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Riprende la lotta al Fiscal Compact, con 1 alleato in piu’

Il mio pezzo di oggi sul Sole 24 ore.

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La posizione di Matteo Renzi sul Fiscal Compact, meritevolmente ripresa dal Sole 24 Ore, rappresenta una mossa nuova e dirompente che aiuta anche a meglio comprendere quale sarà il contributo italiano alla complessa dinamica negoziale sul futuro dell’Unione europea, che avrà inizio all’indomani della conferma elettorale della Signora Merkel in autunno.

Non è da escludere che dietro tale mossa del segretario del PD si celi l’aspettativa che proprio l’attuale Cancelliera intenda imprimere una svolta politica verso una minore dose di austerità, convinta (come pare ora essere) che l’Europa debba ormai cavarsela da sola e non possa permettersi di perdere ulteriore tempo con beghe e rallentamenti interni quando ci si attende invece dal Vecchio Continente un contributo di supplenza, a fronte di un’America che pare almeno in parte voler ritrarsi dallo scacchiere mondiale.

Eppure non può sfuggire come in questi stessi giorni il Movimento 5 Stelle e la Lega stiano anch’essi giocando con l’idea di ridirigere i loro consueti strali anti-europeisti verso il Fiscal Compact, abbandonando la battaglia – irrealistica ma non per questo meno pericolosa – di uscire dall’euro.

La domanda sorge allora spontanea: è possibile conciliare una posizione chiaramente europeista con una di lotta al Fiscal Compact? La sfida che attende l’ex Premier in tal senso è triplice: avere una posizione di politica economica difendibile nella sostanza prima e nella forma poi e convincere infine i suoi alleati europei (e con loro i mercati).

Paradossalmente la parte più facile sarà quella che alcuni anni orsono sarebbe parsa a molti la più complessa: argomentare come il Fiscal Compact stia contribuendo non alla ripresa ma al rallentamento ciclico del nostro Paese ed al peggioramento dei nostri conti pubblici. Eppure non vi sono molti più dubbi ormai a tal riguardo: non è pensabile che annunci ripetuti e periodici nel tempo di riduzione di spesa (spesso produttiva, basta vedere al crollo degli investimenti pubblici in questi anni) ed aumenti di tasse di 40 miliardi nel giro di tre anni (a tanto ammontano le richieste incorporate dal Fiscal Compact all’Italia) non abbiano tagliato le gambe anche al più ottimista degli imprenditori. Da qui nasce la lentissima ripresa degli investimenti privati, depressi da un pessimismo imperante sullo stato dell’economia nazionale, in assenza non solo di sostegno della mano pubblica, ma anzi di ritirata precipitosa di questa proprio quando più è necessaria; con in più un debito pubblico che si ostina a non diminuire a causa della mancata crescita. Piuttosto, sarebbe bene che Renzi guardasse con attenzione all’evidenza empirica su cosa funziona in casi di crisi da domanda come quella che attanaglia il nostro Paese: scoprirebbe che gli investimenti pubblici, in questa fase, sono un cannone ben più potente della riduzione delle tasse, perché attivano immediatamente la domanda alle imprese – specie nel settore delle costruzioni – e la loro produttività – con il supporto alla scuola, alla ricerca e allo sviluppo.

All’accusa formale che gli verrà certamente rivolta di porsi in antagonismo con i Trattati europei, non potrà che opporre di voler rimanere invece fedele al padre nobile del Fiscal Compact, ovvero il Trattato di Maastricht. Tenersi all’interno (2,9%) di quella forchetta del 3% del PIL per il deficit che rispettammo miracolosamente nel 1998 per entrare nell’euro gli permette astutamente di fare una seconda richiesta, che ha a che vedere con la durata della politica del deficit al 2,9%: visto che “non sforiamo” (il 3%), sarà essenziale rimanervi il più a lungo possibile per abbattere una volta per tutte il pessimismo. Il Premio Nobel Sims aveva esclamato, riferendosi all’Europa: «si richiede una politica fiscale che sia espansiva ora, senza impegnarsi né a tagliare nel futuro la spesa né ad aumentare le tasse future… Si richiede al sistema politico che prenda impegni per periodi lunghi e che vi aderisca senza cambiare idea, cosa veramente difficile per i politici.» Non per Renzi, che sembra aver accettato la sfida e lanciato il guanto di sfida al Fiscal Compact?

Rimane una questione più difficile da gestire: come convincere i nostri partner europei ed i mercati della bontà di una politica volta così fortemente alla ripresa degli investimenti pubblici e dunque della spesa?  Solo affiancando all’abbandono del Fiscal Compact una seria politica di spending review, mai avviata nei fatti e strategica anche per rassicurare i nostri partner europei sulla qualità della nuova spesa per investimenti. Saprà Renzi cambiare idea sulla necessità di una vera spending? Avendolo lui già fatto – e gliene va reso atto – contro il Fiscal Compact, non dubitiamo che possa rinnovarsi anche in tale campo.

Insomma, una proposta dirompente sì, ma che, se ben attuata e comunicata, può rivelarsi la cartina al tornasole di un’Europa che vuole proseguire il suo cammino unita dalla solidarietà.

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Flat tax? Se ci tenete, ma è la spesa della spending la cosa seria

Il mio pezzo di ieri sul Sole 24 Ore.

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La proposta di una riforma fiscale con “flat tax” non è certamente nuova. L’idea di un’aliquota unica si combina tipicamente con una deduzione per i redditi bassi per replicare una qualche forma di progressività impositiva coerente con esigenze di giustizia sociale. Quando è costruita così da mantenere costante il gettito complessivo dello Stato, qualcuno finisce sempre per pagare più tasse e qualcun altro meno (di solito le persone a reddito alto).

L’Istituto Bruno Leoni, coordinato da Nicola Rossi, ha sviluppato una nuova proposta coraggiosa, presentata sul Sole 24 Ore, di una flat tax del 25% applicata a tutte le principali imposte del nostro sistema tributario. Una proposta che, innanzitutto, si preoccupa di non essere percepita come iniqua ed a vantaggio dei soli ricchi. I grafici pubblicati mostrano come l’aliquota media dopo il passaggio alla flat tax sia più bassa per tutte le categorie di reddito, condizione certamente necessaria affinché non vi siano opposizioni politiche alla proposta. Vi è un’incongruenza tra questa caratteristica della proposta dell’Istituto (“tutti ci guadagnano”) con quanto da noi sostenuto (“qualcuno ci perde sempre”)? No, se consideriamo che la seconda affermazione è legata all’ipotesi che il gettito complessivo dopo la riforma non muti mentre nella proposta di Rossi l’obiettivo è quello di un abbattimento di gettito e di pressione fiscale. In tal modo è certamente possibile che la flat tax e le deduzioni siano calibrate così da far sì che tutti paghino meno tasse.

