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Quelli che la crescita nel 2014 oh yes

L’esito del PIL dell’area dell’euro del quarto trimestre 2012 è stato debole, con una contrazione trimestrale dello 0,6%. Il declino è stato largamente dovuto ad una caduta della domanda interna ma anche ad un calo dell’export…. I dati e gli indicatori recenti mostrano che la debolezza economica si estende alla prima parte dell’anno 2013… una graduale ripresa dovrebbe avvenire nella seconda parte dell’anno … ma lo scenario economico per l’area dell’euro rimane soggetto a rischi di peggioramento. I rischi includono la possibilità di una domanda interna ancora più debole di quanto atteso ed una lenta o insufficiente attuazione delle riforme strutturali. Questi fattori hanno la capacità di smorzare il miglioramento delle fiducia e dunque ritardare la ripresa. I governi dovrebbero continuare a ridurre i deficit pubblici …”

Mario Draghi, oggi.

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Mario Monti, “ieri”:

Sono infatti passati 6 mesi dalla Nota di aggiornamento del Governo Monti, ancora in carica, in cui mostrava il “suo 2013″, quello che sarebbe riuscito a generare per i cittadini con la sua manovra fiscale. Ora abbiamo i nuovi dati, quelli della Relazione al Parlamento di fine marzo.

Peccato. Hanno sbagliato tutto. Leggere la tabella per credere.

In 6 mesi, un semestre, la crescita del PIL è stata sovrastimata di più di 1 per cento. Macroscopico l’errore sugli investimenti delle imprese, crollati del 2,6% invece che rimanere stabili come previsto. Idem con patate per i consumi delle famiglie.

Come dice Draghi, senza fiducia, niente domanda interna, niente reddito e PIL. L’export tiene, rispetto alle previsioni (+2,2% invece di +2,4%). Tutto l’errore di questo Governo consiste in questo, di non avere la minima idea di cosa sia la domanda interna e di cosa la determini.

Draghi crede però nella forza delle riforme. Da sempre su questo blog diciamo che le riforme fanno spesso ridere in una recessione, specie quelle fatte dal Governo Monti. Da sempre su questo blog diciamo che non si fanno riforme in recessione, specie quelle che generano ancora più paura e timore, deprimendo ulteriormente consumi ed investimenti via mancanza di fiducia.

Ma che effetto stanno generando le famose riforme del Governo Monti che ci hanno fatto perdere un anno di tempo prima di riconoscere che il vero problema è piuttosto la domanda interna? Vedere per credere, le famose riforme del governo Monti, quelle che dovevano cambiare il mondo, generando una crescita del PIL di 1% in più ogni anno, ecco cosa hanno sortito: un crollo della produttività e un analogo aumento inatteso dell’indicatore migliore di mancanza di competitività che abbiamo, il costo del lavoro per unità di prodotto. Chapeau.

Ovviamente vien da sorridere quando leggiamo (non in tabella) che nel 2014 torneremo a crescere (addirittura +1,3%, una stima in cui non crede nemmeno la Banca d’Italia). Certo, perché secondo il Governo Monti, riprenderanno … gli investimenti delle imprese (quelli su cui nel 2013 appunto ha sbagliato tutto) che cresceranno del … 4,1%.

Imbarazzanti trucchi contabili-statistici di un Governo che cerca di ingannare chi? Non lo sappiamo nemmeno, tanto non ci crede più nessuno.

Eppure queste finte stime rivelano qualcosa di importante: che l’unico modo per far girare questi modelli nelle segrete stanze del Ministero dell’Economia e generare crescita è quello di avere maggiore domanda interna. E dunque come farlo senza inventarsi maggiori investimenti delle imprese che sappiamo bene non avverranno se non in seguito alla ripresa?

Ovvio. Con maggiore domanda pubblica via appalti pubblici. L’unica domanda interna che non ha bisogno di fiducia per attivarsi ma di semplici decisioni politiche di fare gare. Ma questo Governo non vuole dirlo, così come non vuole dirlo Draghi. Ma la bellezza è che non conta il loro parere: il secondo perché deve rispettare l’indipendenza dei gestori della politica fiscale, ovvero i politici; il primo perché è stato sconfitto dal 90% dei voti contro, a causa proprio del fallimento del suo modello di riforme inutili e di austerità dannosa.

Conta solo prendere atto, come sempre, della bellezza dei dati e della loro potenza nel diradare la nebbia di trucchi ed inganni da quattro soldi di chi fa finta di avere dimenticato quanto si insegna in economia al primo anno di corso.

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I deficit degli stati Uniti. D’America non d’Europa

Come uscire dalla crisi economica? Voi sapete quanto ritenga utile fare sempre confronti con l’esperienza degli Stati Uniti americani, paragonando le differenze tra Mississippi e Massachusetts con quelle tra Grecia e Germania, e facendo risaltare il diversissimo grado di solidarietà in America ed Europa verso gli stati più in difficoltà, siano esse difficoltà momentanee/cicliche oppure durature/strutturali.

Proprio perché gli Stati Uniti sono un progetto geopolitico con una moneta unica tra stati che quando si unirono avevano diversità culturali apparentemente incolmabili, è utile carpirne i segreti ed i meccanismi di funzionamento.

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Certo gli Stati Uniti fanno politica fiscale dal centro, noi europei no, la facciamo a partire dai singoli Stati. In realtà anche gli stati Usa fanno politiche fiscali espansive tutte loro per aiutarsi ad uscire dalla crisi.

