dell’articolo di Repubblica, Andrea Greco.

Era un commento sbagliato nella forma e nella sostanza. Nella forma, perché irrilevante rispetto alla materia trattata, questa sì di grande rilevanza, dei derivati dei governi europei. Nella sostanza, perché l’articolo di Greco non solo è buono ed accurato, ma rappresenta uno dei pochi pezzi giornalistici che la stampa italiana ha avuto il coraggio di scrivere con indipendenza e fiuto giornalistico in questi ultimi 10 anni sul tema.

Perché allora ho scritto quella frase? Per un amore personale che ho da sempre per il modo in cui gli inglesi scrivono i loro articoli: secchi, diretti, subito al punto delle cose. Ma che non mi impedisce di solito di apprezzare anche lo stile giornalistico italiano quando tocca materie importanti e delicate con coraggio. Questa volta non l’ho fatto e, di nuovo, chiedo scusa agli interessati, e anche ai miei lettori.

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La mia verità sui derivati? Macché. La verità, punto e basta.

Il libro sui derivati dei governi, tutti a chiedermelo. Di nuovo. Lo trovate su questo blog, ma è irrilevante leggerlo, vi assicuro.

Lo cominciai a scrivere nel 1999, lo terminai nel 2001. Sono passati quasi 12 anni dalla sua pubblicazione. In esso non accusavo nessun Governo in particolare, nessuna banca in particolare. Facevo l’esempio di una transazione finita casualmente nelle mie mani per chiedere ai governi di tutta Europa, ma soprattutto alle istituzioni di supervisione europea (BCE, Eurostat, Commissione) di darsi da fare per fare una regolazione che impedisse particolari transazioni in derivati da parte dei Governi, del tutto legali all’epoca, ma assolutamente improprie per la maniera in cui venivano (legalmente) contabilizzate.

Ci misero 7 anni, con il folle caso Grecia- Goldman Sachs di mezzo, per adottare una decisione che, fosse stata presa subito, avrebbe evitato tanti danni al nostro Continente.

Eppure.

Eppure la faccenda non pare terminata. Essa si trascina e regolarmente cattura le fantasie di giornalisti inglesi ed italiani ogni tot anni, ora addirittura ogni tot mesi. Si mormora al complotto britannico contro l’Europa, contro l’Italia.

La verità è che l’Europa e l’Italia sono i veri colpevoli, ma non per averli fatti questi derivati, ma per il consentire che questa faccenda continui a trascinarsi, a 12 anni e più dalla sua nascita.

Le vere colpe di Draghi non sono quelle dell’epoca per aver autorizzato transazioni, ripeto, del tutto legali, prima dell’ingresso nell’euro. Le colpe di Draghi, che ripetono quelle del suo predecessore Trichet, sono quelle derivanti dai più recenti dinieghi di trasparenza di fronte alle giustissime richieste di una coraggiosa agenzia di stampa, Bloomberg, di rivelare i contenuti della transazione tra Grecia e Goldman Sachs, di cui è in possesso. Vecchia di anni, eppure ancora terribilmente segreta. Così facendo la BCE ingigantisce a dismisura le fantasie di chi pensa a chissà quale complotto, rendendo il mercato finanziario europeo debole quanto a trasparenza e credibilità.

Anche il Governo italiano, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, da 12 anni non riesce a scrollarsi di dosso questa pulce, questa zanzara, questo fastidioso moscerino. Lo ingigantisce con i suoi comunicati stampa che dicono “abbiamo fatto tutto correttamente, ma non vi diciamo cosa abbiamo fatto”, paradossali errori di banale comunicazione.

Eppure sarebbe così semplice. La BCE, il Tesoro italiano, pubblicano tutto. Il passato, il presente, e si impegnano per il futuro a rendere note tutte le transazioni in derivati che faranno in ogni dettaglio. Come fa da sempre la Svezia, il più attivo tra gli emittenti sovrani in derivati, perché usare i derivati può essere una ottima strategia. Purché qualcuno sorvegli. E quel qualcuno non può essere la Corte dei Conti che non ha necessariamente le competenze per esaminare contratti complessi, ma tutti i cittadini.

Pubblicando tutto, tutti vedremo e ci saranno 7-8 giorni di buriana mediatica europea assolutamente gestibile (in fondo ricorderemo a  tedeschi e francesi dei loro trucchi contabili, vendite di sottomarini ai greci comprese) e poi tutto finirà. PER SEMPRE.

Finiranno i Monte dei Paschi che si sentono legittimati a fare porcai con i derivati perché “tanto nessuno li può sgridare troppo” perché “anche la BCE nasconde tutto”. Finirà l’indebolimento dei nostri Presidenti del Consiglio oggi in Europa per questioni serissime di sviluppo che vedono la loro posizione negoziale indebolita per assurde ed irrilevanti questioni di lana caprina.

