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Il cambio di passo, verso la fine dell’Europa

Apparso oggi su Il Mulino.

https://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:3887

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Il Documento di Economia e Finanza non è la stessa cosa della Legge di Stabilità. Questa traccia le decisioni del governo su spese e tasse per l’anno a venire; quello, così voluto dall’Europa, nasce per indicare ad imprese e famiglie il contesto economico di medio termine, 3-4 anni, all’interno del quale si troveranno ad operare a seguito della programmazione governativa.  Ha uno scopo rilevante, il c.d. DEF: quello di dare certezze a tali componenti sociali, influenzando le loro aspettative future, sperabilmente in maniera tale da cementare il loro ottimismo all’interno di una cornice di crescita e stabilità.

I giornali si sono sperticati a raccontare, come d’altronde il Premier Gentiloni, di una manovra “espansiva”, semplicemente perché per il 2017 non è prevista che una manovrina di poco più di 3 miliardi di aggiustamento. Ma il DEF non riguarda il 2017, ma gli anni dal 2018 al 2020. E ben più appropriate appaiono al riguardo le parole del Ministro Padoan, che ha parlato di “una politica fiscale particolarmente stringente” che “fa parte degli accordi europei”. Ovvero del famigerato Fiscal Compact, l’accordo intergovernativo che stabilisce come, senza se e senza ma, il Governo italiano debba raggiungere in pochi anni il bilancio in pareggio.

Spesso si è fatto notare come il Fiscal Compact non sia mai stato operativo, visto che ha permesso di rinviare, di anno in anno, il raggiungimento del pareggio. Una austerità sulla carta, ma non nella sostanza, che prometteva tagli di spesa pubblica e aumenti delle tasse senza mai realizzarli. Peccato che imprese e famiglie non si siano certo mai fidate di una tale rassicurazione: ansiose di ottenere certezze, le loro aspettative si sono congelate nel pessimismo, evitando di consumare ed investire nel dubbio che poi il Governo portasse a termine i piani annunciati di riduzione drastica della domanda pubblica e di aumento della pressione fiscale.

Con Gentiloni ed il suo primo DEF di questo aprile è tuttavia avvenuto un cambio di passo, ancora più austero, mai adottato da nessun Governo prima del suo: la decisione di confermare, e non rinviare, l’anno di pareggio di bilancio, al 2019.  Lo stesso anno di pareggio promesso da Renzi nell’aprile del 2016. Avendo tre anni a disposizione Renzi era stato ben più moderato nella sua promessa di austerità e riduzione del deficit: nel 2016, aveva infatti promesso che per il 2017 il deficit su PIL sarebbe sceso dello 0,5 di PIL, circa 8 miliardi di euro, dal 2,3 a 1,8%. Ora Gentiloni con il DEF 2017 raddoppia, annunciando che il deficit dal 2017 al 2018 scenderà dal 2,1 all’1,2%, di 0,9 di PIL, 15 miliardi. Una manovrona dovrà a tal fine essere prevista, così come quella, analoga, per portare dall’1,2% allo zero il deficit nel 2019. Con tutto ciò che ne consegue per l’impatto su una economia, quella italiana, sfibrata da un decennio di recessione, prima, e di stagnazione ora. Una manovrona che ha obbligato il Tesoro addirittura ad abbassare le proprie stime di crescita per quegli anni, dall’1,2% all’1%, due anni che avrebbero dovuto segnare la ripresa della crescita nel nostro Paese.

Della manovrona non parlo io, lo dice senza giri di parole l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, preposto a monitorare per conto dell’Europa i conti pubblici italiani: “… il quadro per il 2018 e 2019 risente del mantenimento della disposizione di aumento delle aliquote IVA nel 2018 e dalla previsione di un ulteriore aumento di 0,9 punti dell’aliquota base nel 2019. Nell’insieme, il gettito associato ammonta a 19,6 miliardi nel 2018 e 23,3 miliardi nel 2019, corrispondenti rispettivamente al 1,1 e all’1,3 per cento del PIL”.

Una straordinaria austerità che consegna l’economia italiana alla stagnazione per il prossimo decennio ma, forse ancora più importante, che consegna l’equilibrio politico del Paese e forse del continente ai movimenti populisti, sancendo dunque la fine di una costruzione comune europea.

La soluzione? L’unica sarebbe quella di far rifiatare l’economia italiana finché non abbia ritrovato l’ottimismo di intraprendere nuovamente, scongelando le aspettative pervase di pessimismo che l’avviluppano da tempo. 70 miliardi sono a disposizione, per un piano di supporto all’economia, all’occupazione, specie di chi soffre maggiormente (piccole imprese, giovani, Meridione, edilizia sostenibile) e di abbattimento del rapporto debito-PIL, sinora invece sempre cresciuto a causa della stupida austerità. 20 miliardi derivanti da una vera spending review, mai fatta da nessun Governo, più 50 dal tenere il deficit sul PIL bloccato al 3% come chiedeva il vecchio trattato di Maastricht, e non in pareggio, al quale si tornerà solo dopo che sarà tornato il sole.

Purtroppo questo Governo non sembra pronto per un passo simile, anzi. Tra 5 mesi, quando si tratterrà di decidere se apporre la firma sull’inserimento definitivo del Fiscal Compact, tutto fa presumere che supinamente accetteremo il nostro fato, confermando l’austerità, la mancanza di solidarietà e l’inevitabile fine dell’Europa.

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Lo sviluppo armonico europeo chiede rallentamento

Alla politica spetta una leadership che eviti di giocare con le emozioni per guadagnare consenso, ma che piuttosto elabori, in uno spirito sussidiario e solidale, politiche che facciano crescere tutta quanta l’Unione in uno sviluppo armonico, così che chi riesce a correre più veloce possa tendere la mano a chi va più piano e che chi fa più fatica sia teso a raggiungere chi è in cima”.

“I Padri fondatori ci ricordano che l’Europa non è un insieme di regole da osservare, non un prontuario di protocolli e procedure da seguire. Essa è una vita, un modo di concepire l’uomo a partire dalla sua dignità trascendente e inalienabile e non solo come un insieme di diritti da difendere, o di pretese da rivendicare.”

Papa Francesco ai capi di Stato europei.

https://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/march/documents/papa-francesco_20170324_capi-unione-europea.html

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Sviluppo armonico. Come due ruote di una bicicletta che devono marciare allo stesso ritmo: si blocca una, si bloccano i pedali, il movimento, e la caduta è inevitabile.

Al suo interno, una comunità, di persone, di popoli, deve trovare un’armoniosa corrispondenza tra la velocità del suo sviluppo giuridico e quella del suo sviluppo sociale e politico. Se uno tira troppo senza che l’altro segua sono destinati ambedue ad un rovinoso crollo, fatto di un circolo vizioso sospinto dal declino economico e dalla crescita dei populismi.

L’armonia può essere raggiunta sia accelerando la parte più lenta del moto comune, o rallentando quella troppo veloce.

E’ evidente che la ruota giuridica europea sia quella che in questo decennio ha subito un’accelerazione rispetto a quella sociale-politica, con una inflazione di modifiche ai trattati che hanno radicalmente modificato, tra le altre, le regole della politica fiscale e di sostegno pubblico all’economia. Non ha fatto seguito, a questo momento di crescita della produzione normativa europea, un’analoga crescita delle istituzioni politiche europee, intese come strumenti europei di ascolto e risposta alle esigenze delle persone. Una crisi non poteva non essere l’ovvio risultato di questo scollamento.

Come restaurare tale armonia e salvare l’Europa? Ovviamente ci sono solo due modi: o si accelera la ruota lenta, o si decelera quella veloce.

Siamo pieni di europeisti che vogliono accelerare la ruota lenta. Procedendo spediti verso una maggiore unione politica, magari di pochi (ma che razza di unione è una che perde i pezzi per voglia di crescere?), magari con un unico Ministro del Tesoro europeo, che possa applicare il Fiscal Compact da solo, da Bruxelles, senza ulteriori complicazioni dovute alla testarda resistenza dei singoli stati ancora, secondo alcuni, troppo sovrani.