Verrebbe da chiedersi, guardando all’America,  cosa succederebbe se i singoli Stati degli Usa decidessero di attuare politiche fiscali espansive ognuno per conto proprio. E’ quello che esaminano due ricercatori americani di Philadelphia, esaminando l’impatto su crescita ed occupazione di maggiori deficit statali (non di deficit del governo federale) negli Usa in tempi di crisi tra 1973 e 2009. Deficit statali che comunque ci sono stati, nell’ordine sempre di 2 massimo 3 per cento del PIL statale.

Scopriamo che deficit temporanei da parte dei singoli stati hanno un impatto positivo sul tasso di crescita dell’occupazione … Vi è una piccola riduzione del tasso di disoccupazione statale. La più ampia parte della crescita dell’occupazione avviene tramite il rientro nella forza lavoro di lavoratori locali.”

Ma c’è di più: “deficit statali impattano anche sulla crescita dei posti di lavoro di altri Stati con simile struttura produttiva … L’impatto di questi deficit sugli Stati esterni è circa la metà di quello all’interno, il che suggerisce comunque significativi effetti a cascata (“spillover effects”).

Sono aumenti che non permangono nel tempo, ma aiutano a fronteggiare momentaneamente la crisi, perché non paiono diretti a investimenti di lungo periodo ma solo ad aumentare la domanda aggregata quando questa è scarsa. Sono dunque posti di lavoro, quelli creati, che si perderanno quando circa 10 anni dopo gli Stati dovranno aumentare le tasse per ripagare il debito generato. Ma, ed è qui il punto essenziale, ciò avviene quando il sole è tornato a splendere sull’economia ed il settore privato è capace di generare posti di lavoro. Il loro ruolo momentaneo è stato fondamentale per generare essenziale domanda interna, pubblica.

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Nel 2009 nel Massachusetts il deficit statale ha creato 35.253 posti di lavoro locali, contro i 24.149 posti di lavoro generati in altri Stati tramite la maggiore domanda di beni che lo stato del Nord est ha rivolto ad imprese non locali.

Quello che emerge dallo studio è anche un fenomeno non inatteso: negli Stati più grandi l’impatto complessivo è ben superiore a quello che possono generare gli stati più piccoli. Per esempio la California può creare più posti di lavoro per gli altri stati ad essa vicini come struttura produttiva (108.561) che questi ultimi possono creare per se stessi (97.099)!

Ecco un pericolo. Questo fa sì che spesso gli stati più piccoli evitano di darsi da fare con politiche fiscali espansive contando sull’aiuto degli stati più grandi, così finendo per evitare di pagare le tasse 10 anni dopo per ripagare il debito, ma godendo comunque dei frutti dell’espansione generata dagli Stati più grandi.

Pericolo che non corriamo in Europa, dove anche gli Stati più grandi rimangono al palo, terrorizzati di spendere più oggi senza capire che se non usciamo dalla crisi oggi e subito i costi che pagheremo quando si spezzerà allora l’unione monetaria saranno ben maggiori.

Non c’è bisogno di una Unione fiscale con la politica centralizzata a Bruxelles per uscire da questa crisi europea. C’è bisogno semplicemente di coordinarsi tutti insieme per fare tutti insieme politiche temporanee di maggiore spesa pubblica e minori tasse: l’area dell’euro Nord in deficit, l’area dell’euro Sud con il bilancio in pareggio (senza cioè fare deficit ma usando i soldi dei contribuenti non per ridurre il debito ma per aumentare la domanda via appalti di beni e servizi).

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E’ incredibile quanta miopia nel non applicare precetti evidentissimi per salvare occupazione e venire incontro alle difficoltà di tante persone che soffrono di questa recessione da domanda interna. I dati ci sono tutti per confermare che abbiamo ragione. Basta avere il coraggio di fare diventare questi dati azione politica. Nazionale ed europea.

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I due stati di rimozione in Europa e la telefonata di Draghi

Ci sarà qualcuno che come me nel week-end pasquale si sarà perso la conversazione tra Napolitano e Draghi così come riportata dal Corriere della Sera di domenica?

Non andava persa.

“State of denial”, rimozione, dice Draghi commentando l’atteggiamento dei politici italiani che non capendo il momento gravissimo in cui versa il Paese mettono il Presidente in condizione di ragionare sulla possibilità (poi mai materializzatasi) di dimettersi per sbloccare la situazione. Ha ragione da vendere Draghi: ieri sera giornalisti spagnoli alla Radio narravano dello stupore iberico verso questa irresponsabilità tutta italica che mette in difficoltà l’Europa.

Il punto chiave del dialogo narrato da una terza voce tuttavia è altrove, è in quel breve riferimento a “l’estate scorsa, (quando) il silenzio (della Merkel) ha creato lo spazio politico perché Mario Draghi potesse stabilizzare  mercati stabilendo l’opzione degli interventi BCE”.

Ecco, quello è il momento chiave per capire l’Europa, lo abbiamo già scritto. E lo ribadiamo: a fine agosto 2012 la Merkel lascia trapelare (mica tanto silenziosamente visto che Der Spiegel per primo lo grida ai quattro venti) che la Grecia non può uscire, non conviene alla Germania non essere solidale. Ed ecco che “miracolosamente” gli spread crollano di 100 punti base, perché i mercati questo vogliono come soluzione ai problemi europei: solidarietà, che genera ripresa e senso di direzione del progetto europeo.