Su, su Ministro Saccomanni, su Presidente Letta. Un po’ di coraggio. Vedrete che sarà nel vostro stesso interesse. Nessuno sarà crocifisso ed il Paese sarà liberato da un incubo che dura da troppo tempo.

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Lo struzzo europeo tiri fuori la testa dalla sabbia

Enrico Spolaore era mio compagno di banco all’università alla Sapienza. Era bravissimo, un secchione dicevamo noi, ma eravamo invidiosi. Si è laureato prima di me con quello che è stato anche il mio relatore, Mario Arcelli, ed è subito scappato in America a mietere successi. Al contrario di me non è più tornato; insegna alla ottima Università di Tufts vicino a Boston, ma ha conservato, al contrario di tanti colleghi rimasti negli Stati Uniti, una genuina passione per tematiche politiche che riguardano da vicino l’Europa, la sua Europa.

Ripercorrendo il suo ultimo lavoro sulle ragioni dello sviluppo dal dopoguerra della struttura istituzionale europea ho trovato utili suggerimenti per cercare di meglio comprendere come andare avanti in Europa senza far morire tutto.

Difficile andare avanti a tutti i costi. Spolaore ricorda di quando Tomaso Padoa Schioppa giocava sulla parola EMU (l’animale simile allo struzzo che non sa camminare all’indietro e l’acronimo dell’unione monetaria europea in inglese) per sostenere che eravamo destinati a non fare mai passi indietro. E di un Kohl che convintamente affermava come “è assurdo aspettarsi che nel lungo termine potremo mantenere una unione economica e monetaria senza una unione politica”, frase che a rileggerla oggi qualcuno potrebbe replicare “assolutamente, così assurdo che non riusciremo a mantenerla!”, convinto com’è che l’unione politica sia impossibile.

Spolaore ricorda come la storia della nostra integrazione europea ha visto il costante contrapporsi, e anche una sorta di alterna dominanza, di due correnti di pensiero: da un lato gli intergovernamentalisti, che pretendono che siano i governi nazionali a condurre le danze e le istituzioni sovranazionali a doversi piegare ai loro desideri, e dall’altro i funzionalisti, che credono che l’integrazione sia spinta piuttosto da élite e gruppi d’interesse che trascendono i confini nazionali. Monnet negli anni 50, con la CECA, e Delors negli anni 80 e 90 con, appunto, l’Unione Economica e Monetaria europea sono i personaggi di spicco che hanno dato successo, nella pratica, alla teoria funzionalista. L’Europa, per i funzionalisti, sarebbe nata da una serie graduale di cessioni di potere al centro su un numero crescente di materie, via dai governi nazionali, movimento che dovrebbe autosostenersi a quel punto grazie alla crescente convergenza culturale generata dal crescente peso di istituzioni europee.

I successi degli intergovernamentalisti però non sono stati pochi. La spuntano quando il Presidente francese De Gaulle, durante la “crisi della sedia vuota”, boicottò le istituzioni europee in opposizione alla domanda di maggiore integrazione. Il compromesso lussemburghese del 1966 in cui de facto ogni stato membro acquisì potere di veto su importanti questioni di interesse nazionale segnò il culmine del successo appunto degli intergovernamentalisti. La morte del Patto di Stabilità nel 2004 per mano di francesi e tedeschi segna un altro momento chiave, ma Spolaore ricorda anche il crescente ruolo in Germania che va oggi assumendo la giurisprudenza tedesca con la dottrina della Corte costituzionale  dell’accettazione condizionale delle norme europee, che devono dimostrarsi coerenti con i princìpi fondamentali tedeschi.

Segni recenti, segni che il  movimento funzionalista, basato sulla convergenza culturale a seguito dell’integrazione, ha il fiato corto proprio a 10 anni dalla costruzione dell’euro, apparentemente il suo più grande successo. L’unione bancaria stenta, l’unione fiscale è impossibile, così come una costituzione europea, già rigettata nel 2003. La crisi economica, spesso considerata dai funzionalisti uno strumento per rilanciare il processo di integrazione e sottrarre sovranità agli Stati membri, pare piuttosto esaltare ora la possibilità di disintegrazione.

Spolaore correttamente individua nella crescente eterogeneità dei costi di ulteriori aumenti di cessione di sovranità la causa prima di questo rallentamento della progressione funzionalista. Prendete ad esempio il successo della creazione del mercato unico, avvenuto abbattendo il protezionismo commerciale interno all’Europa: esso ha generato vantaggi simili per tutti gli Stati membri (malgrado vi fossero costi per specifiche categorie di persone/imprese, ma presenti in ogni Paese) anche grazie alla diversificazione produttiva tra di loro (se tutti avessimo prodotto lo stesso bene, abbattere le barriere protezionistiche probabilmente avrebbe dato vantaggi molto forti per quegli Stati più bravi a produrre quel bene e danni alti a quelli meno bravi ed è probabile che le barriere protezionistiche sarebbero rimaste, come è stato il caso dell’agricoltura in Francia).

