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Quando gli economisti salvano le banche a danno di famiglie e PMI

Grandi salvataggi del settore finanziario da parte dei governi e ristrutturazioni di debiti sovrani forniscono un esperimento quasi naturale … I primi tipicamente comportano ampi trasferimenti dai governi alle banche, compresi i creditori esteri, mentre i secondi comportano l’opposto quando le banche detengono grandi quantità di debito pubblico ristrutturato”.

Così il Fondo Monetario Internazionale nel suo ultimo rapporto. Dove mostra con ricchezza di dati come le cose sono andate diversamente per le imprese locali non bancarie in Irlanda ed in Grecia a seconda di come è stata gestita la crisi di debito. In Irlanda, mostra l’analisi del FMI, le banche (salvate) si sono arricchite a scapito delle imprese domestiche e di quelle che dipendono dalla domanda pubblica. Inversamente in Grecia, dove il default ha redistribuito via dalle banche verso le imprese non finanziarie, queste ultime ne hanno guadagnato.

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E pensare che questo studio l’ho letto solo 3 giorni fa e pensavo di non parlarne al mio lettore. Se non fosse…

Se non fosse che A&G, i mitici A&G, sono tornati sul Corriere in prima pagina. E stavolta la fanno così grossa che non posso resistere.

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Sia chiaro: qualche coerenza A&G la mostrano, quando continuano a chiedere insistentemente di tagliare le tasse. Sapete come la penso: tagliare le tasse si può e si deve, ma strutturalmente, non ora, quando usciremo della crisi. Perché ridurre la tassazione ora in questa crisi da domanda non porterà famiglie ed imprese a domandare di più beni di consumo e di investimenti. E che meglio, molto meglio, è usare tali risorse per aumentare la spesa pubblica con maggiore domanda di beni pubblici via appalti.

E poi insistono con la riduzione dei sussidi alle imprese. Che domanda pubblica non è ma mero trasferimento dai contribuenti alle aziende appunto. A me non dispiace tagliare i sussidi alle imprese, anzi il Programma per l’Italia dei Viaggiatori in Movimento lo prevede. Perché serve per creare spazio fiscale per maggiore spesa pubblica via domanda senza dover aumentare il deficit pubblico. Fino ad oggi A&G questi tagli ai sussidi li volevano, invece, e coerentemente con quanto sopra per tagliare le tasse. Anche loro, senza fare maggiore deficit.

Non più. Quello che sconvolge è la novità nel pensiero di A&G. Che non vogliono più dedicare questi tagli di sussidi alle minori tasse. Ma …

Ma ad usarli per finanziare  …. maggiori sussidi alle banche!

Leggiamo: “Occorre urgentemente costituire delle bad bank , cioè togliere i crediti andati a male dai bilanci delle banche – spostandoli in nuove società, appunto le cosiddette bad bank – perché solo banche «ripulite» possono attirare nuovi investitori e così rafforzare il loro patrimonio….  Una parte dei crediti inesigibili ricadrebbe sugli azionisti, ma inevitabilmente anche sullo Stato, come accadrà con il Monte dei Paschi di Siena.”

Avete capito bene?

Ma sì, buttiamo via le risorse che derivano dal taglio ai sussidi alle imprese non bancarie, che potremmo restituire ai cittadini o via minori tasse (A&G prima di oggi) o maggiore domanda pubblica (Piga da sempre), dando ancora più trasferimenti alle banche. Al Monte dei Paschi di Siena.

L’errore è duplice.

Il primo, tecnico, è quello di pensare che in questa crisi, in questa tempesta perfetta, l’offerta di credito delle banche ripartirà con questi sussidi. Come se i sussidi della BCE alle banche italiane fossero riuscite e far ripartire l’offerta. Certo che non ci sono riusciti, perché non c’è domanda di credito:  chi volete che domandi in questi clima di sfiducia?

Il secondo, etico, di raccomandare di dare risorse proprio a quella banca che ha ospitato al suo interno e protetto una banda di ladroni che con i derivati ha fatto trucchi inverecondi a danno de (o in combutta con) gli azionisti e certamente a danno dei creditori del Monte dei Paschi di Siena.

Notate bene che i nostri A&G nemmeno riescono a farcela a proporre di dare sussidi ai prestiti per le PMI (che comunque poco effetto avrebbero per i motivi di cui sopra, ovvero che queste vogliono prima vedere maggiore domanda nel sistema economico per domandare credito): no, suggeriscono di dare i soldi alle banche.

E a nulla vale quello che dicono A&G al termine dell’articolo, che non è vero che loro non vogliono più ridurre le tasse, perché si pronunciano per la prima volta in vita loro a favore addirittura di un maggiore deficit (“può darsi che per effetto di queste misure il deficit temporaneamente superi la soglia del 3%. Poco male, se l’economia continuasse a contrarsi salirebbe anche di più. Dopo un intervento radicale su tasse e spese (non prima), con Bruxelles si potrà negoziare.”).