Notate bene anche la sottigliezza sui tempi: prima la Merkel dà l’OK, poi la BCE si adegua. Gli spread non crollarono perché la BCE li fece crollare, ma perché la Germania diede il suo assenso, a conferma che, come è ovvio, non esiste mai una banca centrale indipendente e che è la politica alla fine che può fare, se lo vuole e se lo capisce, la differenza.

Ed eccoci dunque ad oggi.

La rimozione dei politici italiani, i suoi tentennamenti assurdi,  è nefasta perché impedisce all’Italia di partecipare e in realtà di far avanzare quell’alleanza dell’euro del Sud (comprendendo in essa quella bella addormentata nel bosco che è la Francia) che sola può contrapporsi costruttivamente all’attuale seconda rimozione di cui non si parla nell’articolo, quella dell’area dell’euro Nord, che scambia (basta leggersi il pezzo del Corriere)  per anti-europeo il forte messaggio anti-austerità derivante dal voto del 90% degli elettori italiani mentre questo voto è in realtà la più solida ciambella di salvataggio che sia mai stata offerta ai tedeschi per farli uscire dalla micidiale situazione di impasse in cui si trovano. E permettergli di non vedere per sempre compromesse la loro performance di export e la loro presenza al tavolo delle decisioni mondiali nel momento in cui l’area dell’euro si dovesse spezzare.

Come avverrà, dovessimo ancora e follemente consentire alle varie Troike di bighellonare per l’Europa, come uccelli del malaugurio al cui passaggio la gente si ritrae sconsolata nelle proprie dimore.

L’Italia ha il pallino dell’Europa in mano. Non è perché quest’ultima è in stato di rimozione che lo si debba essere anche noi. Sveglia!

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Quella Grande Depressione che bisogna evitare a tutti i costi

Leggendo ieri sera Krugman che usa i dati storici presenti nel notissimo dataset dello storico economico Madison per paragonare la crisi del 1929 in Europa con quella odierna del Continente, ho avuto la tentazione di fare lo stesso per l’Italia (nel dataset di Madison ho trovato solo i dati dell’Italia del centro-nord per il periodo degli anni trenta). Ecco cosa viene fuori.

 

Preciso che i dati di Madison si riferiscono al reddito pro-capite corretto per l’inflazione e che finiscono al 2010. Per il 2011 ho usato la mera variazione del reddito pro-capite italiano non corretto per l’inflazione e per il 2012 mi sono inventato un calo plausibile (e credo per difetto) dell’1%.

Spiccano due cose, tenendo a mente che la Grande Depressione è rimasta famosa sia per la sua intensità che per la sua durata:

a) la durata di questa moderna crisi è più lunga di quella degli anni Trenta, in cui tornammo ai livelli del 1929 nel giro di 10 anni. Oggi, 11 anni dopo, siamo ancora a livelli di ricchezza prodotta inferiore a quella del 2002;

b) la crisi del 1929 per l’Italia come per tanti altri Paesi fu di una drammatica intensità, ben peggiore di quella dell’ultimo decennio che io considero. Lo vedete dall’area della differenza tra le due linee. Eppure notate che negli ultimi anni la performance è peggiore in questo decennio (la linea  blu incrocia e supera la rossa): ancora qualche anno così, pochi ne bastano, e potremo dire che questa è stata, e non quella del 29, la nostra Grande Depressione.

Vi auguro Buona Pasqua a tutti e spero che quando torneremo al lavoro martedì ci aspetti un Governo nei pieni poteri, forte ed autorevole, pronto a sconfiggere una volta per tutte questo maledetto decennio.

GP

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I debiti della P.A. verso le imprese? E’ roba per politici, non per tecnici

Della importante relazione al Parlamento di Daniele Franco, Direttore Centrale per la Ricerca economica e le Relazioni internazionali della Banca d’Italia, sui ritardi dei pagamenti della Pubblica Amministrazione alle imprese porto a casa alcune importanti affermazioni:

1) Il Governo scommette che lo sblocco dei pagamenti porterà 0,5% di PIL in più. Banca d’Italia conferma: “Nel 2012 il flusso di nuove sofferenze in rapporto ai prestiti ha raggiunto il 4,0 per cento, il livello più elevato degli ultimi 15 anni. L’incidenza dei prestiti su cui gli intermediari rilevano anomalie sui rimborsi si è all’incirca raddoppiata negli ultimi cinque anni, al 19 per cento. Secondo i dati Cerved, nell’ultimo trimestre del 2012 la percentuale d’imprese con ritardi nei pagamenti commerciali superiori a due mesi rispetto alle scadenze concordate è salita al 7,1 per cento, a fronte del 6,0 nello stesso periodo dell’anno precedente. Nel 2012 circa 55.000 società di capitali italiane hanno terminato l’attività, un valore in crescita rispetto all’anno precedente. Il pagamento in tempi brevi di una quota rilevante dei debiti commerciali delle Amministrazioni pubbliche può contribuire a ridurre gli attuali vincoli finanziari delle imprese e, in taluni casi, consentire la loro stessa sopravvivenza.”