Eppure chi vi scrive ha sempre chiesto che si procedesse altrimenti, rallentando la ruota veloce, quella giuridica. Che si fermasse, fino al raggiungimento di un appropriato senso europeo di comunità, l’ansia legislativa di chi vuole normare con quel “prontuario di protocolli e procedure da seguire”, a cui Papa Francesco guarda evidentemente con sospetto e preoccupazione.

Che si fermi dunque il maledetto Fiscal Compact, che cancella la solidarietà a vantaggio del pessimismo, che accresce i populismi e il declino economico e sociale. Che si restauri l’armonia tra regole e politica, prendendo tempo, fermando la normativa europea e dando tempo alla cultura dei popoli di esercitare solidarietà per ritrovare il senso di un percorso politico comune.

Se così non sarà, a breve vedremo dissolversi l’Europa.

Grazie a Lorenzo Echeoni

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L’Italia dei Paperoni e dei Paperini

Il pezzo uscito oggi su Avvenire a firma congiunta con Lorenzo Pecchi.

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E così arriva anche in Italia la flax tax per le persone fisiche straniere ma anche per i cittadini italiani che sono residenti all’estero in Stati fiscalmente privilegiati che decidono di trasferire la loro residenza in Italia. In contropartita sarà sufficiente che versino al fisco italiano 100 mila euro. Un Paperone che ha un patrimonio di 100 milioni all’estero che gli frutta 3 milioni l’anno potrà risiedere in Italia con una aliquota fiscale pari al 3,3% l’anno (100.000 su 3 milioni), quando ogni cittadino paga sugli stessi redditi da capitale un’aliquota del 26%.

C’è chi viene, c’è chi va.

Il 24 agosto dello scorso anno l’Italia ha rispedito 48 “irregolari” nel Sudan di al-Bashir, ritenuto una delle peggiori dittature esistenti al mondo. Su al-Bashir pende un mandato di cattura emesso dalla Corte Penale internazionale per genocidio e crimini contro l’umanità nel conflitto in Darfur. Nonostante questo le autorità italiane non sembrano vergognarsi di negoziare e fare accordi con personaggi di queste specie pur di rimpatriare i cosidetti “irregolari”. Cinque cittadini sudanesi  rimpatriati e provenienti dal Darfur hanno fatto ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. L’Italia rischia ora un’altra condanna come accadde nel 2012 per i respingimenti verso la Libia. Per i cinque sudanesi l’Italia avrebbe violato il principio di non-refoulement per cui nessuno Stato può respingere rifugiati verso territori dove la loro vita o libertà sarebbero minacciate per motivi di razza, religione o opinioni politiche. Sfortunati Paperini.

Viviamo dunque in uno Stato dove i milionari che si nascondo nei paradisi fiscali vengono premiati ed attratti mentre persone che cercano una speranza di vita, che fuggono dalla miseria e dalla tirannia, vengono penalizzate e respinte.

Forse lo facciamo per i 100.000 euro del Paperone.

Eppure a pensarci bene basterebbero poco più di 20 Paperini, 20 immigrati impiegati principalmente in lavori che in questo paese nessun vuol più fare, per far entrare nelle casse dello Stato 100 mila euro l’anno. Ma non porterebbero solo soldi al fisco italiano, porterebbero le loro storie, le loro diversità, la loro imprenditorialità, la loro voglia di fare e procrearsi in una società che sta sempre più invecchiando. Migliorerebbero la nostra claudicante demografia, con tanti Qui, Quo, Qua. Le loro prospettive ed esperienze diverse non potrebbero che generare nuove idee. I più grandi inventori, Archimedi Pitagorici, sono quasi sempre i figli di immigrati. I loro contatti creerebbero nuovi ponti e opportunità per il commercio. Ed invece a quei cento immigrati preferiamo  un vecchio milionario che fugge solo come un Pluto braccato  per proteggere il suo patrimonio e che al più spenderà qualche spicciolo in via Monte Napoleone. Cosa possiamo aspettarci per il futuro?

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Lasciate in pace la Consip, pensate ad una strategia nazionale per gli appalti

Il mio pezzo apparso ieri su La voceinfo e ripresa anche dal Fatto Quotidiano,

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E’ stato pubblicato il rapporto annuale MEF-Istat sui prezzi delle gare di beni e servizi aggiudicate presso la stazione centrale d’acquisti, la Consip, e presso le altre amministrazioni pubbliche. Progetto nato più di 10 anni fa per rendere l’azienda di stato più trasparente, è oggi un’analisi che genera una luce importante sull’intero sistema pubblico degli acquisti di beni e servizi.

Ripercorrendone le tabelle e grafici disponibili sul web, apprendiamo ad esempio che, con l’eccezione dei buoni d’acquisto benzina e gasolio, i prezzi spuntati dalla Consip sulle altre merceologie oggetto d’indagine (non tutte sono comunque campionate) sono più bassi di quelli medi delle altre amministrazioni, spesso con scarti significativi: un personal computer desktop, acquistato in convenzione Consip a 310,21 euro viene venduto fuori convenzione Consip, in media, a 415,25 euro.

Quest’anno vi è poi la novità di una prima analisi degli ordini sul mercato sotto soglia (alle Convenzioni si può aderire solo per ordini che superano un dato quantitativo minimo), il c.d. market place, un supermercato virtuale messo a disposizione dalla Consip, dove imprese e amministrazioni contrattano tra loro, direttamente o tramite mini gare, per soddisfare esigenze più spicciole (ad esempio l’acquisto di una singola stampante o di una sedia). I commenti del Ministero al riguardo mostrano una qualche (insolita) insoddisfazione (“emerge la necessità di un miglioramento nell’utilizzo del Mepa da parte dei responsabili degli acquisti pubblici”) a causa dei prezzi più alti spuntati su tali mercati rispetto a quelli delle Convenzioni, ma è una preoccupazione non sempre giustificata, visto che tali acquisti non possono beneficiare di economie di scala come per le convenzioni ed hanno il vantaggio della celerità nell’evasione dell’ordine rispetto alle grandi gare.

Ben altre dovrebbero essere le preoccupazioni dell’azionista Tesoro, per lacune dovute non tanto alla Consip quanto all’attuale governance complessiva degli acquisti pubblici di beni e servizi e che pongono due domande.

Primo: come mai continuano a evidenziarsi casi di amministrazioni che comprano a prezzi più alti che in Consip? Il sospetto, in assenza di altre evidenze, è che i controlli latitino. Non c’è bisogno di scomodare Mao Tse-tung, esperto di centralizzazione, per ricordare come bastino pochi esempi di individuazione e sanzione di acquisti impropri affinché tutti si adeguino e passino ad acquisti consoni. Il database a disposizione del MEF (ma anche di ANAC a richiesta) fu usato da Bandiera, Prat e Valletti per uno studio certosino capace di individuare sprechi ed alzare bandierine rosse d’allarme: perché non se ne fa ampio uso per indirizzare i controlli?

Secondo: siamo certi che i prezzi spuntati dalla Consip siano i migliori possibili o non è piuttosto che con altre direttive da parte del MEF si potrebbe fare ben di più? Governo e MEF, in effetti, continuano da anni ad ostinarsi ad utilizzare, e chiedere a Consip di adottare, un modello di aggregazione della domanda che non è sempre coerente con il dettato della legge originaria, tuttora valida, che chiede non di fare gare grandi ma di “garantire la semplificazione delle procedure di gara, la riduzione dei tempi di approvvigionamento e dei prezzi unitari dei beni e servizi, oltre al miglioramento della qualità degli acquisti della Pubblica Amministrazione”. Non è questione di lana caprina: nel quinquennio 2011-2015, si legge nella relazione annuale ANAC, il valore medio dei lotti ha avuto un aumento cospicuo dell’importo per i servizi e per le forniture (+85,0% e +50,5%), tale da far dire a Cantone che in Italia “la struttura della domanda non sia particolarmente favorevole alla partecipazione delle piccole e medie imprese al mercato degli appalti pubblici.”

Tale mancata partecipazione riduce l’aggressività in gara delle grandi aziende e facilita accordi collusivi. L’enfasi sulle economie di scala con cui viene difesa una simile strategia è spesso senza senso nelle gare dei servizi (guardiania, pulizia) dove queste non esistono e va comunque rimessa nel contesto più ampio della minore partecipazione che essa genera vietando l’accesso alle PMI. Strumenti per ridurre la dimensione dei lotti e non rinunciare ai potenziali risparmi da economie di scala ne esistono in abbondanza senza ricorrere all’aggregazione della domanda e senza rinunciare alla qualità delle competenze che albergano in Consip.

