“Non sarà difficile chiudere quest’anno al 2,6%, il prossimo si prevede all’1,8%, e il pareggio nel 2017. E qui si inserisce il piano del Governo. Ovvero mirare a un deficit un po’ più alto per il 2016, tra il 2,2 ed il 2,5% (ma ben sotto il 3%) così da liberare risorse per gli investimenti. Facendo poi slittare il pareggio di bilancio al 2018 o al 2019. Una politica classica di deficit spending insomma”.
La Repubblica, 17 agosto.
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Di frasi come queste, nel prossimo mese ne leggeremo a bizzeffe, grazie a giornalisti utilmente foraggiati da fonti governative. Il mantra di settembre? “Il Governo si impegna a fare politiche fiscali espansive di deficit spending”. Una musica, o meglio una cacofonia, identica a quella dello scorso anno.
Nel 2014, al suo arrivo, Renzi annunciò – in un momento di difficoltà estrema per l’economia – una sequenza quanto mai recessiva di interventi fiscali: dal 2014 al 2018 deficit su PIL in discesa dal 2,6% a 1,8% a 0,9% e 0,3% per chiudere in bellezza con un avanzo complessivo di 0,3% nel 2018. 3% di PIL di deficit in meno in quattro anni, manovre di 10 miliardi l’anno capaci di ammazzare qualsiasi ripresa la svalutazione dell’euro o i bassi prezzi del petrolio gli avrebbero regalato qualche tempo dopo.
Nel 2015, governo identico e quindi politiche identiche. Dal 2015 al 2019 annuncio di deficit su PIL in discesa dal 2,6% a 1,8% a 0% a addirittura, come potrebbe mancare, il fantascientifico +0,4% per il 2019.
Notate bene: la discesa temporale del deficit annunciata è identica se non superiore a quella dell’anno prima. Quindi stesso effetto: ancora recessione e calo dell’occupazione (in assenza ovviamente di qualsiasi spending review seria fatta nel tempo, con calma e precisione, individuando gli sprechi e non basata su tagli a casaccio come oggi, specie degli investimenti pubblici e delle spese per scuola, università e ricerca e sviluppo). Ma come, non avevano gridato “vittoria” parlando di austerità flessibile e addirittura di “espansione fiscale”?
Come no. Ma allora dove sta il trucco? Semplice. Nel fatto che nel 2014 avevano promesso per il 2015 un deficit all’1,8% e quest’anno invece il deficit sarà chiuso al 2,6%, sforando nelle promesse all’Europa, come nel 2014 quando abbiamo chiuso al 3% invece che allo 1,8% promesso nel … 2013 dal Governo Letta. Dunque: le politiche sono sempre recessive, non solo perché comunque portano a un continuo ridursi del deficit sul PIL nel tempo, ma soprattutto perché annunciano sempre e comunque urbi et orbi a imprenditori e famiglie tagli pluriennali sostanziali che tolgono la voglia di investire e consumare. Ma, al contempo, Renzi e Padoan ogni anno si possono permettere, proclamandosi per l’anno in corso meno austeri di quanto l’anno prima non avevano promesso che sarebbero stati, di preannunciare piani di tagli di tasse epocali, che ovviamente sono nella realtà compensati da altre tasse e tagli di spesa a casaccio ancora maggiori perché comunque il deficit deve calare.
Una classica politica di austerità, insomma, travestita come a Carnevale è in corso di arrivo con la Nota di Aggiornamento del DEF autunnale. Basta ricordare che chi ci perde è il Paese.