2) Ma fino ad oggi cosa ha fatto il Governo? “L’efficacia di questi provvedimenti è stata finora limitata. Ad esempio, a fronte dello stanziamento di 2 miliardi per il pagamento mediante titoli di Stato, le effettive emissioni sono state pari a circa 15 milioni. Per quanto riguarda la certificazione, secondo i primi dati forniti dal Ministero dello Sviluppo economico, alla fine dello scorso gennaio erano state rilasciate 71 certificazioni, per un ammontare di crediti certificati pari a circa 3 milioni. L’adesione alla piattaforma elettronica per la certificazione è sostanzialmente volontaria; alla fine dello scorso gennaio aveva aderito poco più del 5 per cento delle amministrazioni interessate. I creditori degli enti che non hanno aderito non possono ottenere la certificazione del credito con la procedura ordinaria (cartacea) poiché dall’avvio della piattaforma (ottobre 2012) non è più possibile utilizzarla.”

3) Ma un Governo può fare qualcosa? Come no: basta guardare alla Spagna: “L’esperienza di altri paesi, in particolare della Spagna, può essere utile nel disegnare misure efficaci. Nel corso del 2012 il Governo spagnolo ha ridotto notevolmente lo stock dei debiti commerciali delle Amministrazioni locali pagando arretrati per circa 27 miliardi (dei quali, 17,7 delle Regioni e 9,3 degli enti locali) … Il pagamento è avvenuto direttamente dallo Stato alle imprese creditrici, sulla base di appositi elenchi di creditori predisposti dalle Amministrazioni locali (per le imprese creditrici era comunque possibile richiedere una successiva rettifica o integrazione dell’elenco predisposto dagli enti). Le  somme anticipate dallo Stato dovranno essere restituite dagli enti a partire dal 2014 su un periodo di dieci anni. Per accedere alla procedura, le Amministrazioni locali spagnole hanno predisposto un piano di risanamento di bilancio approvato dal Governo. Erano previste sanzioni per gli enti locali che non rispettavano le scadenze stabilite per la predisposizione degli elenchi di creditori e del piano di risanamento.”

4) Con 40 miliardi di rimborsi, anche se dovessimo riuscirci, quanti ne rimarrebbero ancora fuori?  Altri 50 miliardi. “Sulla base delle procedure appena descritte, il totale dei debiti commerciali delle Amministrazioni pubbliche a fine 2011 sarebbe stato pari a circa 90 miliardi (5,8 per cento del PIL). Oltre il 10 per cento del totale è stato ceduto a intermediari finanziari con clausola pro soluto e pertanto, secondo le recenti decisioni dell’Eurostat del luglio 2012, è già incluso nel debito pubblico calcolato secondo la definizione di Maastricht“. Il livello più alto in Europa in termini di PIL.

5) Come pensa Banca d’Italia che si debba operare per avere successo? Seguendo il modello spagnolo e operando con criteri equi (ma ancora non sappiamo come il Governo pensa di procedere): “Nel definire le caratteristiche operative dell’intervento delineato nella Relazione sarebbe importante prevedere l’obbligo per gli enti locali di predisporre rapidamente una documentazione dei debiti in essere verso le imprese fornitrici, associati alle relative fatture. Questa rendicontazione, obbligatoria per gli enti locali nell’intervento analogo attuato in Spagna, porterebbe molteplici benefici: assicurerebbe, se resa pubblica, un controllo della sua completezza da parte delle stesse imprese; potrebbe aiutare le stesse imprese fornitrici nel valutare l’affidabilità degli enti committenti; consentirebbe, soprattutto se divenisse una pratica sistematica, una maggiore trasparenza dell’operato degli amministratori. Sarà importante assicurare una rendicontazione sistematica dei debiti commerciali di ciascuna Amministrazione. Le procedure per i rimborsi dovrebbero essere rese sostanzialmente automatiche e indipendenti dalle capacità amministrative e dalla discrezionalità dei singoli enti. Il flusso dei rimborsi potrebbe essere regolato sulla base del criterio della durata del credito, dando la precedenza ai crediti di più lunga durata.” E comunque, anche se fossimo capaci, rimarrebbe la grande sfida per i pagamenti futuri di garantire il rispetto dei 30-60 giorni.

6) Tutto OK dunque nelle parole di Franco? No. Questo passaggio non mi va giù: “Le misure previste nella Relazione hanno un effetto accrescitivo dell’indebitamento netto del 2013 che viene valutato in 0,5 punti percentuali del PIL. È importante che non si pregiudichi la chiusura della Procedura per disavanzi eccessivi, resa possibile dal conseguimento nel 2012 di un indebitamento netto pari al 3 per cento del PIL. La chiusura richiede che le previsioni della Commissione europea, che saranno diffuse nel prossimo mese di maggio, collochino il disavanzo di quest’anno e del 2014 al di sotto della suddetta soglia. Nelle previsioni della Commissione di febbraio, l’indebitamento netto era pari al 2,1 per cento in entrambi gli anni, ma il quadro macroeconomico è nel frattempo peggiorato.”

Insomma. Se sforiamo il 3% con il rimborso dei crediti, meglio non farlo, o farlo meno.

Ecco dove non va. Non esiste al mondo che l’Italia non possa negoziare con l’Europa, data la gravità della situazione nazionale, che la Procedura per disavanzi eccessivi sia chiusa anche se si sforasse il 3% a causa del pagamento di quanto dovuto ai creditori. Anche perché se si fosse applicata in Italia la regola spagnola che le spese per investimenti si contabilizzano per competenza e non per cassa (come invece facciamo noi), questo effetto sul deficit non ci sarebbe nemmeno stato.