Valeva la pena vivere questi 2 anni in più per sentire A&G chiedere un maggiore deficit. Ma non è vero questo ragionare: perché quel maggiore deficit, domani, non sarà ripagato da maggiori tasse sulle banche, come spiega bene il Fondo Monetario Internazionale quando dice che le banche guadagnano sempre da un salvataggio (ma va?), ma da famiglie  e delle altre imprese che questo salvataggio devono finanziare.

Tutto legittimo: prendiamo atto che Alesina e Giavazzi si schierano per arricchire le banche italiane ed i suoi azionisti, comprese quelle al centro del più grande scandalo di questo secolo, piuttosto che i cittadini e le piccole imprese. Ma attenzione a capirne bene le implicazioni.

E’ un problema distributivo? Non solo, lo ripeto, perché la loro manovra ci impedirebbe di far ripartire l’economia (perché spreca risorse che potremmo usare per rigenerare domanda e reddito). E dunque non solo la fetta della torta per famiglie ed imprese nella proposta A&G sarà minore, ma la dimensione della torta sarà minore. Rispetto a quanto i Viaggiatori in Movimento propongono per il Paese.

Viaggiatori che mai si schiereranno per salvare il Monte dei Paschi delle truffe dei derivati coperti dall’incompetenza della vigilanza della Banca d’Italia.

PS: il titolo del Corriere “E adesso pensate a famiglie ed imprese” è proprio il massimo. Meglio sarebbe stato dire, appunto, “E adesso continuiamo a pensare alle banche”. Ma così va il mondo: “è la stampa bellezza”.

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Nel paese dei vecchi ecco come aiutare i giovani

Si dice che si vive di simboli. Che conta tagliare qualche centinaia di milioni di euro di costi della politica così da dare forza ed energia per la lotta contro i veri sprechi, quei 50 miliardi e passa che si annidano nel 16% di PIL dove si crea ricchezza con gli appalti.

Mah. Se i simboli veramente contassero, sarebbe stato allora scontato rendersi conto che, in un Paese che ha da tempo chiuso le porte ai giovani, la gara per la Presidenza della Repubblica tra due candidati ultra ottantenni, seppur stimati e stimabili, avrebbe mandato al mondo ed a noi stessi un segnale altrettanto potente, di chiusura definitiva, di disinteresse completo, per la questione anagrafica che attanaglia questo Paese, la sua classe dirigente e la sua pubblica amministrazione e che fa marcire la partecipazione e l’innovazione da parte dei giovani, relegandoli in serie B, dove spadroneggia il disincanto, l’indifferenza e la noia.

Ma siamo qui. E allora balliamo. Chiediamo per l’ennesima volta a questa politica così incompetente di guardare alla protesta nelle piazze come al segno più evidente di un enorme disagio di opportunità nonché economico, e di comprendere la necessità di cambiare paradigma.

Stancamente forniamo ai politici, che tutto sono meno che leader del cambiamento, l’ennesimo spunto, che appare dai dati del recente rapporto World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale.

Che mette in risalto come rispetto alle crisi globali del recente passato (in blu)  (1975, 1982, 1991) è la maggiore spesa pubblica (per appalti e stipendi) che pare scomparsa e che spiega  l’andamento di questo rientro dalla crisi attuale (in rosso) del PIL così lento ed anomalo.

Stranamente il FMI indica come il 2009 l’inizio della crisi (tempo 0), mentre per quasi tutte le economie occidentali la crisi è cominciata nel 2008 (tempo -1 nel grafico). Il cerchio verde mette in risalto la politica fiscale di spesa pubblica primaria statunitense, confermando che la reazione Usa a sostegno dell’economia  avviene nel 2008 (-1) e che è forte inizialmente e poi però sparisce rispetto alla gestione delle crisi passate (la linea rossa scende al di sotto di quella blu).

Guardate la differenza con la periferia dell’area euro (dove è ormai inclusa l’Italia … quando mai è successo che siamo diventati periferia mi chiedo?) che mostra l’enorme differenza con la gestione delle crisi passate negli stessi Paesi: siamo divenuti molto ma molto più austeri delle precedenti crisi. Con i risultati che conosciamo.

Le ragioni? L’assurdo ragionare?

Ovviamente una possibilità è quella che lo spazio fiscale a disposizione dei governi in questa ultima crisi sia diminuito, perché in questa crisi al suo iniziare il debito pubblico su PIL era ormai troppo alto per esserci  spazio per politiche anti-cicliche, ovvero più domanda interna grazie a più spesa pubblica. Un teorizzare assurdo, visto che il debito pubblico su PIL è cresciuto in questa crisi grazie alla recessione e visto che l’argomentare di Reinhart e Rogoff sulle soglie a partire dalle quali le cose vanno male è stato recentemente demolito.

Ma il FMI la verifica lo stesso. Il grafico che segue, del rapporto debito su PIL,  non distingue tra paesi euro e Stati Uniti, ma è comunque rivelatore.