Ecco spiegata l’impasse attuale. Fatto l’euro, la crisi che in esso conosciamo deriva dall’impossibilità di procedere ulteriormente con crescenti cessioni di sovranità come vorrebbero i funzionalisti. Al contrario del caso del mercato unico, non esiste una politica unica che faccia bene a tutti. Le riforme deflazioniste chieste dalla Commissione fanno male al Sud, le politiche espansive chieste dal Sud sono rifiutate da Commissione  e Germania. C’è troppa differenza tra Stati membri per poter proseguire nel creare istituzioni europee senza mettere a rischio l’euro e dunque il progetto europeo, tramite l’uscita dalla valuta comune di uno o più di questi.

Spolaore afferma che “forzare la mano” continuando ora con una unione fiscale sarebbe una mossa comunque suicida: “faccio fatica a vedere come una unione politica basata su tali precondizioni possa costituire un avvio solido per una federazione europea; sarebbe altamente improbabile che tale unione politica possa far scattare quei cambiamenti culturali positivi che sono la sola fondazione sostenibile per una federazione coesa nel lungo periodo”.

Per Spolaore la soluzione è di procedere per piccoli passi, per esempio con una unione bancaria. Ed è solo in questa sua conclusione che non mi ritrovo, semplicemente perché i piccoli passi non portano da null’altra parte che inevitabilmente verso il burrone dell’addio all’euro.

E’ dunque tornato il tempo degli intergovernamentalisti? Il paradosso è che, a questa tornata, neanche loro se la passano bene. Perché in presenza di interessi nazionali così divergenti, la scelta di ogni Paese di “lasciare vuota la poltrona” o porta all’inazione (derivante dal potere di veto di chi si alza e dice no) o porta alla separazione. Comunque alla morte dell’euro e dell’Europa.

Siamo a quel punto del guado del fiume, a metà diremmo, dove nessuno si salva da solo, ma dove l’abbraccio del debole al compagno forte per sopravvivere rischia di far affogare ambedue.  Non possiamo tornare indietro, non sappiamo come andare avanti: lo struzzo emu è paralizzato, la testa sotto la sabbia.

Gli economisti chiamano queste situazioni instabili degli “equilibri multipli”. In essi piccoli ed impercettibili avvenimenti ci possono condurre casualmente verso la salvezza o la morte; oppure vi potrebbero essere “ondate di ottimismo (o pessimismo)” che possono fornire quella spinta ad atterrare in una situazione (la salvezza) piuttosto che un’altra (la morte). Tipicamente queste ondate si propagano influenzando le aspettative delle persone, nel bene o nel male. E la leadership esercita un ruolo fondamentale, potete ben immaginare, in tal senso.

Una leadership europea, che sappia ridare fiducia alle aspettative della gente d’Europa, non deve promettere più e nuove istituzioni, né si deve arroccarsi in difesa dell’interesse nazionale. Deve cercare un interesse europeo e lo deve difendere rappresentando le preferenze di tutti, Nord e Sud.

L’unica via che vedo è quella di sempre: una leadership che dia immediata solidarietà ora, smettendo di parlare di fredde regole del 3% del PIL o di pericolo di inflazione, facendo cessare l’austerità e la voce di istituzioni “fredde” come la Commissione europea e la BCE attuale, in cambio di un solido progetto di riforme comuni europee su valori essenziali, ponendo al centro ad esempio quello che ci rende, a noi del Sud, giustamente insopportabili di fronte all’Europa del Nord; facendo cessare con un no profondo e convinto sprechi, corruzioni, Mafie, anche grazie all’aiuto dell’esercito di pubblici officiali del Nord.

L’alternativa? L’ondata di pessimismo, che ci farò annegare tutti a noi europei, e, male minore, a tutte le teorie politiche sull’Europa.

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Lo spreco è negli appalti, non nelle province

Si può essere in disaccordo con l’ultimo articolo dell’adorata coppia A&G sul Corriere? Ma no, è vero, questo Governo non intende cercare nella spesa sprecata le risorse.

Che poi A&G li vogliano usare per finanziare la minore tassazione ed io la maggiore spesa non sprecata non deve far sfuggire il punto principale: questo Governo non intende cercare nella spesa sprecata le risorse.

Ma dai, cerchiamo il pelo nell’uovo che tanto pelo non è: A&G sembrano non conoscere cosa sia la spesa per appalti. Mentre pensano che l’abolizione delle Province sia questa grande rivoluzione generatrice di risorse (come se i dipendenti delle Province non dovrebbero poi trovare lavoro altrove nel settore pubblico) che in realtà è mera somma di briciole, non menzionano nemmeno quell’enorme aggregato – di sviluppo e al contempo di spreco aggredibile – degli appalti pubblici che rappresenta in Italia solo … il 15,9%, del PIL (in verde cerchiata).

Ben al di sotto di Europa e Germania, cerchiate in rosso. Ma se soltanto … investissimo in raccolta dati, monitoraggio e verifiche, professionalità della funzione degli acquirenti pubblici … otterremmo un bel 20% di taglio di sprechi, 3% di PIL; 50 miliardi di euro, il cui taglio non sarebbe recessivo.