Eccola qui la differenza tra la politica e la tecnica: ci vuole un Governo, non un tecnico, al comando perché il tecnico obbedisce alle regole, non sa far altro, il politico le riscrive. Ogni giorno, sulla base della sua visione del mondo e della giustizia, fino a quando saprà rappresentare gli interessi della gente.

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E’ così semplice

Accade che due ricercatori finiscano per uscire lo stesso giorno con la stessa ricerca senza che nessuno dei due abbia commesso plagio. L’idea era matura nell’aria.

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Ascolto Enzo Cipolletta ad Omnibus (grazie Lorenzo) ed applaudo (minuto 22 della trasmissione). Le stesse idee (o quasi) che faccio circolare da tempo. Ma nessuno è arrivato prima: è da tempo che queste idee vanno maturando nell’aria.

Bravo. Bravo quando fa spallucce a chi si preoccupa della “produttività” che è in calo. Certo che è in calo e grazie a Dio, ci dice. La produttività, il rapporto tra valore aggiunto e lavoratori, è bassa perché il PIL crolla e perché non licenziamo così tanto da mantenerla costante. Ci manca solo che in una recessione come questa le imprese lascino crescere la produttività a scapito dell’occupazione.

“Oggi non serve la produttività”.

Serve, dice Cipolletta, domanda interna, che ha subito un crollo drammatico. Non export, che tira da solo.

Vero. Anche se in realtà tira solo l’export fuori Europa, perché l’export intra-europeo è anch’esso preda della scarsa domanda interna che mette a fuoco tutto il Continente, Germania compresa.  Se l’Italia domanda meno, la Germania esporta di meno. Se la Germania esporta di meno, produce meno, genera meno reddito, domanda meno e importa meno dall’Italia. E dunque l’Italia esporta meno, e domanda meno. E così via. La follia europea.

Ma, si chiede, Cipolletta, “c’è percezione di questo fenomeno?”. C’è percezione che il problema non è nella produttività ma nella domanda interna?

Ottima domanda, Dott. Cipolletta, e la risposta è “no, non c’è”. C’è chi continua a parlare di competitività, di produttività, di offerta, mentre oggi, da due anni, da quando è iniziato questo blog, vi dico convinto che il problema è la domanda interna.

Ma c’è di più, e bene fa di nuovo a Cipolletta nuovamente a sottolinearlo.

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“Ridurre le tasse, ridurre il cuneo fiscale, in questo contesto serve a poco”. Sono manovre sull’offerta, non sulla domanda.

Non bisogna, continua Cipolletta, dare soldi a chi già ce li ha, bisogna metterli nelle tasche di chi non ce li ha, così che li possano spendere e riavviare i consumi e la domanda interna.

Bisogna, secondo Cipolletta, mettere i soldi in tasca ai disoccupati giovani, che “in nessun paese civile vengono abbandonati”. Una indennità di disoccupazione per i giovani.

Non sono d’accordo.

Ed è un po’ paradossale: proprio io che ho sempre sostenuto con il nostro appello mai ascoltato dal Governo Monti come fosse necessario rimettere al lavoro i giovani con un nuovo “servizio civile” lavorando per un anno nella Pubblica Amministrazione. Ma la nostra proposta nasceva sì, come per Cipolletta, dalla ribellione a che si “abbandonassero” i giovani ad un destino di alienazione e scoraggiamento, ma mirava a mantenere vive le loro competenze, non a stimolare la loro domanda di consumi.

Perché a mio avviso nulla accadrebbe, con un sussidio di disoccupazione, alla domanda interna: i soldi levati ai “ricchi” e dati ai giovani disoccupati ed alle loro famiglie non genererebbero maggiori consumi, solo risparmi, perché queste famiglie continuerebbero, anche con il sussidio, ad essere terrorizzate dal futuro fino a quando permarrà la crisi da domanda. Non vedo in questo senso differenze, a livello macroeconomico, tra il calo delle tasse e l’aumento della indennità di disoccupazione, se non un (possibilmente giustificabile) impatto redistributivo.

La verità è che nemmeno Cipolletta se la sente (ancora) di menzionare l’unica cosa di cui “veramente pare non esserci percezione”. Ovvero che l’unica certezza di generare maggiore domanda interna è quella di farlo… direttamente, senza intermediari: con maggiore spesa pubblica per acquisti di beni, servizi, lavori.

Forse tra 6 mesi saremo messi così male che anche in Italia finiremo per dirlo, che ci vuole più spesa pubblica. Hanno cambiato opinione su così tante cose, quelli del “pensiero dominante”, che forse finiranno per ammettere anche questa ultima verità. Ma forse sarà troppo tardi.

Intanto non è mai troppo tardi per studiare la macroeconomia. Che Cipolletta comunque conosce a menadito, cosa che manca a tanti altri. E così, sulla base di questa sua conoscenza, si permette di dire altre cose, anche queste molto importanti. Su deficit e politica in Europa.

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Non mi colpisce solo il suo forte richiamo ad avere un rapporto del deficit su PIL maggiore del 3% “perché siamo in una congiuntura drammatica” (la congiuntura, la congiuntura!) e che questo rapporto migliorerà quando l’economia ripartirà. E’ argomento noto a tutti, ma, anche qui, mai ammesso dal “pensiero dominante”. Ma c’è di più.