Di nuovo, in blu l’andamento debito su PIL nelle precedenti recessioni globali ed in rosso l’andamento in questa recessione, con l’anno zero di nuovo il 2009 mentre dovrebbe essere il 2008 (che qui è il “-1″).

Guardate a cosa avviene dal 2007 (anno -2) alla distanza tra le due linee, la barra verticale che ho colorato in verde bloccandone la lunghezza a quell’anno: essa cresce.

Per capirci: rispetto alle passate crisi i Paesi occidentali hanno fatto molto meno uso di politiche fiscali espansive ed il debito su PIL è cresciuto molto di più di quanto non avesse fatto durante le crisi passate.

Ora noi non cascheremo mai nell’errore di Reinhart e Rogoff di dire che quelle due linee blu e rosse del debito su PIL crescono perché è il maggiore debito che genera la recessione. Sappiamo bene che crescono  perché il calo del PIL genera maggiore debito. A meno che …

A meno che non sia affrontato con politiche fiscali espansive, più spesa pubblica e meno tasse, per ridare fiato all’economia. Alt, mi direte, ti sbagli: la linea blu, quella delle crisi passate, mica scende, anche se nel passato gli Stati sono stati a ragione più spendaccioni.

Vero, ma nessuna crisi tra le 3 altre indicate è stata drammatica come questa. E noi sappiamo che quando la crisi è veramente forte, la politica fiscale diventa più potente: maggiore spesa pubblica genera maggiore crescita quando il settore privato ha un braccino ancor più timoroso di domandare (in gergo tecnico: il moltiplicatore è più alto quando le recessioni sono più dure).

E dunque viene il forte sospetto che l’avessimo fatta, questa benedetta politica fiscale espansiva, o la dovessimo fare, svegliando i nostri leader europei appisolati, la reazione dell’economia sarebbe tale da far sì che quella linea rossa, invece di continuare a crescere come teme anche il FMI (vedi le stime della linea tratteggiata rossa), cominci rapidamente a decrescere: la crescita via maggiore spesa pubblica  genererebbe anche maggiore stabilità dei conti pubblici.

La soluzione c’è. I leader no. Prendiamone atto e facciamo la cosa giusta.

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Il maggiore debito pubblico fa bene anche alle banche

Kenneth Rogoff è membro del G-30, istituzione privata ampiamente composta da banchieri. Carmen Reinhart è stata Chief economist e Vice President della banca d’affari Bear Stearns.

Rogoff e Reinhart sono oggi al centro del dibattito e del gossip economico a causa di un articolo di altri tre economisti della University of Massachusetts, Amherst, che ha mostrato una serie di errori contenuti in un noto lavoro dei 2 R&R, errori tutti nella medesima direzione, quella di sovrastimare l’impatto negativo del debito pubblico sulla crescita economica di un paese.

Da Amherst escono di recente articoli interessanti. Qualche anno fa ne uscì un altro, di Epstein e  Carrick, che denunciavano i tanti conflitti d’interessi dei colleghi economisti al soldo di banche e interessi del settore finanziario, conflitti capaci di spiegare anche il perché non siamo stati bravi a prevedere l’arrivo della crisi nel 2008.

E perché mai due economisti vicini al mondo delle banche dovrebbero argomentare contro il debito pubblico? Beh, è noto che politiche fiscali espansive sono anche, di solito, inflazioniste. E che l’inflazione è generalmente negativa per i creditori, come le banche, che hanno in bilancio un attivo più a lungo termine del loro passivo, e dunque sono negativamente influenzati da inflazione inattesa.

Peccato che in questa recessione, simile a quelle poche drammatiche recessioni da domanda avvenute nel XX secolo,  l’inflazione non c’è. C’è, invece, la crescente quota di crediti incagliati, che danneggia debitori e creditori, uniti in un abbraccio mortale.

Queste recessioni dunque, combattendole con più spesa pubblica e più debito, generando crescita fanno bene anche alle banche.

Insomma, anche se Rogoff e Reinhart avessero raccomandato in pieno conflitto d’interessi (cosa di cui non abbiamo prova alcuna)  di fare in questa crisi meno debiti pubblici per aiutare le banche, avrebbero commesso un altro errore, di tipo consulenziale. Perché sarebbe stato decisamente meglio ricordare alle banche quello che molte di queste sanno già: che la crescita economica via politiche fiscali espansive in questa crisi fa bene anche ai loro bilanci.

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Come aiutare il lavoro ed i lavoratori

Questo miliardo per prorogare cassa integrazione dove lo prenderesti? Non sarebbe bene lanciare bando nazionale degli enti locali che corrispondano stessi importi ai lavoratori che invece di star fermi facessero qualcosa secondo le esigenze delle amministrazioni locali? Sarebbe spesa pubblica produttiva e la copertura potrebbe essere ottenuta tramite deroga al patto di stabilità interno…che ne pensi?

Sandro.

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Sandro mi scrive. Sollevando due punti. Dove trovare i soldi, come usarli.

