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Il Patto sociale del XXI° secolo che dobbiamo riscrivere

Domani pubblico sul Foglio un articolo sulle tesi di un economista giapponese Koo, presso il Nomura Research Institute, sulle recessioni patrimoniali (balance sheet recessions). Di grande interesse.

Nel rileggerlo, tuttavia, mi colpisce qualcosa di cui non ho tanto discusso nell’articolo, e cioè la sua enfasi sul fatto che dopo queste recessioni, dove la gente continua a ridurre la propria domanda di beni per ridurre i propri debiti e nel farlo si inviluppa in una depressione spinta da sempre minore domanda, rimane forte nella mente delle persone l’imprinting del ricordo di quegli anni devastanti. Nel DNA di quella generazione resta l’idea che prendere a debito sia una follia da evitare per sempre:

“dopo la devastante esperienza di ripagare i propri debiti durante la Grande Depressione, la stessa avversione a prendere a prestito ha tenuto a lungo particolarmente bassi i tassi d’interesse per ben 30 anni, fino al 1959. Il fatto che ci siano voluti 3 decenni per riportare al 4% i tassi d’interesse anche con massicci stimoli fiscali come quelli del New Deal e quelli dovuti alla seconda guerra mondiale è chiara evidenza di questo trauma. Di fatto, molti di quegli americani che furono forzati a ripagare i propri debiti durante la Depressione non presero mai più a prestito.”

E’ così. Nel mio periodo negli Stati Uniti di studio ho conosciuto tanti anziani che guardavano a noi giovani studenti che vivevamo con le carte di credito come essere anomali e, un po’, immorali.

Perché parlo di questo.

Perché faccio il paio con il grafico già proposto sull’ineguaglianza, rimasta bassa dopo la Grande Depressione per 60 anni, e ripartita verso la fine degli anni Ottanta.

E penso che ineguaglianza e debito vanno di pari passo, quando va a morire un patto sociale basato su solidarietà e crescita assoluta e non relativa. Quando si dimenticano i legami di solidarietà, ognuno è per conto suo e i più poveri soffrono della loro condizione e cercano di rimediare imitando i più ricchi (ed indifferenti) prendendo diabolicamente a prestito quando non potrebbero permetterselo.

In un mondo con poca disuguaglianza forse non c’è così tanto bisogno di vivere al di sopra dei propri mezzi perché il contesto sociale e normativo è più attento a ridurre le sofferenze altrui e dunque la gente si concentra sul reddito assoluto e non relativo, lavorando ad un comune obiettivo.

E’ quel patto sociale infranto che ha portato alla crisi? E’ quel che patto che va riscritto per uscirne fuori: solidarietà senza debito? Ci sarà qualche giovane ricercatore che ha già analizzato questo legame? Che lo farà?

2 comments

  1. OT: Prof, mi piacerebbe avere un’opinione su questo passaggio di Michele Ruta del WTO:
    “Sospetto che sarà proprio la rigidità della regola del pareggio di bilancio degli stati nazionali a creare una domanda per una politica fiscale europea. Gli shock non spariranno solo perché l’Europa ha adottato il compatto fiscale. Se i governi nazionali non potranno usare la politica fiscale, guarderanno (probabilmente per la prima volta) con favore all’espansione del bilancio dell’unione.”
    http://www.imille.org/2012/02/il-compatto-fiscale-europeo/

    grazie

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    • Mi posso dunque vantare che Michele Ruta sia stato mio studente. Era ed è proprio bravo.
      Ma non mi trovo in questo d’accordo con li.
      “Primo, le regole approvate, benché non sufficienti, appaiono come necessarie alla soluzione della crisi.”: totale disaccordo. La crisi si esaspera in questo modo. L’obiettivo deve essere di salvare l’euro, IN PRIMIS.
      “Secondo, il trattato non esclude che l’Europa si dia una politica fiscale comune. Una vera, intendo. In cui esiste un budget dell’unione con fonti di finanziamento autonome dai governi, che sia una Tobin o una carbon tax o altro. In cui gli shock che colpiscono i paesi sono in parte assorbiti da variazioni delle entrate e delle uscite del bilancio dell’unione, non solo dal movimento doloroso di prezzi e salari. Ma c’e’ di più. La storia è un processo dinamico guidato da contraddizioni, direbbe qualcuno. Sospetto che sarà proprio la rigidità della regola del pareggio di bilancio degli stati nazionali a creare una domanda per una politica fiscale europea. Gli shock non spariranno solo perché l’Europa ha adottato il compatto fiscale. Se i governi nazionali non potranno usare la politica fiscale, guarderanno (probabilmente per la prima volta) con favore all’espansione del bilancio dell’unione.” Credo che Michele abbia ragione nel senso che nella mente di molti politici ci sia questa idea di forzare l’unione fiscale tramite questa crisi. E’ una idea balzana per due motivi: a) perché non si scherza sul fuoco, il gioco non vale la candela; se perdiamo l’euro per aver tentato di avere una unione fiscale, sarebbe da idioti perché non avremmo mai più (o ritarderemmo enormememente) l’unione fiscale e b) perché bisogna piantarla con questa prescia di modificare costantemente le nostre istituzioni come se culture, istituzioni e norme fossero qualcosche si digerisce e si cambia in un attimo.
      L’Unione Europea è durata decenni con cambiamenti lenti e meticolosi, ed ha funzionato. Dal 1990 c’è presa la prescia di andare a velocità folle. Lo stesso euro è stato troppo veloce per le nostre culture così diverse (grecia vs. germania): una unione fiscale tra grecia e germania farebbe ridere se fatta ora, non trova?

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