50 miliardi da usare a quel punto in ottima e vera domanda pubblica di appalti che generano produzione ed occupazione.

Peccato che A&G ignorano tutto ciò. Ma ancora più peccato che il Governo Letta sembra assolutamente indifferente a tutto ciò.

Grazie a Simone Ricotta.

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Dateci soluzioni, non polemiche da tre soldi

Ho letto sul Web (nella sua versione inglese, scusate la mia traduzione che può discostarsi dal testo in italiano pubblicato sul Sole), più che con attenzione, con stupore e una certa dose di stizza, un articolo di una persona che stimo anche come economista, Roberto Perotti.

Che ripete all’inizio qualcosa che va già dicendo da tempo, ovvero che “le tecniche statistiche da noi (Alesina e Perotti) utilizzate” per affermare che i tagli della spesa pubblica stimolano l’economia “erano sbagliate”.

Un gesto apprezzabile, lo ripeto nuovamente.

Ora, fatta questa confessione la domanda chiave che mi pare ovvio rimanga aperta e a cui si debba cercare di dare una risposta è: “e ora”? Qual è la strada più giusta da perseguire per lenire la sofferenza e uscire da questa assurda crisi?

E invece, mentre la Grecia brucia e chiude in un gesto di follia politica le sue televisioni nazionali, Roberto spreca più della metà dell’articolo in un vacuo esercizio di critica di vari opinionisti tra cui Guido Rossi, personaggio che certamente non riscuote la mia simpatia, altro editorialista del Sole 24 Ore. Lo accusa di cosa? Non è chiaro: parrebbe di non essere un economista e di dubitare degli economisti della Bocconi, università in cui lavora Roberto.

Mi sia consentito: ma chi se ne frega dei peccati di Guido Rossi. Rimango solo stupito di fronte a quelle che mi paiono da parte di Roberto delle forme di narcisismo intellettuale e di difensivismo che non appartengono al suo lessico ed al suo carattere. Sembra quasi che, una volta fatta la sua appropriata confessione dell’errore tecnico commesso, debba dimostrare che gli altri non sono da meno.

E rimango stupito che di fronte alla gravità di questa crisi  un giornale come il Sole pubblichi queste polemiche da tre soldi. Mi chiedo un piccolo imprenditore in crisi cosa se ne faccia di un articolo di questo tipo.

*

E invece resta inevasa la questione su cui vorremmo che Roberto ci illuminasse con la sua intelligenza e spirito critico: e ora? Che facciamo?

In realtà la prima parte dell’articolo di Roberto qualcosa di interessante ci dice: e cioè di cosa avrebbe potuto essere d’aiuto in questa crisi ma che a suo avviso è impossibile nell’attuale contesto.

Primo: un deprezzamento della valuta, “attualmente non percorribile nell’area dell’euro”. E perché mai?   E perché dovremmo, di fronte ad atteggiamenti tra l’altro molto aggressivi di Giappone e anche degli Stati Uniti, rinunciare ad usare anche noi la politica monetaria per svalutare l’euro rispetto ai suoi assurdamente alti livelli attuali?

Temo poi che Roberto mi direbbe che lui non si riferiva a ciò, ma all’impossibilità per un singolo paese euro (tra quelli in difficoltà, come Grecia o Italia) di svalutare, se non a costo di uscire dall’euro. Ma sarei in totale disaccordo: una politica di svalutazione di “tutti” i paesi dell’euro, Germania inclusa, rispetto al resto del mondo, tramite politiche espansive della BCE, sarebbe comunque utilissima a ridurre le sofferenze italiche e greche, stimolando ulteriormente il loro export fuori dall’euro, generando reddito e riavviando la domanda interna.

Secondo: “una forte riduzione dei tassi nominali”, oggi impossibile visto il loro livello di partenza già vicino allo zero. Detto che il calo che rileva per l’attività economica è quello dei tassi reali e non nominali (e cioè dei tassi sui prestiti o sui BTP depurati dal livello d’inflazione), non si capisce perché non vi sia ancora spazio per far calare questi anche se i tassi nominali sono vicini allo zero. Nel periodo del New Deal di Roosevelt, situazione economica simile e tassi vicini allo zero, si lavorò alacremente negli Usa per far crescere, e di molto, l’inflazione e ridurre così i costi reali del credito per agricoltori ed imprese manifatturiere, aiutando l’economia. Anche qui, come per la svalutazione dell’euro, ci sarebbe bisogno di un’altra BCE, una BCE con un obiettivo diverso da quello attuale, volto a dare grande peso al grande dramma corrente, quello della crescente disoccupazione e del pericolo di morte dell’euro e dell’Europa.

*

In più, rimane la delusione nell’articolo di Perotti per la domanda che non c’è: “e ora”?