E’ evidente la motivazione governativa sul perché proseguire con questo impianto organizzativo: all’Unione europea del Fiscal Compact, tutta focalizzata sui risparmi di spesa senza se e senza ma, l’aggregazione appare un tocca sana e il Rapporto MEF Istat pare confermare la bontà di una tale scelta. Ma se il Paese poi non cresce perché il suo tessuto industriale si sfalda e la qualità delle commesse non è monitorata, è il PIL che crolla con tanti saluti anche all’andamento degli indicatori di finanza pubblica tanto cari a Bruxelles.

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Procedura d’infrazione per la Commissione europea

E così sembrerebbe che l’Italia non abbia superato il test della valutazione, così temuto, da parte della Commissione europea. Che, nelle sue previsioni invernali, avrebbe decretato che l’Italia “cresce” sì, ma meno di tutti gli altri Paesi.

Non vi è dubbio che parte della performance italica sia legata ad una scarsa capacità del Paese di “rimettere la propria casa in ordine” tramite delle riforme, soprattutto – come sanno i lettori di questo blog – con una spending review che cancelli gli sprechi, specie nella fetta enorme di PIL generata dagli appalti pubblici, ed utilizzi quelle risorse per investire appropriatamente in professionalità: dei giovani, nelle scuole, nelle università, nell’amministrazione degli stessi appalti con personale qualificato e ben remunerato. Ma, è bene ricordarlo, nessun impulso è venuto mai al riguardo dalla Commissione europea; semmai questa si è spesa per un Jobs Act irrilevante nei fatti e creatore di maggior precarietà in un momento di alto pessimismo, rafforzandolo, senza poi applicarlo all’unico settore dove forse poteva essere più rilevante e d’impatto, la Pubblica Amministrazione.

Lo ammette la stessa Commissione che questa riforma aveva perorato, senza tuttavia chiedersi il perché: “… la creazione netta di posti di lavoro è prevista calare paragonata al biennio 2015-16, quando fu sospinta da una riduzione triennale nei contributi sociali. Sull’orizzonte previsionale, la crescita dell’occupazione è destinata a essere più forte in termini di ore lavorative che di numero di occupati, in parte a causa del minor numero di accordi per ridurre l’orario lavorativo. Ciò implica, assieme ad una maggiore partecipazione della forza lavoro, che il tasso di disoccupazione è destinato a rimanere sopra l’11% sull’orizzonte temporale” delle previsioni della Commissione.

Destinata? Strano verbo. Non c’è il minimo dubbio che le politiche economiche della Commissione europea e di chi gliele detta abbiano generato un destino perverso che ci ha condotto alla maglia nera in Europa. Ma come ignorare che la politica economica esiste invece proprio per modificare il destino delle recessioni e il benessere della gente?

Già. Perché oltre a fare le riforme (quelle giuste), in una crisi da domanda come questa c’era da fare ben altro, agendo sulla leva della domanda pubblica per stimolare in primis gli investimenti pubblici e, a seguito, quelli privati grazie al ritrovato ottimismo di imprese e lavoratori-consumatori.

Ma questo la Commissione non è che non lo capisca, semplicemente non lo ammette. E non lo ammette perché non è obbligata a farlo, a rendicontare il suo operato. Basterebbe chiederle di essere ogni anno obbligata a motivare gli errori di previsione commessi perché questo giochino di irresponsabilità condonata terminasse. Una sorta di procedura d’infrazione che l’obbligherebbe a rientrare in canoni consoni di comportamento.

Emergerebbe che un anno fa la Commissione europea prevedeva per l’Italia una crescita dell’1,3% per il 2017, ridottasi per l’ennesima volta a 0,9% un anno dopo. Come mai? Semplice, per la stima errata degli investimenti, previsti l’anno scorso crescere del 4,8% e ridottisi miseramente ad un ottimistico, tutto da verificare, +2,4%. Ma, tranquilli, c’è sempre il 2018, che la Commissione prevede oggi gli investimenti in crescita al più modesto ma sempre ambizioso +3,1%.

Per chi voglia sapere come mai i modelli della Commissione, esattamente come quelli del Tesoro italiano (che ai primi sono obbligati a convergere per motivi squisitamente politici), sono costantemente errati nella sovrastima della performance italiana, non dobbiamo aggiungere altro che quanto segue.

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Dall’analisi del quadro programmatico italiano così come sintetizzato nelle stime contenute nel Rapporto dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB) sulla politica di bilancio 2016, l’Italia nel 2018 e 2019 è prevista mantenere stabile (con l’eccezione di un previsore privato, quello C, per un anno, vedi Tabella) la sua performance di crescita economica nel biennio 2018-2019. Le prime stime della Commissione concordano con tale visione di stagnazione strisciante che non riduce la disoccupazione.

Eppure sono aspettative, quelle sul nostro futuro, incredibilmente ottimistiche. Per capire perché, basterà ricordare che incorporano al loro interno la manovrona del biennio in questione, che è così sintetizzata dall’UPB:

“… il quadro per il 2018 e 2019 risente del mantenimento della disposizione di aumento delle aliquote IVA nel 2018 e dalla previsione di un ulteriore aumento di 0,9 punti dell’aliquota base nel 2019. Nell’insieme, il gettito associato ammonta a 19,6 miliardi nel 2018 e 23,3 miliardi nel 2019, corrispondenti rispettivamente al 1,1 e all’1,3 per cento del PIL”.

Una manovra, quella in arrivo, di più dell’1% del PIL nel 2018 e dell’1,5% del PIL nel 2019! Una manovra “monstre” figlia dell’idiotico Fiscal Compact. Una manovra “monstre”, che dovrebbe avere un impatto negativo mostruoso sulla crescita italiana. Eppure le previsioni di cui sopra sembrano non accorgersene.

Delle due l’una: o l’Italia senza manovra sarebbe cresciuta moltissimo (e questo potrebbe avvenire solo nell’evento di una fortissima accelerazione del commercio mondiale) nel 2018 e 2019 ed è la manovrona che riporta il PIL ai livelli stagnanti di oggi oppure le stime dell’impatto della manovrona sul PIL sono state artatamente sminuite per non far saltare i conti pubblici italiani e il Governo di turno.

Qual è la verità? I moltiplicatori di impatto, cioè solo del primo anno, del modello Istat sono stati pubblicati nel Rapporto UPB sulla politica di bilancio 2016 p. 24. Il modello Istat si caratterizza per moltiplicatori di impatto (stesso anno) contenutissimi, inverosimili, che nascondono errori di misurazione non ancora sanati (perché?). Il moltiplicatore di impatto dell’IVA (circa 0,1!!, ovvero per una manovra dell’1% del PIL come quelle del 2018, il calo del PIL è dello… 0,1% e non dell’1% almeno, come sarebbe corretto in base alle evidenze empiriche dei paesi in difficoltà come l’Italia). Idem per il modello del Tesoro.

Ci credo che con questi moltiplicatori ridicoli la crescita non si riduce! Altro che 0,9% di PIL nel 2018 se la manovra verrà attuata: torneremo certamente allo zero!

Qualcuno dirà, ma quella manovrona non verrà mai fatta, l’Italia sta mentendo e la Commissione lo sa e lo accetta. Se mai fosse vero, e non lo sappiamo, questo non vuol dire che il Fiscal Compact ed i suoi annunci non abbiano avuto e continuano ad avere un terrificante impatto sulla crescita che, anche questo, non è considerato nei numeri pubblicati, portando ad un ulteriore tipo di sovrastima della crescita.

Infatti, il moltiplicatore ufficiale di cui sopra, così artatamente basso, è basato sull’assunzione che una mega manovra domani abbia impatto solo sul domani (quando avverrà) e non sull’oggi (in anticipo). I modelli, cioè, non tengono conto del fatto che una manovrona di questo tipo sia anticipata sin da oggi da consumatori e imprenditori e che questi oggi, subito, riducano consumi e investimenti!