Sul dove trovarli, rinvio al programma dei Viaggiatori. Ci sono ampie ed abbondanti disponibilità di fondi. Ampie ed abbondanti, 80 miliardi circa di risorse, 5% di PIL. Per chi ha coraggio di scommettere sul futuro del nostro Paese.

Ora arriviamo all’altra questione. Del come. Immaginiamo dunque di avere … 2 miliardi da utilizzare per venire incontro al problema della disoccupazione: 1 miliardo per la cassa integrazione ed 1 miliardo per …

Per esempio 1 miliardo per maggiore spesa pubblica via appalti, che domanda beni, servizi, lavori ad imprese. E che genera, in un periodo di recessione, maggiore occupazione nei ranghi dell’economia privata. Maggiore occupazione (che si sommerebbe alla protezione erogata per i cassa integrati con l’altro miliardo) a protezione di occupati altrettanto o ancor meno tutelati, tra cui giovani al primo lavoro che con tutta probabilità verrebbero occupati dalle imprese aggiudicatarie delle commesse pubbliche.

Oppure 1 miliardo con aiuti diretti alle imprese, per esempio crediti d’imposta alle imprese che assumono? Detto che questi a volte posso comportare “trucchi” che non generano nuovi posti di lavoro (“licenzio e riassumo”) c’è evidenza che a volte questi funzionano. Un recente studio sui crediti d’imposta statali negli Usa mostra come è proprio nel periodo di recessione e quando i crediti sono mirati ai disoccupati che questi funzionano al meglio, generando veri nuovi posti di lavoro. Anche in questo caso, i beneficiari sarebbero disoccupati altrettanto o meno tutelati dei cassaintegrati in attesa degli stanziamenti.

Attenzione però a non fare paragoni troppo spinti: nel caso delle risorse riservate ai cassa integrati, al sollievo del disagio occupazionale non corrisponde, rispetto ai due esempi di cui sopra, una maggiore domanda e/o produzione aggregata. Sono infatti “meri” trasferimenti dai cittadini contribuenti ai lavoratori. Assolvono ad un ruolo di maggiore solidarietà e giustizia distributiva, senza dubbio, ma senza generazione di maggiore ricchezza.

E nemmeno questo è esattamente vero! Per i benefici sia della cassa integrazione in deroga che per la cassa integrazione straordinaria, se ben capisco, è previsto che i lavoratori cassaintegrati decadono dal beneficio se … rifiutano di svolgere attività lavorative di pubblica utilità offerte dallo Stato. Quindi Sandro è servito, non solo si può fare quel che lui propone ma parrebbe quasi … obbligatorio farlo. In questo finiremmo dunque per estendere ai lavoratori in cassa integrazione il trattamento per i giovani disoccupati/inoccupati previsto dal nostro appello ai Presidenti Napolitano e Monti: uno scambio tra compenso e servizio civile temporaneo nelle pubbliche amministrazioni. Come dico sempre: Dio solo sa quanto abbiamo bisogno di persone che lavorino nelle università, nelle scuole, negli ospedali, nei tribunali, nei musei, in attesa che torni a splendere il sole sull’economia privata.

Se così si facesse, l’equivalenza tra gli schemi considerati (maggiore domanda pubblica di appalti, cassa integrazione con obbligo di lavoro di pubblica utilità, credito d’imposta per assunzione disoccupati), servizio civile) parrebbe assicurata: maggiore solidarietà, maggiore occupazione, maggiore crescita e maggiore sviluppo e meno perdita di abilità lavorative e minore depressione proveniente da stigma sociale o stress.

Resta solo da capire dove sarebbe più potente l’impatto di spesa. Io continuo a credere che i cannoni a più lunga gittata che abbiamo sono quello 1) della spesa pubblica in appalti, per la capacità di generare produzione direttamente senza avere meccanismi intermedi che si frappongano tra  imprese e domanda, che al contrario dei crediti d’imposta non necessita della (variabilissima) fiducia nel futuro delle imprese per attivarsi nei suoi effetti e quello 2) del servizio civile per i giovani, perché sono questi che lavorerebbero con più entusiasmo nei gangli della pubblica amministrazione e anche quelli da cui il Paese perderebbe di più in caso di uscita dal mondo della forza lavoro se abbandonati a se stessi.

A tutto gas, per il lavoro, per i giovani, per uscire dalla crisi. Con tutti i cannoni a disposizione.

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The euro? The Pitfall of Economics

Sometimes things move one step forward, even in the Economics profession.

Significantly, a recent paper by economists Daren Acemoglu and James Robinson reminds us how time is way overdue for economic theories to take into account the pitfalls of economic advice to policy-makers when one ignores its impact on the political dynamics it might engender:

Economic advice will ignore politics at its peril but also that there are systematic forces that sometimes turn good economics into bad politics, with the latter unfortunately often trumping the economic good. Economic analysis needs to identify, theoretically and empirically, conditions under which politics and economics run into con‡flict, and then evaluate policy proposals taking this confl‡ict and the potential backlashes it creates into account.”