Leggere infatti la frase “il fatto che l’austerità non faccia bene non implica sempre che vi siano alternative migliori o perseguibili. Per esempio, potremmo chiedere ai contribuenti tedeschi di pagare ancora di più, con gli Eurobond per esempio. Ma non succederà. L’austerità nel caso greco era probabilmente inevitabile” fa cadere le braccia.

Certo che gli Eurobond non funzioneranno mai politicamente, lo diciamo da sempre su questo blog. Ma da qui a dire che questa è la sola soluzione percorribile, Roberto fa prova di pigrizia intellettuale. Se “l’austerità non fa bene” come è possibile che il “contrario dell’austerità anch’esso faccia male”? Se non abbiamo osservazioni storiche nel contesto di una unione monetaria di questo tipo sulla “non austerità” ma ne abbiamo invece tantissime, univoche per ammissione di Perotti stesso, sull’austerità e i suoi danni, come può un economista del suo calibro non ammettere che una crisi di questo tipo necessita il coraggio per provare quanto sinora non è mai stato tentato, e cioè una coraggiosa strategia europea di espansione fiscale non sanzionata ma accompagnata dalla BCE?

Siamo nel campo della politica, non della scienza esatta. Quest’ultima ci servirà domani per capire se abbiamo fatto bene o male ad avere coraggio a sperimentare ma non ci serve oggi a darci oggi quel coraggio di cui abbiamo bisogno.

Per imparare il coraggio dobbiamo cercarlo nella storia, nella politica, non nell’economia. E allora, con mio grande stupore, mi trovo per la prima volta in vita mia a schierarmi con l’antipatico e spesso supponente Guido Rossi piuttosto che con l’ammirevole ed amico Roberto Perotti.

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C’è un giudice a Karlsruhe

E’ stupefacente che si metta in croce l’attuale dinamismo democratico tedesco sul mandato della Banca Centrale Europea. A quanto pare la Germania non è solamente leader economico e politico dell’area euro. E’ anche leader sociale, dimostrando un attivismo civico superiore a qualsiasi altro Paese.

Lo esercita, questo attivismo, all’interno del suo DNA nazionale attualmente conservatore e poco incline alla solidarietà verso altri Paesi euro in grave difficoltà, senza dubbio. Ma lo esercita.

Mentre la nostra Consulta e noi italiani ci gingilliamo con argomenti tanto simbolici quanto irrilevanti come le super pensioni di alcuni super individui, la Germania e la sua Corte Suprema – in risposta ad una richiesta di alcuni cittadini tedeschi – prende l’Europa per la collottola e affronta con incredibile energia, al suo interno, la questione del mandato della BCE.

Ovvero: quello che dovevamo fare noi italiani, noi francesi, noi spagnoli, noi greci e cioè spingere con tutti i mezzi giuridici e politici a nostra disposizione per la modifica del mandato della banca centrale verso uno simile a quello americano – che combini la lotta all’inflazione con quella alla disoccupazione – lo fanno i (alcuni) tedeschi, spingendo esattamente all’opposto per un mandato della BCE ultra conservatore, concentrato non solo formalmente sull’inflazione (lo è già) ma anche nella pratica, chiedendo di ridurre i cannoni operativi a disposizione della BCE così come presentati da Draghi l’estate scorsa.

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Immaginate di essere chiusi in una stanza dove divampa l’incendio e le fiamme vi stanno per portare via a miglior vita tra pochi secondi. Solo due le opzioni di uscita: una porta chiusa, con uno sbocco sulla strada, che vi darebbe certamente la salvezza, se solo la persona che da fuori la dovrebbe aprire si accorgesse della vostra situazione, ma non vi sente; un’altra porta aperta, dove anche lì brucia tutto, ma di cui non conoscete le possibili opzioni di salvezza e dove è possibile che la situazione sia ancora peggiore della stanza che abbandonate. Non vi buttereste dentro quest’ultima?

Certo che sì. Come io che mi butto a pesce in questo ossigeno democratico paradossale che fornisce la Germania, permettendoci di mettere in dubbio, qualsiasi sia la ragione per cui lo facciano, l’operato della BCE ed il suo mandato così come scritto dal Trattato europeo. Chissà mai che con una minuscola probabilità si torni a discutere di ciò nelle triste e spente aule del Parlamento europeo, ridando vita a un dibattito sinora proibito. Cosa che tra l’altro temono anche alcuni tedeschi che difendono l’attuale governance della politica monetaria dell’euro e che temono la riapertura del dibattito, perché sanno bene che una volta che questo parte chissà dove può finire.

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In effetti c’è di più. Ricordiamoci, mettiamoci in testa, che difendere questa BCE dell’epoca Draghi, con l’argomento altrettanto paradossale che essa ha avuto successo proprio perché il suo programma di acquisto di titoli dei governi non è mai stato sottoscritto da nessuno tra i Paesi in difficoltà, è difendere questa Europa che sta sbagliando tutte le sue politiche economiche in maniera clamorosa in questi ultimi anni.