Come è stato detto a porte chiuse da un mio collega: “si dovrebbe applicare il moltiplicatore anche al momento (in genere fra 2-3 anni) in cui le tasse aumentano in virtù della clausola (per portare il deficit a zero), cioè si dovrebbe prevedere una recessione in questo momento”.  La strisciante stagnazione a cui assistiamo oggi è figlia di queste aspettative pessimiste sul futuro, che i modelli della Commissione e del Governo italiano non considerano, perché non sono strutturati per farlo, chissà perché.

L’inganno su cui gioca la Commissione Europea non è innocuo: uccide l’economia italiana e sfibra il nostro tessuto sociale e politico. Il Governo italiano e le autorità italiane rilevanti dovrebbero usare modelli verosimili, che imparino dagli errori di previsione passati e che mostrino questo ripetuto inganno: ne va della salvezza del nostro Paese e dell’Europa tutta, niente di meno. Facendo questo, denuncerebbero il Fiscal Compact per quello che è: una macchina infernale che uccide l’Europa, contribuendo a far sì che a fine anno il Governo italiano possa rifiutarsi di firmare per il suo inserimento nella Costituzione europea (il Trattato) il proprio harakiri.

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Le previsioni delle Commissione dell’inverno 2016 e 2017

https://ec.europa.eu/info/publications/european-winter-economic-forecast-2016_en

https://ec.europa.eu/info/business-economy-euro/economic-performance-and-forecasts/economic-forecasts/winter-2017-economic-forecast_en

Grazie a S.

 

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L’ambiguità che ci difende alla tirannia

L’unione politica è cosa diversa dalla proposta, avanzata in un documento del 1994 da Wofgang Schäuble e Karl Lamers, di creare una kerneuropa o core Europe. Per i due esponenti cristiano-democratici tedeschi, la kerneuropa avrebbe dovuto essere costituita (almeno inizialmente) dei Paesi in grado di rispettare precisi parametri economici.

Tuttavia, un’unione che compone o federa Stati diversi può nascere solamente da una scelta di natura politica, non già da una pre-condizione economica, ovvero dalla volontà di condividere la propria sovranità con altri Stati sulle politiche di valenza europea, preservando la propria sovranità (e responsabilità) sulle politiche di valenza nazionale.

Ecco perché occorre liberarsi dalla tirannia delle formule ambigue. Esse non aiutano a fare le scelte necessarie. La Dichiarazione di Roma dovrebbe indicare con chiarezza la necessità di costruire un’unione politica a partire dai Paesi che condividono la moneta comune, non già cincischiare con formule che ogni Paese può interpretare come più gli conviene.

Sergio Fabbrini, La crisi europea e la tirannia delle ambiguità.

http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2017-02-12/la-crisi-europea-e-tirannia-ambiguita-111254.shtml?uuid=AEtYRTU

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In un articolo alquanto complesso e non proprio lineare Fabbrini oggi sul Sole 24 Ore conclude richiedendo che l’Unione europea non sposi la visione ambigua (solo momentaneamente perorata dalla Cancelleria Merkel) di un’Europa a doppia velocità e si concentri piuttosto con il procedere spedita verso una unione politica senza che questa sia legata a particolari comunanze sulla politica economica.

Il tema è rilevante perché sarà alla base delle discussioni di fine marzo nella nostra capitale, in occasione dei 60 anni del Trattato di Roma.  

La proposta di Fabbrini appartiene al reame delle possibilità? Qualcuno direbbe di no, visto l’attuale scetticismo prevalente su un futuro europeo comune, ma invece sì. La mancanza di democraticità di tante scelte europee passate non può infatti farci escludere che gli attuali capi di Governo europei (difficile chiamarli leader) spingano sull’acceleratore dell’Unione politica, malgrado di fronte non troverebbero che un burrone, quello del populismo crescente che si alimenterebbe di consenso a seguito di una tale decisione.

La proposta di Fabbrini ha inoltre un altro difetto: che oscura il quadro di quale possa essere la soluzione più appropriata. Detta in altro modo: facendoci intravedere il burrone potrebbe spostare l’asse del dibattito alternativo verso il mettere il motore in folle (non fare nulla) o addirittura innestare la retromarcia (assecondare i populisti, per esempio lasciando andare la Grecia fuori dall’euro) e precipitare in altro strapiombo. Senza accorgersi che a accanto c’è una strada, oscura e senza una chiara indicazione di dove finisca, che può rappresentare l’unica soluzione di, seppur momentanea, sopravvivenza.

Perché non è vero, come afferma Fabbrini, che si può procedere, sperando in un successo realistico, verso una unione politica senza concordare anzitutto la costituzione economica su cui questa si dovrà fondare.  Oggidì, entrare in una unione politica che stabilisce di approvare a fine anno il Fiscal Compact come ortodossia fiscale – che guidi il futuro Ministro europeo delle Finanze –  significa far scoppiare la rivolta nell’asse meridionale dell’area euro. Parimenti, entrare in una che non lo preveda significa garantirsi la rivolta dell’area nord dei paesi euro. E’ arrivato il tempo di lasciar andare proposte che si ancorino su avanzamenti giuridici dell’Europa senza che questi affondino le loro fondamenta sulla rappresentanza democratica dei cittadini tutti, delle loro sofferenze, delle loro speranze e dei loro ideali.

C’è una strada alternativa, dicevamo. Questa ha il vantaggio che indica sì un percorso incerto, ma che garantisce almeno per alcuni anni la sopravvivenza dell’Unione, dandole quell’ossigeno necessario a permettere di ritrovare un senso di coesione proprio perché “nessuno impone all’altro qualcosa”, fattore questo che ha generato sempre sinora grande acrimonia interna all’Unione e crescita esponenziale dei populismi. Il suo scopo? Essa deve al contempo arrestare credibilmente qualsiasi marcia in avanti e all’indietro. Per riuscire nella prima frenata, l’Italia può giocare un ruolo decisivo, mettendo il proprio veto alla firma di fine anno dell’inserimento del Fiscal Compact nel Trattato dell’Unione europea. Non sarebbe un’imposizione ad altri, ma piuttosto il saggio richiamo – del Paese dove il Trattato ebbe la sua nascita e della terra dove si svilupparono i semi della civiltà europea – a un dibattere senza condizionamenti il senso di una unione di comunità ancora diverse tra loro. Per riuscire nella seconda, la Germania può essere centrale, proponendo che coloro che lo desiderano, all’interno dell’area euro ma anche dell’Unione, celebrino nel concreto un patto simbolico di difesa comune con la creazione di un esercito comune europeo, capace di avvicinare popoli diversi, come avvenne per l’Italia del Nord e del Sud, legatosi anche grazie al servizio militare obbligatorio. Da qui potremmo finalmente sperare che la strada fitta di arbusti cominci a mostrare uno squarcio, un senso di direzione, comune, non verso un burrone ma verso un luogo sicuro dove si possa costruire pacificamente la casa della futura comunità europea.

Può sembrare una strategia modesta, quello dell’ambiguità attendista. Ma è l’unica che la Storia ha spesso premiato, quando casualmente l’attesa e la fortuna hanno fatto sì che un seme buono potesse crescere e diventare foresta, piuttosto che assistere all’impianto pianificato da parte di un giardiniere crudele o incompetente che ha dato vita ad un’erbaccia antidemocratica alla fine rimossa da chi ha avuto la forza di ribellarsi.

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Euro o Fiscal Compact: rien ne va plus? No.

Ora che l’euro è pronto ad essere mollato anche dal President Elect Trump, ora che la Brexit è “hard” (dura), ora che Grillo pro-euro è diventato in 1 giorno Grillo anti-euro, si scaldano i muscoli di quelli del “prepararsi all’uscita ordinata” dalla valuta comune. Che ci chiedono di cessare dal difendere a tutti i costi l’euro e di mollare la sua difesa ad oltranza, di smettere di assalire il vero responsabile, l’austerità, lasciandosi andare al coro crescente (seppur sempre piccolo) della casta dei noeurini della liretta.

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Manco morto.

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Non vedo perché prepararsi ad una uscita ordinata: cosa vi è stato di disordinato in Brexit? Si è lottato, si è vinto, si è perso, si è deciso, si è fatto. Quindi smettiamola con questa ipocrisia del “prepararsi”: tipo “prepariamoci alla sconfitta”, un modo geniale per perdere in anticipo. Se e quando “perderemo” (non perderemo) usciremo dall’euro, al diavolo l’ordine o il disordine.