Se questo è vero, non va tuttavia nemmeno nascosto che il vantaggio in termini di riduzione percentuale dell’imposizione è ben più ampio per le categorie ricche che per quelle meno abbienti: dal 40 al 20% per i percettori di reddito superiori a 200.000 euro, dal 20 a 10% per quelli con 50.000 e immutata per i redditi più bassi. Un individuo con un reddito di 200.000 euro risparmierebbe dunque circa 40.000 euro di tasse, uno con 50.000 euro solo 5.000 euro circa. Pare politicamente arduo, in un’epoca di difficoltà per le classi più povere e di aumento delle disuguaglianze, far passare tali guadagni così asimmetricamente distribuiti. Basterebbe però modificare la proposta, tramite un aumento delle deduzioni per i redditi più bassi accompagnato da una seconda aliquota più alta solo per i redditi alti (una “quasi flat tax”), per ridurre la percezione di possibile iniquità della distribuzione dei vantaggi della proposta, che rimarrebbero comunque diffusi a tutti i nuclei soggetti ad imposta.

Ma il merito vero e proprio della proposta dell’Istituto non sta tanto nel suggerire una mera riforma della tassazione, ma piuttosto di definire una strategia “ambiziosa” che si occupa, come dovrebbe essere sempre per questo tipo di analisi, di tasse, spese, debito e deficit. Nella loro visione, è ideale immaginare una riduzione del perimetro dello Stato tramite una coraggiosa e condivisibile spending review fatta di addirittura 27 miliardi di tagli di sprechi, che permetterebbe di garantire che la flat tax non generi maggiore deficit.

E’ questo quello di cui oggi abbiamo bisogno? E’ noto che, in questa fase di crisi, diminuzioni delle imposte non sbloccano il pessimismo dominante e si tramutano in timidi risparmi e non in maggiore domanda.

Mi permetto allora di mettere sul tavolo una proposta alternativa: anch’essa parte da una vera spending review, e magari anche da una “quasi-flat tax”, una che tuttavia replichi (e non riduca) l’attuale gettito totale dello Stato, forse con un’aliquota fissa al 30% che sale al 40% solo per i redditi alti. E cosa fare dei risparmi così ottenuti dalla spending? Un aumento di 27 miliardi degli investimenti pubblici, in particolare ad alto contenuto infrastrutturale, efficaci visto che parliamo di uno Stato che avrà imparato a spendere bene. Così facendo, senza aumentare il deficit, si sosterrà la produttività delle imprese, l’occupazione delle persone con basso grado di istruzione, la riduzione delle disuguaglianze, la ripresa dei consumi e della fiducia.

La (quasi) flat tax non è dunque né liberista né keynesiana, ma cosa facciamo dei risparmi della spending review sì. Il dibattito è aperto.

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Caso Consip? No, caso MEF

Una rivoluzione in arrivo in Consip, la centrale acquisti di beni e servizi di proprietà del Tesoro? Così sembrerebbe.

Curioso che ne avvengano al contempo due, di rivoluzioni, così da non capire quali di queste sia la vera.

Potrebbero essercene due, direte, perché no? Una coincidenza piuttosto sospetta, anche per chi tende a rifuggire da sinistre teorie complottiste.

Come altro chiameremmo se non “sospetta coincidenza” il contestuale annuncio di una rivoluzione nel modo in cui Consip effettuerà le sue gare ed al contempo delle dimissioni di due terzi del suo Consiglio di Amministrazione così da portare con tutta probabilità anche il terzo componente, di fatto il solo suo attuale Amministratore Delegato, a dimettersi nei prossimi giorni?

Ma procediamo con ordine. Di quale rivoluzione organizzativa trattasi? La riprende giustamente l’ANSA, dandole rilievo, parlando appunto di “rivoluzione in arrivo alla Consip … addio maxi-lotti e più trasparenza”. Maxi-lotti, cosa sono? Vedeteli come l’equivalente di una decisione di bandire gare di “grande ammontare” per raggiungere sconti di prezzo preziosi da parte delle aziende fornitrici partecipanti, ma con il parallelo effetto disastroso di escludere le piccole imprese dalle gare proprio a causa di una dimensione esagerata di queste rispetto al loro modello di business.

Tale cambiamento in Consip fa riferimento ad un adeguamento “per tenere conto della giurisprudenza più recente, contemperando al meglio gli obiettivi di inclusione delle PMI e dell’aggregazione della domanda”. Trattasi dunque del nostro successo giuridico presso TAR e Consiglio di Stato, del Davide che sconfigge Golia per il quale ci siamo battuti da sempre in questo blog? Certamente sì e a quello rimandiamo il lettore curioso per ulteriori approfondimenti.

Una rivoluzione dunque benvenuta. Che ci fa sperare che da ora in poi la politica degli appalti pubblici diventi vera politica industriale capace di generare crescita ancor prima che risparmi, così da mettere in sicurezza i nostri conti pubblici che dai mitici risparmi dell’aggregazione della domanda pubblica – che hanno ucciso le PMI – ha ottenuto solo debito pubblico crescente e stagnazione.

Se non fosse che.

Se non fosse che non si capisce perché questa mossa avvenga in congiunzione con la richiesta di dimissioni dell’attuale vertice della Consip, giustificabile solo se questo avesse fatto male sinora. Forse avrà fatto male, l’attuale CDA, a diabolicamente perseverare nelle gare grandi che escludevano le PMI?

O forse, o in aggiunta, non è che l’accenno contestuale di cui sopra ad una esigenza di “maggiore trasparenza” nella nuova organizzazione della Consip abbia qualcosa a che vedere con la richiesta di cambio del management? Forse sì, visti i recenti scandali di corruzione che hanno condotto all’esclusione della ditta Romeo dalla gara del Facility Management, ancora in attesa di aggiudicazione. Forse sì, visto che ancora la Consip si è sentita di dover escludere due imprese, CNS e Manutencoop Fm, per aver fatto cartello in un’altra delle sue convenzioni, quella di Pulizia delle scuole.

Ma siamo sicuri che la minore aggregazione della domanda e la maggiore trasparenza ora annunciati per evitare episodi di non partecipazione delle PMI, corruttela e collusione siano dovute ad errori da addebitare alla Consip e non a quelli di qualcun/qualcos’altro?