L’acquisto di titoli non è avvenuto perché, come ha fatto capire anche Mario Monti che si rifiutò di sottoscrivere l’accordo con la BCE, esso avrebbe comportato altrettanta austerità, non meno, di quella attuale, obbligando gli Stati a restituire con la mano sinistra (politica fiscale restrittiva) quello che gli veniva offerto con la destra (politica monetaria espansiva).

Il calo dello spread sui titoli italiani, quand’anche fosse frutto di un  annuncio estivo di Draghi (come più volte detto su questo blog, esso fu ordinato dalla Merkel), non ha avuto impatto alcuno sulle economie dei Paesi in difficoltà perché le banche non vogliono prestare e famiglie ed imprese non vogliono domandare credito in questo clima nero come la pece. Ha ridotto di qualche centinaia di milioni di euro la spesa per interessi del Tesoro, noccioline al confronto di quanto necessario per salvare l’area euro.

Ben altro è necessario per salvare l’euro: un deciso coordinamento espansivo delle politiche fiscali, le più efficaci in questo contesto in cui il settore privato è sparito dall’economia, ed una politica monetaria non fatta di annunci ma di concreta lotta senza quartiere alla disoccupazione visto che l’inflazione non deve preoccupare.

Per ottenere la seconda gamba abbiamo bisogno, lo ripeto, di un cambiamento di mandato della BCE verso la lotta alla disoccupazione, come negli Usa. Per cambiare il mandato abbiamo bisogno di cambiare il Trattato europeo. Per cambiare il Trattato europeo qualcuno deve smuovere le istituzioni politiche e giuridiche europee. Per smuovere queste ultime basterà un giudice a Karlsruhe che ad esse si appelli; per qualsiasi motivo, buono o cattivo che sia.

Ben venga dunque la scelta tedesca di dibattere democraticamente della politica monetaria europea. Perché alla fine dei conti è solo un sano processo democratico che dà senso e forza alla concessione di indipendenza ad una qualsiasi banca centrale.

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Il lungo periodo non è nulla, senza la cura del breve

Ogni dove. Ogni dove vado. Sempre la stessa storia. Le riforme, nel lungo periodo, cureranno tutto. Il problema dell’Italia è un problema strutturale, dalle radici lontane, bisogna fare le riforme, e pazientare.

Basta vedere i dati dell’Ocse, l’Italia ultima tra paesi Ocse tra 2001 e 2011 quanto a crescita del reddito reale pro-capite. Un dato disastroso: gli unici ad avere crescita negativa, gli italiani. Negativa.

Eppure questo dato è irrilevante. Irrilevante. Perché il lungo termine in un certo senso, deve in questo momento divenire irrilevante, passare in secondo piano. Come per un malato colpito da un infarto non interessa sentirsi dire della dieta che dovrà fare per ridurre in futuro la possibilità di altri infarti.

In realtà non è esattamente così. Ma per ora, per far tacere i teorici delle riforme, diciamo così.

*

Ecco il mio ragionamento. Soprattutto ecco le mie assunzioni, i miei giudizi di valore, che lo sottintendono.

“Chi non è al tavolo, è sul menu”. Mi rimbomba questa frase del mio collega catalano Jordi Vaquer da quando l’ho ascoltata a Creta. Nella mia testa, rimbomba, e spiega perché oggi la politica domina sull’economia, perché l’euro è essenziale (“un divorzio non ci fa tornare fidanzati, un divorzio è un divorzio”) per non fermare un progetto geopolitico e umanistico europeo che c’è nei dettagli burocratici e manca totalmente nelle ambizioni, nel coraggio e nei dettagli psicologici, e perché dunque per non uccidere il progetto europeo dobbiamo uccidere la recessione.

Questo mostro, la recessione, è l’unico fattore economico che prevarrà sulla politica, forzando alcuni governi a uscire dall’euro: perché capro espiatorio perfetto e perché l’uscita sarà momentanea morfina ad un dolore insopportabile.

Chi crede nell’eurobond come soluzione, nella voglia dei tedeschi di solidarizzare con tale dolore trasferendo risorse al “Sud” dell’area euro, illude la gente, come la illude proponendo riforme. Anzi mostra di non avere capito cosa sia una unione monetaria: una precondizione di dialogo per arrivare un giorno, ma non oggi, ad una unione fiscale. Non è vero che i tedeschi non sanno fare unioni monetarie: ne hanno fatta una, grandiosa e solidale, pochi decenni fa. Con chi ritenevano essere i loro cugini di primo grado, se non fratelli. Quello che noi non siamo per i tedeschi, quello che i tedeschi non sono per noi. Tra cinque generazioni, lo saranno. Se manteniamo intatto il progetto, se combattiamo la recessione.

Riassumendo: 1) non c’è tempo e 2) si deve uscire dalla recessione senza solidarietà esterna.