Quando il giornalista gli chiede, perplesso, “come pensa di convincere l’Europa?”, la risposta è tanto precisa quanto nuova e rivoluzionaria:  ”fare le cose subito e andarle a spiegare dopo all’Europa”.

Ci vuole coraggio, Dott. Cipolletta? “Ci vuole un governo”.

Assolutamente. Perché Governo vuol dire Coraggio.

Chapeau Dott. Cipolletta. Chapeau.

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Non rifacciamo l’errore di nominare Monti

Il Life Cycle Cost Analysis (LCCA) o analisi del costo nel ciclo di vita (anche detto Total Cost of Ownership – TCO) è uno strumento economico che permette di valutare tutti i costi relativi ad un determinato componente o sistema, dalla “culla” alla “tomba”. Si prendono in considerazione, infatti, i costi iniziali (acquisto, istallazione, etc.), i costi di gestione (spese energetiche, manutenzione, oneri finanziari, etc.), fino ad arrivare ai costi di smaltimento e recupero.

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Non credo che abbiamo ancora cominciato a misurare pienamente tutti i costi nel ciclo di vita del Governo Monti e dell’improvvida decisione di allora di affidargli un incarico sotto il timore della reazione dei mercati nel caso in cui fossimo andati ad elezioni, come d’altronde desiderava Bersani in quell’autunno del 2011. Reazione che sarebbe stato possibile (e nell’interesse di tutti, Germania in primis) rendere muta ed innocua.

Costi di installazione, gestione, smaltimento.

Faremmo perciò bene a non ripetere gli stessi errori di allora, magari di nuovo sotto la supposta “pressione dei mercati” e degli spread e della necessità di un governo che li rassicuri con politiche austere. Sia perché sappiamo che anche stavolta nemmeno la Germania avrebbe interesse alcuno a vedere l’Italia messa all’angolo e posta nella scomoda posizione di uscire dall’euro, sia perché stavolta il 90% del voto degli italiani si è pronunciato chiaramente contro l’austerità.

Sarebbe semplice follia nominare come Presidente del Consiglio qualsiasi tecnico che rappresenti gli interessi dei mercati finanziari e della c.d. stabilità che mai si realizza comunque con l’austerità. Per esempio folle sarebbe nominare un tecnico proveniente dalla Banca d’Italia, capace di ragionare solo in continuità con la mentalità della BCE e dei suoi piani di aiuto condizionati all’austerità che distruggono crescita e fanno innalzare il debito su PIL a livelli insostenibili.

Ben meglio sarebbe una figura sì di rilievo, con esperienza sì nelle istituzioni sovranazionali (così da essere ascoltato più facilmente in Europa), ma giovane a sufficienza da ispirare speranza di rinnovamento e che abbia a cuore l’occupazione dei giovani, una crescita sostenibile e attenta alla sofferenza delle classi sociali più in difficoltà, la centralità di scuola ed università per il Rinascimento del Paese.

Il momento nazionale è drammatico e solo una figura di questo tipo potrebbe essere considerata accettabile da un Paese che pretende comunque molto di più di quanto non riesca a ottenere dalla politica.

Questa persona ci deve essere e c’è.

Non sbagliamo nuovamente, il costo nel ciclo di vita del nostro Paese di un secondo errore come quello fatto con la scelta di nominare Monti potrebbe essere mortale: dalla culla alla tomba, appunto.

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E’ tempo per l’Italia di entrare nell’euro, a piedi uniti come un mediano

Leggo Krugman. Che dice che è tempo di dire chiaramente cosa dovrebbe fare Cipro: lasciare l’euro. Se penso all’austerità legata al rilascio dei fondi europei (10 miliardi) di circa 4 punti di PIL e ci aggiungo la patrimoniale sui depositi e la chiusura delle banche, capisco perché lo dice.

Ora chiedo a me stesso. Cosa dovrebbe fare l’Italia?

E’ molto semplice. Dovrebbe entrare nell’area dell’euro.

Sul serio. Dovrebbe entrare nell’area dell’euro.

Il che significa:

1) Esprimere un governo, ora e subito perché l’unica priorità ora e subito è l’economia ed il progetto europeo, e la loro rispettiva salvezza;

2)  Esprimere un governo che si esprima. Che per la prima volta da quando è nato l’euro sappia dire la sua. Che sappia rappresentare interessi che gli spetta rappresentare, quelli dei disoccupati, dei giovani, delle piccole imprese. Tessendo quell’alleanza – che un disastroso governo francese pare non sapere nemmeno come avviare - tra Grecia, Spagna, Portogallo, Cipro, Francia e forse Irlanda. Che sappia cessare di evitare di controbattere ai legittimi interessi tedeschi, evitando di lasciare a questi ultimi carta bianca. Che sappia dire basta a fronte dell’idiozia della Commissione europea che – in mezzo a questa tempesta perfetta – teme lo sforamento del deficit su PIL dal 2,9 al 3,1% a fronte di un piano di riavvio di investimenti pubblici e rimborsi dei crediti delle imprese con la Pubblica Amministrazione.

3)  Esprimere un governo che voli sulle ali del voto intelligente degli italiani, un voto veramente europeo, di quel 90% di cittadini che hanno votato per svegliare e salvare l’Europa bella addormentata, anestetizzata dalla stupida austerità. E sì, che ci sono riusciti, unici in Europa, terrorizzando tutti nel Continente. A pensarci, questo Governo in Europa sarà fortissimo, forte come mai, perché ad esso è stato affidato il mandato più potente, unitario e chiaro che un Governo potesse mai ricevere.