Consip è in fondo un mero modello di centralizzazione degli appalti come tanti nel mondo, caratterizzato in teoria da 1) alta intensità di utilizzo di strumenti tecnologici per effettuare le gare, che rendono la relativa informazione su di esse nota ad un pubblico più ampio e 2) dalla possibilità di assumere personale competente (perché più remunerato) che eviti errori formali e sostanziali nei capitolati, riducendo da un lato il contenzioso giuridico a valle del bando e, dall’altro, ispirando anche altre amministrazioni a copiare il materiale di gara e ridurre a loro volta gli errori che spesso rallentano e peggiorano l’operato della macchina amministrativa italiana.

Tutto qui. Che Consip sia poi diventata una macchina da gare “grandi” (per risparmiare tramite teoriche economie di scala) senza tenere conto che queste distruggono partecipazione, aumentano la possibilità di cartelli e attraggono maggiormente il palato dei corruttori per la loro dimensione, piuttosto che rimanere un’organizzazione a servizio di tutte le amministrazioni locali, con gare a lotti piccolissimi che attirassero l’interesse di quel volano strategico del nostro Paese chiamato piccole imprese, non è stata certo una decisione della Consip ma del suo maggiore azionista, il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Centralizzazione non fa per forza rima con aggregazione, se non perché il Ministero di Via XX Settembre ha scelto di darle questa pericolosa e sbagliata inclinazione.

Ministero che fino a pochi giorni fa, prima a TAR e poi al Consiglio di Stato, difendeva queste scelte come “imprescindibili” al fine di salvaguardare quel programma di razionalizzazione della spesa pubblica che apparentemente con gare piccole si sarebbe messo gravemente a repentaglio.

Speriamo con una qualche apprensione dunque che questa riforma in favore delle PMI sia volontà sincera e non tattica politica. E comunque, attendiamo che ci dicano chi, dei vertici del MEF, debba dimettersi per questi anni di mancato sviluppo e per tutti questi errori marchiani nella politica, così strategica per la ripresa del Paese, degli appalti pubblici.

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What is European Solidarity?

Yesterday I was honored to participate to a debate in the European Solidarity Center in Gdansk, located in the historical site of the shipyards where the movement Solidarność arose in the early 1980s. The topic was, “what is solidarity”. Here is text of my speech.

 

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I am deeply honored to speak about solidarity here, where Solidarity (Solidarność) was born but is also kept alive by the oustanding work and the celebrated Museum of the Center.

To debate of such a challenging topic, let me start with a fable known to all of us, a useful tale for me of how to understand solidarity in the current quest for the European Union to survive.

It is Aesop that wrote it first, rewritten centuries later by French poet Lafontaine, of an ant and a grasshopper. During the summer, the former works hard and saves food for the harsh winter season, the second dances, quite well, but does not save for bad times.

By now you will have already guessed who’s who in the current European situation: Italy (and Greece) and southern EU are the lavish grasshoppers and Germany and northern EU the thrifty ants. A stereotype? Not so much if you look at the summer season of the euro, between 2000 and 2005, when public spending in Italy was definitely higher than in Germany, allowing public debt to rise exactly when it was supposed to go down, in good times.

It would however be very easy for me to show you, using Eurostat data, that this stereotype is untrue after the winter started to surround the European Union: between 2010 and 2016 total real public spending in Italy has gone way down (in particular public investment, by 30%!) while it has moderately gone up in Germany. So, during the second economic crisis which started in 2011, Italy would be the austere ant and Germany the timid cricket; but this is a bit beside the point, since perceptions and stereotypes matter a lot, almost more than data when it comes to solidarity issues.

So, to go back to the tale which you know so well, when the winter arrives, the ant survives well in its warm house. The grasshopper freezing to death knocks on the ant’s door and asks for refuge. In Lafontaine’s fable, the ant shows no solidarity at all, and lashes the famous quote in French, “Danse”, tantamount to “die”.

A telling tale indeed, as this is what has been repeatedly said to Greece and Italy in these past years of forced austerity in bad times. Also, not a brilliant solution for Italy, and therefore for Europe, if our aim is one of keeping the Union alive (a wish that an increasing numer of voters in Italy and other Southern countries are questioning, arguing that national sovereignty is the way forward, a belief I should add I do not share but respect, as it deals with an honorable sentiment, the one of which flag most represents each one of us).

I urge you however to cross the Atlantic through You Tube and download the Walt Disney Version of the same fable, it lasts for 10 minutes at most.  In the cartoon, the first 9 minutes mimick exactly Aesop’s and Lafontaines’s tale. In the 10th minute however everything changes. The grasshopper knocks on the door, the ant opens, welcomes the almost frozen insect in the warm room, offers a warm soup, and then says to the grasshopper (in English): “Dance”, and happily goes on to enjoy the show of the artist with great gusto and renewed friendship. Solidarity is there, and allows both parties to rejoice more than had they remained alone and not united.

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It is likely to be the case that this last tale has the right happy ending for any true European. It leaves however some open questions. First and foremost, the one of where does the ant’s solidarity come from. Since we are so much in search of solidarity these days, it might come in handy to find out.

The cartoon itself helps to begin sketching an answer.

It came to my mind, watching it, that solidarity not only can coexist with diversity, but I would go as far as to say that diversity is a necessary pre-condition for solidarity: only in its presence, that is, we may be able (not always) to talk about solidarity. When we all are the same, when we perceive ourselves as one, then solidarity disappears, to become something else, a sentiment of brotherhood (fraternité!), patriotism, like a river flowing naturally into its ocean and becoming salted water.

Also, it seems to be obvious from the cartoon that the ant does not open its house to all the animals in the world, but only to a restricted category, in this case the one of the grasshopper. When dealing with solidarity, the diversity we need is a limited one.

I am ready now to give a definition of solidarity based on these intuitions from the cartoon: it is, I believe, a non-universal moral responsibility we owe to certain categories of people different from us, a responsibility to come to the rescue of “the other” in times of trouble.

By the way, we are today speaking in the Main Auditorium of this beautiful Center and just a few minutes ago I was reminded by its Director that even the Solidarność movement in Poland was not homogeneous: it united, by connecting them, many different social groups suffering, often for very different reasons, from an oppressive Communist regime.

So framed, solidarity requires more explanations. Why do we feel we owe something to “them”, the “others”? Again, a necessary (but not sufficient!) obvious condition is that, typically, we must have a common history, often a very strong history in common. We are not here to debate solidarity of Italians or Poles to Chinese people, nor are Chinese citizens debating their solidarity towards us, and for a cause: our shared history is little. Maybe one day, we will discuss that too, but not today in this century.

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However, when that diversity is very strong, no matter what history one has in common, solidarity to arise requires a first element, which I deem indispensable: time. Solidarity, like all moral bonds, grows with time, it can’t be created out of the blue one day. This is relevant for the current dabate in Europe, as I don’t think that the recent proposals of Macron, president of France, to switch to a common budget and to a unique Minister of the Economy (located possibly in Brussels) will do the job. It will be simply a Minister of no solidarity just like today, if we have not become first willing and convinced that we must exercise solidarity. How can I be so sure? Well, for one, because the history of a successful union of diverse states (with a common currency), the United States of America, teaches us otherwise.