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Ma di solidarietà, interna, ce ne sarà bisogno, per ridurre la tentazione di uscire dall’euro e fermare per decenni l’Europa. Solidarietà interna e ripresa rapida si ottengono tuttavia in un solo modo: con una combinazione perfetta e attenta di politiche macroeconomiche credibili e di riforme giuste.

Perché se c’è una cosa che sappiamo dell’austerità è che ha combinato esattamente l’opposto: politiche macroeconomiche non credibili, vorrei dire incredibili, e riforme sbagliate.

Le politiche macroeconomiche dell’austerità non sono state credibili nel senso letterale del termine: non erano credibili agli occhi di chi le raccomandava, come ci testimoniano le confessioni quasi postume del Fondo Monetario Internazionale sulla Grecia e sulle politiche forzate dalla Troika. E come mostra bene Roberto Tamborini, non credibili agli occhi dei mercati. Sono stati imbarazzanti gli errori nelle previsioni della Commissione europea, dell’Ocse, della Banca d’Italia, del Tesoro. Imbarazzanti ed incredibili. Non credibile sbagliare di così tanto le stime di crescita del PIL in così poco tempo. Così tanto che non è questione di modello di previsione sbagliato, è questione di aver voluto piegare i modelli econometrici alle esigenze politiche di chi credeva nelle virtù dell’austerità. Un falso in bilancio? Certamente, ma accompagnato da un falso democratico, di mancata rappresentanza politica volta a sostenere le esigenze reali delle persone.

Ad esse si sono accompagnate le riforme sbagliate, quelle che hanno contribuito alla recessione. Sono state di 3 categorie: quelle inutili (i taxi a Roma quando nessuno in recessione prende i taxi) costose perché hanno fatto perdere tempo e consenso ai politici; quelle dannose (le riforme Fornero su lavoro e, sì, anche su pensioni) perché oltre ai costi di cui sopra hanno aumentato la paura e la mancanza di fiducia nel futuro di imprese e famiglie, deprimendo la domanda e le assunzioni dei giovani; quelle sempre strombettate e mai attuate nella sostanza (anti corruzione, pagamenti dei debiti della P.A., spending review sugli sprechi).

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Quali sono le politiche macroeconomiche credibili? Non quelle che passano per la ripresa del credito prima di tutto (perché le banche non vogliono prestare a chi non vuole prendere a prestito, come avviene in questa crisi da domanda). Quelle che ammettono, come fa il Fondo Monetario Internazionale, che trattasi di attivare politica economica espansiva. Perché i moltiplicatori della spesa privata derivanti dalla politica economica espansiva esistono e sono attivabili rapidamente. Ma quale politica espansiva? Quella, appunto, credibile, intesa come capace di far crollare gli spread e non complicare piuttosto che rimuovere l’agonia. Come in Giappone, se questo Paese continuerà con convinzione.

Non aspettatevi troppo dalla politica monetaria europea espansiva: essa è inefficace (i tassi sono vicini allo zero e la deflazione non è ancora arrivata), contraddittoria (è condizionata all’accettazione di un piano di … austerità, differenza chiave col Giappone), ineguale (basta leggersi chi è andata a beneficiare negli Usa: il top 1% nella scala dei redditi, secondo il Washington Post).

E’ inevitabile che la responsabilità piena se la deve prendere dunque la politica fiscale espansiva. Ma deve essere credibile, cioè capace di far scendere gli spread. Per esserlo deve soddisfare tre condizioni:

a)    Deve essere coordinata a livello europeo: di più (espansivi) i tedeschi, un po’ di meno noi (così risolvendo anche squilibri di bilancia dei pagamenti senza imporre all’area dell’euro Sud una deflazione che ci ucciderebbe);

b)    Deve essere controciclica: e con ciò non intendo l’ovvio, ovvero che deve essere espansiva ora, ma che deve essere restrittiva domani, quando saremo usciti dalla crisi. I mercati devono sapere che quando il sole tornerà a splendere non si giocherà più come dei bambini golosi con la marmellata, e che si metteranno piuttosto in cascina le risorse per una possibile nuova crisi domani.

c)     Deve essere calibrata: in Italia niente riduzione di imposte ora, inutili a stimolare una domanda di famiglie ed imprese paralizzata, non un aumento di spesa a casaccio che spaventerebbe comunque, ma un aumento di spesa basato sul taglio degli sprechi, che spesa e domanda pubblica non sono e non aiutano l’occupazione. In Germania i gradi di libertà sulla sua composizione sono maggiori.

Domani, col bel tempo, si potrà lottare contro l’evasione e abbassare permanentemente la pressione fiscale a parità di qualità di servizi pubblici.

Ad essa, alla politica macroeconomica europea credibile, vanno legate le riforme, quelle giuste, che stemperano i dolori causati della recessione e possono riattivare più rapidamente la fiducia delle persone.