E’ arrivata l’ora che l’Italia entri nell’euro, che faccia avviare finalmente il tavolo delle decisioni comuni e non unilaterali, l’unico tavolo che può rafforzare e non demolire una Unione di popoli.

Che ci entri a gambe unite, a quel tavolo, duramente, come un mediano di spinta, come un Furino, come un Gattuso, come un Benetti. “Sempre lì, lì nel mezzo, finché ce n’hai, stai lì“. Che fermi, che spezzi la folle corsa del resto del Continente, lanciato a mille verso il più assurdo e masochistico degli autogol.

E’ tempo per l’Italia di entrare nell’euro. Per la prima volta, ora e subito. L’Europa gliene sarà per sempre grata.

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L’Europa (barrata) che non c’è a proteggere le sue piccole

“Quanto a totale dei valori dei contratti aggiudicati, le PMI in Europa raggiungono tra il 31% ed il 38% dei contratti pubblici mentre la loro quota totale nell’economia, così come calcolate sulla basae del loro fatturato complessivo, è del 52%

Libro verde della Commissione Europea sulla riforma della direttiva degli appalti pubblici

“Anche in presenza di uno strumento come il MePA (Mercato elettronico della Pubblica Amministrazione per acquisti sotto la soglia comunitaria), quindi, sembra sorgere il sospetto che esista una soglia dimensionale minima per le imprese al di sotto della quale, per quanto sia possibile partecipare alle commesse pubbliche caratterizzate da una maggiore semplicità operativa e gestionale, resti decisamente complesso risultare aggiudicatari.”

“Il Public Procurement come stimolo alle PMI: il caso del Mercato Elettronico della Pubblica Amministrazione” di Gian Luigi Albano, Federico Antellini Russo e Roberto Zampino.

“Non è appropriato imporre quote obbligatorie di aggiudicazione, tuttavia, le iniziative nazionali per aumentare la partecipazione delle piccolo imprese dovrebbero essere attentamente monitorate data la loro importanza”

Ultimo emendamento del Parlamento europeo alla proposta di nuova Direttiva Europea degli Appalti Pubblici

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E’ tempo di recessione. E’ tempo di morte di piccole imprese (PMI da ora in poi), meno capaci di difendersi dalla durezza dell’inverno. Morte spesso di giovani imprese che se meglio protette dalla stagione e le sue intemperie, garantirebbero i fiori più belli a primavera.

Come si attrezza un Paese per una politica industriale anti ciclica che salvi le piccole? Con una politica degli appalti pubblici a loro dedicata, ricordando che in Italia la domanda pubblica genera il 16% del PIL. Il 16% del PIL. Immenso.

Ma non con un mercato elettronico del sotto soglia: i dati citati sopra di nuovi studi italiani paiono indicare che alla fine le Amministrazioni, lasciate libere di acquistare con strumenti che anche potenzialmente sono più appropriati per le piccole, continuano a dare peso alle offerte delle grandi.

Ma piuttosto con una politica che venga incontro non solo alle maggiori difficoltà dovute al ciclo, ma anche alla evidente discriminazione che i dati della Commissione europea mostrano esistere strutturalmente nel mercato della domanda pubblica nei confronti delle PMI. Perché le stazioni appaltanti non si fidano delle piccole, perché le grandi imprese fanno prima a convincere le stazioni appaltanti a indirizzare i bandi o le dimensioni di gare verso criteri a loro favorevoli.

E che si può fare? Ovvio, riservare quote di appalti solo alle PMI.

Quote di appalti riservati esistono nei seguenti Paesi: Stati Uniti, Brasile, Cina, India, Messico, Sudafrica. Robetta. Paesi insignificanti. E in Europa? In Europa no.

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E’ uscito un nuovo studio importante negli Usa, sull’impatto che hanno avuto al loro apice di utilizzo i contratti pubblici riservati a imprenditori afro-americani negli anni ottanta in America. Nel bel mezzo di una recessione durissima che colpì più di tutto i più deboli, in questo caso, appunto, le imprese gestite da afro-americani.

Studio che serve tanto anche a capire cosa accadrebbe alle nostre PMI (europee) se a loro riservassimo quote di appalti. Dove non possano mettere bocca le grandi imprese.

Le analogie tra imprese piccole e imprese detenute da minoranze etniche, a leggerle, sono infatti tante: specie quelle che fanno riferimento alla maggiore difficoltà ad ottenere credito (e quindi ad essere competitive in gara pubblica) delle imprese detenute da afro-americani a parità di merito, la loro incapacità di far parte dei “network” che influenzano le decisioni (di aggiudicazione). Insomma, la loro tendenza ad essere discriminate.

Guardateli i dati: mostrano come il differenziale tra tassi di imprenditorialità tra bianchi e neri crolla in maniera statisticamente significativa del 3% o più dopo l’inizio di un programma di appalti riservati. E così l’occupazione degli afro-americani (in blu – verde – le differenze tra città che iniziarono programma prima del 1980 – nel 1985 – e chi non l’ha mai iniziato).

Peccato che spesso questi programmi non siano stati mantenuti: “in Minnesota, dopo che nel 1999 un programma di protezione fu eliminato, l’aggiudicazione dei contratti a imprese detenute da minoranze etniche (maschi) scese da $6.5 milioni a meno di $1 milione. Dopo la cessazione del programma di quote del Chicago Water Department nel 1989, i contratti aggiudicati alle imprese detenute da minoranze etniche scesero  da $19.6 milioni a $6.9 milioni.”