A Federal budget and a one man only in charge of it in Washington DC, indeed, took a long time to be approved: exactly in the mid 1930s, 140 years after the formal North American Union was born. Before 1930, a Mississippi plant-owner would have never accepted that a land tax was to be decided in Boston or, for that matter, in Washington DC. Spending, taxes, debts and deficits in the XIX century were predominantly local, just like today in the EU. It took more than 140 years for everyone to accept that Washington could decide for all. A Civil war, the invention of the train that allowed to meet diversity across States, World War I and its push for the US to become a global power, and a crisis like the Great Depression helped the build-up of a Federal system, first proof of the birth of a solidarity across Union members.

This historical evidence by the way generates a second intuition: solidarity needs not only time but also luck to materialize. Anything could have “gone wrong” in 140 years, starting with the Civil War outcome, in the mind of a federalist.

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Can we force our luck? Can we bend destiny and increase the likelihood of generating solidarity before this one has had the time and luck to survive and grow? That is a hard question to answer but inevitable to be asked. Let me try to see two possible ways of doing it, again based on intuitions from our past experience.

First, through a crisis. Crises can be great moments to generate solidarity, if only because the call for help of those who suffer is so strong. By coming to the rescue in times of crisis one extends an invisible loan that will always be repaid because of gratitude, and will generate an essential component of any social contract among diverse people: trust. In the 1930s, Franklin Delano Roosevelt had the leadership and the capacity to leverage the crisis and generate trust across the country, ending up uniting for the first time the United States of America with a social insurance scheme of support for those in trouble. After a few years that technical scheme would change into a true sentiment of solidarity and finally one of patriotism that would surpass the one for one’s own State: the river had found its way into the ocean.

But, what if we were to waste the opportunity that comes with a crisis and let it instead increase inequalities and income differences? Then, data show, trust collapses, i.e. exactly what we have seen happening in Europe since 2011, when the support for the EU project has started to crumble in just a short number of years. Lack of leadership, lack of democratic representation for those who suffered are to be blamed but, what matters most, the window of opportunity was missed and skepticism for the future of the European Union has grown vastly across the Continent.

There is however a second instrument in our hands to try to force luck and destiny: the Law. Emmanuel Kant used to say that  good morality does not generate good constitutions, but that good constitutions can help building up good morality. Unfortunately here again we Europeans were not wise and did not follow advice from the past or from other countries. We indeed created a new Constitution, started in 2011, the so called Fiscal Compact, but a terrible one indeed. One that does not allow countries, when in pain with low demand for goods and high unemployment, to come to the rescue like it is done all over the world, yesterday and today, with expansive fiscal policies, more public investment that is, that generate growth and more stable public balances. Another window of opportunity to bend luck toward our precious goal of strengthening Europe’s cohesion was missed.

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Some today claim that a third opportunity will come with the possibility of mutualizing our debts and issuing eurobonds, a de facto direct fiscal transfer from those countries in good shape (Germany) toward those in pain (Italy or Greece). German will not, I am afraid, agree to such a scheme, not now nor in the near future. And, mind you, not for the reasons mentioned typically by Italians, i.e. that “Germans are selfish”. German are not selfish; to the contrary they have engineered, in the last decade of the previous century, the largest transfer of money and resources ever seen since World War II, with an intensity never experiences even in Italy to support its poorer South: a transfer from the West German citizens to the Eastern ones newly returned to the motherland after the long separation of the Cold War.

One may ask: why was such solidarity exercised in this case and is not for Italians or Greeks? After all East Germans may be seen as equally unproductive as the Italians, to follow once againa stereotype. For a simple reason: that East Germans were perceived as cousins of first degree if not brothers, while Italians are only distant fifth or sixth degree cousins. Solidarity to arise today needs more history in common of sharing and understanding.

But this is not necessarily bad news, as it is actually exactly why the European Union project was started. Do not forget that the Union works over time exactly in the opposite direction of a family, where brothers become cousins of first degree, third, fifth…. losing contact. Europe, to the contrary, is supposed to start from cousins of sixth degree and then move … backwards: so that the son of the son of the son of my son will become brother with the son of the son of the son of a son of my German counterpart today.

For that to happen, once again, we need time, and luck. Time that can be gained only in one credible way: by having Germans and Italians today do things that are in their strict national self-interest but that also allow for the common good to arise. Impossible? Not at all.

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Try to ask German workers if they were to approve of a fiscal reduction in their taxes after so many years of ant-like sacrifices. They certainly would. And part of that bonus would spent … where? Yes, on a Greek Island, dancing, or buying an Italian fridge, reducing at the same the the huge external account surplus of Germany and contributing to development of all other euro countries.

Italy does not need lowering taxes: pessimism is so high that nobody would spend it but rather save it for fears of an uncertain tomorrow. What Italy neeeds now is a huge public investment plan meant to support productivity of Italian firms with better infrastructure, whether material or immaterial, raising demand and GDP and contributing for the first time after many years to reduce its debt over GDP, that has increased with the opposite policies, those of blind austerity.

As much as the German was to learn dancing, the Italian grasshopper would have to show a disposition to do a bit of extra-work, possibly helped by the expert ant: nothing can work better than a convergence of shared values to foster faster birth of solidarity. Italy and Greece in particular would have to provide Germany with ample proof that, since they ask to spend more, they can spend well. Germany could help here too. By agreeing to participate and contribute to the fight against corruption, possibly with the creation of a European Anti Corruption Authority, it would not only contribute to the birth of a critical European public good but would also obtain an extraordinary consensus of 90% of Italians and Greeks, increasing mutual trust and accelerating the growth of solidarity.

It is obvious that such a comprehensive strategic plan would require discarding the non solidaristic recent and unfortunate Constitution of the Fiscal Compact. Taking advantage of the fact that its 5-year performance needs to be judged by year-end then, after the German elections, we would witness the rise of a common NO to its insertion in the European Treaty, releasing the powerful weapon of expansionary fiscal policy coming to the rescue of a stagnating European economy.

By doing so, solidarity would grow faster in the near future and the Union would become stronger, focused on its mission of becoming a global player in defense of human rights, sustainability and culture around the world. A task that only the countries that make up Europe, with their common history, can hope to achieve.