An example they focus on is policies that reduce the power of trade-unions, which might have an economic sense but might strongly back-fire:

“In most situations, unions clearly create economic distortions by pushing the wages of their members up relative to non-unionized employees … As a result, reducing the power of unions to push up wages is often mainstream economic advice.

In the context of our framework, the key point is that any policy choice that reduces the ability of unions to push for high wages—even if it does not involve directly making it harder to organize unions will indirectly reduce union activity. After all, many workers may no longer find joining unions worthwhile when the premium they receive is limited… Moreover, in many settings, despite the power of unions in the status quo, the balance of power is already tilted in favor of large employers so that weakening unions might create a more tilted balance of political power in society, with the potential dynamic costs that this will engender.

The decline in union membership may have had various political economy consequences, for example, as an important contributing factor to the rise in income inequality. More  speculatively, it may have also contributed to the explosion in compensation of chief executive offers and to the rapid deregulation of the financial sector.”

This is why they conclude: ”one should be particularly careful about the political impacts of economic reforms that change the distribution of income or rents in society in a direction bene…fiting already powerful groups“. An argument that has been made often these days by readers of this blog in strongly criticizing my benevolence toward the character of Mrs. Thatcher.

But their paper brings an argument also for the current euro scenario. As they recall, ”one reason that economic policy reform is so seldom implemented … is because politicians know that it is expected to lead to the breakdown of political order“.

Take the euro exit. I agree with many of my colleagues who argue that economically it might make sense for Italy to get out of the common currency agreement to achieve a (temporary) relief in output through larger exports.

But the point we make in this blog is that, once the break-up has occurred, the process of European integration will stop and slide backwards, distressed by the numerous reciprocal (violent) accusations across former euro countries that will occur on who is to blame for the failure of the common currency.

In  the process, what might have seemed a sensible economic strategy will have turned out to be a political nightmare, generating much greater (permanent) economic losses for all European citizens and future generations.

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Lo strabismo latente europeo

La condizione di deviazione di uno o di entrambi gli occhi che rende evidente il fatto che non lavorano armoniosamente insieme si chiama strabismo: in questo caso si dice manifesto, per distinguerlo dallo strabismo latente che non è sempre evidente ed emerge talvolta in situazioni di stress.

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Carlo Clericetti ha già spiegato con chiarissime parole l’asimmetria esistente in questa crisi europea. Lo strabismo latente europeo.

Uno strabismo masochista, reso chiarissimo a seguito dalla Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo ed all’eurogruppo, dove si legge clamorosamente che: “in uno studio completo pubblicato nel dicembre 2012, la Commissione europea ha esaminato anche le ragioni degli ampi e persistenti avanzi di partite correnti. Mentre avanzi di partite correnti dovrebbero costituire segni di sana competitività, possono anche riflettere fallimenti di mercato o scarsità di domanda interna ed opportunità di investimento. Gli squilibri macroeconomici osservati nell’Unione europea hanno generato una cattiva allocazione della risorse nei paesi in surplus con implicazioni negative per la crescita.”

Chiaro riferimento alla Germania.

Eppure nel dicembre 2012 dalla stessa Commissione europea avevamo letto ed appreso che: “Nel precedente round di valutazione della Procedura di squilibri macroeconomici, la Germania non fu identificata come soggetta a squilibri. Queste sue perdite (di quote di export) appaiono complessivamente moderate e sono consistenti con una attuale riduzione del surplus delle partite correnti … Guadando avanti, le ultime previsioni indicano che questi surplus declineranno a ritmo moderato nel 2012-2014 … Complessivamente la Commissione a questo stadio non condurrà analisi ulteriori nel contesto della Procedura.”

Analisi che invece sono state condotte per 13 paesi. Ma non per la Germania. Così, mentre da un lato la Commissione spiega come la crescita in Europa manca perché la Germania non espande la domanda interna, al tempo stesso non ritiene utile forzare la mano ulteriormente sullo sforzo tedesco e chiede che a tutte le differenze di performance bilancia commerciale in Europa sia portato rimedio dai Paesi in deficit, con l’austerità. E non dai paesi in surplus con la crescita.

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Ora immagina.

Immagina che la Germania effettivamente oggi adottasse una manovra fiscale espansiva dell’1% di PIL (25 miliardi di euro di meno tasse o più appalti). Cosa accadrebbe ai suoi squilibri di surplus attuale? Se diamo retta ai moltiplicatori dettati da studi del Fondo Monetario Internazionale, questi spingono fino allo 0,5% di PIL (12 miliardi) il peggioramento dei surplus grazie alle maggiori importazioni (tedesche) che ne deriverebbero.

Ora 12 miliardi di minore asimmetria in Europa si potrebbero ottenere anche in altro modo. Chiedendo ad esempio che siano raggiunti con l’austerità da Cipro, Grecia, Portogallo e Spagna (i 4 Paesi con maggiori squilibri in termini di PIL).