Il “prepararsi all’uscita” è stato uno dei tanti modi con cui la casta dei noeurini ha deciso di scusarsi dalla battaglia per salvare l’Europa tramite la rimozione del Fiscal Compact e dell’austerità. Non che non si possa vincere ancora quella battaglia, in particolare non apponendo la firma al Fiscal Compact nei Trattati a fine anno, ma la loro responsabilità rimarrà negli annali: avrebbero potuto aiutare in maniera importante nella causa contro l’austerità.

Perché non lo hanno fatto? In parte per ignoranza (quelli del “non si può fare perché non si risolverebbe il vincolo esterno”, incomprensibile, 3-), in parte per nazionalismo (quelli del “vogliamo la lira e l’Italia sovrana”, comprensibilissimo, 8+), in parte per oggettiva sofferenza frustrata, generata da questa Europa (quelli dell’”andate tutti a farvi fottere”, ci sta, 6).

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Ogni novità che indebolisce l’Europa, (Grillo, Trump, Brexit) ha questo di straordinario: che aumenta la probabilità della fine dell’euro e quella si generino gli anticorpi per salvare l’euro. Un paradosso? No.

Ci sono infatti sempre state 3 strade per il futuro europeo: rimanere con l’austerità nell’euro, rinunciare all’austerità o rinunciare all’euro. Tutto ciò che diminuisce la probabilità di rimanere con l’austerità nell’euro (come Grillo, Brexit, Trump), aumenta contemporaneamente le altre due probabilità, che si abbandoni l’euro o l’austerità.

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Una battaglia, quella contro l’austerità, che sarebbe a questo punto stata già vinta se la casta dei noeurini avesse cessato dal difendere a tutti i costi la liretta e di mollare la sua difesa ad oltranza, preparandosi per un futuro senza Fiscal Compact né austerità.

Frase già sentita?

Già, è la stessa cosa che si chiede a noi che crediamo nell’euro e combattiamo l’austerità. La conseguenza logica? Non mollano loro, i noeurini, come non mollo io, l’anti austerità.

L’onore va a chi di loro non ha mollato perché vuole vivere in un’Italia sovrana con la sua moneta. La comprensione va a chi ha considerato l’euro il capro espiatorio delle proprie sofferenze economiche. La risata va verso chi, senza soffrire e senza un patriottismo comprovato nel proprio passato, l’ha fatto per dimostrare che la propria teoria economica del vincolo esterno era giusta (ps: è sbagliata).

E ora? Rien ne va plus, aspettiamo che la pallina si fermi? Oh no, se si combatte, si piega la fortuna alle proprie battaglie, e la probabilità di vincere cresce.

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Siamo noi, che abbiamo tutto da vincere o tutto da perdere

“–nor had I understood til then how the shameless vanity of utter fools can so strongly determine the fate of others” 
Philip Roth, The Plot Against America

“Everyone becomes a part of history whether they like it or not and whether they know it or not.” 
Philip Roth

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Un saluto al 2016. Un saluto al 2017.

Il 2016 lo ricorderemo per quella follia chiamata Brexit. La follia non è ovviamente di coloro che la hanno pretesa, Brexit, ma di coloro (in Europa!) che l’hanno causata con le loro politiche sbagliate, un gruppo di vanesi che si sono ascoltati solo tra loro, con i tappi alle orecchie per quello che succedeva fuori, per strada. Con le loro azioni politiche scriteriate, liberiste e non liberali, hanno per sempre cambiato la struttura dell’Unione europea, amputando una delle sue parti più vitali, pragmatiche, diverse. Quell’Europa con il Regno Unito oggi non esiste più. Cancellata per sempre dalle cartine geografiche, come dopo una guerra con vincitori e vinti. Nel 2016 è morta dunque una certa Europa. Nel 2017 avremo il primo anno di vita di un’istituzione che ha subito la perdita di una molecola chiave del suo DNA.

La storia è fatta da ognuno di noi: coloro che non si sono presentati al suo appuntamento, per vanità, distrazione, inettitudine, ignoranza, cattura, ideologia, egoismo, xenofobia, la hanno determinata. A loro, soprattutto a tutti i capi di Governo dei 28 paesi dell’Unione europea, va il mio più autentico disprezzo politico per avere ucciso per sempre quell’Europa.

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Un’altra Europa è dunque nata. Ma che forma avrà?

Il 2017 si apre con mille appuntamenti. Ma uno solo conta per noi italiani. Impedire una mutazione ancora più radicale e definitiva dell’Europa, fino a farci ripiombare nell’orrore del primo dopoguerra, quando tutti gli Stati prendevano decisioni isolate, senza consultarsi, senza confrontarsi, senza vigilare sul rispetto all’interno di ogni nazione dei diritti umani. Ciò avverrà tramite un crescente numero di simil-Brexit causate dal voto popolare, che travolgerà chi non ascolta e non agisce per aiutare coloro in difficoltà.

Per farlo, dobbiamo permettere che si rappresenti e difenda l’interesse di chi ancora soffre troppo in questo Continente. Abbiamo chiuso gli occhi per un tempo così lungo, precludendoci l’utilizzo di strumenti di politica economica che possono aiutare a lenire il dolore e venire incontro ad esigenze basilari di cittadinanza in un momento di rallentamento economico.

Per farlo, dobbiamo ricordare che a fine anno gli Stati membri dell’Unione europea si riuniranno per decidere se inserire nei Trattati europei l’orrido Fiscal Compact, macchina infernale nelle mani di odiosi processi burocratici, sconosciuta a qualsiasi altro Paese al mondo, che impedisce alla politica fiscale di fare quello che serve in momenti bui, esercitare solidarietà ampia ed immediata verso chi soffre.

Affinché l’Italia ed i suoi nuovi governanti esercitino il proprio potentissimo potere di veto su tale firma, spetta a noi sensibilizzare – in ogni sede, luogo, momento e con ogni mezzo lecito - tutti gli attori del processo decisionale politico, compresa la società civile, affinché l’Italia non apponga la sua firma e blocchi la macchina infernale.

E’ nelle nostre mani, la Storia. Non mobilitarsi, non combattere, rassegnarsi è equivalente a divenire complici della nostra fine.

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2017, mobilitazione generale

Ecco il testo della mia intervista a Linkiesta di oggi.

http://www.linkiesta.it/it/article/2016/12/08/solo-renzi-poteva-salvarci-dallausterita-ora-serve-una-mobilitazione-d/32662/

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Mobilitazione generale. Pacifica, senza violenze, ma compatta e continuata, per tutto il 2017: è l’unico modo per evitare che alla fine dell’anno che verrà il fiscal compact rientri nei trattati europei, finendo di essere un accordo intergovernativo revocabile. È quello che immagina Gustavo Piga, professore ordinario di Economia politica presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata, da anni impegnato in una battaglia contro l’austerità. Nel 2014 fu tra gli organizzatori di una raccolta di firme per un referendum che abrogasse l’adozione del fiscal compact. Negli ultimi mesi ha apprezzato l’attivismo di Renzi per ottenere margini di negoziazione maggiori in Europa, sebbene ritenga gli sforzi non sufficienti. Ora, spiega, le dimissioni di Renzi sono “una disgrazia”, perché “era l’unico in grado di condurre una battaglia a Bruxelles”. Il No al referendum, aggiunge, è un messaggio contro l’attuale politica economica europea, ma ha un effetto paradossale: rafforza nel breve termine il paradigma della stabilità e pure lo stesso Renzi. Ma nel medio periodo o si cambia o vinceranno le forze populiste.

Professore, intanto lei che interpretazione dà del voto di domenica?

A livello europeo, per chi crede al paradigma di breve periodo della stabilità, ci troviamo di fronte a un’Europa molto più stabile di prima. Non dimentichiamo che domenica ci sono stati due voti. In Austria abbiamo cancellato, almeno per un anno o due, il fantasma fascista che ci ricordava così tanto gli anni Trenta. Dopo la Brexit abbiamo imparato che ci dobbiamo responsabilizzare molto più di prima quando votiamo, che il nostro voto conta, che non possiamo vivere di rimpianti una volta che abbiamo deciso di non andare a votare.

E in Italia?