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La fiducia in Europa non c’è? Ricostruitela investendoci

Una parola rapidissima sull’articolo di Lucrezia Reichlin sul Corriere che giustamente ricorda come:

le nazioni, come le federazioni, stanno insieme sulla base di regole, ma le regole da sole non bastano. Si cementano con la fiducia. Quest’ultima si costruisce lentamente, è il retaggio della storia e dell’esperienza. Ed è solo a partire dalla fiducia che si può costruire il progetto europeo. Anche negli Stati Uniti la fiducia nella nazione, che tiene insieme cittadini con identità molto diverse, può improvvisamente deteriorarsi rendendo fragile ciò che sembrava indistruttibile. A maggior ragione questo è vero per noi europei, accomunati da molte cose, ma storicamente divisi in nazioni che nel passato si sono aspramente combattute“.

Ma come si genera fiducia? E’ un buco nero misterioso, questa parola, o possiamo lavorarci su con politiche specifiche?

Gli economisti su questo hanno molto da dire.

In particolare, mostrano come l’indice di fiducia (“trust”) nei Paesi dipenda dalle disuguaglianze o dalle differenze di reddito (vedi ad esempio qui per una sommaria analisi) prevalenti.

In Europa, queste sono andate crescendo tra i Paesi dall’inizio della crisi. Tremendamente. Da qui il crollo di fiducia su di un progetto in comune tra diversi.

Per ritrovarla, la fiducia, è naturale proporre che queste differenze vengano ridotte. Non è necessario immaginare a tal fine improbabili schemi di solidarietà tra Paesi che oggi non passerebbero mai nei Paesi più ricchi perché parliamo di una Unione – quella europea – ai suoi albori che, come quella statunitense alla fine del XVIII secolo, non aveva nessuna intenzione di creare schemi di solidarietà tra stati diversissimi (solo 140 anni dopo, con Roosevelt, si palesò durante gli anni Trenta un primo esperimento di assicurazione sociale tra Stati che solo dopo ancora qualche decennio si tramutò in implicita e definitiva solidarietà e vera fratellanza tra stati).

Per ridurre queste disuguaglianze che minano la fiducia e dunque l’Europa è dunque necessario arrestare quelle politiche che le hanno generate: le politiche del Fiscal Compact. Ripristinando una serie di politiche espansive sia al Nord che al Sud dell’area euro che beneficino i tedeschi (riduzione delle imposte e scomparsa dei surplus commerciali) e i greci (aumenti della spesa pubblica produttiva in investimenti e abbattimento, via crescita economica, del debito pubblico che l’austerità fa esplodere).

Senza esplicita solidarietà, con politiche che, facendo lo stretto interesse nazionale, raggiungono l’interesse comune. A volte succede, direbbe Adam Smith.

Altra via non c’è. Fidatevi.

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Rilanciare la domanda pubblica: ora

L’articolo con Paolo De Ioanna uscito ieri sul Sole 24 Ore

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Opportunamente il Sole 24 Ore, sulla base dei dati ISTAT, riapre il dibattito, chiave  ai fini della stabilità della costruzione europea dell’euro, di quanto formica o quanto cicala sia stata l’Italia in questo ultimo quinquennio di difficile navigazione tra le onde della recessione prima e stagnazione poi.

Non possiamo nasconderci: il convitato di pietra nella decisione di quanto espandere la politica fiscale in Europa per rilanciare una crescita anemica che permette ai populismi di prosperare, tema reso ancora più concreto dall’elezione di Macron e la sconfitta di Le Pen, è proprio il nostro Paese. La domanda interna europea di imprese e famiglie langue, pervasa da un pessimismo che impedisce progetti di lunga durata, e la politica monetaria della BCE  viene in soccorso solo delle imprese più proiettate all’estero via tassi di cambio, ma non all’interno del territorio perché i tassi d’interesse bassi non possono convincere chi non vuole prendere a prestito perché non vede i ritorni, ma solo i costi, dell’indebitarsi per acquistare macchinari che non andrebbero a capacità produttiva per la scarsità di clienti là fuori.

E’ ormai opinione comune, anche negli ambienti istituzionali europei e sovranazionali più conservatori, che solo un rilancio della domanda pubblica, in particolare nella sua componente degli investimenti possa ridare ottimismo, prima direttamente via leva degli appalti pubblici, e poi indirettamente creando il contesto per una ripresa degli investimenti privati.

Riprendiamo allora i dati sulla spesa di questo sessennio 2011-2016. Un periodo in cui l’inflazione si è rosicchiato il 5,5% circa del potere di acquisto di 1 euro, in cui la spesa totale è salita da 808 a 829 miliardi in euro e che dunque in valore reale è scesa, non salita, del 2,3%. E’ importante misurare la spesa in valore reale, perché quel che interessa al cittadino è quanto potere d’acquisto gli viene sottratto, con la spesa pubblica, di tassazione, e perché quel che conta per capire quanto dà la pubblica amministrazione quanto a servizi alla collettività è la qualità effettiva dei servizi (numero di banchi e ore di professori, ecc) e non il numero di euro (per esempio alla scuola).

Esaminando così la spesa italiana, scopriremmo che la spesa in termini di potere d’acquisto degli stipendi di poliziotti, giudici, professori, operatori sanitari è scesa dell’8%. La tanto vituperata spesa per acquisto di beni e servizi che pare salire molto (di 7,5% in euro) in termini reali è salita del 2%, meno dello 0,3% per anno (sempre troppo potrebbe dire qualcuno!). E gli investimenti pubblici? Qui la faccenda si fa drammatica, tenuto conto della loro rilevanza strategica: in termini reali calano del 27%, ad un ritmo del 4% annuo!

L’Italia è stata dunque in questi 6 anni, e i dati lo dimostrano incontrovertibilmente, una austera formichina che ha rinunciato a stimolare la domanda nell’economia ed anzi, l’ha depressa a forza di tagli. Si badi bene: non di sprechi ma di tagli lineari, quasi sempre a casaccio rimuovendo organi vitali della macchina pubblica e non utilizzando il necessario bisturi del bravo chirurgo. E’ evidente che questo spiega sia l’andamento recessivo prima e stagnante poi della nostra economia, il crescente rapporto debito-PIL che si abbatte con la crescita, l’incapacità di poter raggiungere un deficit-PIL vicino all’equilibrio strutturale, rinviando da anni gli impegni apparenti presi con Bruxelles.  Una fatica di Sisifo inutile e che toglie energie al successivo tentativo di risalita.