Peccato che siano anche Paesi ben più piccoli della Germania: per arrivare a 12 miliardi complessivi di miglioramento dei loro deficit di parte corrente bisognerebbe quasi raddoppiare la potenza della politica fiscale rispetto a quella tedesca: 2% di PIL di austerità fiscale in più in ognuno di essi.

E se l’Italia si unisse a questo club? Ecco se anche l’Italia, come Cipro, Grecia, Portogallo e Spagna facesse austerità dell’1% di PIL del loro Paese otterremmo la stessa riduzione degli squilibri commerciali nell’area dell’euro che ne deriverebbe da un’espansione fiscale tedesca dell’1% di PIL tedesco.

Ooops. Con una piccola differenza. Che nel secondo caso avremmo che Germania, Italia, Cipro, Grecia, Portogallo, Spagna ed Italia crescerebbero e vedrebbero sparire disoccupazione e disperazione. Per una volta sarebbero uniti, coesi, europei e non strabici e in ultima analisi perdenti. Noccioline.

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Bye Mrs. Thatcher, donna di successo che sarebbe servita all’Europa odierna

E’ difficile parlare oggi di Margaret Thatcher. Chi si schiera contro, a favore.

Io del di lei vivere traggo tre ovvie considerazioni per il nostro oggi.

Primo. Non è vero che Margaret Thatcher ha tagliato la spesa pubblica. Ha avviato un processo inesorabile, proseguito dal Labor di Blair, di taglio agli sprechi. Non di taglio della domanda pubblica alle imprese, quella che crea PIL ed occupazione dunque, ma di quei trasferimenti da cittadini contribuenti a impiegati corrotti o incompetenti ed aziende colluse e corrotte, somme che PIL e occupazione non generano.

Fatto ciò, eliminato il grasso, è rimasto il meglio. Il meglio di quella che oggi è una delle migliori pubbliche amministrazioni europee, vicina alle sue imprese, quella britannica. Che spende per beni, servizi e lavori più di noi italiani in percentuale di PIL. Che spende per domandare beni, servizi, lavori per la collettività e per sostenere la produttività e la competitività delle sue aziende.

Questa è una rivoluzione che è alla nostra portata, ed è quella dei Viaggiatori in Movimento.

Secondo. Non è vero che “non si può fare”. Che l’Italia “non ne uscirà mai”, che è finita. Non è vero. Il Regno Unito che prese in mano la Thatcher alla fine degli anni settanta era un paese in ginocchio, umiliato, incancrenito, nelle cui università i baroni non facevano ricerca né buon insegnamento, nella cui Pubblica Amministrazione i sindacati erano quasi esclusivamente a protezione della corporazione burocratica e non si interessavano di essere al servizio dei cittadini. Insomma simile per certi versi alla nostra Italia di oggi.

Si può dunque fare. E’ alla nostra portata.

Terzo. Che nessuno si azzardi a dire che la Thatcher oggi si sarebbe schierata col partito dell’austerità.

Non sapremo mai cosa avrebbe fatto o detto in questa crisi, se l’avesse dovuta gestire in prima persona. Una cosa la so però, per certo.

Quella degli anni settanta era un Inghilterra dove dominava il dogma che con politiche della domanda interna “pseudo-keynesiane” si sarebbe usciti dalla scarsa crescita, senza curarsi della crescente inflazione. E soprattutto senza rendersi conto che la crisi britannica (ed europea) era una crisi di offerta e non di domanda, di mancanza di competitività della struttura industriale britannica, di lacci a lacciuoli di una Pubblica Amministrazione che assomigliava tanto ad un ufficio complicazioni affari semplici invece che un elemento essenziale di supporto alle sue aziende.

E il merito di Margaret Thatcher fu duplice e molto semplice: capire le cause delle crisi e proporre soluzioni senza preoccuparsi minimamente che andassero contro il dogma dominante. Con convinzione e determinazione. Soluzioni, spesso giuste.

Oggi la crisi e la soluzione europea sono rovesciate rispetto ad allora: in Europa domina il dogma che con politiche dell’offerta ”pseudo-austere e riformiste” si uscirà dalla scarsa crescita, senza curarsi della crescente recessione ciclica e delle sue cicatrici permanenti su giovani e PMI. E soprattutto senza rendersi conto che la crisi europea odierna è una crisi di domanda interna e non di offerta, di mancanza di spesa pubblica vera, che poi rilancia credito, consumi ed investimenti privati, slegandoli dall’incantesimo perverso, soggiogati dall’austerità.

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Ecco oggi ci vorrebbe una Thatcher, un leader capace di comprendere le ragioni della crisi ed agire di conseguenza, indifferente alle critiche dello stupido dogma dell’austerità, imponendo le giuste politiche.

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Come disse una volta in un tipico understatement: “What is success? I think it is a mixture of having a flair for the thing that you are doing; knowing that it is not enough, that you have got to have hard work and a certain sense of purpose.” (“Cosa è il successo? Penso sia una combinazione di fiuto per quello che stai facendo – sapendo che non è abbastanza, che devi lavorare duro – e un certo senso della direzione.”).