Anche il voto italiano va preso come un voto per il paradigma della stabilità. Lo vedo come da un lato un successo per Renzi e dall’altro un successo per il successo per il paradigma della stabilità.

Come, non è la vittoria della protesta?

Questo referendum è stato inteso, alla fine da entrambe le parti, non come un voto tecnico su questioni costituzionali ma come un voto sulla figura di Renzi. Allora: se una persona riesce a mobilitare così tante persone al voto e poi ottiene da queste persone un 40% di sostegno in un momento non di luna di miele di metà mandato, il più difficile per un governante, il risultato è più da valutare positivamente per il premier che negativamente.

Perché è una vittoria della stabilità?

Per i tifosi del paradigma della stabilità europea si è disinnescata una mina che per loro doveva essere rilevantissima: perché l’Italicum, pensato da Renzi quando si vedeva come l’unica alternativa a Berlusconi, era diventato un incubo per quelli del paradigma della stabilità. Era l’unico sistema elettorale possibile che avrebbe consegnato l’Italia al Movimento Cinque Stelle. Che poi ci piaccia o meno il Movimento Cinque Stelle è un altro discorso.

È l’allarme che prima del voto aveva lanciato l’Economist.

Esatto, era l’argomento dell’Economist e l’argomento, e questo mi diverte molto, di Berlusconi. Berlusconi che dice “Io voto no perché se vince il Sì vince Grillo” ha ragioni da vendere e il paradosso è che il Movimento Cinque Stelle si è opposto a questo regalo di Natale che gli era stato confezionato. Qualsiasi siano le motivazioni del M5s per averlo rifiutato, adesso ci troviamo con una legge pro-Grillo che verrà credo rapidamente abbandonata per un sistema molto più proporzionale che ovviamente gioca contro Grillo e a favore dei partiti moderati. Possiamo dire che rallenterà l’azione di governo, ma se rimane un governo moderato questo non può che far piacere ai fan del paradigma della stabilità.

Ma è stato un voto contro l’Europa?

Non credo come detto che sia stato un voto anti-Renzi per sé, per la persona, perché prendere il 40% correndo da solo è un bel risultato. Però evidentemente è stato un voto contro la politica economica. A questo punto, bisogna domandarsi: chi la fa la politica economica italiana? La fa Renzi o la fa l’Europa? Se la fa l’Europa è un voto anti-politiche economiche europee. Se la fa Renzi è un voto anti-politiche economiche di Renzi. La mia risposta è che il pasticcio terrificante italiano in cui ci troviamo richiama responsabilità sia di Renzi che dell’Europa.

È stato un voto degli esclusi, nel Sud in particolare.

È evidentissimo, guardare l’incredibile modalità di voto nel Meridione e nelle Isole. Il No in Sardegna è arrivato al 72. Che cosa è il Meridione d’Italia e d’Europa in questo momento? È stata ed è l’area economica più colpita dalla crisi e dove meno la politica economica è riuscita a trovare una risposta, lì dove tra l’altro era più urgente. Se lei va in giro per la Lombardia o per il Piemonte troverà regioni vibranti economicamente, che riescono a esportare molto grazie anche alle politiche monetarie di Draghi, un sistema che aveva soltanto bisogno di una ripresa mondiale per uscire dalla crisi. Invece quel territorio che più aveva bisogno di politiche specifiche, il Centro-Sud, versa in uno stato di crisi, di emorragia di giovani, di emorragia di lavoratori, di crescente potere della criminalità organizzata come ultimo bastione di sollievo, che non è tollerabile, e queste politiche economiche fallimentari su Centro e Meridione sono state chiaramente denunciate dal voto del referendum.

Per quanto tireranno un sospiro di sollievo i fautori della stabilità?

Per un anno o due. Anche in Austria, tra l’altro. Però se noi non risolviamo il nodo centrale delle politiche economiche a livello nazionale e a livello europeo, rischiamo di essere qui tra due anni a contare i rimasugli di un’Europa che fu. Questo sarebbe un danno epocale in un mondo globalizzato per i nostri figli.

Si stanno creando le condizioni per ripensare il fiscal compact?

Qui arrivavo: ci sono due grandi errori, che non possono essere scissi l’uno dall’altro. Uno sbaglia perché l’altro sbaglia. L’errore dell’Europa è di non consentire politiche economiche in appoggio della domanda interna tramite gli investimenti pubblici e la spesa pubblica. L’enorme errore di Renzi, la miopia di Renzi, è di non aver fatto l’unica riforma necessaria, altro che quella elettorale o il Jobs Act: quella della spending review.

Perché l’unica necessaria?

Perché non c’è modo di convincere l’Europa ad autorizzare l’Italia a spendere di più se non dimostra che sa spendere bene. E non c’è ragione di spendere di più se uno non sa spendere bene, perché questi sono soldi buttati al vento. È difficile convincere questa Europa così cretina e così ideologicizzata sulla irrilevanza del settore pubblico, il che è un gravissimo errore di visione di come funzionano le economie di mercato, se non riusciamo a convincere i tedeschi che sappiamo spendere bene.

L’ultima legge di Stabilità è fatta di cose buone ma anche di mance.

Renzi ha continuato a sottovalutare l’importanza della spending review anche recentemente con gli accordi un po’ a casaccio con i sindacati nella pubblica amministrazione. Ma anche l’Europa continua a sbagliare. Moscovici sta facendo delle aperture: ora chiede anche alla Germania di spendere di più e di tassare di meno. Ma continua a chiedere all’Italia di continuare nelle politiche di austerità. Si sta quindi facendo un cambiamento timido. Purtroppo il problema, come sempre, è che non c’è tempo. Più tempo passa, con la nostra timidezza, più le cose si incartano.

Non se ne esce?

L’occasione vera, chiunque la coglierà, è quella che si presenta a fine 2017, quando i Paesi dell’Unione europea dovranno decidere se inserire il fiscal compact dentro i trattati. Il fiscal compact in questo momento è un semplice accordo intergovernativo. Si era previsto che dopo cinque anni di funzionamento se ne sarebbero valutate l’operatività e lo si sarebbe eventualmente inserito nei trattati. Abbiamo visto il totale fallimento di queste politiche assurde legate al fiscal compact: hanno distrutto le aspettative, hanno bloccato gli investimenti pubblici ma anche privati, per il pessimismo che hanno generato nei Paesi più in difficoltà. Sarebbe fondamentale che iniziasse nel 2017 una campagna pan-europea, guidata dall’Italia, per la ricusazione del fiscal compact e la non firma da parte dell’Italia all’inserimento del fiscal compact nei trattati. Questo Renzi in campagna elettorale l’aveva chiaramente detto. Ma sa, la campagna elettorale è una cosa, poi dopo è un’altra. Contemporaneamente va fatta una enorme, vera, seria, spending review soprattutto su appalti e su stipendi della pubblica amministrazione, dove si possono generare tantissime risorse senza aumentare le tasse, per finanziare spesa pubblica per i talenti, per la gente brava, per la gente che soffre e per gli investimenti pubblici di cui hanno bisogno sia il territorio, sia le imprese per sostenere le proprie attività. Se queste due cose si possono fare allora forse nel 2018 parliamo di un’Europa diversa. Altrimenti nel 2018 probabilmente staremo a raccontare la fine di un progetto.

Come Italia nel 2018 e 2019 effettivamente le correzioni previste dal fiscal compact saranno ancora più stringenti che nel 2017. Sembra di capire dal suo discorso che se non si cambia, non sarà possibile avere una vera crescita.

Questa è la follia della flessibilità. Si ottiene per il 2017 una mancia, un obolo di flessibilità e al contempo si deve promettere urbi et orbi che nel 2018 e 2019 faremo due manovre da 20 miliardi di aumenti di tasse sui consumatori. Questo deve cessare, e questo è esclusivamente legato al fiscal compact. La battaglia è là. In questo caso l’Italia ha il coltello dalla parte del manico per la prima volta, perché se oppone la firma allora non c’è niente che si possa fare.

Però l’Italia avrà con ogni probabilità un governo tecnico. Che forza può avere un governo tecnico per fare questa battaglia?