Non trattasi dunque della mera, ed essenziale, spending review vera che è determinante per il punto c) sopra. Si tratta dei crediti da rimborsare tutti e subito alle imprese, specie le più piccole che non hanno aiuti dalle banche, si tratta del servizio civile del nostro appello, per 1000 euro al mese per 1 o 2 anni in cambio di lavoro nei gangli vitali della nostra Pubblica Amministrazione così vecchia, stanca, incompetente rispetto al mondo che cambia, corrotta dal cinismo. Si tratta anche di ridurre e da subito alcune regolazioni insopportabili ed inutili che sfibrano maggiormente le piccole delle grandi nel momento peggiore della loro storia aziendale.

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Ho iniziato dicendo, basta col lungo periodo. Lo credo fortemente, oggi.

Ma senza dimenticare che quello che oggi dobbiamo fare per il breve periodo deve ancorare solidamente al terreno sociale una aspettativa di un futuro migliore, deve generare ottimismo, sicurezza, tranquillità, speranza. Per questo in fondo, una politica per il breve come quella descritta sopra, se ben congegnata come descritto sopra,  è una politica di lungo periodo, per il nostro avvenire. Il progetto europeo a quel punto, e solo a quel punto, seguirà, docile e felice.

Estratto da intervento a Convegno Internazionale di Economia Reale, “Quo Vadis?” Roma, 7 giugno 2013, Tempio di Adriano, Roma.

Post Format

Small is beautiful, ma non in Italia

Finalmente qualcuno che ne parla. Dello Small Business Act (SBA) europeo del 2011.

Sulla Voce, va reso merito a Francesco Solaro di avere rotto il muro dell’omertà di un Continente che si ostina a dire il più delle volte che “piccolo è brutto”. Invece che dire che “crescere è bello”: apparentemente la stessa cosa, ma che invece tradisce una voglia di aiutare, sostenere e proteggere e non di abbandonare all’oblio le nostre piccole imprese.

Nato la bellezza di solo … 60 anni dopo quello statunitense, lo SBA europeo tuttavia non tira: malgrado qualche buon risultato  la sensazione è che non abbia lasciato una grande impressione tra gli imprenditori italiani. Dice Solaro:

Nonostante tutte queste novità e vantaggi, lo Sba non è molto popolare tra le imprese, come dimostra una recente indagine svolta dal ministero dello Sviluppo economico su un campione rappresentativo di mille imprese: poco meno di due imprese su dieci, pari al 18,1 per cento del campione intervistato, segnala di conoscere lo Sba anche se la quota risulta in miglioramento rispetto a quella (intorno al 7 per cento) emersa da un’indagine svolta dall’Istituto Guglielmo Tagliacarne nel 2010. Le principali fonti di informazione sullo Sba sono rappresentate da internet (secondo il 58 per cento del campione), il commercialista (46,6 per cento) e le associazioni di categoria (27,7 per cento). Poco meno del 12 per cento delle imprese dichiara di conoscere lo Sba grazie alle azioni del ministero.

Tira negli Usa, eccome, ma non in Europa, lo SBA. Per una serie di motivi.

Primo, perché negli Usa esiste non solo una legge per la piccola, ma una istituzione, la Small Business Administration, che è di fatto un Ministero per la Piccola Impresa, come quello chiesto nel nostro Programma per l’Italia dai Viaggiatori in Movimento.

Secondo, perché gli interventi in America sono quantitativamente ben più significativi di quelli illustrati per l’Europa da Solaro: in primis il 23% degli appalti riservati alle piccole imprese, scelta assolutamente ancora oggi vietata in Europa.

Terzo, perché gli interventi in America sono qualitativamente ben più significativi. Negli Usa la regolazione, quella a maggiore impatto economico sulle piccole che sulle grandi, è bloccata immediatamente e sottoposta a riforma e revisione ad un tavolo di negoziazione assieme ai piccoli imprenditori.  In Italia, ci ostiniamo a inventarci norme ultronee, che non ci chiede nemmeno l’Europa, come il Sistri per i rifiuti pericolosi, trasformatosi da noi in incubo burocratico specie per le piccole che si applica a tutti i rifiuti indistintamente. E poi ci chiediamo perché le piccole non sentono lo SBA vicino a loro.

Quarto, perché, non è nel nostro DNA, quando invece dovrebbe essere la nostra preoccupazione quotidiana in questa recessione, la protezione delle piccole. Non lo è stata del Ministro Passera (Monti che confessa in televisione che non sapeva della legge annuale per le piccole imprese da presentarsi entro fine giugno di ogni anno ha qualcosa di clamoroso, malgrado l’onestà dell’ammissione) né di questo Governo, che pesca i soldi per coprire buchi di bilancio dai … già pochi miliardi stanziati per i debiti della P.A. da restituire alle imprese.

Lontano, molto lontano da quell’approccio a stelle e strisce che prevede che le imprese in causa con la pubblica amministrazione possano essere difese in giudizio da … avvocati della Small Business Administration. Perché …

“Small is beautiful because man in beautiful.” Da “Small is Beautiful” di E. F. Schumacher.

Grazie Francesco.