In due parole, tutto quanto manca ai leader (?) europei.

Una donna di successo se ne è andata.

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La sostenibilità del debito pubblico italiano? Solo con la crescita (subito)

Un recente working paper del Fondo Monetario Internazionale di una ricercatrice italiana, Edda Zoli (che ringrazio), mette in risalto (tra le altre cose) il legame tra spread ed aspettative del mercato sull’andamento futuro del rapporto debito-PIL. Trovando un legame positivo.

Giusto guardare al rapporto tra aspettative di sostenibilità fiscale e spread, ma la domanda rimane aperta: è l’aspettativa di crescita economica o l’aspettativa sull’andamento dei conti pubblici che spiega le reazioni dello spread? Ovviamente dipende dalla situazione specifica in quel momento del Paese.

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Nel grafico vedete (in blu) rappresentate le aspettative dei mercati sul rapporto debito PIL a 4 anni di distanza (dati Economist Intelligence Unit) dal 2000 a fine 2012. Quel rapporto debito-PIL previsto si è poi materializzato ed è diventato il livello che leggete sulle statistiche ufficiali (in rosso).

Per esempio per l’anno 2000 (gli anni sono sull’asse delle ascisse) leggete, sulla linea blu, che debito/PIL il mercato si aspettava per il 2004 e sulla linea rossa che debito PIL c’è stato poi effettivamente nel 2004 (attorno al 105%).

Dal 2009 in poi la linea rossa indica sempre il debito su PIL 2012, 123,3%, mentre la linea blu indica sì le stime di mercato per quell’anno, il 2012, ma mano a mano che passa il tempo l’orizzonte temporale delle previsioni si accorcia da 4 anni a 0. Per esempio per il 2012 sull’asse delle ascisse avete la stima che il mercato fa nel 2012 sul rapporto debito pubblico/ PIL italiano del 2012. Spero siate ancora con me e non vi siate suicidati. Se sì, continuiamo.

La distanza tra le linee rosse e blu indica gli errori che ha fatto il mercato sull’andamento a 4 anni del rapporto debito PIL. Come vedete gli operatori hanno sempre sottostimato l’andamento del rapporto debito PIL, mostrando eccessivo ottimismo sulla capacità dei governi italiani di frenarne la dinamica. Solo negli ultimi mesi vedete che la linea blu supera quella rossa: per l’ovvio motivo che il 2012 sta finendo e ormai l’errore non può che essere minuscolo; ma fate attenzione che il mercato si aspetta un dato ancora peggiore del Governo ….

Ho anche inserito, dal 2009, un’altra linea, quella verde che ci dice dal 2009 in poi come si evolve l’aspettativa da parte degli operatori di mercato sul rapporto debito-PIL tra 4 anni. Quindi gli ultimi dati della linea verde ci dicono cosa si aspettano a fine 2012 i mercati che sia il rapporto debito su PIL italiano nel 2016. Su questa terza linea torniamo tra poco.

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Perché voglio dirvi 3 cose e poi vi lascio godere la domenica. Tre cose su questo grafico. Tre cose che sintetizzo in 3 periodi, cerchiati.

1. Il periodo del cerchio giallo delle cicale.

Che succede di particolare tra il 2004 ed il 2006? Una cosa. L’errore di previsione sul debito PIL di quegli anni diventa immenso. Sono, per l’Italia, anni di crescita economica discreta, quella dei primi anni del nuovo secolo. Quando l’economia tira è giusto aspettarsi che un governo metta fieno in cascina e mantenga sotto controllo il debito su PIL. Ed invece no, non l’abbiamo fatto per niente. E’ in quegli anni che abbiamo probabilmente messo le basi per la crisi attuale, in cui l’Europa ci impedisce di spendere per uscire dalla crisi ricordandoci che siamo stati cicale in estate. La logica dell’Europa che non consente di dire no all’austerità è il fallace argomento “siccome siete state cicale in estate, dovete fare le formiche in inverno”, come se in inverno si potesse mettere da parte qualcosa e come se non si dovesse aiutare, in inverno, chi è stato cicala. E’ vero tuttavia che il non essere stati formiche in quegli anni ha in parte causato il nostro fato odierno e rende più difficile richiedere oggi la fine della stupida austerità.

2. Il periodo del cerchio rosa della crisi mondiale.

Guardate cosa succede alla linea blu nel 2009: fa un salto enorme. I mercati prendono atto della crisi mondiale del 2008 e aggiornano subitaneamente le loro aspettative sul debito-PIL italiano futuro di circa 15 punti percentuali.

Visto che l’Italia in quegli anni di crisi non fa politiche fiscali espansive, il mercato si aspetta debiti su PIL più alti a causa della scarsa crescita.