E siccome molte di queste imprese non più discriminate sarebbero cresciute e ad un certo punto non avrebbero più avuto bisogno di aiuti, con la morte di questo programma è diminuito il dinamismo dell’economia Usa, che sarebbe stato stimolato da più imprese vibranti.

E’ importante avere a disposizione questi dati: dimostrano l’importanza di una politica industriale strutturale, ma specialmente anti-ciclica, a favore delle PMI per ridare vigore all’economia.

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Nell’Europa della discriminazione attiva alla piccole imprese dove non sono previste quote temporanee per queste, la recessione sta svegliano qualcuno. In particolare il Parlamento europeo che nella nuova proposta di Direttiva (da approvare probabilmente a fine anno) ha aperto un (minuscolo) pertugio che andrà esplorato per iniziative attive di protezione delle piccole nel mondo della domanda pubblica.

Ecco cosa va proposto dall’Europa che non c’è. Per quelle piccole di domani che si saranno affermate nel mondo perché all’inizio della loro attività non furono abbandonate ma sostenute, andrà all’Europa il grazie sentito come quello che un figlio deve ad un padre che ha saputo prima proteggerlo, poi farlo crescere e infine lasciarlo libero di esprimere tutto il suo potenziale da solo.

Post Format

Cipro e quel prezzo zero della solidarietà che abbiamo cancellato per sempre

Erik Nielsen di UniCredit:

Un cipriota (o uno straniero) che hanno depositato €100.000 a Cipro nel 2008, a oggi dovrebbero aver guadagnato circa €15.000 in più che se li avessero depositati in Italia o Spagna (e circa €23.000 di più che se non in Germania). Perché il Parlamento cipriota (e molti commentatori) paiono suggerire che una tassa del 15% su tali depositi (che coprirebbe il conto anche per quelli sotto i 100.000 euro) sarebbe irragionevole ora che le banche sono in difficoltà, ma che tedeschi, italiani e contribuenti di altre zone dell’euro dovrebbero invece pagare il conto? Per me, la posizione cipriota è semplicemente invendibile al resto d’Europa

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C’è un prezzo che è speciale, per noi economisti. E’ il prezzo zero.

Quando ad un individuo aumenti il prezzo da 5,5 euro e 5,51 euro, reagisce molto poco. Ma quando a volte lo alzi da zero a 1 centesimo cose incredibili avvengono.

Come negli asili nido israeliani. Dove le mamme erano abituate, quando in emergenza, a venire a riprendere i loro bambini con un po’ di ritardo e a sopportare gentili rimbrotti delle maestre che rimanevano con i bimbi fino all’arrivo dei genitori. Quel rimbrotto manteneva a livello di guardia ritardi eccessivi e ripetuti da parte dei genitori.

Ma poi la scuola ha deciso: basta. Se dobbiamo aspettare, che i genitori paghino una quota, un prezzo. Presto detto presto fatto, da una norma sociale si è passati ad una norma di mercato. E la scuola ha rimpianto la mossa: i genitori si sono abituati ed hanno cominciato a lasciare sempre più spesso i loro figli un po’ più tardi, dispostissimi a pagare un  prezzo positivo e non più curanti del tempo libero dei maestri, ora pagati.

Ma a quel punto la scuola non è più potuta tornare indietro come prima. Eliminato il prezzo, le mamme hanno continuato a fare tardi senza sentirsi in colpa: la norma sociale era stata cancellata nella loro mente dal periodo di relazione di mercato con la scuola.

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Penso a questa storia così ben raccontata dall’economista Dan Ariely quando penso a Cipro. Ed al disperato e comico tentativo di tornare indietro nel negoziato sulla tassa patrimoniale sui depositi bancari, riducendola, ma mantenendola, cercando così di mostrarsi più comprensivi e solidali con Cipro.

Ormai la frittata è fatta: avere messo un prezzo sugli aiuti a Cipro cancella qualsiasi parvenza di solidarietà europea. Avere eliminato il prezzo zero da pagare per gli errori delle banche cipriote ma non dei depositanti ciprioti, ha eliminato qualsiasi percezione di solidarietà europea. Nella mente dei risparmiatori che valutano dove indirizzare nel mondo i loro risparmi e nella mente dei cittadini ciprioti il vulnus c’è e rimane.

Siamo passati ad una norma di mercato, via da una norma di solidarietà. E dunque, sapete cosa? Se tanto mi da tanto, dovessimo anche fare l’unica cosa intelligente geopoliticamente che ci rimane da fare, eliminare completamente la tassa, il vulnus ci sarebbe ancora, intatto quasi quanto prima, nella mente di ciprioti e risparmiatori. La frittata è fatta.

Siamo ormai nel mondo parallelo e fantasticamente assurdo ma logico di Erik Nielsen (che ovviamente ha anche interessi privati della sua banca per parlare in quel modo) per il quale non solo ora nei mercati finanziari chi guadagna di più deve essere punito, ma soprattutto dove le posizioni degli Stati devono essere “vendibili” a quelle degli altri, ovvero una norma di mercato nelle relazioni internazionali. Quegli stessi Stati che con il progetto dell’euro si erano impegnati a costruire una casa comune, una norma sociale, nella buona e cattiva sorte. O forse no?