Questo è il mio grande rimpianto. Credo che l’unica persona che avrebbe potuto portare a termine questa battaglia, malgrado sia stata a mio avviso assolutamente incompetente su questa battaglia nei passati anni, era Matteo Renzi. Era l’unico che aveva le capacità, se l’avesse voluto. Perché alla fine di battaglie vere contro l’austerità non ne ha combattuta una, o perlomeno se ha pensato di combatterla è stato guidato da una serie di consiglieri assolutamente incompetenti.

In ogni caso, ora non c’è.

È questo che io rimpiango più di tutto: per fare questa battaglia abbiamo bisogno di un governo politico, ma io non vedo un governo politico rapidissimo, senza che prima si sia fatta una riforma elettorale. Un governo tecnico è una disgrazia in questo senso. L’unico modo per affrontare questo è che ci sia la sorpresa forte della mobilitazione generale, per una battaglia comune come sistema Paese, tra cittadini e partiti, contro quella firma. A mio avviso l’unico modo per riuscire ad arrivare a fine 2017, con un Paese che abbia la piena coscienza dell’importanza di questa battaglia, è che si mobilitino tutta una serie di forze sul territorio, per sostenere o per mettere pressione contro, perché potrebbe essere che il prossimo governo tecnico faccia un passo indietro rispetto a Renzi e data la debolezza diventi ancora più austero. Sarebbe un paradosso estremo.

Si immagina delle proteste come quelle fatte in Grecia e Portogallo all’epoca degli interventi della Troika?

Come quella che abbiamo fatto noi e che è fallita per il boicottaggio che Renzi ci ha fatto nel 2014, quando abbiamo ottenuto 350mila firme per il referendum contro il fiscal compact, ma non siamo riusciti ad arrivare a quota 500mila. Renzi poi si è mangiato le mani per l’errore tattico di non aver combattuto quando era al massimo dei sondaggi d’opinione una battaglia di quel tipo. Ora bisogna che si crei una pressione sociale dei cittadini molto forte, perché il governo tecnico senta questa pressione così tanto da essere portato a rappresentare l’istanza. Poi se c’è un governo politico, sarà stato eletto secondo me con un mandato chiaro sulla politica economica. Forse le cose saranno più semplici. Non diamo in ogni caso il messaggio sbagliato: deve essere un movimento pacifico, una rivoluzione pacifica in favore dell’Europa e della solidarietà.

Lunedì 5 dicembre l’Eurogruppo, in assenza di Padoan, ha avanzato la richiesta di una manovra correttiva addizionale valutabile in 5 miliardi di euro. È un avvertimento a che si cambi tono rispetto all’ultima fase della politica di Renzi?

Questo è uno dei frutti delle dimissioni di Renzi, perché l’unico che avrebbe potuto evitare questi 5 miliardi in questo momento sarebbe stato Renzi. È la prova della debolezza in Europa del governo tecnico che verrà e della continua, persistente stupidità europea. L’Europa non capisce che questo è un voto contro l’Europa. La mattina dopo dice: “mi hai votato contro? Non tengo conto di quello che mi hai detto democraticamente, ma faccio il contrario”. La miopia europea e il masochismo europeo non hanno fine.

Però su Mps ci sono segnali contrastanti. Da una parte il limite non rinviato del 31 dicembre per l’aumento di capitale. Dall’altra, in caso di fallimento dell’aumento di capitale, la possibilità di un bail-in leggero, in cui paghino solo gli investitori istituzionali e non le famiglie. È una notizia da valutare positivamente o qualcosa di comunque negativo visto l’effetto sulle altre banche?

È una cosa importante. Non dobbiamo in questo momento mettere benzina sul fuoco. Giocare con le banche sarebbe gravissimo. Questa posizione va accolta positivamente. È un’Europa sensibile alle questioni importanti soltanto quando si parla di settore finanziario, per le ripercussioni che vanno al di là delle frontiere, data l’interconnessione del sistema bancario. Quello che non si capisce è che anche non solo la banca e i denari sono interconnessi, ma anche l’umanità è interconnessa e se abbiamo un progetto europeo comune, di comune umanità, quando trattiamo male un cittadino greco o un cittadino italiano stiamo trattando male un cittadino europeo. Un anno dopo sarà il cittadino tedesco o finlandese, quando la sua economia sarà in crisi, che sarà trattato male. Tutto questo indebolisce la fibra del progetto europeo, che deve essere basato sulla solidarietà. Dovremmo mostrare la stessa velocità di reazione non soltanto verso le sofferenze bancarie ma anche rispetto alle sofferenze umane delle persone. A questo punto il sistema europeo riuscirebbe a reggere e a diventare un’unione monetaria coesa come lo è diventata nel tempo grazie alla solidarietà e alla pragmaticità quella statunitense.

Troika è un nome che ci deve terrorizzare?

Assolutamente sì, ci deve terrorizzare. È l’antitesi del progetto europeo, che è nato sul concetto di democrazia. Dobbiamo respingere la Troika. Non ho apprezzato nulla del mandato del professor Monti ma l’essere stato molto chiaro in un momento di grave difficoltà, anche bancaria, nel dire No alla Troika, è qualcosa che va riconosciuto a Monti, anche se poi il prezzo che abbiamo pagato è stato quello che l’austerità ce la siamo fatta in casa. Se vogliamo cominciare la battaglia contro il fiscal compact, ripeto assieme alla battaglia per la spending review, è necessario rifiutare ogni contributo tecnico legato all’austerità e alla mancanza di democrazia.

Una domanda al professore. Abbiamo avuto prima la Brexit, poi Trump. Siamo di fronti a grandi cambiamenti di paradigma nel pensiero economico che saranno ricordati anche in futuro?

Tutto questo nasce da un cocktail micidiale: abbiamo avuto un’apertura rispetto alla globalizzazione, più una nuova moneta unica continentale, più la più grave crisi recessiva dal 1930. Questo cocktail è fatto di una buona dose di sfortuna, ma anche di cattiva gestione. La globalizzazione ha creato delle tensioni forti sul tessuto più debole delle società e di questo tessuto va tenuto conto. Non tenerne conto genera dinamiche di crescita del populismo che mettono a rischio tutto: la parte buona della globalizzazione, la solidarietà e tutti gli aspetti di crescita connessi. Quindi assolutamente sì: il paradigma della globalizzazione va modificato, va gestito. La parola protezione deve tornare a diventare utile nel lessico dei politici moderati, non bisogna vergognarsi di dire che parte della politica deve essere legata a proteggere le persone più deboli dai grandi cambiamenti epocali, che vanno presi come un’opportunità ma soltanto se sapremo proteggere dal vento del cambiamento quelli che non sanno proteggersi da soli. Finché non capiremo questo la globalizzazione avrà più svantaggi che vantaggi e il modello di democrazia entrerà rapidamente in crisi. Se invece sapremo capire cosa sta succedendo nel mondo, potremo basare il modello del mercato sulla solidarietà, come è sempre stato nelle aree di mercato di successo. Penso agli Stati Uniti, a come si sono sviluppati dagli anni Trenta in poi su un modello di connubio di mercato e solidarietà durato fino agli anni Ottanta.

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La rivoluzione del 2017 con le mani libere di Keynes

Ero al primo anno di Economia alla Sapienza. Arrivavo presto per tenere i posti. Finii per ascoltare, studente di I anno, le seconde ore di Fausto Vicarelli, docente del II anno. Cominciai ad innamorarmi dell’economia grazie a un docente con cui non sostenni mai un esame. Due ricordi: le sue lavagnate di appunti, chiarissime; e poi è incredibile ma credo di ricordare ancora il timbro della sua voce, con una sua musica, convinta, schietta, pulita. 20 anni dopo divenni direttore, per due anni, del Laboratorio Vicarelli all’Università di Macerata grazie al sostegno di Mauro Marconi: come dice Mauro, lasciai un deficit di cassa, ma ci impegnammo tanto a costruire dibattito. Ieri la Sapienza ha voluto onorarne il ricordo con un Convegno pieno di interventi scientifici di grande levatura (Paolo Paesani tra questi ma anche Tancioni e Cedrini) e di interventi a braccio appassionati, commossi, divertenti, profondi. Una bella giornata. Ecco il testo del mio intervento.

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“Lo stimolo per l’analisi di Keynes fu sempre un qualche momento di crisi capitalistica.” Così Vicarelli nell’ultima pagina del suo libro su Keynes, Instabilità del Capitalismo.