Ciò conferma che il problema della sostenibilità del debito pubblico attuale così come percepito dai mercati non è un problema di cattive finanze pubbliche ma di crescita che sparisce. E che è solo con la crescita che si ristabilisce la sostenibilità del debito pubblico.

3. Il periodo del cerchio viola di Monti.

Ora guardate solo la linea verde. Nel seguirla, vedrete come è cambiata giorno dopo giorno l’aspettativa del debito PIL tra 4 anni in questi ultimi anni.

Vedete quel calo brusco della linea verde, di circa 5 punti percentuali? Il primo novembre 2011 l’aspettativa dei mercati sul debito su PIL il 1mo novembre 2015 è del 117,1%.

3 mesi dopo, il 1mo febbraio 2012, l’aspettativa sul rapporto per il 1mo febbraio 2016 è scesa di più di 5 punti percentuali a 111,8%.

Monti. E l’ottimismo che sappia ridare sostenibilità al rapporto debito PIL.

Ma che succede subito dopo? Dal 1mo febbraio 2012 torna a salire addirittura di 10 punti percentuali fino al 121,2% di ottobre 2012, pieno Governo Monti, la stima per il rapporto debito su PIL per ottobre 2016.

Cosa è cambiato in questi mesi del 2012 nella percezione dei mercati su Monti? Forse la sua capacità di generare austerità? Certamente no.

Certamente piuttosto la percezione della sua incapacità di generare crescita immediata. E dunque dell’incapacità di assicurare sostenibilità del debito pubblico in un periodo in cui questa dipende tutta dalla crescita economica, e non dall’andamento del debito, come meccanismo iniziale.

Quando capiremo che i mercati sono affamati di crescita - oggi, non quella tra 10 anni – saremo pronti per fare in Europa la cosa giusta.

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Le serrate danesi ed il numero chiuso italiano

La serrata (o lockout in inglese) è la chiusura di un’impresa all’utilizzo della manodopera; tale chiusura può essere totale o parziale. Con essa l’azienda non accetta la prestazione lavorativa offerta dai suoi dipendenti e rifiuta di pagarne ogni tipo di compenso. Si tratta di una forma di pressione del datore di lavoro effettuata sui lavoratori.

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C’è un paese dove al Governo sono tre partiti. Sorretti dall’appoggio esterno di un quarto. Tutti e quattro i partiti sono retti da una donna. Il Primo Ministro anche è una donna.

Anche lì hanno un problema di rappresentanza di genere, come da noi con i saggi. Una serrata contro gli uomini.

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La Danimarca è anche nel mezzo di un’altra incredibile serrata. La serrata delle scuole pubbliche contro i suoi docenti. Che, come mostrano le statistiche Ocse (p. 477), indubbiamente stanno troppo poco in aula a insegnare e troppo a casa a preparare le lezioni. E che il governo di sinistra pretende stiano più ore in classe, con i ragazzi.

Ancora un mese ed i fondi del sindacato per sostenere la protesta contro la serrata saranno finiti. A quel punto forse il  braccio di ferro vedrà vincitore il Governo. Nel frattempo, le aziende dove lavorano i genitori – quando possono - specie le più grandi, ospitano i bambini.

Non pare una serrata contro i 600.000 studenti. Pare proprio che sia una battaglia liberale per la protezione del loro diritto ad una migliore istruzione. Il Paese sembra schierato contro i maestri: anche l’opposizione di destra, mi dicono, è a favore dell’aumento delle ore, forse un po’ di meno del numero di ore voluto dalla sinistra.

“Da noi funziona così, ci ritroviamo spesso attorno a soluzioni condivise, tutto il Parlamento”.

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Serrate contro le discriminazioni dei più deboli. Condivisione sul bene comune.

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Non che in Italia abbiamo bisogno di più ore in classe dei nostri maestri. Ma qualcosa da imparare c’è. Le statistiche Ocse confermano che i danesi sono tra gli ultimi quanto a questo indicatore. E che fanno? Si rendono conto che qualcosa va cambiato, che qualcuno soffre di una evidente discriminazione. E fanno una serrata.

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Vorrei prendere anche io un indicatore dove l’Italia è carente e dove è evidente una discriminazione. E fare una serrata contro chi discrimina.

Trovo esilarante il rilievo che si da oggi all’importanza della sentenza della Corte europea a favore del numero chiuso nelle università italiane. Come se la vera discriminazione ed il vero problema non fosse invece uno di apertura, contro quell’80% più povero tra i nostri giovani a cui impediamo di laurearsi, ultimi o quasi in Europa, non aumentando la qualità e la quantità dei nostri Atenei,  investendo in essi e monitorandone la qualità, per raddoppiare come ci chiede l’Europa il tasso di laureati dal 20 al 40%.

La serrata che farei in Italia? Contro tutti quelli che hanno scambiato la parola qualità con austerità, la parola pari opportunità con meritocrazia, la parola spesa pubblica con la parola spreco, la parola investimento con la parola risparmio. Fuori dai palazzi della politica, li lascerei, tutti questi. Locked out.