L’Italia deve dunque chiedere al tavolo europeo, forte di questi dati che mostrano dei suoi sforzi in ottica europea e della loro inutilità, la possibilità di tornare a sostenere l’economia con il volano degli investimenti pubblici, facendo sì che debito e deficit ritrovino finalmente una convergenza virtuosa verso valori sostenibili. Se questo quadro è esatto, il contributo che deve offrire il nostro paese è quello di riorientare al margine la cattiva spesa corrente verso spesa per investimenti buoni. Una sfida che richiede un lavoro analitico costante (da orologiai e non da taglia boschi), organizzato separatamente su ogni settore di spesa, coerente ed interno alla costruzione del nuovo ciclo del bilancio integrato (che unifica bilancio e legge di stabilità): per procedere in questa direzione, come in tutti paesi europei che crescono occorre personale specializzato, dedicato, competente, ben remunerato e ben organizzato attorno ad un obiettivo chiaro, sostenuto politicamente, in Italia ed in Europa.

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Siamo ancora in austerità? Certo che sì

E’ difficile crederlo, ma sta crescendo il partito di coloro che negano l’esistenza dell’austerità in Italia. Un partito diverso da coloro che ne cantano le virtù. Il secondo, inizialmente guidato da Alberto Alesina e da coloro che sostenevano che meno spesa pubblica accompagnata da meno tasse faccia crescere l’economia, è stato più volte demolito dai fatti (Alberto Alesina sul Corriere è ora ben più cauto di allora) e dalla dura ironia di premi Nobel come Stiglitz o Krugman.

Più di recente tuttavia, sul proscenio italico, economisti di prestigio negano l’esistenza dell’austerità, non i suoi danni. Lo fanno non a caso in un momento chiave della storia della politica fiscale italiana: a pochi mesi dalla discussione sulla Legge di Stabilità che, secondo le prescrizioni del Fiscal Compact inserite da Gentiloni e Padoan nel DEF, richiede un mega manovrone da 20 miliardi di euro.

Se tale manovra non comportasse austerità, sarebbe credibile sottoscrivere le stime di crescita pressoché immutate all’1% per il 2018 inserite dal Governo appunto nel DEF. Ma se invece fosse austerità? Se questa manovra da più di 1% di PIL generasse una riduzione, con un moltiplicatore pari ad un cauto 1, dell’1% del PIL, portando l’economia italiana nuovamente allo 0 della stagnazione? Che avverrebbe? Beh, certamente crollerebbero le entrate e dunque il deficit salterebbe alle stelle, contrariamente a quanto promesso all’Europa. Ed il rapporto debito sul PIL? Salirebbe nuovamente, spinto dal crollo del denominatore del rapporto.

Importante dunque capire se hanno ragione, per esempio, Roberto Perotti o Lorenzo Bini Smaghi. Il primo, intervistato, ha sostenuto, “la spesa pubblica al netto degli interessi ha continuato a salire dal 2014, i numeri dello stesso Def sono chiari”.

Ammettendo dunque che prima del 2014 l’austerità c’è stata, ma che a suo avviso non c’è più da quell’anno (tralasceremo per oggi che nel 2016 è scesa dal 2015 da 830135 mld. a 829.311 (fonte Eurostat) e che quella che conta per il PIL (senza pensioni ed interessi che sono trasferimenti e non domanda all’economia) dal 2014 ha visto gli investimenti pubblici calare del 10% circa in valore monetario, gli stipendi calare in valore reale e la sola spesa corrente rimanere stabile).

Lorenzo Bini Smaghi nel suo libro “La tentazione di andarsene” (discusso qualche giorno fa con l’autore) sostiene (come Perotti) che «Di austerità non ce n’è stata di più nemmeno in Italia rispetto agli altri paesi europei, soprattutto dopo il 2013 …».

Come possono due economisti di questa leva dire ciò e farla franca? Credo di avere individuato il perché. Per spiegarmi farò riferimento a qualche grafico. Ma prima di tutto, definizioni.

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Secondo Bini Smaghi, «la valutazione (dell’austerità) … non deve essere fatta sul (deficit) ma sulla (variazione del deficit) da un anno all’altro»: se il deficit (la spesa) diminuisce nel tempo c’è austerità, se i due aumentano c’è il contrario dell’austerità.

Una definizione confermata dalla Commissione europea, ma non dal Fondo Monetario Internazionale, che chiama austerità la presenza di un surplus e l’assenza di questa la presenza di un deficit.

Dettagli? Mica tanto.

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Prendete due paesi, uno in blu, uno in rosso. Ecco il primo, il blu, che a un certo punto diminuisce spesa (da 200 a 150) e deficit (da 100 a 200).

Secondo la definizione di Bini Smaghi questo paese è dunque austero. Da notare che gli Stati Uniti, dopo un iniziale aumento del deficit dopo il 2009, hanno cominciato a ridurlo. Stati Uniti dunque austeri? A dopo per l’ardua risposta.

Ecco sotto un altro Paese, il rosso, che fa scelte diametralmente opposte, aumentando la spesa da 50 a 100, riducendo il suo surplus (equivalente a aumentare il deficit) da 100 a 50. Un paese un po’ come l’Italia di Bini Smaghi e Perotti, secondo i quali dal 2014 l’Italia ha smesso di tagliare spesa e deficit. Italia dunque non austera?  A dopo per l’ardua risposta.

Ora mettiamo questi due paesi uno accanto all’altro. E’ un esercizio utile, perché fa emergere come la situazione sia un po’ più complessa di quanto non apparisse dal guardare ai grafici dei singoli paesi. In effetti, sembrerebbe che l’apporto della spesa pubblica all’economia sia più ampio nel paese blu che non nel paese rosso. Più sostegno dunque nel paese blu da parte della politica economica?

Non sarebbe corretto tuttavia trarre questa conclusione: il supporto all’economia nel dopo crisi va valutato in funzione di quanta spesa ci fosse prima della crisi nell’economia stessa. E dunque val la pena leggere il grafico qui sotto, dove supponiamo che ambedue i paesi provenissero da una spesa pubblica sempre pari a 125 fino all’arrivo della crisi.

Visto così, il grafico mette le cose in una prospettiva diversa. Il Paese blu appare come un Paese che ha reagito all’arrivo della crisi con una politica fiscale molto espansiva (il contrario di una austera!) con spesa a 200 da 125 e che in un secondo tempo ha sì ridotto la spesa ed il deficit, ma mantenendoli sempre ben al di sopra di quanto fatto prima della crisi (150>125), rimanendo dunque espansivo, anche se meno di prima, altro che austero. Certamente questo Paese ricorda gli Stati Uniti, che reagirono inizialmente con un deficit altissimo attorno al 10% e che lo hanno pian piano ridotto, ma mantenendolo sempre ad un livello tale da aiutare l’economia a riprendersi.