Quale momento migliore dunque, per ritrovarci qui! E di ricordarlo. Nel bel mezzo di una gravissima crisi economica.

Senonché una crisi capitalistica, nell’accezione che vi dava Vicarelli, non è una mera crisi economica. E’ una crisi che interroga i nostri valori. Che vede all’orizzonte una rivoluzione.

Preciso subito che nel volume di Vicarelli la parola rivoluzione è frequente. Tuttavia nella prima parte del volume – che si occupa dei primi anni di Keynes e della sua opera scientifica – ha un significato molto diverso da quello della seconda, legata agli anni della Teoria Generale. Vi è una cesura, che forse riflette l’evoluzione degli interessi e dunque del pensiero di Keynes, forse l’interpretazione di Keynes. Sta di fatto che le ultime pagine abbondano di riferimenti alla questione se quella di Keynes fu o non fu rivoluzione teorica, tema su cui tornerò. Ma nelle prime pagine Rivoluzione è quel moto, appunto, che minaccia di sconfiggere il capitalismo. Non facile a priori trovare un legame tra quelle due parti della vita di Keynes; deve essere stata una delle sfide principali, vinte, dell’opera di Vicarelli.

Rivoluzione dicevo. Come quella comunista a cui si interessava il primo Keynes, oppure come quella del suo saggio del 1930, Economic Possibilities for our Grandchildren, rinviata di 100 anni, al 2030, dove l’accumulazione di capitale cessa di esistere per lasciare spazio al dare valore “ai fini più che ai mezzi, preferendo il bello all’utile”.

Che forme caratterizzano queste rivoluzioni in Keynes secondo Vicarelli? Una forma religiosa. Perché il capitalismo secondo Keynes era “assolutamente irreligioso, senza unione interna, senza troppo spirito pubblico, spesso, fatto di grette congerie”, mentre il comunismo a cui guardava con sospetto e simpatia aveva la forza di una religione, la forza “di amalgamare le diverse componenti della società mostrandole un futuro verso cui impegnarsi”. Non a caso in Possibilità Economiche dice espressamente “ci vedo liberi di tornare ad alcuni dei più certi e sicuri principi religiosi” (sempre nel 2030!). Una mancanza di religione che, forse, costituisce la fonte più potente d’instabilità del capitalismo per come lo descriveva Keynes, così privo di valori.

Dunque l’attuale crisi economica, particolarmente priva di amalgama, può essere classificata come crisi capitalistica. Comunque sia, queste crisi, leggiamo in Vicarelli, secondo Keynes possono essere aggirate pacificamente, qualcuno potrebbe dire con una rivoluzione pacifica, “agendo sulla fragilità delle relazioni sociali, modificando le principali motivazioni morali dietro l’attività economica”. Tuttavia Vicarelli sostiene che questa non sarebbe una rivoluzione perché non eliminerebbe il capitalismo ma lo renderebbe più stabile. Ma non ne sono certo: un capitalismo amalgamante forse non può essere più chiamato capitalismo, certamente non quello scuro e gretto del Keynes di “Economic Possibilities”.

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Ma arriviamo al presente: siamo vicini a una rivoluzione? Non comunista, non anti-capitalista ma amalgamante? Che lavori sulla fragilità delle relazioni sociali, agendo su di esse, mostrando un futuro comune verso cui impegnarsi? E che forma, per la politica economica, deve assumere questa rivoluzione?

Un altro inciso, qui si impone. Non è tanto questione di parlare di rivoluzione operativa, di politica monetaria o fiscale, di IS-LM, ma di rivoluzione istituzionale, riguardo alle istituzioni che ci regolano e che plasmano la nostra vita, morale e sociale, direbbe il Keynes di Vicarelli. Vicarelli lamenta nel libro come vi sia stata, da parte degli studiosi keynesiani, una “sistematica eliminazione di qualsiasi parte del pensiero di Keynes che non fosse possibile rendere in un modello stilizzato del sistema economico, privo di qualsiasi complessità e riferimento socio-istituzionale” che invece Keynes prediligeva (“altro che Hicks!” ha sbottato Pierluigi Ciocca nella sua relazione di qualche minuto fa, ribadendo che Keynes fu ben più rivoluzionario di quanto non sia emerso dai suoi esegeti). Ecco, le istituzioni.

Arrivo dunque alla domanda senza risposta, che mi pongo continuamente in questi anni: come avrebbe analizzato Keynes l’istituzione del Fiscal Compact? Come lo avrebbe analizzato il Keynes di Vicarelli?

Non ci sono risposte, ma posso dirvi cosa sospetto: che gli avrebbe rivolto una lotta senza quartiere. Sono quasi certo che se fosse stato un funzionario di stato oggi si sarebbe subito dimesso per “avere le mani libere”; come fece il 5 giugno del 1919, informando Lloyd George, premier britannico e membro del Consiglio dei Quattro alla Conferenza di Pace di Parigi che doveva preparare quel Trattato che portò alla distruzione della Germania europea ed all’esplosione della follia nazista e a cui Keynes collaborava.

Perché il Fiscal Compact è agli antipodi del Keynes di Vicarelli. Un’istituzione che congela le aspettative degli operatori, dicendogli che anche se oggi ci sarà flessibilità di bilancio per aiutare chi soffre da domani, da subito, questa dovrà essere più che cancellata. Come ci ricorda l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, che obbliga Renzi a dire che nel 2017 il deficit sarà più alto del previsto ma al contempo che “… il quadro per il 2018 e 2019 risente del mantenimento della disposizione di aumento delle aliquote IVA nel 2018 e dalla previsione di un ulteriore aumento di 0,9 punti dell’aliquota base nel 2019. Nell’insieme, il gettito associato ammonta a 19,6 miliardi nel 2018 e 23,3 miliardi nel 2019, corrispondenti rispettivamente al 1,1 e all’1,3 per cento del PIL”. 20 miliardi!  

E a poco serve dire che ogni anno il Fiscal Compact viene rinnegato, perché, come ricordava proprio Keynes, lo “stato delle aspettative di lungo periodo dipende non solo da cosa è visto come più probabile ma anche dalla fiducia (confidence) che attribuiamo a queste previsioni”. Nessun imprenditore minimamente saggio investirebbe nel clima sociale ed economico creato dal Fiscal Compact.

Il Fiscal Compact avrebbe anche fatto il miracolo di mettere a tacere un dibattito teorico sull’assenza di lungo periodo nella Teoria Generale, su cui Kregel ha avuto modo ben più di me modo di ragionare con efficacia, perché è l’unico caso in cui aspettative costanti nel tempo coincidono con aspettative date in ogni momento del tempo.  Perché con il Fiscal Compact il presente si ripete uguale a se stesso in ogni periodo, come nel giorno della marmotta, il film “Ricomincio da capo”, con Bill Murray, condannato a ripetere lo stesso giorno ogni giorno: il breve periodo coincide come in incubo col lungo periodo, quando siamo tutti morti. In uno scenario di stagnazione che vieta la stabilizzazione degli investimenti privati, la ripresa dell’occupazione, la coesione e nutre di fragilità le relazioni sociali, levando amalgama e generando polarizzazione.

Sconfiggerlo, il Fiscal Compact, a fine 2017, non apponendo la firma richiesta per farlo diventare parte integrante del Trattato, sarebbe la vera rivoluzione keynesiana, nel senso propriamente istituzionale e che va al di là di quanto ha oggi sostenuto il Governatore Visco, pur encomiabilmente, di “chiudere la distanza” tra risparmio ed investimento. Sarebbe infatti la rivoluzione che non solo modifica la politica economica, ma che rimetterebbe al centro della nostra vita un altro modo di intendere l’economia ed i rapporti tra cittadini, basandoli nuovamente su solidarietà reciproca e unità di intenti; rilanciando l’ottimismo nelle aspettative e creando la gioia di un futuro … incerto, dove ogni giorno le aspettative possono finalmente mutare.

Son ben conscio che una rivoluzione ha bisogno di un popolo. Cominciasse intanto il popolo degli economisti, alleandosi durante il prossimo anno per farla attivamente e concretamente. Perché? Per un semplice motivo: perché, fino a prova contraria, anche noi “abbiamo le mani libere”.