Visto così, il grafico mette le cose in una prospettiva diversa anche per il paese rosso, che appare ora come un Paese che ha reagito all’arrivo della crisi con una politica fiscale molto austera con spesa a 50 (da 125) e che in un secondo tempo ha sì aumentato la spesa ed il deficit, ma mantenendoli sempre ben al di sotto di quanto fatto prima della crisi (100<125), rimanendo dunque austero, anche se meno di prima. Certamente questo Paese ricorda l’Italia che reagì inizialmente con una politica molto austera e che ha pian piano ridotto l’austerità, ma mantenendola sempre ad un livello tale da non aiutare l’economia a riprendersi e con essa il debito pubblico sul PIL a scendere.

E perché mai è avvenuto questo? Perché spesa e deficit in Italia non salgono invece a 150 come negli Usa che oggi crescono? Semplice, a causa del Fiscal Compact che impedisce la fine dell’austerità quando questa non è utile ma malsana, capace di generare in Italia un’avversità contro l’Europa che ha fatto crescere drammaticamente il peso di coloro che ora hanno la tentazione di andarsene, distruggendo per sempre il progetto europeo.

Ecco perché è importante dire che l’austerità c’è stata, ma anche che c’è ancora per lo stato dell’economia italiana. E che bisogna bloccare la legge di stabilità così come prevista per l’autunno dal DEF. Ma bloccare la legge di bilancio folle prevista dal DEF significa dire NO per sempre all’inserimento del Fiscal Compact nei Trattati a fine anno.

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La scomparsa delle gare pubbliche

“… mi si lasci dare una definizione di carattere poetico-letterario di  quel fenomeno che è successo in Italia una decina di anni fa. Ciò servirà a semplificare e ad abbreviare il nostro discorso (e probabilmente a capirlo anche meglio). Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta). Quel “qualcosa” che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque “scomparsa delle lucciole“.

Pier Paolo Pasolini, Corriere della Sera

http://www.corriere.it/speciali/pasolini/potere.html

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Zero in condotta a tutti i governi che hanno gestito disastrosamente questi ormai quasi 10 anni di crisi, recessione, stagnazione. Zero non come il bilancio in pareggio che non sanno raggiungere e che continuano a dire falsamente e stancamente di voler fare; zero come il tasso di crescita economica nel decennio quasi trascorso.

Trascorso invano perché ci si è intestarditi a credere che maggiori appalti pubblici non ci avrebbero salvato, come salvarono invece il mondo capitalistico negli anni Trenta, colpiti da una crisi da domanda privata analoga quanto a drammaticità e cause.

Stanno sparendo dunque le gare pubbliche di appalti e con loro un modo di intendere la politica economica, il ruolo dello Stato nell’economia, il contratto sociale che ci unisce come italiani.

Oggi ci troviamo a combattere con tanta stampa e commentatori che sostengono che l’austerità è finita o, addirittura, che non c’è mai stata. E allora a questi tipi un po’ rozzi, che albergano un po’ ovunque, mostriamo ad esempio il drammatico andamento 2016 rispetto al 2015 uscito or ora caldo caldo dal forno dell’Anac sulle gare svolte e gli ammontari spesi in appalti nel quadrimestre maggio-agosto, in un periodo di piena stagnazione.

Sono numeri assurdi, gravissimi, recessivi, che confermano come stiamo seguendo supinamente le indicazioni del Fiscal Compact, finendo per crescere meno di quanto potremmo e facendo così, en passant, continuare a far crescere il rapporto debito-PIL che si abbatte, in questa fase del ciclo, solo con la crescita economica.

Circa il 20% in meno di gare ed una riduzione dell’11% del valore nei settori ordinari ed addirittura un dimezzamento nei settori speciali! 13 miliardi in meno di gare, 1 punto di PIL, che con effetto moltiplicatore avrebbe colmato il gap di crescita con gli altri Paesi europei.

Una vera e propria follia.

Ridurre gli appalti pubblici riduce sia la produttività delle imprese italiane e la loro competitività (mai provato a inviare le vostre merci ai clienti su un furgoncino il cui semiasse si spacca alla prima buca per strada?) sia il loro ottimismo e voglia di investire (visto che nessuno domanda, a che pro investire?).

Se volete che il Paese si riprenda, dite a chi lo sgoverna così male che non volete la firma al Fiscal Compact a fine anno: altrimenti condannerete voi stessi e i vostri figli al declino che supinamente avrete accettato.

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Un decennio fa è cominciato a sparire il settore pubblico in Italia. Va fatto tornare, più scintillante di prima. Ad ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché europeo, darei l’intero Fiscal Compact per una gara pubblica in più.

Grazie a Daniele Ricciardi

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Tra pochi giorni in Sardegna di  nuovo per insegnare al Master sugli Appalti Pubblici che l’Università di Roma Tor Vergata offre insieme a Sardegna Ricerche.

La mia famiglia da parte paterna è originaria di Villa Cidro, in provincia prima di Cagliari ed oggi del Medio Campidano. E’ sempre un’emozione particolare, ritornare in Sardegna.

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Noi siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi, romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi.

Siamo le ginestre d’oro giallo che spiovono sui sentieri rocciosi come grandi lampade accese.

Siamo la solitudine selvaggia, il silenzio immenso e profondo, lo splendore del cielo, il bianco fiore del cisto.

Siamo il regno ininterrotto del lentisco, delle onde che ruscellano i graniti antichi, della rosa canina, del vento, dell’immensità del mare. Siamo una terra antica di lunghi silenzi, di orizzonti ampi e puri, di piante fosche, di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta.

Noi siamo sardi.

Grazia Deledda, Premio Nobel per la Letteratura, 1926.

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E voi quale dei 4 DEF vorreste?

Il mio articolo oggi su Avvenire.

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Quattro candidati presidenti hanno dominato la scena elettorale francese, raccogliendo più dell’80% dell’elettorato in parti quasi uguali. Piattaforme diverse capaci di attrarre ognuna di esse una consistente parte dei cittadini francesi, dividendosi addirittura tra loro votanti fino a poco tempo fa uniti all’interno di un partito coeso a livello ideologico. Che cosa succede?

Ci sono ovviamente molti modi di comprendere tale segmentazione del mercato del consenso politico, qui se ne proporrà una che accomuna in maniera crescente il panorama politico europeo, basato sul contesto costituzionale fiscale che permea le vite quotidiane di tanti cittadini del Continente e che a fine anno dovrà essere confermato, riformato o eliminato con una decisione del Consiglio europeo.

La politica fiscale europea si traduce a livello nazionale in documenti pluriennali pressoché analoghi in ogni Paese – in Italia è ora chiamato Def, Documento di economia e finanza – che vengono pubblicati nella primavera di ogni anno e che vincolano non solo la Legge di bilancio dell’anno a venire, ma anche i percorsi a quattro anni di deficit e debito pubblico. Lo scopo di questi documenti è in principio non solo utile, ma essenziale: ancorano le aspettative degli operatori, famiglie e imprese, che faranno le loro scelte economiche anche sulla base di quanto il Governo di turno promette, quanto a tasse e spesa pubblica, per un orizzonte di medio periodo. L’impatto del Def è dunque rilevante per il benessere dei cittadini e non dovrebbe sorprendere che implicitamente sia oggetto di costante dibattito tra di essi e che condizioni le piattaforme dei partiti che questi cittadini devono rappresentare.

L’accordo intergovernativo attualmente vigente nell’Unione Europea, che porta la data di cinque anni fa, è chiamato Fiscal Compact. Esso richiede a tutti i Governi degli Stati membri, senza se e senza ma, che i documenti economico-finanziari prevedano una convergenza verso il bilancio in pareggio nell’arco appunto di tre anni, tramite una combinazione di riduzione di spese pubbliche e aumenti di tassazione. Ma, in realtà, all’interno di ogni Paese ci si scontra politicamente su quattro possibili orientamenti. Quattro, esattamente come il numero di candidati francesi che hanno appena dominato la scena del primo turno elettorale per la Presidenza della Repubblica.

Di questi quattro possibili Def, di questi quattro modi di orientare la politica economica nazionale nel medio periodo, due li potremmo chiamare “finti Def” e due “veri Def”.

Un primo Def finto è quello che ha dominato costantemente la scena politica italiana, sempre rappresentato dagli ultimi governi in carica, ed è consistito nel rinviare ogni anno il raggiungimento richiesto del bilancio in pareggio a tre anni dalla data del Def stesso. Anche il premier Gentiloni, che ha invece evitato questo tradizionale rinvio, promettendo che il bilancio sarebbe stato messo in pari a due e non più a tre anni lo ha fatto probabilmente ben sapendo che la patata bollente di non rispettare quanto promesso sarebbe caduta su un nuovo Governo l’anno prossimo. C’è chi sostiene che questa politica gattopardesca (detta anche della “flessibilità”) sia utile, per evitare gli effetti deleteri di una eccessiva austerità in un momento di difficoltà. Falso. Cittadini e imprese, a fronte di Def che promettono manovre di 40 miliardi in due anni (tanto ci vorrebbe per raggiungere il pareggio di bilancio) non saranno mai rassicurati da chi li tranquillizza garantendogli che quelle manovre mai avverranno: essi si nutrono di certezze e dunque, in assenza di queste, rinvieranno consumi e investimenti, condannando produzione e occupazione alla stagnazione. I partiti che propongono questi Def sono destinati a convincere sempre meno gli elettorati della bontà della loro proposta, come la Francia dimostra.

Un secondo Def finto è quello di chi si ribella all’Europa, rifiutandola, e chiedendo un ritorno alla valuta e alla sovranità nazionali. Benché sinora costoro non siano mai arrivati al Governo e, dunque, mai abbiano scritto formalmente un Def, è ben noto come lo scriverebbero: argomentando che, tramite l’uscita dall’euro, a 3-4 anni Pil e occupazione s’impennerebbero verso l’alto, generando benessere e stabilità nei conti pubblici. Un Def finto anche questo dunque, perché scritto sulla sabbia, cancellato dall’onda globale che cresce e che condanna i Paesucoli piccoli all’oblio, cancellati dalla tavola delle decisioni globali, dove solo l’Europa potrebbe sedere da pari a pari con Russia, Cina e Stati Uniti. A quella tavola il Paese Italia (o Francia) sarebbe sul menù, niente di più. Eppure una quota non piccola di elettori rivolgono la loro attenzione a questa proposta: tanto più pericolosa dato che l’unico modo di scoprire il suo inganno sarebbe di sperimentarla.

Vi sono poi due Def veri. Il primo – che Gentiloni ha abbracciato solo per ragioni di tattica politica – è quello effettivamente richiesto dall’Unione Europea: una vera convergenza in due anni verso il bilancio in pareggio con, per esempio per l’Italia, 40 miliardi di euro di maggiori tasse o di minori spese, tipicamente tagliate o a casaccio o fatte ricadere su quella componente sempre più facile da eliminare, la più rilevante: gli investimenti pubblici. In un contesto come quello italiano, ma anche di altri Stati membri, adottare una tale politica sarebbe un harakiri di proporzioni gigantesche, perché porterebbe ad abbattere produzione e occupazione. Ma tant’è. È innegabile come una parte degli elettori, tipicamente quella più abbiente e più al riparo dai tagli sociali perché capace di sopperire autonomamente ai propri bisogni di sicurezza economica e sociale, sia attratta da questa piattaforma Def. Senza capire, miopemente, come essa conduca alla fine di quella Europa che tanto potrebbe garantire a tutti se fosse finalmente capace di mostrare un volto nuovo e più solidale verso chi soffre.

Infatti vi è un quarto Def, ancora impossibile da veder stampato e adottato, ma vero perché credibile. È il Def di un’Europa dell’euro diversa da quella che abbiamo finora conosciuto. È un Def che, ridando ottimismo a medio termine a chi soffre maggiormente, sarebbe capace di rilanciare l’economia di ogni singolo Paese europeo, ridando al contempo sostegno politico proprio a quella costruzione politica dell’Unione, che ogni giorno pare invece abbandonata da sempre più persone scettiche, e incredule che le parole Europa e solidarietà possano ancora andare d’accordo, come fu un tempo, all’epoca del Trattato di Roma di cui quest’anno celebriamo i 60 anni. In questo Def il rapporto deficit Pil non è portato in pareggio, ma viene tenuto costante al 3% del Pil come previsto dall’originale costruzione fiscale di Maastricht, ben diversa da quella del Fiscal Compact, fino a quando l’economia non si sarà definitivamente ripresa. In Italia, si libererebbero così 50 miliardi di euro per investimenti pubblici volti a sostenere le famiglie e dare impulso alle imprese nella loro ripresa di competitività. Per rendere credibile tale scenario agli occhi degli alleati più scettici, che non credono che l’Italia possa spendere bene quei 50 miliardi “liberabili”, il Governo autore di questo nuovo Def dovrebbe impegnarsi a una spending review vera, dedicata a recuperare ben 20 miliardi di sprechi negli appalti e nella spesa per il personale pubblico. Una spending a cui mai si accenna praticamente nell’attuale Def italiano. Ma che è necessaria, perché nessuno Stato membro possa dire che l’Italia non deve poter spendere perché non sa spendere bene.

Per questa via, tra nuove risorse e taglio delle spese, in Italia si renderebbero disponibili 70 miliardi a 3 anni. Cifra che rimetterebbe in marcia non solo il nostro Paese ma, con le dovute proporzioni, ogni singolo Stato europeo oggi in difficoltà, così ridando vita e slancio ideale all’Europa. Voi quale Def vorreste?